Sentenza n. 227 del 1995

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SENTENZA N. 227

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 30-ter, quarto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), introdotto dall'art. 9 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso con ordinanza emessa il 6 ottobre 1994 dal Magistrato militare di sorveglianza di Roma sull'istanza proposta da Tonello Giampaolo, iscritta al n. 655 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell'anno 1994. Udito nella camera di consiglio del 20 aprile 1995 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

1. - Tonello Giampaolo, ristretto nel carcere militare di Peschiera del Garda, in espiazione della pena di anni tre e mesi otto di reclusione sostituita, ai sensi dell'art. 63 del codice penale militare di pace, con la reclusione militare di pari durata, chiedeva al Magistrato militare di sorveglianza di Roma di poter usufruire di un permesso premio. Il Magistrato militare di sorveglianza, premesso che la costante giurisprudenza è attestata nella linea interpretativa in base alla quale al condannato militare può essere concesso solo il c.d. permesso di necessità e non anche il permesso premio, di cui possono usufruire esclusivamente i condannati "alle pene (comuni) della reclusione e dell'arresto", ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 30-ter, quarto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354, introdotto dall'art. 9 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, "nella parte in cui non prevede requisiti di ammissione al permesso premio rispetto alla reclusione militare equivalenti a quelli previsti per la pena della reclusione". Il giudice a quo, dopo aver denunciato che, a causa dell'indicato "forse inconsapevole accidente verbale", il condannato militare non può utilizzare uno degli istituti più significativi del trattamento penitenziario, deduce come una simile disciplina non possa, certo, giustificarsi in funzione delle finalità proprie della reclusione militare perchè essa si traduce nella pratica cancellazione del principio della "progressività trattamentale", potendo il condannato militare disporre - a tali fini - soltanto dell'affidamento in prova al servizio sociale, ai sensi della legge 29 aprile 1983, n. 167. D'altro canto, l'istituto del permesso premio risulterebbe perfettamente compatibile con lo specifico contenuto rieducativo della reclusione militare, consentendo, anzi, "di giungere meditata mente alla eventuale concessione dell'affidamento in prova solo dopo un periodo trattamentale individuato dal giudice" e senza che un regime informato ad un temporaneo distacco dalla struttura carceraria risulti incompatibile con il principio in base al quale "nella permanenza in carcere i militari debbono essere impegnati in istruzioni civili e militari" (art. 12 del regio decreto 10 febbraio 1943, n. 306). Senza contare che ai militari non detenuti competono periodi di licenza per coltivare gli stessi interessi affettivi culturali e di lavoro e ritenuti non incompatibili con la prestazione militare. Donde la violazione dell'art. 3 della Costituzione, per l'irrazionalità di una regolamentazione restrittiva della reclusione militare rispetto alla reclusione comune e dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione stessa, per essere impedita la realizzazione della finalità rieducativa della pena.

2. - Nel giudizio davanti a questa Corte non si è costituita la parte privata nè ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1. - Il Magistrato militare di sorveglianza dubita, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, della legittimità dell'art. 30-ter, quarto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), introdotto dall'art. 9 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, "nella parte in cui non prevede requisiti di ammissione al permesso premio rispetto alla reclusione militare equivalenti a quelli previsti per la pena della reclusione". Più in particolare, di fronte all'istanza di permesso premio da parte di un detenuto in espiazione della pena di tre anni e otto mesi di reclusione, sostituita con la reclusione militare per eguale durata ai sensi dell'art. 63 del codice penale militare di pace, il giudice a quo si duole di un assetto normativo che - secondo la linea interpretativa pressochè costantemente seguita dalla giurisprudenza - mentre consente al condannato militare di fruire del c.d. "permesso di necessità" di cui all'art. 30 dell'ordinamento penitenziario, lo sottrae, invece, alla possibilità di usufruire del permesso premio. Così da vulnerare non soltanto il principio di eguaglianza, per l'ingiustificata disparità di trattamento tra condannati "comuni" e condannati "militari", ma anche il principio della funzione rieducativa della pena, precludendosi al condannato militare di utilizzare un istituto tipico del regime della "progressività trattamentale", per di più in un sistema che, pur consentendo al condannato militare di essere affidato in prova, in forza della legge 29 aprile 1983, n. 167, lo priva però di uno degli strumenti a disposizione del giudice di sorveglianza allo scopo di verificare il "percorso trattamentale" finalizzato anche allo scopo di pervenire all'applicazione della detta misura alternativa alla detenzione.

2. - Alcuni magistrati militari di sorveglianza hanno affermato la compatibilità dello status di condannato militare con l'accesso al beneficio di cui all'art. 30-ter dell'ordinamento penitenziario, tuttavia la premessa da cui muove il giudice a quo, affermando che l'assetto normativo vigente non consente ai condannati militari di essere ammessi al beneficio del permesso premio è da ritenere corretta, in mancanza di una esplicita norma che estenda a tali soggetti il detto beneficio. E ciò, oltre tutto, in un regime nell'ambito del quale la giurisprudenza di legittimità non è in grado di arrecare alcun contributo interpretativo, attestata, come essa risulta, al principio secondo cui i provvedimenti adottati in materia di permessi premio, rientrando tra quelli diretti a regolare la vita di relazione all'interno degli stabilimenti carcerari, si differenziano da quelli destinati ad incidere sugli effetti e sulla durata del rapporto instauratosi con l'inizio dell'esecuzione della pena: con la conseguenza che i primi, per la loro asserita natura amministrativa, anche se pronunciati dal giudice di sorveglianza o in sede di reclamo, si vedono precluso l'accesso al ricorso per cassazione e non sono impugnabili neppure ai sensi dell'art. 111 della Costituzione (v. art. 568, secondo comma, del codice di procedura penale), non avendo una diretta incidenza sullo status libertatis.

3. - Anche se il giudice a quo ha del tutto trascurato la problematica riguardante la natura giuridica del procedimento relativo alla concessione o al diniego dei permessi premio ed i conseguenti riverberi che la detta problematica proietta in punto di legittimazione a sollevare questione di legittimità costituzionale, la Corte non può esimersi dal pronunciarsi preliminarmente circa la sottoponibilità al giudizio di legittimità dell'art. 30-ter della legge n. 354 del 1975, condizionato, come esso appare, alla verifica della tipologia del provvedimento positivo o negativo in materia. Tanto più che tutte le volte in cui questa Corte ha avuto occasione di statuire specificamente in ordine alla legittimità costituzionale della disciplina dei permessi premio, ha, in ciò concordando con la ora ricordata giurisprudenza della Corte di cassazione, dichiarato inammissibili le relative denunce contestando al tribunale di sorveglianza il potere di sollevare, in materia, questioni di legittimità, proprio con il richiamo alla <"struttura amministrativa" della procedura>, puntualizzando come <"il provvedimento pronunciato dal tribunale di sorveglianza in sede di reclamo avverso il diniego di un permesso premio da parte del magistrato di sorveglianza, non è ricorribile per cassazione, in quanto "rientra fra quelli rivolti a regolare la vita di relazione all'interno degli stabilimenti carcerari e si differenzia da quelli destinati ad incidere in modo sostanziale sugli effetti e sulla durata del rapporto instauratosi con l'inizio di esecuzione della pena", di modo che il relativo procedimento si configura "come un procedimento de plano con caratteristiche ben diverse da quelle delle procedure giurisdizionalizzate"> (v. ordinanze n. 436 del 1989 e n. 1163 del 1988).

4. - La linea seguita sul punto ha subìto, però, una decisiva revisione in tempi recenti. Anche se le relative statuizioni non hanno coinvolto direttamente l'art. 30-ter della legge n. 354 del 1975, gli effetti dalle stesse scaturenti appaiono determinanti quanto al riconoscimento di una diversa natura giuridica al procedimento di concessione o diniego del permesso premio oltre che al giudizio demandato al tribunale di sorveglianza. Con sentenza n. 349 del 1993, nel dichiarare non fondata, "nei sensi di cui in motivazione", la questione di legittimità dell'art. 41-bis, secondo comma, della legge n. 354 del 1975, questa Corte ha, infatti, precisato come "sia da escludere che misure di natura sostanziale e che incidono sulla qualità e quantità della pena, quali quelle che comportano un sia pur temporaneo distacco, totale o parziale, dal carcere (c.d. misure extramurali) e che perciò stesso modificano il grado di privazione della libertà personale imposto al detenuto, possano essere adottate al di fuori dei principi della riserva di legge e della riserva giurisdizionale specificamente indicati dall'art. 13, secondo comma, della Costituzione". E, nel tracciare il discrimine fra le "modalità di trattamento del de- tenuto all'interno dell'istituto penitenziario - la cui applicazione è demandata di regola all'Amministrazione, anche se sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza (v. art. 69 dell'Ordinamento Penitenziario) o con possibilità di reclamo al Tribunale di sorveglianza (v. art. 14-ter Ordinamento Penitenziario) - e misure che ammettono a forme di espiazione della pena fuori del carcere", come l'affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà, le licenze, e, appunto, i permessi premio, ha affermato che tali misure "sono sempre di competenza dell'Autorità giudiziaria (v. artt. 21, 30, 30-ter, 69 e 70 dell'Ordinamento Penitenziario) proprio perchè incidono sostanzialmente sull'esecuzione della pena e, quindi, sul grado di libertà personale del detenuto". Ne deriva, dunque - secondo la linea da ultimo tracciata dalla Corte - la natura non amministrativa ma giurisdizionale dei procedimenti di concessione o diniego dei permessi premio e della procedura del reclamo davanti al tribunale di sorveglianza. Donde la legittimazione del giudice a quo, ex art. 23, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, a sollevare questione di legittimità costituzionale della norma ora denunciata.

5. - Ciò premesso, la questione è da ritenere fondata. Come altra volta questa Corte ha avuto occasione di puntualizzare (v. sentenza n. 188 del 1990), il permesso premio di cui all'art. 30-ter della legge penitenziaria, "espressione di una nuova concezione della pena, del carcere e della funzione rieducativa-promozionale di alcune misure premiali", consente "al detenuto, a fini rieducati vi, i primi spazi di libertà", delineando così un assetto alla cui base è "una visione della rieducazione entro e fuori delle mura carcerarie comune anche alle misure alternative", pure se non da confondere con la funzione propria di esse. Il permesso premio costituisce, infatti, "incentivo alla collaborazione del detenuto con l'istituzione carceraria, appunto in funzione del premio previsto, in assenza di particolare pericolosità sociale, quale conseguenza di regolare condotta", ed al contempo "strumento di rieducazione, in quanto consente un iniziale reinserimento del condannato in società". Esso è, dunque, "parte integrante del trattamento rieducativo" divenendo, altresì - attraverso l'osservazione da parte degli operatori penitenziari degli effetti sul condannato del temporaneo ritorno in libertà - strumento diretto ad agevolarne la progressione rieducativa. Il rappresentare i permessi premio come parte integrante del trattamento rieducativo consente, poi, di trarre utili elementi per l'eventuale concessione delle misure alternative alla detenzione e, comunque, per l'ulteriore prosecuzione della pena detentiva.

6. - Proprio sulla base di tali premesse il sottrarre al condannato militare uno strumento cruciale ai fini del trattamento come il permesso premio risulta in contrasto, oltre che con la funzione rieducativa della pena, anche con il principio di eguaglianza. Sotto il primo profilo va considerato come l'istituto previsto dall'art. 30-ter della legge n. 354 del 1975 possa rivelarsi funzionale - in applicazione del principio di progressività - all'affidamento in prova cui il condannato militare è abilitato ad accedere ai sensi della legge 29 aprile 1983, n. 167. Un istituto che, peraltro, pur con gli adatta menti richiesti "dalle particolarità dell'organizzazione materiale militare", questa Corte ha ritenuto di equiparare per certi fondamentali aspetti all'affidamento in prova del condannato comune, tanto da dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, della legge 29 aprile 1983, n. 167, come sostituito dall'art. 1, numero 1, della legge 23 dicembre 1986, n. 897, nella parte in cui non prevede l'adozione del provvedimento dell'affidamento in prova indipendentemente dall'osservazione della personalità del condannato condotta per almeno un mese nello stabilimento militare (sentenza n. 119 del 1992). Sotto il secondo profilo, la previsione del permesso premio al condannato militare non si rivela affatto incompatibile con il particolare status del condannato. Vero è che questa Corte ha avuto occasione di rimarcare che "i fini della rieducazione per il condannato militare e per quello comune si rivela no... divergenti"; una divergenza che si sostanzia nel "prevalente recupero al servizio militare per il primo" e nel "reinserimento sociale per il secondo" (sentenza n. 414 del 1991). Ma una tale divergenza non pare assumere rilievo nella materia dei permessi premio, non ravvisandosi la benchè minima antinomia con le finalità proprie della rieducazione militare dall'applicazione di un istituto che, presupponendo la regolare condotta del condannato e l'assenza di ogni sua pericolosità sociale, vale a costituire pure per il condannato militare un incentivo alla collaborazione con l'istituzione carceraria, in funzione del premio previsto: potendosi anche qui affermare che il permesso premio è strumento esso stesso di rieducazione, in quanto consente un iniziale inserimento del condannato nel contesto sociale, in un quadro certo non incompatibile con le esigenze proprie del consorzio militare.

7. - L'art. 30-ter, quarto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354, deve, dunque, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede la concessione del permesso premio ai condannati alla reclusione militare. Ciò, ovviamente, sia nel caso in cui venga espiata una pena originariamente militare sia nel caso in cui la pena della reclusione militare venga espiata in sostituzione della reclusione comune.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 30-ter, quarto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), introdotto dall'art. 9 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede l'ammissione al permesso premio dei condannati alla reclusione militare.

Così deciso, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 02/06/95.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 06/06/95.