SENTENZA N. 169
ANNO 2017
Commenti alla decisione di
I. Fulvio Cortese, Più
amministrazione fa bene alla salute, per g.c.
di laCostituzione.info
II. Paolo Giangaspero,
Ancora
una variazione sul tema di tecnica, scienza e diritto: indicazioni di
erogabilità e appropriatezza terapeutica, diritto alla salute, prescrizioni
mediche "in scienza e coscienza” e vincoli alle Regioni, per g.c. del Forum
di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo
GROSSI Presidente
- Giorgio
LATTANZI Giudice
- Aldo
CAROSI ”
- Marta
CARTABIA ”
- Mario Rosario
MORELLI ”
- Giancarlo
CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana
SCIARRA ”
- Daria
de PRETIS ”
- Nicolò
ZANON ”
- Franco
MODUGNO ”
- Augusto Antonio
BARBERA ”
- Giulio
PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt.
9-bis; 9-ter, commi 1, lettere a) e b), 2, 3, 4, 5, 8 e 9; 9-quater, commi 1,
2, 4, 5, 6 e 7; e 9-septies, commi 1 e 2, del decreto-legge 19 giugno 2015, n. 78
(Disposizioni urgenti in materia di enti territoriali. Disposizioni per
garantire la continuità dei dispositivi di sicurezza e di controllo del
territorio. Razionalizzazione delle spese del Servizio sanitario nazionale
nonché norme in materia di rifiuti e di emissioni industriali), convertito, con
modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 125, promossi con ricorsi
della Regione Veneto e della Regione Liguria, notificati rispettivamente il 12
e il 13 ottobre 2015, depositati in cancelleria il 19 ed il 21 ottobre 2015 e
iscritti ai nn. 95
e 97
del registro ricorsi 2015.
Visti gli atti
di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza
pubblica del 21 marzo 2017 il Giudice relatore Aldo Carosi;
uditi gli
avvocati Luca Antonini, Andrea Manzi ed Ezio Zanon per la Regione Veneto,
Giuseppe Franco Ferrari per la Regione Liguria, e l’avvocato dello Stato Andrea
Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso iscritto al numero 95 del registro
ricorsi 2015, la Regione Veneto ha impugnato tra gli altri l’art. 7, comma 9-quinquies; l’art. 9-bis; l’art. 9-ter, commi
l, 2, 3, 4, 5, 8 e 9; l’art. 9-quater,
commi l, 2, 4, 5, 6 e 7; l’art. 9-septies,
commi l e 2, del decreto-legge 19 giugno 2015, n. 78, recante «Disposizioni
urgenti in materia di enti territoriali. Disposizioni per garantire la
continuità dei dispositivi di sicurezza e di controllo del territorio.
Razionalizzazione delle spese del Servizio sanitario nazionale nonché norme in
materia di rifiuti e di emissioni industriali», convertito, con modificazioni,
dalla legge 6 agosto 2015, n. 125, per violazione degli artt. 3, 5, 32, 117, terzo e quarto
comma, 118, 119 della
Costituzione, nonché del principio di leale
collaborazione di cui all’art. 120 Cost., nonché dell’art.
5, lettera g), della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 4 (Introduzione
del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale).
1.1.– La ricorrente, come premessa comune alle impugnative,
espone che gli artt. 9-bis, 9-ter, 9-quater e 9-septies del d.l. n. 78 del 2015, introdurrebbero una serie di tagli
lineari sulla spesa sanitaria, senza alcuna considerazione né dei costi
standard di cui agli articoli da 25 a 32 del decreto legislativo 6 maggio 2011,
n. 68 (Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto
ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni
standard nel settore sanitario), né dei livelli di spesa delle Regioni virtuose
che hanno già raggiunto elevati livelli di efficienza nella gestione della
sanità, senza tenere in alcun conto la forte disomogeneità che
caratterizzerebbe il sistema della sanità regionale italiana.
Inoltre, secondo la ricorrente, le suddette
disposizioni manterrebbero a carico delle Regioni l’obbligo di garantire il
finanziamento dei livelli essenziali di assistenza (LEA), la cui determinazione
risalirebbe al 2001, essendo ancora mancata l’attuazione dell’art. 5 del
decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo
sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute) che ne
aveva prevista la revisione entro il 31 dicembre 2012. Sarebbe evidente quindi
lo scollamento che si realizza tra un livello di finanziamento che viene
pesantemente e permanentemente ridotto e una determinazione dei livelli
essenziali che non è stata rivista da parte dello Stato.
Tanto produrrebbe, secondo la Regione ricorrente, la
violazione, «per irragionevolezza e difetto di proporzionalità, anche del comma
secondo dell’art. 117 Cost. e dell’art. 32 Cost.», compromettendo la
possibilità di garantire i livelli essenziali in materia di diritto alla
salute, nonché ridonderebbe anche sull’autonomia costituzionale garantita alle
Regioni dagli artt. 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost.
La Regione cita le conclusioni del documento finale
delle Commissioni riunite V e XII della Camera dei deputati, approvato
nell’ambito dell’«Indagine conoscitiva sulla sfida della tutela della salute
tra nuove esigenze del sistema sanitario e obiettivi di finanza pubblica», del
4 giugno 2014 e la Relazione della 12a commissione permanente Igiene
e Sanità del Senato della Repubblica, sullo "Stato e prospettive del Servizio
sanitario nazionale, nell’ottica della sostenibilità del sistema e della
garanzia dei principi di universalità, solidarietà ed equità”, del 23 giugno
2015 dove, nelle considerazioni conclusive, si precisa – tra l’altro –
che «la Commissione ritiene che non sia più rinviabile una revisione dei LEA»
(punto 25.4), e si evidenzia altresì che «la Commissione ritiene che, nei
prossimi anni, il sistema non sia in grado di sopportare ulteriori restrizioni
finanziarie, pena un ulteriore peggioramento della risposta ai bisogni di
salute dei cittadini e un deterioramento delle condizioni di lavoro degli operatori.
Eventuali margini di miglioramento, sempre possibili, possono essere perseguiti
solo attraverso una attenta selezione degli interventi di riqualificazione
dell’assistenza, soprattutto in termini di appropriatezza clinica e
organizzativa, evitando azioni finalizzate al mero contenimento della spesa,
nella consapevolezza che i risparmi conseguibili devono essere destinati allo
sviluppo di quei servizi ad oggi ancora fortemente carenti, in particolare
nell’assistenza territoriale anche in relazione all’aumento delle patologie
cronico- degenerative» (punto 25.1).
La ricorrente richiama altresì la delibera del 29
dicembre 2014 della Corte dei conti, recante la «Relazione sulla gestione
finanziaria per l’esercizio 2013 degli enti territoriali», che avrebbe precisato
che alle Autonomie territoriali è stato richiesto, nelle manovre degli ultimi
anni, «uno sforzo di risanamento non proporzionato all’entità delle risorse
gestibili dalle stesse», in base a scelte andate «a vantaggio degli altri
comparti amministrativi che compongono il conto economico consolidato delle
Amministrazioni pubbliche». Ed ha quindi auspicato che «futuri interventi di
contenimento della spesa assicurino mezzi di copertura finanziaria in grado di
salvaguardare il corretto adempimento dei livelli essenziali delle prestazioni
nonché delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali».
Diversamente, secondo la Regione Veneto, lo Stato,
piuttosto che assumersi la responsabilità di una riduzione dei LEA a seguito
del venir meno delle risorse disponibili, avrebbe preferito invece lasciare, da
un lato, formalmente invariati i LEA, e, dall’altro, introdurre un sistema di
tagli lineari, in ciò venendo meno ad un corretto esercizio di quella funzione
di coordinamento della finanza pubblica che è invece richiesto dall’art. 117,
terzo comma, Cost.
Espone ulteriormente la ricorrente che l’art. 9-bis pretenderebbe di stabilire
l’applicazione dei successivi articoli da 9-ter
a 9-octies in attuazione delle intese
sancite dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e
le Province autonome di Trento e di Bolzano del 26 febbraio 2015 e del 2 luglio
2015, assunte in attuazione della dell’art. l, comma 398, lettera c), della legge 23 dicembre 2014 n. 190,
recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato (legge di stabilità 2015)».
Al riguardo, la Regione Veneto evidenzia che in
quelle sedi non avrebbe espresso il proprio consenso, ma avrebbe instaurato un
contenzioso costituzionale (è richiamato il ricorso iscritto al reg. ric. n. 31
del 2015, in seguito definito con sentenza n. 141 del
2016), denunciando la evidente forzatura in cui le Regioni stesse sarebbero
state costrette, in quanto sarebbe mancato un effettivo percorso di leale
collaborazione e di autocoordinamento.
Infatti, secondo la ricorrente, in base all’art. 46,
comma 6, del decreto-legge 24 aprile 2014 n. 66 (Misure urgenti per la
competitività e la giustizia sociale), cosi come modificato dal citato art. l,
comma 398, lettera c), della legge n.
190 del 2014, alle Regioni, in realtà, sarebbe stata proposta un’alternativa
impossibile rispetto a quella di subire un taglio del finanziamento della
sanità. Esse, infatti, in base a quanto previsto dal suddetto comma 6,
avrebbero potuto evitarlo solo accettando un taglio sulla spesa extra sanitaria
pari a 3.452 milioni di euro.
Secondo la ricorrente, se le Regioni non avessero raggiunto
l’intesa, la ripartizione del taglio sarebbe stato determinato dal Governo,
incidendo, secondo quanto recita l’ultimo periodo del citato art. 46 comma 6,
anche sulle «risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario
nazionale» e determinato tenendo conto, non dei costi standard di cui al d.lgs.
n. 68 del 2011, ma del prodotto interno lordo (PIL) regionale e della
popolazione residente, e quindi a tutto discapito dei sistemi regionali più
efficienti (quali sarebbero quelli delle Regioni Emilia Romagna, Lombardia,
Veneto, Toscana).
Non sarebbe stata quindi lasciata alternativa
all’intesa.
1.2.– Tanto premesso, la Regione Veneto impugna l’art. 9-ter del d.l.
n. 78 del 2015 (Razionalizzazione della spesa per beni e servizi, dispositivi
medici e farmaci) laddove stabilisce, al comma l, lettera a), che per l’acquisto dei beni e servizi di cui alla tabella A
allegata al medesimo decreto, «gli enti del Servizio sanitario nazionale sono
tenuti a proporre ai fornitori una rinegoziazione dei contratti in essere che
abbia l’effetto di ridurre i prezzi unitari di fornitura e/o i volumi di
acquisto, rispetto a quelli contenuti nei contratti in essere, e senza che ciò
comporti una modifica della durata del contratto, al fine di conseguire una riduzione
su base annua del 5 per cento del valore complessivo dei contratti in essere».
1.2.1.– Secondo la ricorrente tale disposizione, anche nel suo
raccordo attuativo con i commi 4 e 5, imporrebbe alle Regioni di disporre un
taglio lineare delle forniture, in violazione dei principi di ragionevolezza e
proporzionalità espressi dall’art. 3 Cost., dal momento che, prescindendo da
ogni definizione di standard di efficienza, sarebbe messa a rischio la garanzia
dei servizi sanitari (in violazione dell’art. 32 Cost.) e dei LEA, imponendo la
suddetta rinegoziazione anche agli enti del Servizio sanitario che già abbiano
raggiunto elevati livelli di efficienza e un elevato rapporto tra qualità e
prezzo nelle forniture, e con il principio di buon andamento della pubblica
amministrazione, nel combinato disposto degli artt. 3 e 97 Cost. Detti vizi di
costituzionalità ridonderebbero sulle competenze regionali di cui agli artt.
117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost., dal momento che inciderebbero
indebitamente sulle determinazioni regionali in materia di organizzazione
sanitaria, anche autonomamente considerate.
1.2.2.– La
disposizione impugnata costituirebbe poi una previsione di dettaglio, sicché
non potrebbe trovare fondamento nella potestà legislativa concorrente dello
Stato. Essa quindi si porrebbe in contrasto con gli artt. 5, 117, secondo,
terzo e quarto comma, Cost., con riguardo sia al corretto esercizio della
funzione statale di coordinamento della finanza pubblica e alla garanzia dei
LEA, sia alla competenza regionale in materia di tutela della salute e
organizzazione dei sistemi sanitari, nonché con gli artt. 118 e 119 Cost.
1.2.3.– Sarebbe
inoltre violato il principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.,
dal momento che nessuna forma di intesa è prevista al riguardo.
1.3.– La ricorrente impugna poi il medesimo art. 9-ter, comma l, alla lettera b), anche nel suo raccordo attuativo con
i commi 8 e 9, laddove esso obbligherebbe parimenti in via generale e
indiscriminata gli enti del Servizio sanitario nazionale (da ora anche SSN),
ovvero senza la preventiva definizione di standard di efficienza da assumere a
parametro, a proporre, ai fornitori di dispositivi medici, «una rinegoziazione
dei contratti in essere che abbia l’effetto di ridurre i prezzi unitari di
fornitura e/o i volumi di acquisto, rispetto a quelli contenuti nei contratti
in essere, senza che ciò comporti modifica della durata del contratto stesso».
1.4.– Con riguardo ai successivi commi 2 e 3 del medesimo art.
9-ter, espone la Regione Veneto che
l’art. 9-ter, comma 2, prevede che le
«disposizioni di cui alla lettera a)
del comma l si applicano anche ai contratti per acquisti dei beni e servizi
previsti dalle concessioni di lavori pubblici, dalla finanza di progetto, dalla
locazione finanziaria di opere pubbliche e dal contratto di disponibilità di
cui, rispettivamente, agli articoli 142 e seguenti, 153, 160- bis e 160-ter» del codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163
(Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE).
L’art. 9-ter,
comma 3, nel declinare l’applicazione delle disposizioni di cui alla lettera b) del comma l, confermerebbe poi,
secondo la ricorrente, l’irragionevolezza delle disposizioni impugnate e si
dimostrerebbe esso stesso irragionevole dal momento che pur prevedendo che il
Ministero della salute metta «a disposizione delle regioni i prezzi unitari dei
dispositivi medici presenti nel sistema informativo sanitario» non ne trarrebbe
poi alcuna conseguenza, poiché non farebbe discendere da questa indicazione
alcuna deroga all’obbligo comunque generalizzato di rinegoziazione, che
resterebbe immutato.
Pertanto, secondo la Regione Veneto, dovrebbero
estendersi ai detti commi 2 e 3 dell’art. 9-ter
cit. gli stessi motivi di incostituzionalità già enunciati con riferimento
all’art. 1, comma l, lettera a), ivi
compresa l’identica ripercussione sulle competenze regionali, in merito alla
violazione degli artt. 3, 5, 32, 97, 117, secondo, terzo e quarto comma, 118,
119 e 120 Cost., dal momento che tali disposizioni stabilirebbero, con una
norma che non sarebbe definibile di principio, un obbligo del tutto analogo di
praticare un taglio meramente percentuale della spesa nei rispettivi settori
senza alcuna indicazione di adeguati parametri di riferimento idonei a
distinguere all’interno della stessa, quella efficiente da quella inefficiente.
1.5.– L’art. 9-quater (Riduzione delle prestazioni
inappropriate), al comma l, prevede che con decreto del Ministro della salute,
«previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le
regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano» (da ora, anche:
Conferenza Stato-Regioni), siano individuate le condizioni di erogabilità e le
indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza
specialistica ambulatoriale. Al comma 2 si stabilisce poi che le prestazioni
erogate al di fuori delle condizioni di erogabilità previste dal decreto
ministeriale di cui al comma l sono a totale carico dell’assistito; al comma 4
si prevede che gli enti del Servizio sanitario nazionale effettuano i controlli
necessari ad assicurare che la prescrizione delle prestazioni sia conforme alle
condizioni e alle indicazioni del suddetto decreto ministeriale. Al comma 5 si
dispone poi che in caso di comportamento prescrittivo non conforme alle
condizioni e alle indicazioni di cui al decreto ministeriale, l’ente adotti nei
confronti del medico prescrittore una riduzione del
trattamento economico accessorio e nei confronti del medico convenzionato con
il Servizio sanitario nazionale, una riduzione delle quote variabili
dell’accordo collettivo nazionale di lavoro e dell’accordo integrativo regionale.
Il comma 6, infine, prevede che la mancata adozione, da parte dell’ente del
Servizio sanitario nazionale, dei provvedimenti di competenza nei confronti del
medico prescrittore comporti la responsabilità del
direttore generale e sia valutata ai fini della verifica del rispetto degli
obiettivi assegnati al medesimo dalla Regione.
Tali disposizioni, secondo la ricorrente, sarebbero
lesive della garanzia del diritto costituzionale alla salute e invasive delle
competenze regionali, in quanto, da un lato stabilirebbero un regime gravemente
sanzionatorio per i medici del servizio sanitario regionale, ma, dall’altro,
non compenserebbero questa previsione con una adeguata revisione del regime di
responsabilità civile e penale degli stessi, non ancora adeguatamente
affrontata dal legislatore.
Secondo la Regione Veneto la modalità adottata dalla
norma impugnata per risolvere il problema dei costi generati dalla cosiddetta
medicina difensiva apparirebbe lesiva dei principi di proporzionalità e
ragionevolezza: rimettendo ad un decreto ministeriale la definizione di ciò che
debba ritenersi appropriato o meno, determinerebbe una grave incertezza
prodotta dalla pretesa di sostituire la valutazione del medico del caso
concreto con una complicata interpretazione frutto di un sistema burocratico
generalizzato.
Tali disposizioni, secondo la Regione ricorrente,
violerebbero pertanto il principio di proporzionalità e di buon andamento di
cui agli artt. 3, 32 e 97 Cost., sia sotto il profilo della connessione
razionale tra i mezzi predisposti e i fini che si intendono perseguire,
addirittura con il rischio di aggravamento del problema economico complessivo,
sia sotto il profilo della verifica della necessità, in quanto la soluzione
prescelta non consentirebbe di ottenere l’obiettivo prefissato con il minor
sacrificio possibile di altri diritti costituzionalmente protetti. Tali
violazioni ridonderebbero poi in una lesione delle competenze
costituzionalmente assegnate alla Regione in tema di tutela della salute e
organizzazione del sistema sanitario ai sensi degli artt. 117, terzo e quarto
comma, e 118 Cost., anche autonomamente considerati.
Inoltre, prosegue la ricorrente, sarebbe altresì
violato l’art. 117, terzo comma, Cost. laddove si stabilisce, nell’art. 9-quater, comma l, che le condizioni di
erogabilità sono definite con un mero decreto ministeriale (è richiamata la sentenza n. 125 del
2015).
1.6.– L’art. 9-quater,
comma 7, impone che le Regioni o gli enti del Servizio sanitario nazionale
ridefiniscano i tetti di spesa annui degli erogatori privati accreditati delle
prestazioni di specialistica ambulatoriale e, per l’anno 2015 obbliga a
rideterminare il valore dei relativi contratti «in modo da ridurre la spesa per
l’assistenza specialistica ambulatoriale complessiva annua da privato
accreditato, di almeno l’l per cento del valore complessivo della relativa
spesa consuntivata per l’anno 2014».
Secondo la Regione Veneto anche in questo caso,
stabilendo un obbligo di riduzione della spesa in modo generale e
indiscriminato, senza alcuna istruttoria e senza il riferimento di alcuno
standard di efficienza utilizzabile come parametro, detta disposizione si
porrebbe in contrasto con i principi di ragionevolezza e proporzionalità ex art. 3 Cost., nonché con gli artt. 5,
117, secondo e terzo comma, Cost. riguardo al corretto esercizio della funzione
statale di coordinamento della finanza pubblica e alla garanzia dei LEA, nonché
con gli artt. 118 e 119 Cost., e con il principio di buon andamento della
Pubblica Amministrazione di cui agli artt. 32 e 97 Cost., la cui lesione
ridonderebbe sulle competenze costituzionali garantite alla Regione in materia
di organizzazione sanitaria indebitamente compromesse. Sarebbe inoltre violato
il principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., in quanto
nessuna forma di intesa viene prevista al riguardo.
1.7.– L’art. 9-septies (Rideterminazione del livello di
finanziamento del Servizio sanitario nazionale) al comma l stabilisce che: «1.
Ai fini del conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica di cui
all’articolo 46, comma 6, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito,
con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, e successive
modificazioni, e in attuazione di quanto stabilito dalla lettera «E»
dell’intesa sancita dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le
Regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano in data 26 febbraio 2015
e dall’intesa sancita dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato,
le Regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano in data 2 luglio 2015,
nonché dagli articoli da 9-bis a 9-sexsies del presente decreto, il livello
del finanziamento del Servizio sanitario nazionale a cui concorre lo Stato, come
stabilito dall’articolo l, comma 556, della l. n. 190 del 2014, è ridotto
dell’importo di 2.352 milioni di euro a decorrere dal 2015».
Secondo la Regione Veneto la suddetta disposizione
ridurrebbe in via permanente, senza quindi alcuna limitazione temporale, il
livello del finanziamento del Servizio sanitario nazionale a cui concorre lo
Stato, nella misura di 2.352 milioni di euro a decorrere dal 2015. Tale
disposizione, si prosegue, costituisce l’esito finale previsto dalle
disposizioni e dal procedimento introdotto, modificando il comma 6 dell’art. 46
del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e
la giustizia sociale), dall’art. l, comma 398, lettera c), della legge n. 190 del 2014.
Il "taglio” si realizzerebbe principalmente
attraverso l’applicazione delle misure di riduzione della spesa imposte dagli
articoli da 9-ter a 9-quinquies dello stesso d.l. n. 78 del 2015 che costituirebbero una misura
meramente lineare, in percentuale rispetto alla spesa storica, e quindi con modalità
generalizzate e indiscriminate.
Secondo la ricorrente non sarebbe quindi previsto
nessun adeguato criterio di razionalizzazione della distribuzione di tale
riduzione, che pertanto si presterebbe a incidere in modo indiscriminato tanto
sulle realtà efficienti, dove minima sarebbe la possibilità di
razionalizzazione della spesa, quanto su quelle inefficienti, dove invece vi
sarebbe una elevata possibilità di razionalizzazione. Tale misura inoltre
prescinderebbe completamente dall’applicazione del criterio dei costi standard.
Rammenta la Regione Veneto che la Corte ha già
affermato l’incostituzionalità di misure restrittive in riferimento alle
Regioni ordinarie, alle Province ed ai Comuni che non indicavano un termine
finale di operatività (sentenze n. 79 del
2014 e n.
193 del 2012).
Nel caso di specie, diversamente, le norme impugnate
sarebbero costituite da un insieme di tagli meramente lineari alla spesa
sanitaria, senza che sia definito alcun criterio effettivo di sostanziale
riforma del comparto, e da misure che assumerebbero un carattere permanente.
Di qui, secondo la ricorrente, deriverebbe il
contrasto con gli articoli 3, 5, 32, 97 Cost., che ridonderebbe in una
violazione delle competenze regionali indebitamente compresse di cui agli
articoli 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost., anche
autonomamente considerati, e del principio di leale collaborazione di cui
all’art. 120 Cost.
Infine, secondo la Regione Veneto, oltre che con i
parametri già invocati, la norma impugnata si porrebbe in contrasto con quanto
dispongono l’art. 5, lett. g), della
legge cost. n. l del 2012 e l’art. 11 (Concorso dello Stato al finanziamento
dei livelli essenziali e delle funzioni fondamentali nelle fasi avverse del
ciclo o al verificarsi di eventi eccezionali) della legge 24 dicembre 2012, n.
243 (Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi
dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione), in quanto tali disposizioni
rafforzerebbero, perlomeno in via di principio e pur nella dinamica
dell’equilibrio di bilancio, l’impegno della Repubblica nella garanzia dei
livelli essenziali, riconosciuti come imprescindibile livello di garanzia dei
principi fondamentali di eguaglianza e solidarietà, mentre la disposizione
impugnata, producendo una riduzione del finanziamento del servizio sanitario,
non terrebbe in alcuna considerazione il problema della adeguata garanzia dei
LEA.
2.– Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
deducendo l’infondatezza del ricorso.
2.1.– Sostiene il Presidente
del Consiglio dei ministri che tutti gli argomenti svolti dalla ricorrente,
considerati separatamente e nel loro insieme, sarebbero «del tutto irrilevanti
ai fini della affermata illegittimità delle norme impugnate, attenendo tutte a
considerazioni e valutazioni di carattere politico, non congruenti ai fini
della denunciata illegittimità costituzionale delle norme richiamate».
Dal punto di vista della supposta ed eventuale
illegittimità costituzionale, quello che rileverebbe sarebbe piuttosto che la riduzione
delle risorse assegnate alle Regioni per il 2015 sia stata a sua volta oggetto
di intese sancite tra Stato e Regioni nelle Conferenze Stato-Regioni del 26
febbraio e del 2 luglio 2015. Non avrebbe quindi nessuna rilevanza che, come
sostiene la ricorrente, questa intesa sia stata, sia pure per mera ipotesi,
obbligata per le Regioni, perché messe di fronte a un’alternativa che avrebbe
comportato una riduzione molto superiore per la spesa extra sanitaria.
Ciò che conta, si prosegue, sarebbe invece che le
Regioni hanno sancito l’intesa, e per di più, come riconosce la stessa
ricorrente, lo abbiano fatto compiendo una scelta consapevole e ragionata tra
diverse alternative possibili, specificamente individuate dallo Stato.
Evidenzia la difesa statale inoltre che, con le
intese del 26 febbraio e del 2 luglio 2015, le Regioni avrebbero mostrato di
accettare e condividere la scelta fatta dallo Stato, facendosi così anch’esse
carico della necessità di contenere la spesa pubblica.
Pertanto, in presenza dell’elemento formale e
sostanziale delle intese sancite, che caratterizza le modalità con le quali
sono state decise le riduzioni di risorse per l’anno 2015, verrebbero «con
tutta evidenza a cadere le considerazioni, in prevalenza di natura meramente
politica, svolte con riferimento ai lavori di alcune Commissioni Parlamentari e
alla richiamata deliberazione della Corte dei Conti».
Osserva inoltre la difesa erariale che, nel caso in
esame, si tratterebbe di una riduzione di risorse rispetto a quanto previsto
per il 2015 dal Patto per la salute 2014-2016, approvato dalla Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di
Trento e Bolzano il 10 luglio 2014, riduzione che riguarda la spesa sanitaria
regionale nel suo complesso e non singole specifiche attività oggetto di tagli
lineari.
2.2.– Con riguardo alle censure
rivolte all’art. 9-ter, comma 1,
lettera a), commi 4 e 5, del d.l. n.
78 del 2015, osserva la difesa erariale che l’obiettivo imposto dall’art. 9-ter, comma 1, lettera a), sarebbe quello di ottenere la
riduzione, su base annua, del 5 per cento complessivo dei contratti in essere.
Pertanto, gli enti del Servizio sanitario nazionale disporrebbero di ampio
margine di scelta per conseguire la riduzione degli oneri contrattuali, fermo
restando soltanto che la riduzione complessiva della spesa su base annua debba
essere non inferiore al 5 per cento del valore complessivo dei contratti in
essere. Non vi sarebbe ragione, dunque, secondo il Presidente del Consiglio dei
ministri, di invocare i tagli lineari o la compressione dell’autonomia
regionale di organizzazione dei servizi, che diversamente resterebbe del tutto
affidata a ciascun ente del Servizio sanitario nazionale, fermo il
raggiungimento del predetto risultato. Inoltre, l’obiettivo che l’ente deve
raggiungere sarebbe quello della riduzione complessiva della spesa su base
annua, e non necessariamente rispetto a ciascun singolo contratto.
2.3.– Con riguardo all’asserita illegittimità costituzionale
dell’art. 9-ter, comma 1, lettera b), e dei successivi commi 2, 3, 8 e 9
del d.l. n. 78 del 2015, osserva il Presidente del Consiglio dei ministri che
le norme impugnate si basano tutte sulla previsione che il Ministero della
salute individui con decreto, sentita la Conferenza permanente per i rapporti
tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, le
condizioni di erogabilità e di appropriatezza delle prestazioni di assistenza
specialistica ambulatoriale.
Evidenzia che l’art. 9-quater, comma 5, prevede che, in caso di comportamento del
personale medico non conforme alle indicazioni del decreto di cui al comma 1,
l’ente richieda al medico prescrittore le ragioni
della mancata osservanza delle predette indicazioni e prescrizioni. Solo nel
caso di «mancata risposta o giustificazioni insufficiente», l’ente deve
adottare i provvedimenti di sua competenza.
Sarebbe quindi del tutto evidente che il decreto del
Ministro fissa condizioni e modalità che non saranno in ogni caso strettamente
vincolanti per il medico. Questi, infatti, potrebbe sempre adottare un
comportamento prescrittivo non conforme alle condizioni e alle indicazioni di
cui al decreto ministeriale. Ciò, ovviamente, sempre che sussistano
giustificazioni sufficienti che consentano al medico di dare esauriente e
soddisfacente risposta all’ente nei momento in cui questo, come è tenuto a fare
in base al comma 5, gli chieda conto del suo comportamento. Solo nel caso in
cui le risposte del medico manchino e le ragioni e giustificazioni addotte
siano considerate insufficienti, l’ente potrà procedere a comminare le sanzioni
previste. Conclusivamente, comportamenti del medico difformi da quelli
stabiliti nel decreto ministeriale saranno pertanto tollerati ogni volta che
questi si fondino su cause e giustificazioni adeguate, ovviamente con
riferimento al caso trattato e alle specifiche esigenze di cura che questo può
presentare.
Non ci si troverebbe di fronte quindi ad una ipotesi
di irragionevolezza o di mancanza di proporzionalità, né sarebbe sostenibile
che la norma leda l’autonomia e responsabilità del medico.
2.3.1.– Infine,
quanto alla censura che la norma, imperniandosi tutta sul decreto ministeriale
di cui al punto 1, lederebbe l’autonomia regionale perché andrebbe ben oltre i principi
fondamentali, osserva innanzitutto il Presidente del Consiglio dei ministri che
la Corte Costituzionale avrebbe più volte affermato la legittimità, ex art. 119 Cost., di misure, anche a
carattere prescrittivo, quando sia in gioco la tenuta finanziaria del sistema.
In secondo luogo rileva che, nel caso in questione,
tutta la normativa esaminata, altro non sarebbe che l’attuazione di un
principio fondamentale, non esplicitato ma chiaramente sotteso a tutto il
complesso normativo: quello di adottare criteri adeguati a contenere la spesa
sanitaria anche sotto il profilo di eventuali prestazioni mediche non
necessarie. Principio questo che, proprio perché fondato più sull’art. 119
Cost., come interpretato dalla Corte Costituzionale, che non sull’art. 117,
comma terzo, Cost., sarebbe in questo caso del tutto rispettato.
2.4.– Con riferimento poi alla
specifica censura diretta verso l’art. 9-quater,
comma 7, osserva la difesa erariale che i motivi di doglianza sono analoghi a
quelli di cui al punto precedente e consistono essenzialmente nel fatto che
esso recherebbe dei tagli lineari e che si imporrebbe un obbligo di riduzione
della spesa senza alcuna istruttoria e senza riferimento agli standard di
efficienza.
Anche in questo caso, tuttavia, secondo il Presidente
del Consiglio dei ministri il ricorso sarebbe del tutto infondato.
Si osserva innanzi tutto che la richiesta di
riduzione di spesa nulla avrebbe a che vedere col concetto di tagli lineari.
Secondariamente, si evidenzia che l’ente dovrebbe in effetti ridefinire i tetti
di spesa annui per questo tipo di assistenza, ma si tratterebbe di tetti
finalizzati comunque a ottenere una riduzione complessiva della spesa pari
all’uno per cento dell’anno precedente. Di conseguenza, secondo il Presidente
del Consiglio dei ministri, le modalità con le quali ciascun ente sanitario
deciderà di operare ai fini di ottenere tale risultato dovranno necessariamente
muovere da una prima fase di generalizzata richiesta a tutti gli erogatori del
servizio di una rinegoziazione dei rispettivi contratti. Tuttavia, potranno
essere adottali modalità e criteri anche notevolmente diversi da ente a ente,
purché sia garantito il raggiungimento complessivo della riduzione dell’l per
cento annuo.
2.5.– Infine, con riguardo alla
impugnazione dell’art. 9-septies,
commi 1 e 2, osserva la difesa statale che le motivazioni contenute nel
prosieguo del ricorso riguardano in realtà unicamente il comma l.
Deduce in proposito il Presidente del Consiglio dei
ministri che non ci si troverebbe di fronte a tagli lineari, ma si tratterebbe
di una riduzione del livello del finanziamento del Servizio sanitario
nazionale, come esattamente recita il comma 1 dell’art. 9-septies.
Rammenta che tale disposizione riproduce il contenuto
delle due intese del 26 febbraio e del 2 luglio 2015, con le quali le Regioni
hanno formalizzato il loro consenso con lo strumento dell’intesa previsto dalla
disciplina in materia e dunque dotate del valore giuridico proprio di questi
atti.
Il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che
la contestata riduzione è relativa al finanziamento previsto dal Patto per la
salute rispetto al 2015, mentre il Patto stesso ha durata triennale e può
essere modificato, di intesa tra Stato e Regioni, di anno in anno. Sarebbe
dunque del tutto evidente che la riduzione di cui al comma 1, anche se prevista
a decorrere dal 2015, riguarderebbe solo il 2015. Spetterebbe quindi alla legge
di stabilità 2016, sentite le Regioni in Conferenza permanente e acquisitane
l’intesa, definire se il livello di contributo dello Stato sarà pari a quello
previsto nel Piano delle salute per il 2016 o sarà anch’esso ridotto (o
aumentato) ed in che misura.
3.– In vista dell’udienza pubblica hanno depositato memorie
sia la Regione Veneto che il Presidente del Consiglio dei ministri.
3.1.– La Regione Veneto, in replica alla deduzione erariale
secondo la quale nel ricorso sarebbero state introdotte motivazioni di ordine
politico, obietta che la ricorrente ha inteso sottoporre alla Corte la
questione se il legislatore sia libero di ignorare le priorità costituzionali,
destinando le risorse (disponibili altrove) ad obiettivi che la Costituzione
non impone e possa dunque sacrificare diritti fondamentali – come quelli che attengono alla sanità – ad interessi di natura diversa (è richiamata la sentenza n. 275 del
2016).
Né, secondo la ricorrente, potrebbe valere a
discrimine l’intesa raggiunta, che di fatto sarebbe da ritenersi imposta: in
mancanza d’intesa lo Stato, infatti, avrebbe esercitato il proprio potere
sostitutivo, utilizzandolo, per di più con criteri sussidiari penalizzanti per
le Regioni virtuose nella spesa sanitaria ma con un Pil elevato: in sostanza le
Regioni non avrebbero avuto alcuna possibilità di evitare il taglio imposto
dallo Stato sulla spesa sanitaria.
In merito alla dedotta illegittimità costituzionale
dell’art. 9-ter, comma l, lettera a), e dei commi 4 e 5 del d.l. n. 78 del
2015, evidenzia la Regione Veneto che tali disposizioni si correlano
direttamente alla riduzione del concorso statale al finanziamento del Fondo
sanitario disposta dall’art. 9-septies,
cui sono funzionali. Tale disposizione riconoscerebbe discrezionalità in capo
alle Regioni unicamente nella scelta tra la riduzione dei prezzi unitari di
fornitura e quella dei volumi di acquisto.
Ne deriverebbe quindi che la violazione degli artt. 3
e 97 Cost. si ripercuoterebbe sull’autonomia legislativa, organizzativa e
amministrativa costituzionalmente riconosciuta alla Regione dagli artt. 117,
terzo comma, 118 e 119 Cost., incidendo indebitamente sulle determinazioni
regionali in materia di «organizzazione sanitaria», costrette ad una misura di
razionamento della spesa che non risponderebbe ad un criterio di
efficientamento della stessa, non avendo previsto, il legislatore statale,
alcun parametro utile al riguardo, limitandosi piuttosto a imporre una
dettagliata misura di razionamento delle forniture.
Con riguardo ai commi 4 e 5 dell’art. 9-ter del d.l.
n. 78 del 2015, osserva la ricorrente che se da un lato è pur vero che il comma
4 in questione prevede una facoltà e non un obbligo di recesso in capo agli
enti del Servizio sanitario nazionale, dall’altro esso deve essere letto in
combinato disposto con il successivo art. 9-septies.
Quest’ultimo dispone una riduzione permanente del concorso statale al
finanziamento del Fondo sanitario, di cui le riduzioni del valore complessivo
dei contratti in essere rappresenterebbero, evidentemente, il logico
presupposto, non lasciando alcuno spazio di manovra se non quello di
rinegoziare tali contratti, con inevitabili ripercussioni sull’autonomia
regionale in materia di organizzazione sanitaria.
Con riguardo alle censure rivolte all’articolo 9-ter, comma l, lettera b), commi 2, 3, 8 e 9 del d.l. n. 78 del
2015, osserva che nessuna considerazione sostanziale sarebbe stata svolta dalla
memoria di costituzione dell’Avvocatura dello Stato. Secondo la ricorrente si
tratterebbe di un complesso normativo che introduce una disposizione di
dettaglio nell’ambito della competenza concorrente in materia di tutela della
salute; che non lascia alcuno spazio significativo all’autonomia regionale, a
differenza di quanto dovrebbero prevedere le norme statali di coordinamento
della finanza pubblica, e che risulta altresì privo del requisito della
transitorietà. Si tratterebbe di una misura di razionamento della spesa che non
risponderebbe a un criterio di efficientamento della stessa, dal momento che le
norme impugnate, pur prevedendo che il Ministero della salute metta a
disposizione delle Regioni i prezzi unitari dei dispositivi medici presenti nel
sistema informativo sanitario, non ne trarrebbe poi alcuna conseguenza
operativa rispetto all’obbligo comunque generalizzato di rinegoziazione che
grava indistintamente sulle Regioni.
In relazione all’impugnativa dell’art. 9-quater, commi l, 2, 4, 5, 6 e 7 del d.l.
n. 78 del 2015, obietta la Regione Veneto che la struttura delle disposizioni
impugnate, sottoponendo il medico al rischio sanzionatorio qualora si discosti
dalle indicazioni dell’emanando decreto ministeriale,
determinerebbe una grave alterazione del rapporto tra medico e paziente ed
esporrebbe il sistema sanitario regionale a un pesante vulnus al diritto costituzionale alla salute. Sarebbe invece
rimessa alla mera discrezionalità amministrativa il giudizio sulla sufficiente
motivazione fornita dal medico nel discostarsi da quanto stabilito nel predetto
d.m. (e quindi sulla punibilità dello stesso). Proprio l’argomentazione
dell’Avvocatura dello Stato confermerebbe la suddetta violazione, dimostrando
che l’adeguatezza delle giustificazioni, la valutazione del caso trattato e
delle specifiche esigenze di cura sarebbero infatti rimesse dalle disposizioni
impugnate, e quindi, in ultima battuta, all’ente – ed alla sua struttura burocratica – e non più al medico.
Richiama altresì quanto affermato dalla Corte secondo
la quale «in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia
e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le
necessarie scelte professionali (sentenze n. 338 del
2003 e n.
282 del 2002)», (sentenza n. 151 del
2009, punto 6.1 del Considerato in
diritto; in senso conforme anche sentenza n. 162 del
2014). Questa relazione tra medico e paziente, che viene normalmente
descritta in termini di "alleanza terapeutica”, avrebbe necessariamente una
connotazione irripetibile e focalizzata imprescindibilmente sulla tutela della
salute: «la nozione di patologia, anche psichica, la sua incidenza sul diritto
alla salute e l’esistenza di pratiche terapeutiche idonee a tutelarlo vanno
accertate alla luce delle valutazioni riservate alla scienza medica, ferma la
necessità di verificare che la relativa scelta non si ponga in contrasto con
interessi di pari rango» (sentenza n. 162 del
2014, punto 7 del Considerato in
diritto). Inoltre, le scelte relative a tutti i trattamenti medici, salvo
il necessario consenso informato, devono essere lasciate «alla discrezionalità
del medico, che è il depositario del sapere tecnico del caso concreto» (sentenza n. 151 del
2009, punto 5.2, del Considerato in
diritto). Le norme censurate, al contrario, avocherebbero a scelte già
effettuate in sede di decretazione ministeriale, la discrezionalità che
dovrebbe essere propria della decisione medica, impedendole di svilupparsi
linearmente all’interno della relazione con il paziente. Esse trasformerebbero
dunque un approccio che la Corte prescrive come indispensabilmente concreto,
perché focalizzato sulla salute del paziente, in una disciplina generale
dominata da preoccupazioni di natura meramente finanziaria.
Tali violazioni ridonderebbero in una lesione, anche
diretta, delle competenze costituzionalmente assegnate alla Regione in tema di
tutela della salute e organizzazione del sistema sanitario ai sensi degli artt.
117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., dal momento che si impongono agli enti
del servizio sanitario regionale, a presidio degli interessi finanziari
statali, una serie di azioni amministrative che non solo incidono sull’"alleanza
terapeutica” tra medico e paziente ma che espongono altresì le strutture
regionali a richieste di risarcimento, compromettendo l’impegno regionale ad
erogare un servizio sanitario a favore della tutela della salute.
Con riferimento alle censure mosse nel ricorso
riguardo all’art. 9-quater, comma 7,
evidenzia la ricorrente che la disposizione impugnata, ricollegandosi alla
riduzione permanente del concorso statale al livello di finanziamento del
Servizio sanitario nazionale stabilita dal comma l dell’art. 9-septies, introdurrebbe una misura
altrettanto permanente di riduzione (pari per l’anno 2015 almeno all’l per
cento della spesa consuntivata per l’anno 2014) della spesa regionale relativa
agli erogatori privati accreditati delle prestazioni di specialistica
ambulatoriale. Essa inoltre prescinderebbe da ogni istruttoria sui livelli
regionali di tale spesa al fine di verificare la appropriatezza della stessa e
dunque non considererebbe i forti divari regionali esistenti al riguardo. La
Regione si troverebbe costretta a dover rinegoziare i contratti con gli
erogatori privati accreditati delle prestazioni di specialistica ambulatoriale.
Con riferimento alle disposizioni censurate di cui
all’art. 9-septies, osserva che le
misure censurate hanno, per struttura e tono normativo, un’applicazione che si
estenderebbe indefinitamente: non si evincerebbe affatto dal testo normativo
che esse si applichino solo per il 2015. Ognuna delle disposizioni di riduzione
della spesa richiamate dalla disposizione impugnata avrebbe quindi un carattere
non transitorio.
Inoltre, la norma impugnata farebbe riferimento al
«livello del finanziamento del Servizio sanitario nazionale a cui concorre lo
Stato, come stabilito dall’articolo l, comma 556, della legge 23 dicembre 2014,
n. 190». Essa non sarebbe quindi relativa, come sostiene l’Avvocatura dello
Stato, solo all’anno 2015, ma perlomeno concernerebbe anche il livello di
finanziamento dell’anno 2016, dal momento che il citato art. l, comma 556,
riguardava non solo il 2015, ma anche il 2016. La riduzione del Fondo sanitario
disposta dalla norma impugnata, poi, continuerebbe ad esplicare effetti: essa
avrebbe investito la determinazione del Fondo sanitario per il 2016, il 2017,
il 2018 e il 2019, dal momento che con l’art. l, comma 392, della legge 11
dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno
finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019), lo Stato
avrebbe rideterminano unilateralmente l’ammontare del suddetto Fondo in 113.000
milioni di euro per il 2017, 114.000 milioni di euro per il 2018 e 115.000
milioni di euro per il 2019.
In merito all’obiezione erariale che in questo caso
non ci si troverebbe di fronte a tagli lineari, ma a una riduzione del livello
di finanziamento del Servizio sanitario nazionale, come recita il comma l
dell’art. 9-septies, e che tale
disposizione riproduce il contenuto delle due intese del 26 febbraio e del 2
luglio 2015, replica la Regione Veneto di non ignorare che nella sentenza n. 141 del
2016 la Corte Costituzionale ha rilevato che il mancato inserimento, nella
disposizione censurata, di un esplicito riferimento ai costi ed ai fabbisogni
standard regionali, non consente di desumere ostacoli all’impiego anche di tali
criteri per la distribuzione della riduzione di spesa: anzi, proprio la
necessaria considerazione delle risorse destinate al finanziamento corrente del
Servizio sanitario nazionale ben può consentire alle Regioni, già in sede di autocoordinamento, ed eventualmente allo Stato, in sede di
intervento sussidiario, di tenere conto dei costi e dei fabbisogni standard
regionali, in modo da onerare maggiormente le Regioni caratterizzate da una
"spesa inefficiente”. Tuttavia, rispetto a tali precisazioni, obietta la
ricorrente che il criterio dei costi standard, seppure previsto dagli artt. da
25 a 32 del d.lgs. n. 68 del 2011 per la determinazione e il riparto del fondo
sanitario nazionale, non ha ricevuto alcuna considerazione; inoltre osserva che
il criterio sussidiario stabilito dallo Stato, in caso di mancata intesa,
penalizza le Regioni con un PIL più elevato, che coincidono con quelle più
efficienti (le cosiddette Regioni benchmark)
che avrebbero interesse all’applicazione del suddetto criterio dei costi
standard.
Sarebbe, quindi, proprio in riferimento alle
affermazioni contenute nella sentenza n. 141 del
2016, che si porrebbe la questione se sia legittimo per lo Stato
prescindere definitivamente dai costi standard, posto che di fatto non sono
stati utilizzati né come criterio principale, né come criterio sussidiario,
evitando di «onerare maggiormente le Regioni caratterizzate da una spesa
inefficiente», nel momento in cui dispone, con la norma impugnata, la riduzione
del finanziamento del Fondo sanitario nazionale.
3.2.– Il Presidente del
Consiglio dei Ministri, nella propria memoria, osserva che le disposizioni
legislative impugnate dalla Regione ricorrente sono volte a razionalizzare e a
rendere efficiente la spesa prevista per il Servizio sanitario nazionale. Si
tratterebbe, in particolare, di disposizioni introdotte nell’ordinamento dal
legislatore statale a seguito dell’accordo raggiunto in sede di Conferenza
Stato-Regioni del 10 luglio 2014 (ove è stata siglata l’intesa sul nuovo Patto
per la salute per il triennio 2014-2016), e a seguito altresì delle successive
intese sancite tra Stato e Regioni nelle Conferenze permanenti del 26 febbraio
e del 2 luglio 2015.
Fa presente che proprio l’art. 26 del d.lgs. n. 68
del 2011 avrebbe precisato che, dal 2013, la determinazione del fabbisogno
sanitario nazionale standard è fissata tramite intesa, in coerenza con il
quadro macroeconomico complessivo del Paese e nel rispetto dei vincoli di
finanza pubblica e degli obblighi assunti dall’Italia in sede comunitaria. Ne
conseguirebbe che, a fronte di sopravvenute esigenze di finanza pubblica, il
Governo potrebbe rideterminare il livello di finanziamento a copertura dei
livelli essenziali di assistenza, da erogarsi in condizioni di efficienza e di
appropriatezza, così come previsto anche dall’art. 1 del decreto legislativo
del 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a
norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421).
In tale ottica, anche il Patto per la salute per gli
anni 2014-2016, siglato dal Governo e dalle Regioni il 10 luglio 2014, nel
definire il livello di finanziamento del SSN del predetto triennio
(rispettivamente pari a 109.928, 112.062 e 115.444 milioni di euro), all’art.
1, comma 1, dispone che il summenzionato livello è stabilito «salvo eventuali
modifiche che si rendessero necessarie in relazione al conseguimento degli
obiettivi di finanza pubblica e a variazioni del quadro macro economico».
In proposito, rammenta che già la l. n. 190 del 2014
aveva recepito alcune delle misure contenute nella suddetta intesa, e in
particolare all’art. 1, comma 398, ha richiesto alle Regioni di fornire un
contributo alla finanza pubblica pari a 4,2 miliardi di euro, rimettendo alle
stesse l’onere di individuare gli ambiti di spesa e i relativi importi da
recepire con successiva intesa sancita dalla Conferenza Stato-Regioni. Tale
intesa è intervenuta in data 26 febbraio 2015 e con essa le Regioni hanno
indicato in 2.352 milioni di euro il contributo che il settore sanitario
avrebbe fornito, in applicazione di quanto previsto dal succitato comma 398
della legge di stabilità 2015. Segnatamente, il punto «E» dell’intesa del 26
febbraio 2015 ha rinviato ad un successivo accordo l’individuazione di misure
di razionalizzazione della spesa sanitaria, prevedendo inoltre la possibilità
per le Regioni di attuare anche misure alternative di contenimento dei costi.
Ne consegue, quindi, che sarebbero state le stesse
Regioni a chiedere al Governo di individuare misure di razionalizzazione della
spesa al fine di offrire loro strumenti più efficaci per il contenimento dei
costi, tali da rendere sostenibile la riduzione del livello di finanziamento. La
successiva intesa contenente tali misure di razionalizzazione della spesa è
stata raggiunta il 2 luglio 2015 e le misure concordate sono state recepite
dalle disposizioni impugnate dalle ricorrenti.
Secondo la difesa erariale, pertanto, le norme
impugnate dalla Regione ricorrente sarebbero state precedute da accordi
pattizi, ai quali la stessa Regione non si è sottratta, non risultando avere
mai espresso in sede istituzionale il suo esplicito dissenso.
Inoltre, non sarebbero fondate le argomentazioni addotte
in merito ad una presunta violazione, da parte del legislatore statale, della
normativa sui costi standard e di applicazione di "tagli lineari”. Ed invero,
questi ultimi si configurano come una riduzione del finanziamento da ripartire
tra le Regioni secondo il criterio dei costi standard in relazione ai costi
delle Regioni "di riferimento” (benchmark),
come individuate dalla procedura del richiamato d.lgs. n. 68 del 2011. Del
resto, a fronte dell’impatto economico-finanziario delle misure introdotte dal
decreto-legge n. 78 del 2015, la corrispondente rideterminazione del livello di
finanziamento ordinario non potrebbe che ripartirsi con il medesimo meccanismo
di ripartizione del fabbisogno sanitario, individuato dagli artt. 25-30 del
citato d.lgs. n. 68 del 2011. Ciò sul presupposto che, in presenza di una
rideterminazione del livello di finanziamento, nelle Regioni permangono altri
spazi per ottimizzare il sistema sanitario regionale, pur avendo già adottato
autonomamente misure di controllo della spesa.
Con riguardo alla rinegoziazione dei contratti di
acquisto di beni e servizi e dei dispositivi medici prevista dagli artt. 9-ter e 9-quater, comma 7, del d.l. 78 del 2015, ove si prevede una
rinegoziazione dei contratti in essere con gli erogatori privati accreditati
delle prestazioni specialistiche ambulatoriali, il Presidente del Consiglio dei
ministri fa presente che tali misure rappresentano una leva per il contenimento
dei costi, richiesta dalle Regioni in sede di accordo pattizio e che esse non
si configurano come un obbligo al quale le Regioni devono adempiere, dal
momento che, stante la previsione di cui all’art. 9-septies, comma 2, le stesse potrebbero conseguire risparmi anche
con misure alternative rispetto a quella in argomento, purché di effetto
finanziario equivalente.
Il legislatore statale, dunque, non escluderebbe
affatto che la riduzione avvenga prevedendo tagli maggiori proprio nei
contratti in cui la spesa sia risultata improduttiva, eventualmente evitando di
coinvolgere in modo rilevante, e nella medesima misura, i contratti in cui la
spesa si sia rivelata, al contrario, efficiente.
Inoltre, per quanto riguarda specificamente la
disposizione dettata dall’art. 9-ter,
comma 1, lettera b), osserva il
Presidente del Consiglio dei ministri che essa non produce una modifica del
vigente tetto di spesa per i dispositivi medici, ma offre alle Regioni un
ulteriore strumento per rispettarlo, in considerazione del fatto che la
relativa spesa registrata nel 2014 supera tale tetto di spesa, a livello nazionale,
dello 0,8 per cento. Al riguardo, si precisa, la predetta disposizione prevede
altresì che il tetto regionale venga normalizzato per tenere conto della
diversa composizione pubblico-privata dell’offerta a livello regionale, proprio
per valutare più correttamente la spesa sostenuta sul territorio regionale.
Con riguardo alla censura mossa all’art. 9-quater, la difesa erariale ne contesta
l’ammissibilità in quanto non illustrerebbe in modo puntuale per quali motivi
le disposizioni statali impugnate contrastino con gli artt. 3, 5, 32, 97, 117,
secondo, terzo e quarto comma, 118, 119 e 120 Cost., di cui la ricorrente
assumerebbe apoditticamente la violazione, limitandosi a paventare ipotetici
rischi, la cui valutazione però sfugge al controllo di legittimità della Corte
costituzionale, essendo rimessa all’ambito di discrezionalità di competenza
esclusiva del legislatore statale. Secondo la difesa erariale non apparirebbe
né irragionevole, né discriminatoria, la scelta di quest’ultimo di rimettere al
dicastero competente l’individuazione dei casi e dei modi di erogazione
appropriata delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale, al di
fuori dei quali i relativi oneri economici non possono essere posti a carico
del SSN senza un’adeguata apposita giustificazione da parte del medico prescrittore.
D’altronde, si osserva ulteriormente che le
condizioni di erogabilità delle prestazioni sanitarie, poiché attengono alla
materia dei livelli essenziali di assistenza, appartengono alla competenza del
livello centrale e, in considerazione della natura squisitamente
tecnico-scientifica delle relative indicazioni (essendo l’efficacia dei
percorsi di cura stabilita sulla base di sperimentazioni cliniche e delle
evidenze scientifiche), non possono essere influenzate da valutazioni di ordine
politico delle amministrazioni regionali, né dalla considerazione che il
connesso onere economico ricada sul SSN ovvero sugli utenti. Il settore
interessato dall’intervento del legislatore statale sarebbe non solo quello della
tutela della salute, ma altresì quello afferente alla «determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Materia,
quest’ultima, che l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., riserva alla competenza legislativa esclusiva dello
Stato.
Infine, con riguardo all’impugnazione dell’art. 9-septies, commi 1 e 2, del d.l. n. 78 del
2015, la difesa statale obietta che ci si troverebbe di fronte non già a tagli
lineari ma a una riduzione del livello del finanziamento del Servizio sanitario
nazionale, come esattamente recita l’art. 9-septies,
comma 1. Né avrebbe alcun senso invocare il mancato rispetto dell’applicazione
dei costi standard, anche con riguardo alla denunciata mancanza delle
necessarie procedure di leale collaborazione. Rammenta in proposito che questa
disposizione riproduce il contenuto delle due intese del 26 febbraio e del 2
luglio 2015, con le quali le Regioni hanno sancito il loro consenso nella forma
più alta prevista dalla normativa in materia, e cioè con l’Intesa.
4.– La Regione Liguria, con ricorso iscritto al n. 97 del
registro ricorsi del 2015, ha impugnato l’art 9-septies, commi 1 e 2, del d.l. n. 78 del 2015, deducendo la
violazione degli artt. artt.
3, 32, 77, 97, 117, secondo e terzo
comma, 118, 119, e del principio di leale
collaborazione di cui all’art. 120 Cost.
Premette la ricorrente che l’art. 9-septies, comma l, del d.l. n. 78 del
2015, riduce la spesa sanitaria, a partire dall’esercizio in corso, in misura
fissa (2.352 milioni di euro) ed in via definitiva, reiterando annualmente il
"taglio” delle risorse senza limite di tempo.
Tale riduzione del finanziamento del SSN sarebbe
funzionale al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica di cui
all’articolo 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014 e sarebbe coordinata con le
misure di risparmio e di contenimento della spesa sanitaria disciplinate negli
articoli da 9-bis a 9-sexsies richiamati.
La Regione Liguria subirebbe una riduzione di circa
sessantacinque milioni di euro, che non troverebbe capienza nei risparmi
presumibilmente conseguibili attraverso le misure di contenimento della spesa
previste dalle disposizioni di cui agli artt. da 9-bis a 9-sexies, ed i cui
effetti potranno eventualmente percepirsi nell’ambito delle annualità
successive al 2015, tenuto conto delle tempistiche necessarie per la loro
effettiva attuazione.
Pertanto, sostiene la ricorrente che l’art. 9-septies, commi 1 e 2, del d.l. n. 78 del
2015, arrecherebbe un vulnus alla
propria autonomia finanziaria, specie sotto il profilo della violazione
dell’art. 119, primo e quarto comma, Cost., anzitutto nella parte in cui
dispone una forte riduzione del finanziamento del SSN con effetto immediato e
destinato ad incidere sull’esercizio in corso, senza che, peraltro, tale
riduzione possa realisticamente essere affrontata attraverso le misure di
razionalizzazione e risparmio previste dagli artt. da 9-bis a 9-sexies del
medesimo d.l. n. 78 del 2015, anch’essi inseriti in
sede di conversione.
Si tratterebbe, secondo la ricorrente, per lo più di
misure di non immediata applicazione, subordinate alla previa adozione di
decreti ministeriali e di ulteriori intese in sede di Conferenza Stato-Regioni.
Esse pertanto sarebbero destinate a produrre effetti "a regime”,
prevedibilmente, negli esercizi successivi, con grave pregiudizio per
l’organizzazione e il buon andamento del servizio sanitario regionale, della
garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni e del principio di integrale
finanziamento delle funzioni. Risulterebbe pertanto immediatamente compressa
l’autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria della Regione in materia
di tutela della salute, in contrasto con il principio di leale collaborazione
che avrebbe quanto meno imposto di attendere l’avvio della fase di attuazione
dei nuovi meccanismi di risparmio e di contenimento della spesa, al fine di
mitigare l’impatto del taglio sull’organizzazione del sistema sanitario.
Evidenzia, al riguardo, la Regione Liguria, che tale
riduzione interviene in una fase assai avanzata della programmazione e
pianificazione sanitaria, senza che i meccanismi di contenimento della spesa
previsti dagli artt. da 9-bis a 9-sexsies del d.l.
n. 78 del 2015 possano immediatamente produrre i propri effetti, tanto più in
presenza di ulteriori disposizioni che aggraverebbero i costi del servizio
sanitario.
Più nel dettaglio, la Regione Liguria subirà una
riduzione delle risorse da dedicare agli screening
ed alle altre attività di prevenzione stimabile, sulla base delle percentuali
sopra descritte, in circa 3 milioni di euro. Sulla parte distrettuale – che include la medicina di
base, la farmaceutica, la specialistica e l’assistenza territoriale – sono stimabili minori risorse per 33 milioni di euro, a
fronte di costi in notevole incremento relativamente ai nuovi farmaci
oncologici ed antiepatite. Infine, anche le risorse da destinare all’assistenza
ospedaliera (degenza, day hospital, pronto soccorso), secondo la ricorrente
subiranno una riduzione stimabile in circa 30 milioni di euro.
Tale riduzione non soltanto non sarebbe compensata
dalle misure di risparmio introdotte contestualmente al taglio contestato, ma
sarebbe addirittura aggravata dall’incremento dei costi derivante dall’art. 1,
comma 593, della l. n. 190 del 2014, che ha previsto l’istituzione di un fondo
per l’acquisto di medicinali innovativi che ammonta ad euro 500 milioni per
l’anno 2015, fondo che – si ritiene – sarebbe tuttavia insufficiente rispetto
alla spesa effettivamente sostenuta. Per quanto concerne la Regione Liguria il
maggior costo a carico del proprio bilancio potrebbe essere stimato in 38,2
milioni di euro.
Da quanto esposto si avrebbe conferma, secondo la
ricorrente, che il taglio disposto dalla previsione censurata interferirebbe
non soltanto con l’autonomia finanziaria delle Regioni e con l’esercizio delle
rispettive competenze legislative ed amministrative, ma anche con l’effettiva
capacità del sistema sanitario di assicurare un adeguato livello di tutela del
fondamentale diritto alla salute presidiato dall’art. 32 Cost. Richiama in
merito documenti parlamentari e della Corte dei conti.
Secondo la ricorrente, pertanto, la complessiva
disciplina produrrebbe un taglio secco e lineare del finanziamento solo
apparentemente compensato da risparmi attendibili e certi, scaricando sulle
Regioni la responsabilità per la garanzia dei LEA ipotizzando «misure
alternative», ma in realtà aggiuntive, per conseguire – «a tutti i costi», e
anche in caso di dimostrata inadeguatezza degli strumenti di cui agli articoli
da 9-bis a 9-sexies del d.l. n. 78 del 2015 –
l’obiettivo economico-finanziario.
Richiama inoltre la ricorrente ampia giurisprudenza
della Corte sulla necessità che anche in presenza di misure di
razionalizzazione e contenimento della spesa le autonomie possano continuare a
disporre di risorse finanziarie non inadeguate alle proprie funzioni.
Secondo la ricorrente violerebbe, in particolare, il
principio di ragionevolezza e di leale cooperazione, oltre che il diritto alla
salute, il fatto che il legislatore, nel disporre il taglio in contestazione,
si sia totalmente disinteressato della necessità di assicurare il rispetto dei
livelli essenziali di assistenza, sebbene tale necessità era stata fatta
espressamente salva anche dall’art. l, comma 398, della legge n. 190 del 2014,
disposizione (richiamata anche nelle intese raggiunte in sede di conferenza
Stato-Regioni) modificativa dell’art. 46 del d.l. n. 66 del 2014.
Non risulterebbe secondo la ricorrente, che,
nell’introdurre il taglio disposto dall’art. 9-septies, comma l, del d.l. n. 78 del 2015, il legislatore non abbia
compiuto alcuna verifica in merito alla possibilità per le Regioni di
rispettare i predetti LEA all’esito del taglio operato.
4.1.– La Regione Liguria impugna l’art. 9-septies, commi l e 2, del d.l. n. 78 del 2015, deducendo la
violazione degli artt. 3, 32, 97, 117, secondo e terzo comma, 118, 119, e del
principio di leale collaborazione ex
art. 120 Cost., anche sotto il profilo della lesione dell’autonomia finanziaria
regionale per violazione del principio di temporaneità della disciplina statale
di coordinamento della finanza pubblica e di contenimento della spesa
regionale, in quanto le disposizioni impugnate introdurrebbero una misura di
riduzione del finanziamento del SSN stabilita una volta per tutte e senza
limite di tempo «a decorrere dal 2015».
Secondo la Regione, la disciplina impugnata non
consentirebbe di stabilire un termine finale, né di essere interpretata alla
stregua di una disciplina transitoria. Richiama la pronuncia n. 79 del 2014,
nella quale si ribadisce che «questa Corte ha ripetutamente affermato che è
consentito al legislatore statale imporre limiti alla spesa di enti pubblici
regionali, che si configurano quali principi di "coordinamento della finanza
pubblica”, anche nel caso in cui gli "obiettivi di riequilibrio della medesima”
tocchino singole voci di spesa a condizione che: tali obiettivi consistano in
un "contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente”, in
quanto dette voci corrispondano ad un "importante aggregato della spesa di
parte corrente”, come nel caso delle spese per il personale (sentenze n. 287 del
2013 e n.
169 del 2007); il citato contenimento sia comunque "transitorio”, in quanto
necessario a fronteggiare una situazione contingente, e non siano previsti "in
modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti
obiettivi” (sentenze
n. 23 e n.
22 del 2014; n.
236, n. 229
e n. 205 del
2013; n. 193
del 2012; n.
169 del 2007)».
Sotto il profilo in esame, l’art. 9-septies, oltre a risultare incompatibile
con i principi precisati dalla giurisprudenza costituzionale, sarebbe affetto
da profili di irrazionalità, in riferimento anche all’art. 3 Cost., posto che
la stessa riduzione sembrerebbe destinata ad essere applicata anche alle
annualità successive al 2016, per le quali il livello del finanziamento del SSN
non è ancora stato fissato.
Quanto precede dovrebbe indurre ad interpretare in
modo conforme a Costituzione l’art. 9-septies,
nella parte in cui include la locuzione «a decorrere dal 2015», posto che non
si comprende come possa razionalmente ipotizzarsi una riduzione in misura fissa
(2.352 milioni di euro) di una grandezza (il livello del finanziamento del SSN
a cui concorre lo Stato) non ancora stabilita, né conoscibile, per quanto
concerne gli anni successivi al 2016.
La Regione Liguria impugna ulteriormente l’art. 9-septies, commi 1 e 2, del d.l. n. 78 del
2015, per violazione degli artt. 3, 117, 119, e del principio di leale
collaborazione ex art. 120 Cost., in
relazione alla legge n. 42 del 2009, al d.lgs. n. 68 del 2011 ed al Patto per
la salute 2014-2016.
Detto articolo violerebbe i parametri costituzionali
invocati anche in relazione alla legge n. 42 del 2009 – con particolare riferimento all’art. 2, comma
6, e 8 – ed agli artt. da 25 a 30 del d.lgs. n. 68 del 2011, che individuano
quale criterio fondamentale per la razionalizzazione e il contenimento della
spesa sanitaria, oltre che di riparto del fondo sanitario nazionale, quello dei
costi e dei fabbisogni standard.
Osserva la ricorrente che – in base alla normativa testé richiamata – il finanziamento del sistema sanitario deve essere
assicurato sulla base dei costi e dei fabbisogni standard, i quali sono, a loro
volta, calcolati nella prospettiva di assicurare il conseguimento dei livelli
essenziali di assistenza.
Rispetto a tale sistema, la previsione di un taglio
lineare quale quello disposto dalla disposizione censurata per la ricorrente
sarebbe assolutamente irragionevole, in quanto esso prescinderebbe
completamente non soltanto dalla considerazione dell’adeguatezza delle risorse
rispetto al conseguimento dei citati obiettivi, ma anche dalle regole di
finanziamento adottate in attuazione dell’art. 119 Cost.
In altri termini, si prosegue, mentre i LEA
resterebbero invariati, per effetto del censurato taglio, le Regioni vedrebbero
diminuite le risorse disponibili per il loro perseguimento.
Secondo la ricorrente tale intervento inserirebbe, in
tal modo, un elemento di intrinseca irragionevolezza nel sistema di
finanziamento del SSN, allontanandosi dal percorso tracciato dalla Costituzione
e dalle disposizioni di questa attuative per inseguire unicamente contingenti
logiche di risparmio.
Sotto il profilo della violazione dell’art. 120,
secondo comma, Cost. e del principio di leale collaborazione, evidenzia inoltre
la ricorrente che nel Patto per la salute 2014-2016 si sottolinea, all’art. l,
comma 2, la necessità di rivedere e riqualificare i criteri di cui all’art. 27
del d.lgs. n. 68 del 2011 sulla determinazione dei costi e dei fabbisogni
standard regionali, e si afferma che «la revisione dei criteri non può mettere
in discussione il principio dei costi standard».
Al successivo comma 3, si prevede che «nell’ambito
delle disponibilità di cui al comma 1», con DPCM adottato d’intesa con la
Conferenza Stato-Regioni, «si provvede, entro il 31 dicembre 2014,
all’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, in attuazione dei
principi di equità, innovazione ed appropriatezza e nel rispetto degli
equilibri programmati della finanza pubblica», ma, si obietta, tale aggiornamento
non sarebbe ancora avvenuto.
Di fondamentale rilievo sarebbe poi quanto convenuto
al comma 4, dove si legge che «[i] risparmi derivanti dall’applicazione delle
misure contenute nel Patto rimangono nella disponibilità delle singole regioni
per finalità sanitarie», e che «si conviene altresì che eventuali risparmi
nella gestione del servizio sanitario nazionale effettuati dalle regioni
rimangano nella disponibilità delle regioni stesse per finalità sanitarie».
Osserva in proposito la Regione Liguria che la
disciplina contenuta nell’art. 9-septies
del d.l. n. 78 del 2015 sarebbe improntata ad una
logica del tutto differente, che prescinderebbe totalmente dal percorso di
convergenza ai costi ed ai fabbisogni standard sanitari per riproporre un
modello di mero taglio lineare di finanziamento del SSN. Richiama la sentenza n. 273 del
2013, secondo la quale (seppure con riferimento al finanziamento del
trasporto pubblico locale) «il mancato completamento della transizione ai costi
e fabbisogni standard, funzionale ad assicurare gli obiettivi di servizio e il
sistema di perequazione, non consente, a tutt’oggi, l’integrale applicazione
degli strumenti di finanziamento delle funzioni regionali previsti dall’art.
119 Cost.».
Il meccanismo legislativo censurato, inoltre, a
fronte di risparmi previsti come conseguenza (attesa o presunta)
dell’applicazione delle disposizioni di cui agli articoli da 9-bis a 9-sexsies, prevederebbe, anziché
l’acquisizione delle risorse risparmiate al bilancio della sanità regionale,
una corrispondente riduzione delle risorse finanziarie destinate al
finanziamento del SSN, ponendosi in violazione del Patto per la salute
2014-2016 e del principio di leale collaborazione.
4.2.– La ricorrente deduce
l’illegittimità costituzionale dell’art. 9-septies,
commi 1 e 2, del d.l. n. 78 del 2015, nel testo introdotto dalla legge n. 125
del 2015, anche per violazione degli artt. 77, 117, 119, 120 Cost. e del
principio di leale collaborazione.
Evidenzia che la disciplina impugnata (introdotta con
"maxiemendamento” votato a seguito della posizione, da parte del Governo, della
questione di fiducia) sarebbe del tutto eterogenea rispetto al contenuto
originario del d.l. n. 78 del 2015, cosicché sarebbe evidente il difetto di
omogeneità, e quindi di nesso funzionale, tra le disposizioni del decreto-legge
e quelle impugnate, introdotte dalla legge di conversione (si richiama al
riguardo la sentenza
n. 32 del 2014).
Secondo la ricorrente sarebbe sintomatica la
circostanza che, in sede di conversione, sia stato modificato il titolo del
decreto-legge oggetto di conversione, che in precedenza era del seguente
tenore: «Disposizioni urgenti in materia di enti territoriali». Alla fine
dell’Allegato alla legge di conversione, si stabilisce che «al titolo del
decreto-legge sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: "Disposizioni per
garantire la continuità dei dispositivi di sicurezza e di controllo del
territorio. Razionalizzazione delle spese del Servizio sanitario nazionale
nonché norme in materia di rifiuti e di emissioni industriali”».
4.3.– La ricorrente deduce
ulteriormente l’illegittimità costituzionale dell’art. 9-septies del d.l. n. 78 del 2015, nel
testo introdotto dalla legge n. 125 del 2015, per violazione degli artt. 3, 97,
117, commi 3 e 4, 118 e 119 Cost. e del principio di leale collaborazione, in
quanto la disposizione censurata inciderebbe retroattivamente sugli impegni di
spesa già assunti dalla Regione Liguria in relazione al corrente anno,
producendo, altresì, un’irragionevole alterazione della programmazione di spesa
già operata, costringendo la Regione ad introdurre svariati correttivi in corso
di annualità, al fine di tentare di allineare la programmazione della spesa
sanitaria per l’anno corrente alla contestata riduzione retroattiva del
finanziamento statale.
La disposizione censurata produrrebbe quindi una
lesione del principio di affidamento delle Regioni e del principio di
proporzionalità di cui agli artt. 3 e 97 Cost., ed inciderebbe illegittimamente
sulle competenze legislative e amministrative delle Regioni in materia di
sanità previste dagli artt. 117, commi 3 e 4, e 118 Cost., compromettendo,
altresì, irragionevolmente l’autonomia finanziaria riconosciuta alle Regioni
dall’art. 119 Cost.
4.4.– Infine, la Regione
Liguria impugna l’art. 9-septies del d.l. n. 78 del 2015, nel testo introdotto dalla legge n.
125 del 2015, anche in relazione all’art. l, comma 398, lettera c), della legge n. 190 del 2014, per
violazione dell’art. 119 Cost.
Espone la ricorrente che l’art. l, comma 398, lettera
c), della legge n. 190 del 2014 ha modificato l’art. 46, comma 6, del d.l. n.
66 del 2014, inserendovi la previsione secondo cui «[p]er
gli anni 2015-2018 il contributo delle regioni a statuto ordinario, di cui al
primo periodo, è incrementato di 3.452 milioni di euro annui in ambiti di spesa
e per importi complessivamente proposti, nel rispetto dei livelli essenziali di
assistenza, in sede di autocoordinamento delle
regioni da recepire con intesa sancita dalla Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di
Bolzano, entro il 31 gennaio 2015. A seguito della predetta intesa sono
rideterminati i livelli di finanziamento degli ambiti individuati e le modalità
di acquisizione delle risorse da parte dello Stato. In assenza di tale intesa
entro il predetto termine del 31 gennaio 2015, si applica quanto previsto al
secondo periodo, considerando anche le risorse destinate al finanziamento
corrente del Servizio sanitario nazionale».
Nel caso di assenza di intesa entro il termine del 31
gennaio 2015 gli importi in questione – giusto il disposto del richiamato secondo periodo
dell’art. 46, comma 6 – dovranno essere
«assegnati ad ambiti di spesa ed attribuiti alle singole regioni e Province
autonome di Trento e Bolzano, tenendo anche conto del Pil e della popolazione
residente» e, in siffatta ipotesi, il taglio comprende anche la spesa
sanitaria.
Tale previsione – i cui effetti sull’autonomia finanziaria e
sull’esercizio delle competenze regionali si concretizzerebbero, secondo la
ricorrente, a seguito dell’introduzione delle disposizioni censurate nella
presente sede – risulterebbe illegittima ed
irragionevole per violazione dei parametri di cui in rubrica.
Il criterio prefigurato dall’art. l, comma 398,
lettera c), della legge n. 190 del
2014 per il riparto del taglio in questione realizzerebbe pertanto un effetto
perequativo implicito sulla scorta di un criterio che non troverebbe alcuna
copertura costituzionale nell’ambito dell’art. 119 Cost.
Nel caso di specie, il criterio di riparto del taglio
disposto dalle disposizioni censurate (PIL e popolazione residente),
produrrebbe un effetto perequativo in violazione dei criteri previsti dall’art.
119 Cost., che fa, invece, riferimento alla «minore capacità fiscale per
abitante».
5.– Si è costituito anche in questo giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Osserva la difesa erariale che la riduzione delle
risorse assegnate alle Regioni per il 2015 (indiscutibilmente significativa
rispetto a quanto previsto dal Piano per la salute 2014-2016) è stata a sua
volta oggetto di intese sancite tra Stato e Regioni nelle Conferenze del 26
febbraio e del 2 luglio 2015. Né, secondo la difesa erariale, potrebbe assumere
rilievo la circostanza che la ricorrente non abbia approvato le previsioni
contenute nell’intesa, dal momento che la Conferenza l’avrebbe comunque sancita
attraverso una scelta consapevole e ragionata tra diverse alternative
possibili, specificamente individuate dallo Stato.
Non sarebbe dunque possibile sostenere che le
impugnate disposizioni non sarebbero espressione di leale collaborazione da
parte dello Stato, in quanto, con le intese del 26 febbraio e del 2 luglio
2015, le Regioni avrebbero mostrato di accettare e condividere la scelta fatta
dallo Stato, facendosi così anch’esse carico della necessità di contenere la
spesa pubblica, anche mediante la riduzione delle risorse previste, per l’anno
2015, dal Patto per la salute.
Il Presidente del Consiglio dei ministri obietta
inoltre che, nel caso in esame, si tratta di una riduzione di risorse rispetto
a quanto previsto per il 2015 dal Patto per la salute 2014-2016, che riguarda
la spesa sanitaria regionale nel suo complesso e non singole specifiche
attività oggetto di tagli lineari. Ed infatti, se le misure contenute negli
articoli da 9-bis a 9-sexies del provvedimento in esame sono
finalizzate a conseguire i concordati risparmi di spesa, il comma 2
consentirebbe alle Regioni di conseguire l’obiettivo di risparmio anche
adottando misure alternative.
Le Regioni avrebbero pertanto la possibilità di
provvedere, in piena autonomia, a differenziare le misure necessarie, non
essendo previsti strumenti e modalità specifiche per il perseguimento degli
obiettivi di contenimento della spesa.
In relazione alla asserita mancanza di un limite
temporale definito di durata della misura restrittiva, osserva, al contrario,
il Presidente del Consiglio dei ministri che la misura prevede la riduzione del
livello del finanziamento dello Stato al Servizio sanitario nazionale per il
2015. Anche se il Patto per la salute ha durata triennale, esso potrebbe quindi
essere modificato, di intesa tra Stato e Regioni, di anno in anno: spetterà
quindi alla legge di stabilità 2016, sentite le Regioni in Conferenza
Stato-Regioni e acquisitane l’intesa, definire se il livello di contributo
dello Stato sarà pari a quello previsto nel Piano delle salute per il 2016 o se
sarà modificato (ed in quale misura).
Quanto alla eccepita violazione dell’art. 77 Cost.,
evidenzia la difesa erariale che, nelle premesse del d.l. n. 78 del 2015, viene
esplicitata «la necessità e urgenza di specificare ed assicurare il contributo
alla finanza pubblica da parte degli enti territoriali, come sancito
nell’Intesa raggiunta in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo
Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano nella riunione
del 26 febbraio 2015». A tale ambito andrebbe, pertanto, ricondotta la
normativa in materia di razionalizzazione della spesa sanitaria, seppur
ampiamente modificata in sede parlamentare e contenuta agli articoli 9-bis e seguenti del d.l. n. 78 del 2015.
Secondo la Presidenza del Consiglio dei ministri
anche l’ulteriore motivo di ricorso – con il quale si sostiene che le norme impugnate
inciderebbero in misura significativa sull’esercizio in corso, imponendo una
revisione e correzione di impegni già assunti con grave nocumento per
l’organizzazione del servizio sanitario –
sarebbe infondato, alla luce della già esposta considerazione circa l’avvenuta
intesa tra Stato e Regioni.
Osserva inoltre che i richiamati artt. da 9-bis a 9-sexies del d.l. n. 78 del 2015 sarebbero
finalizzati a conseguire consistenti risparmi in ambito sanitario così come
concordati tra Stato e Regioni (sono richiamate le intesa del 26 febbraio 2015
e del 2 luglio 2015), al fine di salvaguardare i livelli essenziali di assistenza.
Rammenta che le regole e le modalità volte alla
razionalizzazione e riduzione della spesa sanitaria e alla riduzione delle
spese territoriali costituiscono piena attuazione del coordinamento della
finanza pubblica, di cui agli artt. 117, comma 3, e 119, comma 2, Cost.
Infine, osserva la difesa erariale che l’ultimo
motivo di ricorso sarebbe in realtà diretto contro l’art. l, comma 398, lettera
c), della legge n. 190 del 2014,
sicché sarebbe chiaramente inammissibile in quanto la presunta lesività di tale
disposizione dovrebbe farsi risalire al momento della sua entrata in vigore. Ne
conseguirebbe che l’omessa impugnazione di tale disposizione non consentirebbe
in questa sede di poter formulare la censura dedotta.
6.– Sia la Regione Liguria che la Presidenza del Consiglio dei
ministri hanno presentato memorie in vista dell’udienza pubblica.
6.1.– Espone la ricorrente che
in dipendenza della ripartizione del "taglio” censurato, la Regione Liguria
avrebbe subito una consistente riduzione della contribuzione statale al SSN,
dettagliandone le conseguenze subite sul Servizio sanitario regionale (SSR).
Su tale taglio si sarebbe poi successivamente
innestata la legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità
2016)», che, all’art l, comma 568, ha previsto che «[i]l livello del
finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard cui concorre lo
Stato, come stabilito dall’articolo l, commi 167 e 556, della legge 23 dicembre
2014, n. 190, e dall’articolo 9-septies,
comma 1, del decreto-legge 19 giugno 2015, n. 78, convertito, con
modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 125, è rideterminato, per l’anno
2016, in 111.000 milioni di euro […]».
Tale somma è stata ripartita tra le Regioni con
l’intesa n. 62 della Conferenza Stato-Regioni del 14 aprile 2016.
Conseguentemente, la riduzione complessiva per l’anno
2016 del fondo sanitario nazionale, rispetto a quanto originariamente previsto
dalla legge n. l90 del 2014, ammonta a 4.444 milioni di euro e tanto
comporterebbe per la Regione Liguria una contrazione di 124 milioni di euro,
sulla base della quota di accesso al fondo di cui alla citata intesa Conferenza
Stato Regioni n. 62 del 2016.
Pertanto, tale riduzione verrebbe ad incidere in modo
diretto su tutte e tre le macro aree di assistenza sanitaria, riconducibili ai
LEA.
Secondo la Regione, inoltre, i nuovi LEA approvati
con la nuova intesa tra Stato e Regioni del 7 settembre 2016 avente ad oggetto
«Intesa, ai sensi dell’art. 115, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, sulla proposta
del Ministero della salute di deliberazione CIPE concernente il riparto tra le
Regioni delle disponibilità finanziarie per il Servizio sanitario nazionale per
l’anno 2016», comporteranno maggiori costi per il SSN, stimati in circa 880
milioni di euro. Sostiene difatti la ricorrente che saranno destinati ad
aumentare i costi relativi all’assistenza distrettuale, in particolare per
l’inserimento di nuove protesi, e per la prevenzione, a causa dell’introduzione
di nuovi vaccini e di nuovi screening.
Il taglio disposto dalla previsione censurata al
comma l sarebbe destinato dunque a interferire non soltanto con l’autonomia
finanziaria delle Regioni e con l’esercizio delle rispettive competenze
legislative ed amministrative, ma anche con l’effettiva capacità del sistema
sanitario di assicurare un adeguato livello di tutela del fondamentale diritto
alla salute presidiato dall’art. 32 Cost.
Contesta inoltre la ricorrente quanto affermato dal
Presidente del Consiglio dei ministri, secondo cui la Regione, nelle intese
richiamate, avrebbe mostrato di accettare e condividere la scelta fatta dallo
Stato, in quanto la stessa non avrebbe approvato le previsioni contenute in
esse.
Evidenzia la ricorrente che il punto focale della
lamentata violazione del principio di leale collaborazione risiederebbe nel
fatto che il taglio alla spesa sanitaria è stato disposto, con effetto
immediato e destinato ad incidere sull’esercizio in corso, prima che si fosse
dato avvio alla fase attuativa dei meccanismi di risparmio di spesa individuati
dai citati artt. da 9-bis a 9-sexies. Il sistema esitato dalla
Conferenza Stato-Regioni aveva previsto, invece, una attuazione progressiva del
quadro di risparmio di spesa sanitaria.
Diversamente, si prosegue, tale programma sarebbe
stato invece radicalmente disatteso dallo Stato con l’art. 9-septies del d.l.
n. 78 del 2015, che avrebbe dato corso al taglio lineare contestato, con efficacia
immediata, svuotando di significato il paradigma concertativo delineato dagli
artt. da 9-bis a 9-sexies.
Con riguardo alla mancanza di un termine fissato per
la riduzione del finanziamento, osserva la Regione Liguria che le
considerazioni svolte dall’Avvocatura dello Stato tenderebbero a confermare la
lettura costituzionalmente orientata della norma in questione già proposta nel
ricorso introduttivo del presente giudizio di costituzionalità.
Lamenta che il taglio "lineare” non rispetta il
criterio fondamentale per la razionalizzazione e il contenimento della spesa
sanitaria, oltre che di riparto del fondo sanitario nazionale, quello dei costi
e dei fabbisogni standard, calcolati nella prospettiva di assicurare il
conseguimento dei livelli essenziali di assistenza.
Nondimeno, secondo la medesima Regione, la
pretermissione dei costi standard potrebbe ritenersi giustificata dal fatto che
le norme impugnate avrebbero recepito quanto deciso nelle intese, in quanto la
medesima non avrebbe aderito alle proposte formulate all’esito delle richiamate
conferenze, e comunque osserva che, posto che i "costi standard”
costituirebbero un riferimento oggettivo per la razionalizzazione della spesa
pubblica, di applicazione generale e di fonte normativa (vengono richiamati gli
artt. 2, comma 6, e 8, della legge n. 42 del 2009 e gli artt. da 25 a 30 del
d.lgs. n. 68 del 2011), essi non potrebbero essere superabili in sede di intesa
Stato-Regioni.
Infine, sebbene la Regione Liguria affermi di essere
a conoscenza che questa Corte, con le sentenze n. 65 del
2016 e n.
141 del 2016, ha dichiarato l’infondatezza della questione di legittimità
costituzionale promossa con riferimento all’art. l, comma 398, lettera c), della legge n. 190 del 2014,
intervenuto a modificare l’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, rileva
che il vaglio della citata disposizione passi attraverso l’impugnativa dell’art.
9-septies del d.l.
n. 78 del 2015.
Il fulcro della censura e dell’impugnazione
resterebbe quindi il taglio lineare alla spesa sanitaria operata dal citato
art. 9-septies in sé considerato e
con riferimento alla modalità con cui si realizza, ossia l’imputazione dello
stesso su ogni singola Regione, in applicazione del meccanismo sostanzialmente
perequativo introdotto dall’art. l, comma 398, lettera c), della legge n. 190 del 2014, nel comma 6 dell’art. 46 del d.l.
n. 66 del 2014, ed operante nella fattispecie in forza del richiamo realizzato
dall’art. 9-septies, comma l, del
d.l. n. 78 del 2015.
6.2.– Il Presidente del
Consiglio dei ministri, nella memoria depositata, rammenta che la disciplina
relativa al livello del finanziamento del SSN è stata condivisa negli ultimi
quindici anni tra Stato e Regioni, che hanno sottoscritto specifici accordi
diretti a definire, nel medio periodo, un quadro finanziario di riferimento
coerente con l’erogazione dei LEA.
Laddove, per esigenze di finanza pubblica, è stato
necessario modificare quanto condiviso in sede pattizia, il Governo, in accordo
con le Regioni, non si sarebbe limitato a rideterminare le risorse finanziarie,
ma avrebbe corrispondentemente fornito alle stesse Regioni gli strumenti idonei
al contenimento della spesa, sempre nel rispetto dell’erogazione dei LEA, come
sarebbe dimostrato dall’approvazione del Patto per la salute 2014-2016,
laddove, all’articolo l, si prevedeva il livello concordato di finanziamento
del SSN, salvo eventuali modifiche che si rendessero necessarie in relazione al
conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica e a variazioni del quadro
macroeconomico.
Tanto dimostrerebbe, secondo lo Stato, che era già
espressamente previsto che gli importi definiti nel Patto potessero essere soggetti
a revisione. In proposito evidenzia che il Patto per la salute è stato recepito
dall’art. l, comma 556, della legge n. 190 del 2014. L’art. l, comma 398, della
medesima legge prevedeva che le Regioni a statuto ordinario dovessero fornire
un contributo alla finanza pubblica pari a 3.452 milioni di euro annui (esteso
anche alle Regioni a statuto speciale nei commi successivi, per complessivi
4.000 milioni di euro circa) e stabiliva che gli ambiti di spesa sui quali far
gravare il predetto contributo alla finanza pubblica fossero proposti dalle
stesse Regioni e recepiti successivamente attraverso una intesa. In attuazione
della citata norma, le Regioni hanno autonomamente stabilito che, a valere sui
suddetti 4.000 milioni di euro, il contributo del settore sanitario dovesse
essere pari a 2.352 milioni di euro, di cui 2.000 milioni di euro a carico
delle Regioni a statuto ordinario. Tale decisione è stata recepita attraverso
l’intesa del 26.2.2015. La stessa intesa (al punto «E») ha altresì rinviato ad
un successivo accordo l’individuazione di specifiche misure di
razionalizzazione della spesa sanitaria, tali da garantire economie non
inferiori ai predetti 2.352 milioni di euro, prevedendo peraltro la possibilità
per le Regioni di attuare anche misure alternative di contenimento dei costi,
sempre all’interno del settore sanitario, nel rispetto degli equilibri
programmati; la successiva intesa, contenente le misure di razionalizzazione
della spesa, è stata raggiunta il 2 luglio 2015 e tali misure sono state
recepite dalla legge n. 125 del 2015, di conversione del d.l. n. 78 del 2015,
impugnato dalla ricorrente con riferimento all’art. 9-septies, commi l e 2.
Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri,
alla luce dei provvedimenti sopra riportati, apparirebbe quindi evidente che
l’entità della riduzione del finanziamento del SSN sia stata individuata dalle
Regioni (e non dal Governo), le quali l’avrebbero valutata sostenibile.
Precisa inoltre la difesa erariale che l’importo
della riduzione è stato definito ad inizio del 2015, al fine di consentire
tempestivamente alle stesse Regioni una programmazione coerente con le risorse
rideterminate. Le stesse Regioni, infatti, hanno espressamente sostenuto (punto
G.2 dell’intesa del 2 luglio 2015) di avere posto in essere sin dal mese di
febbraio misure di «contenimento ed efficientamento della dinamica della spesa
dei propri SSR».
Considerato in
diritto
1.– Con ricorso iscritto al reg. ric. n. 97 del 2015,
la Regione Liguria ha impugnato l’art 9-septies,
commi 1 e 2, del decreto-legge 19 giugno 2015, n. 78 (Disposizioni urgenti in
materia di enti territoriali. Disposizioni per garantire la continuità dei
dispositivi di sicurezza e di controllo del territorio. Razionalizzazione delle
spese del Servizio sanitario nazionale nonché norme in materia di rifiuti e di
emissioni industriali), come convertito, con modificazioni, dalla legge 6
agosto 2015, n. 125, in riferimento agli artt. 3, 32, 77, 97, 117, secondo e
terzo comma, 118, 119 – anche in relazione all’art. 1, comma 398, lettera c), della legge 23 dicembre 2014, n.
190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato (legge di stabilità 2015)» – e 120 della Costituzione, nonché al
principio di leale collaborazione.
Con ricorso iscritto al reg. ric. n. 95 del 2015 la
Regione Veneto ha impugnato, tra gli altri, gli artt. 9-bis; 9-ter, commi l, 2,
3, 4, 5, 8 e 9; 9-quater, commi l, 2,
4, 5, 6 e 7; 9-septies, commi l e 2,
del d.l. n. 78 del 2015, in riferimento agli artt. 3, 5, 32, 117, terzo e
quarto comma, 118 e 119 Cost., al principio di leale collaborazione di cui
all’art.120 Cost., nonché all’art. 5, lettera g), della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione
del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale).
1.1.– Secondo la Regione Liguria il comma l dell’art. 9-septies del d.l. n. 78 del 2015
ridurrebbe la spesa sanitaria, a partire dall’esercizio in corso, in una misura
fissa (2.352 milioni di euro) e in via definitiva, prevedendo l’applicazione
annuale del "taglio” di spesa senza limite di tempo.
La Regione Liguria subirebbe dalla disposizione
censurata una riduzione di circa sessantacinque milioni di euro, che non
troverebbe corrispondenza nei risparmi presumibilmente conseguibili nel
medesimo periodo di applicazione della prescritta riduzione, e ciò lederebbe
contestualmente il principio di ragionevolezza, il diritto alla salute degli
utenti del servizio sanitario regionale e l’autonomia regionale, conculcata
dall’impossibilità di organizzare in modo appropriato detto servizio.
Peraltro, la disciplina impugnata sarebbe attuativa
dell’intesa del 2 luglio 2015, alla quale la Regione Liguria non
avrebbe partecipato. Di conseguenza, non avrebbe assunto alcun obbligo
applicativo della predetta intesa, raggiunta in sede di Conferenza per i
rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano
(da ora, anche Conferenza Stato-Regioni).
Le disposizioni impugnate sarebbero poi in contrasto
con l’art. 77 Cost. in ragione della loro eterogeneità rispetto al contenuto
originario del d.l. n. 78 del 2015. Sarebbe evidente il «difetto di omogeneità,
e quindi di nesso funzionale, tra le disposizioni del decreto-legge e quelle
impugnate, introdotte dalla legge di conversione». Secondo la ricorrente, la
ridondanza della violazione dell’art. 77 Cost. sulla propria sfera di
attribuzioni costituzionali sarebbe patente, trattandosi di un
"maxiemendamento” diretto ad incidere con effetto immediato ed a tempo
indeterminato sull’autonomia finanziaria e sulle competenze in materia di
tutela della salute e di organizzazione sanitaria della Regione Liguria.
L’art. 9-septies,
commi l e 2, del d.l. n. 78 del 2015 violerebbe gli artt. 3, 32, 97, 117,
secondo e terzo comma, 118, 119, 120 Cost. ed il principio di leale
collaborazione anche sotto il profilo della lesione dell’autonomia finanziaria
della ricorrente, essendo in contrasto col carattere di temporaneità nella
disciplina statale di coordinamento della finanza pubblica e di contenimento della
spesa regionale. Ciò in quanto le disposizioni impugnate introdurrebbero una
misura di riduzione del finanziamento del Servizio sanitario nazionale (SSN)
senza limite di tempo «a decorrere dal 2015».
Le disposizioni impugnate sarebbero inoltre in contrasto
con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., in quanto – non
presentando un termine finale di applicazione e non avendo i caratteri di una
disciplina transitoria – lederebbero in via definitiva e strutturale
l’autonomia della Regione.
L’art. 9-septies,
commi 1 e 2, del d.l. n. 78 del 2015 comporterebbe altresì la violazione degli
artt. 3, 117, 119, 120 Cost. e del principio di leale collaborazione, in
relazione alla legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di
federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione), al
decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68 (Disposizioni in materia di autonomia
di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di
determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario) ed al
Patto per la salute 2014 - 2016. Infatti, la legge n. 42 del 2009, in quanto
attuativa dell’art. 119 Cost. – in particolare sotto il profilo dell’autonomia
finanziaria e della garanzia dei principi di solidarietà e di coesione sociale
– in maniera da sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il
criterio della spesa storica, prevederebbe agli artt.
2, comma 6, e 8, attraverso gli artt. da 25 a 30 del d.lgs. n. 68 del 2011, il
criterio fondamentale – per la razionalizzazione ed il contenimento della spesa
sanitaria ed il riparto del fondo sanitario nazionale – dei costi e dei
fabbisogni standard. La previsione di un taglio lineare, quale quello disposto
dalla disposizione censurata, sarebbe assolutamente irragionevole, in quanto
prescinderebbe completamente non soltanto dalla considerazione dell’adeguatezza
delle risorse rispetto al conseguimento degli obiettivi prestabiliti, ma anche
dalle regole di finanziamento adottate in attuazione dei predetti artt. 117 e
119 Cost.
Inoltre, i livelli essenziali di assistenza (LEA)
resterebbero invariati mentre le risorse disponibili per il loro fabbisogno
complessivo sarebbero drasticamente diminuite per effetto della dedotta
riduzione. La disciplina contenuta nell’art. 9-septies del d.l. n. 78 del 2015 sarebbe
improntata ad una logica che prescinderebbe totalmente dal percorso di
convergenza verso i costi ed i fabbisogni standard sanitari, proponendo un
modello di mero taglio lineare del finanziamento del SSN. Ne risulterebbe,
sotto gli evocati profili, la violazione dell’art. 120, secondo comma, Cost. e
del principio di leale collaborazione.
Il meccanismo legislativo censurato, inoltre,
disporrebbe che i risparmi attesi o presunti derivanti dall’applicazione delle
disposizioni di cui agli artt. da 9-bis
a 9-sexies del medesimo decreto,
anziché essere destinati alle Regioni per finalità sanitarie, siano acquisiti
al bilancio statale, in evidente violazione del Patto per la salute 2014-2016 e
del principio di leale collaborazione.
La ricorrente deduce poi l’illegittimità
costituzionale dell’art. 9-septies
del d.l. n. 78 del 2015 in
riferimento agli artt. 3, 97, 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 della
Costituzione e al principio di leale collaborazione. Incidendo
retroattivamente sugli impegni di spesa già assunti dalla Regione Liguria,
detta disposizione produrrebbe una irragionevole alterazione della
programmazione di spesa già operata e costringerebbe la ricorrente ad
introdurre correttivi in corso di anno per tentare di riallineare la
programmazione della spesa sanitaria alla riduzione retroattiva del
finanziamento statale. La disposizione censurata produrrebbe una lesione del
principio di affidamento delle Regioni e del principio di proporzionalità
(artt. 3 e 97 Cost.) ed inciderebbe illegittimamente sulle competenze
legislative ed amministrative delle Regioni in materia di sanità (artt. 117,
terzo e quarto comma, e 118 Cost.), compromettendo irragionevolmente
l’autonomia finanziaria loro riconosciuta dall’art. 119 Cost.
Infine, la Regione Liguria ha impugnato la medesima
disposizione in riferimento all’art. 119 Cost., in relazione all’art. 1, comma
398, lettera c), della legge n. 190
del 2014. Quest’ultima norma, modificando il comma 6 dell’art. 46 del decreto-legge
24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia
sociale), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89,
stabilisce che, in caso di assenza di intesa in sede di Conferenza permanente
per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di
Bolzano entro il 31 gennaio 2015, i tagli vadano «assegnati ad ambiti di spesa
ed attribuiti alle singole regioni e Province autonome di Trento e Bolzano,
tenendo anche conto del Pil e della popolazione residente». Il criterio
prefigurato dall’art. 1, comma 398, lettera c),
della legge n. 190 del 2014 non troverebbe alcuna copertura costituzionale
nell’ambito dell’art. 119 Cost.
1.2.– La Regione Veneto premette che gli artt. 9-bis, 9-ter, 9-quater e 9-septies, del d.l.
n. 78 del 2015, introdurrebbero una serie di tagli lineari alla spesa
sanitaria, senza alcuna considerazione né dei costi e dei fabbisogni standard,
di cui all’art. 8 della legge n. 42 del 2009 e agli artt. da 25 a 32 del d.lgs.
n. 68 del 2011, né dei livelli di spesa delle Regioni virtuose e non terrebbero
conto della forte disomogeneità del sistema della sanità regionale italiana,
provocando, in tal modo, lo smantellamento del welfare sanitario.
Inoltre, secondo la ricorrente, le disposizioni
impugnate manterrebbero a carico delle Regioni l’obbligo di garantire i LEA con
un finanziamento notevolmente e permanentemente ridotto. Le norme impugnate si
porrebbero poi in contrasto anche con l’art. 5, lettera g), della legge cost. n. l del 2012 e con l’art. 11 (Concorso dello
Stato al finanziamento dei livelli essenziali e delle funzioni fondamentali
nelle fasi avverse del ciclo o al verificarsi di eventi eccezionali) della
legge 24 dicembre 2012, n. 243 (Disposizioni per l’attuazione del principio del
pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della
Costituzione), i quali prevedono l’impegno dello Stato ad assicurare i livelli
essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti
civili e sociali riconosciuti come imprescindibile livello di garanzia dei
principi fondamentali di eguaglianza e solidarietà.
Tutto ciò produrrebbe una violazione dell’art. 32 Cost. e
ridonderebbe sull’autonomia costituzionale garantita alle Regioni dagli artt.
117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost.
La ricorrente sostiene, altresì, che lo Stato, non
assumendosi la responsabilità di una riduzione dei livelli essenziali di
assistenza a seguito della riduzione delle risorse disponibili, verrebbe meno
al corretto esercizio della funzione di coordinamento della finanza pubblica di
cui all’art. 117, terzo comma, Cost.
Anche per la Regione Veneto l’art. 9-bis del d.l.
n. 78 del 2015, nel rinviare all’applicazione dei successivi artt. da 9-ter a 9-octies, sancirebbe nei confronti della ricorrente le prescrizioni
concordate in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le
Regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano del 26 febbraio 2015 e
del 2 luglio 2015, nell’ambito della quale essa non avrebbe espresso il proprio
consenso, al contrario instaurando un contenzioso costituzionale.
L’art. 9-ter del d.l. n. 78 del 2015 sarebbe in contrasto anche con i
principi di ragionevolezza e proporzionalità e con il principio di tutela della
salute di cui all’art. 32 Cost., nella parte in cui prevede la rinegoziazione
dei contratti per l’acquisto dei beni e servizi unitari, al fine di produrre
una riduzione di spesa nonché del valore complessivo dei contratti medesimi. In
tal modo, attraverso un taglio lineare delle forniture e delle prestazioni ad
esse collegate, verrebbe messa a rischio non solo la garanzia dei servizi
sanitari, ma anche l’autonomia della Regione che ne organizza la
somministrazione agli utenti, con pregiudizio per la garanzia e la qualità dei
servizi sanitari.
Tale norma sarebbe altresì irragionevole, poiché prevederebbe una riduzione indiscriminata anche in quelle
Regioni in cui i servizi presentano un elevato livello di efficienza in
relazione ai costi sostenuti.
Secondo la ricorrente, tali vizi di costituzionalità
ridonderebbero sulle competenze regionali di cui agli artt. 117, terzo e quarto
comma, 118 e 119 Cost., dal momento che inciderebbero sulle attribuzioni
regionali in materia di organizzazione sanitaria, anche autonomamente
considerate.
Il medesimo art. 9-ter contrasterebbe altresì con il principio di proporzionalità
sotto il profilo del rapporto tra mezzi e fini, e con il principio di buon
andamento della pubblica amministrazione di cui agli artt. 3 e 97 Cost., la cui
lesione si rifletterebbe sulle competenze costituzionali garantite alla
Regione. Verrebbe inoltre violato il principio di leale collaborazione di cui
all’art. 120 Cost., dal momento che nessuna forma di intesa sarebbe prevista al
riguardo.
Alle censure rivolte ai commi precedentemente
richiamati sono collegate quelle rivolte al comma 7 dell’art. 9-quater.
Quest’ultimo, nel prescrivere che «[l]e regioni o gli
enti del Servizio sanitario nazionale ridefiniscono i tetti di spesa annui
degli erogatori privati accreditati delle prestazioni di specialistica
ambulatoriale interessati dall’introduzione delle condizioni e indicazioni di
cui al presente articolo e stipulano o rinegoziano i relativi contratti. Per
l’anno 2015 le regioni o gli enti del Servizio sanitario nazionale rideterminano
il valore degli stessi contratti in modo da ridurre la spesa per l’assistenza
specialistica ambulatoriale complessiva annua da privato accreditato, di almeno
l’1 per cento del valore complessivo della relativa spesa consuntivata per
l’anno 2014», detterebbe norme di dettaglio nella
materia di potestà concorrente «tutela della salute», in tal modo ponendosi in
contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost.
Inoltre, essendo le condizioni di erogabilità
definite con un mero decreto ministeriale – sebbene adottato previa intesa in
sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le
province autonome di Trento e di Bolzano – «che non trova a monte alcuna
definizione di effettivi principi fondamentali» all’interno della norma impugnata,
risulterebbe violato l’art. 117, terzo comma, Cost.
Secondo la ricorrente, la norma censurata, stabilendo
un obbligo di riduzione della spesa in modo generale ed indiscriminato, senza
alcuna istruttoria e senza alcun riferimento a standard di efficienza,
contrasterebbe con i principi di ragionevolezza e proporzionalità di cui
all’art. 3, e con gli artt. 5, 117, secondo e terzo comma, Cost., quest’ultimo
con riguardo al corretto esercizio della funzione statale di coordinamento
della finanza pubblica e alla garanzia dei LEA; risulterebbe lesiva della
competenza regionale in materia di tutela della salute; sarebbe in contrasto
con gli artt. 118 e 119 Cost. e con il principio di buon andamento della
pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost., la cui violazione
ridonderebbe sulle competenze costituzionali garantite alla Regione in materia
di organizzazione sanitaria, che risulterebbero indebitamente compromesse.
Sarebbe inoltre violato il principio di leale collaborazione di cui all’art.
120 Cost., dal momento che nessuna forma di intesa sarebbe prevista al
riguardo.
Secondo la ricorrente, l’art.
9-septies, commi 1 e 2,
contrasterebbe con l’art. 117, secondo comma, Cost., anche in relazione
all’art. 8 della legge n. 42 del 2009 e agli artt. da 25 a 32 del d.lgs. n. 68
del 2011. La norma, oltre a parificare irragionevolmente realtà operative
efficienti e realtà meno efficienti, pregiudicherebbe le competenze regionali
anche sotto il profilo della garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni
(LEP).
La rigidità e la sproporzione dei
tagli lineari pregiudicherebbe anche il principio di buon andamento di cui
all’art. 97 Cost., poiché verrebbe meno l’adeguato rapporto tra mezzi e
finalità impiegate.
Per tale motivo, l’art. 9-septies, commi 1 e 2, del d.l. n. 78 del 2015 contrasterebbe con
gli artt. 3, 5, 32, 97 Cost., ridondando in una violazione delle competenze
regionali di cui agli articoli 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119
Cost., anche autonomamente considerati, e del principio di leale collaborazione
di cui all’art. 120 Cost.
I commi 1, 2, 4, 5 e 6 dell’art. 9-quater del d.l.
n. 78 del 2015 sono stati impugnati in riferimento agli artt. 3, 5, 32, 97,
117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost., nonché al principio di
leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.
Le concatenate censure possono essere
così riassunte: a) l’art. 9-quater,
nel prevedere, al comma l, che con decreto del Ministro della salute, previa
intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni
e le province autonome di Trento e di Bolzano, siano individuate le condizioni
di erogabilità e le indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle
prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale e nel disporre, al comma
2, che le prestazioni erogate al di fuori delle condizioni di erogabilità
previste dal decreto ministeriale di cui al comma l siano a totale carico
dell’assistito, creerebbe un sistema dirigistico di tipo burocratico lesivo
dell’esercizio della professione medica e dell’autonomia organizzativa della
Regione; b) il comma 4 del medesimo articolo, nello stabilire che gli enti del
SSN effettuano i controlli necessari ad assicurare che la prescrizione delle
prestazioni sia conforme alle condizioni ed alle indicazioni del suddetto decreto
ministeriale, ed il successivo comma 5, nel sancire che, in caso di
comportamento prescrittivo non conforme alle condizioni ed alle indicazioni di
cui al decreto ministeriale, l’ente adotti nei confronti del medico prescrittore una riduzione del trattamento economico
accessorio e nei confronti del medico convenzionato con il SSN, una riduzione
delle quote variabili dell’accordo collettivo nazionale di lavoro e
dell’accordo integrativo regionale, condizionerebbero il libero esercizio della
professione medica, pregiudicando il servizio e l’autonomia regionale; c) il
comma 6 dell’art. 9-quater, nel
prescrivere che la mancata adozione da parte dell’ente del SSN dei
provvedimenti di competenza nei confronti del medico prescrittore
comporta la responsabilità del direttore generale ed è valutata ai fini della
verifica del rispetto degli obiettivi assegnati al medesimo dalla Regione,
aggraverebbe in modo indiretto tale condizionamento.
Da un lato, tali disposizioni
istituirebbero un regime gravemente sanzionatorio per i medici del servizio
sanitario regionale; dall’altro, assoggetterebbero il personale sanitario ad
una condizione di grande incertezza.
In questo contesto, la modalità
adottata dalla norma impugnata per risolvere il problema dei costi generati
dalla cosiddetta "medicina difensiva” sarebbe gravemente lesiva dei principi di
proporzionalità e ragionevolezza, rimettendo ad un decreto ministeriale la
definizione di ciò che risulta appropriato o meno; sostituendo le valutazioni
del medico «con la complicata interpretazione di un sistema burocratico
generalizzato»; lasciando del tutto esposti i medici del Servizio sanitario
regionale alle sanzioni dell’amministrazione regionale o a quelle
giurisdizionali. Ne deriverebbe una grave alterazione del rapporto tra medico e
paziente ed il sistema sarebbe esposto al rischio di pregiudicare il diritto
costituzionale alla salute, sia in termini di efficacia nei percorsi di cura,
sia in termini di condizionamento dell’autonomia organizzativa della Regione e
del buon andamento del Servizio sanitario regionale.
1.3.– Si è costituito in entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei
ministri, deducendo l’inammissibilità o comunque l’infondatezza di entrambi i
ricorsi.
Quanto alla eccepita violazione dell’art. 77 Cost., ha
evidenziato che nella premessa del d.l. n. 78 del 2015 viene esplicitata «la
necessità e urgenza di specificare ed assicurare il contributo alla finanza
pubblica da parte degli enti territoriali, come sancito nell’Intesa raggiunta
in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le
province autonome di Trento e di Bolzano nella riunione del 26 febbraio 2015».
A tale ambito dovrebbe, pertanto, essere ricondotta
la normativa in materia, contenuta agli artt. 9-bis e seguenti, di razionalizzazione della spesa sanitaria, seppur
ampiamente modificata in sede parlamentare.
Il resistente ha poi affermato che la riduzione delle
risorse assegnate alle Regioni per il 2015 sarebbe stata oggetto di intese
sancite tra Stato e Regioni nelle Conferenze del 26 febbraio e del 2 luglio
2015. Non potrebbe assumere rilievo la circostanza che le Regioni Liguria e
Veneto non abbiano «approvato le previsioni» contenute nell’intesa, dal momento
che essa sarebbe stata raggiunta a seguito di una scelta consapevole e
ragionata tra le diverse alternative possibili, specificamente individuate
dallo Stato. Non sarebbe dunque possibile sostenere che le disposizioni
impugnate non siano espressione di leale collaborazione da parte dello Stato.
Con le intese del 26 febbraio e del 2 luglio 2015, le Regioni avrebbero,
infatti, mostrato di accettare e condividere la scelta statale, facendosi
carico della necessità di contenere la spesa pubblica, anche mediante la
riduzione delle risorse previste, per l’anno 2015, dal Piano per la salute.
Le Regioni avrebbero quindi la possibilità di
adottare, in piena autonomia, misure differenziate, non essendo stabiliti dalla
norma impugnata strumenti e modalità specifiche per il perseguimento degli
obiettivi di contenimento della spesa.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, in
relazione all’asserita mancanza di un limite temporale definito di durata della
misura restrittiva, ha osservato che la riduzione del livello del finanziamento
dello Stato al SSN riguarderebbe soltanto l’esercizio 2015.
Le regole e le modalità volte alla razionalizzazione
e riduzione della spesa sanitaria, nonché alla riduzione delle spese degli enti
territoriali costituirebbero, secondo l’Avvocatura generale, norme di principio
del coordinamento della finanza pubblica, di cui agli artt. 117, terzo comma, e
119, secondo comma, Cost.
Infine, secondo la difesa erariale, l’ultimo motivo
di ricorso afferente ai tagli alla spesa sanitaria sarebbe in realtà diretto
contro l’art. l, comma 398, lettera c),
della legge n. 190 del 2014 – e per questo motivo inammissibile – atteso che il
preteso pregiudizio sarebbe già operante nel momento di entrata in vigore della
norma formalmente censurata. L’omessa impugnazione della disposizione
antecedente non consentirebbe in questa sede di poter proporre questione di
legittimità costituzionale, che sarebbe in ogni caso infondata.
Con riguardo all’asserita illegittimità
costituzionale dell’art. 9-quater del
d.l. n. 78 del 2015, la difesa erariale sostiene che
esso attribuirebbe al Ministero della salute il compito di individuare con
decreto le condizioni di erogabilità e di appropriatezza delle prestazioni di
assistenza specialistica ambulatoriale, sentita la Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano.
Tali condizioni non sarebbero strettamente vincolanti
per il medico, il quale potrebbe comunque adottare un comportamento
prescrittivo non conforme a quanto previsto dal decreto ministeriale, qualora
sussistessero giustificazioni esaurienti e soddisfacenti con riferimento al
caso trattato ed alle specifiche esigenze di cura necessarie.
Nel caso in questione, la normativa esaminata darebbe
attuazione al principio fondamentale di adottare criteri adeguati a contenere
la spesa sanitaria anche sotto il profilo di eventuali prestazioni mediche non
necessarie. Principio che sarebbe rispettato proprio perché fondato sull’art.
119 Cost.
Secondo la difesa erariale le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 9-quater,
comma 7, del d.l. n. 78 del 2015 sarebbero parimenti infondate.
2.– Stante la connessione esistente tra i predetti
ricorsi, i relativi giudizi possono essere riuniti per essere decisi con
un’unica pronuncia avente ad oggetto esclusivamente le questioni di legittimità
costituzionale delle disposizioni legislative sopra indicate, essendo riservata
ad altre decisioni la valutazione delle restanti questioni proposte dalla
Regione Veneto con il ricorso n. 95 del 2015.
3.– Occorre preliminarmente esaminare l’eccezione di
inammissibilità dei ricorsi sollevata dal Presidente del Consiglio dei
ministri, il quale ritiene che la partecipazione delle Regioni ricorrenti alla
Conferenza unificata avrebbe determinato una sorta di acquiescenza alle
decisioni maturate in quella sede. Indipendentemente dal fatto in contestazione
tra le parti – riguardante rispettivamente le modalità di espressione del
dissenso (Regione Veneto) e la partecipazione alla Conferenza che ha portato al
perfezionamento dell’intesa (Regione Liguria) – l’eccezione non può essere
accolta.
È infatti costante orientamento di questa Corte –
fermo restando che l’intesa tra Stato e Regioni si è perfezionata in modo
corretto, indipendentemente dalle controverse modalità di partecipazione delle
ricorrenti – che «l’istituto dell’acquiescenza non è applicabile nel giudizio
di legittimità costituzionale in via principale (ex plurimis, sentenze n. 215
e n. 124 del
2015, n. 139
del 2013, n.
71 del 2012 e n.
187 del 2011)» (sentenza n. 231 del
2016) .
4.– Le questioni di legittimità costituzionale degli
artt. 9-bis; 9-ter, commi l, lettere a)
e b), 2, 3, 4, 5, 8 e 9; 9-quater, commi l, 2, 4, 5, 6 e 7; 9-septies, commi l e 2, promosse dalla
Regione Veneto in riferimento agli artt. 5, 117, quarto comma, 118 e 119 Cost.,
sono inammissibili, in quanto esse non sviluppano alcuna autonoma
argomentazione a sostegno dell’evocazione di tali parametri, limitandosi a
richiamarli e svolgendo in proposito riferimenti assolutamente generici (in
senso analogo, sentenza
n. 141 del 2016).
Sono altresì inammissibili le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 9-septies,
commi 1 e 2, del d.l. n. 78 del 2015, promosse
dalla Regione Liguria in riferimento agli artt. 118 e 119 Cost., in relazione
all’art. 1, comma 398, lettera c),
della legge n. 190 del 2014. Invero, la violazione del primo parametro non è
motivata, mentre l’evocazione dell’art. 1, comma 398, lettera c), della legge n. 190 del 2014, seppur
formulata come richiamo a parametro interposto, risulta nella sostanza una
censura diretta a tale norma ed, in quanto tale, tardiva.
5.– I ricorsi devono essere esaminati alla stregua
delle motivazioni che si richiamano ai parametri della competenza legislativa e
di quelle che, invece, fanno riferimento a precetti costituzionali estranei al
Titolo V della Costituzione. Sotto il profilo dell’ammissibilità, lo scrutinio
dovrà limitarsi alla prospettata potenzialità lesiva delle disposizioni
impugnate sulle prerogative regionali, mentre, ove detta verifica avesse esito
positivo, sarà l’esame nel merito delle censure ad accertare l’effettiva
violazione del precetto costituzionale invocato dalle ricorrenti.
In ragione dell’interdipendenza delle questioni
sollevate in riferimento a parametri interni ed esterni al Titolo V della Costituzione,
il riscontro sulla ridondanza delle questioni promosse in riferimento ai
secondi impone un esame congiunto delle doglianze delle ricorrenti.
5.1.– Pertanto, è opportuno esaminare prioritariamente l’ammissibilità delle
questioni promosse dalle ricorrenti in riferimento ai parametri costituzionali
che non afferiscono alle loro competenze legislative e che possono essere
vagliate solo in relazione alla prospettata ridondanza.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte,
le Regioni possono impugnare disposizioni di legge statale facendo valere
esclusivamente i profili attinenti al riparto delle competenze, con l’unica
eccezione per le questioni che, pur riferite a diversi parametri
costituzionali, tuttavia "ridondano” in lesione delle attribuzioni regionali,
quando, nel prospettare l’influenza delle asserite violazioni su tale riparto,
la ricorrente abbia indicato le specifiche competenze ritenute lese e le
ragioni dell’asserito effetto pregiudizievole (ex plurimis, sentenza n. 178 del
2012).
5.2.– Nel presente giudizio la Regione Liguria lamenta la lesione delle proprie
prerogative in riferimento agli artt. 3, 32, 77 e 97 Cost., violazione che ridonderebbe
in quella degli artt. 117, secondo e terzo comma, 119, primo e quarto comma, e
120 Cost., nonché del principio di leale collaborazione.
Essa ritiene che: a) le norme impugnate sarebbero
eterogenee rispetto al contenuto originario del d.l. n. 78 del 2015 ed il
taglio alla spesa sanitaria sarebbe inserito in un maxi-emendamento introdotto
dalla legge di conversione; b) il taglio colpirebbe il finanziamento dei LEA,
pregiudicando la garanzia dei LEP, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.; c) la disciplina dell’art. 9-septies del d.l.
n. 78 del 2015 sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., in considerazione del
fatto che la riduzione delle risorse si estenderebbe anche alle annualità
successive al 2016, per le quali il livello del finanziamento del servizio
sanitario non sarebbe ancora stato fissato; d) l’art. 9-septies contrasterebbe anche con il principio di buon andamento, in
quanto inciderebbe sugli impegni di spesa già assunti dalla Regione Liguria,
costringendo l’ente territoriale ad introdurre correttivi per riallineare la
programmazione della spesa sanitaria alla riduzione introdotta dalla norma
impugnata, per di più con effetto retroattivo e arrecando, conseguentemente,
grave pregiudizio alle competenze legislative e amministrative della Regione;
e) l’autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria regionale in materia
di tutela della salute sarebbe pregiudicata dalla mancata sperimentazione della
fase attuativa dei nuovi meccanismi di risparmio.
Alla luce di tale sintetica ricostruzione e a
prescindere dall’esame del merito delle doglianze della ricorrente, la pretesa
compressione delle sue attribuzioni, come in astratto formulata, risulta
correttamente prospettata e deve pertanto essere rigettata l’eccezione
d’inammissibilità formulata dal Presidente del Consiglio dei ministri.
5.3.– La Regione Veneto ha prospettato, con riguardo a tutte le disposizioni
impugnate, la violazione degli artt. 3, 5 e 32 Cost.
Secondo la ricorrente, le riduzioni del finanziamento
del SSN non terrebbero in considerazione il costo dei LEA, la cui
determinazione appartiene alla competenza esclusiva dello Stato. Quest’ultimo
non avrebbe neppure provveduto alla loro revisione e quindi – trattandosi di
spese incomprimibili e necessarie – la mancata considerazione renderebbe
assolutamente irragionevole e non proporzionata la misura dei tagli disposti.
La Regione sottolinea, poi, che: a) le norme in tema
di rinegoziazione dei contratti sarebbero irragionevoli in quanto
interesserebbero in modo indistinto contratti molto differenziati sui territori
regionali; b) la logica del taglio lineare sulla spesa colliderebbe anche con
l’art. 32 Cost., mettendo a rischio la garanzia e la qualità dei servizi
sanitari di competenza della Regione; c) il contenuto delle norme, ascrivibile
alla materia coordinamento della finanza pubblica, integrerebbe una disciplina
di dettaglio incompatibile con la potestà legislativa concorrente intestata
alla Regione; d) infine, la rigidità e la sproporzione dei tagli alla spesa colliderebbero
anche con il principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., il quale
impone un adeguato rapporto tra mezzi e finalità perseguite, incompatibile con
una logica di riduzioni indefettibili.
Anche le censure mosse dalla Regione Veneto superano
il vaglio di ammissibilità, in quanto collegano eziologicamente
le doglianze, formulate in riferimento a parametri estranei al Titolo V della
Costituzione, alle pretese lesioni alla propria autonomia.
Tanto premesso, le questioni sollevate dalle ricorrenti
possono essere scrutinate nel merito con riferimento contestuale ai parametri
riguardanti la competenza legislativa delle stesse e a quelli di cui si afferma
la ridondanza sui parametri interni al Titolo V della Costituzione.
6.– Secondo un ordine di pregiudizialità deve essere
preliminarmente esaminata la questione dell’art. 9-septies, commi 1 e 2, del d.l. n. 78 del 2015 proposta dalla
Regione Liguria in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost.
Tale questione presenta infatti pregiudizialità logico-giuridica,
giacché investe il corretto esercizio della funzione normativa primaria.
Quindi, la sua eventuale fondatezza eliderebbe in radice il contenuto
precettivo delle norme impugnate, determinando l’assorbimento delle questioni
sollevate in riferimento ad altri parametri costituzionali (sentenze n. 154 del
2015, n. 220
del 2013, n.
162 e n. 80
del 2012, n.
93 del 2011 e n.
293 del 2010).
6.1.– La questione non è fondata.
È stato già affermato che la violazione dell’art. 77,
secondo comma, Cost. si ravvisa «in caso di evidente o manifesta mancanza di
ogni nesso di interrelazione tra le disposizioni incorporate nella legge di
conversione e quelle dell’originario decreto-legge (sentenze n. 32 del
2014 e n. 22
del 2012). Pertanto, la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. per
difetto di omogeneità si manifesta solo quando le disposizioni aggiunte siano
totalmente "estranee” o addirittura "intruse”, cioè tali da interrompere, in parte qua, ogni correlazione tra il
decreto-legge e la legge di conversione» (sentenza n. 251 del
2014; in senso conforme, sentenza n. 145 del
2015).
Nel caso in esame non sussiste l’ipotesi di
disomogeneità evocata, vista la comune "natura finanziaria” delle disposizioni
contenute nell’originario decreto-legge e nella legge di conversione. La
modifica, a seguito del maxi-emendamento, del titolo del decreto-legge
(divenuto: «Disposizioni per garantire la continuità dei dispositivi di
sicurezza e di controllo del territorio. Razionalizzazione delle spese del
Servizio sanitario nazionale nonché norme in materia di rifiuti e di emissioni
industriali» a fronte della originaria formulazione «Disposizioni urgenti in
materia di enti territoriali») non lede il parametro evocato sotto il profilo
della necessaria omogeneità del contenuto del decreto-legge, costituendo una
semplice specificazione dell’oggetto del provvedimento di urgenza. Infatti
nella «materia di enti territoriali» (locuzione contenuta nella prima
formulazione) rientrano in astratto anche le questioni afferenti alle spese del
servizio sanitario nazionale, che – oltretutto – costituiscono parte maggioritaria
del bilancio delle Regioni.
Tale assunto è confermato da altri elementi testuali:
a) l’art. 9 del decreto-legge è rubricato «Disposizioni concernenti le regioni
e in tema di sanità ed università»; b) nella premessa del decreto viene
esplicitata «la necessità e l’urgenza di specificare ed assicurare il
contributo alla finanza pubblica da parte degli enti territoriali, come sancito
nell’intesa raggiunta in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo
Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano nella riunione
del 26 febbraio 2015»; c) la situazione di indefettibile urgenza risulta
obiettivamente dal quadro finanziario dell’originario intervento relativo al
concorso della sanità alle misure di contenimento della finanza pubblica,
incidenti sull’esercizio finanziario allora in corso.
7.– Le questioni di legittimità costituzionale degli
artt. 9-bis e 9-ter, commi 1, lettere a)
e b), 2, 3, 4, 5, 8 e 9, del d.l. n.
78 del 2015, promosse dalla Regione Veneto in riferimento agli artt. 3, 32, 97,
117, secondo e terzo comma, Cost., nonché al principio di leale collaborazione
di cui all’art. 120 Cost., non sono fondate.
Non possono essere condivisi i profili di censura
dedotti dalla Regione Veneto, la quale lamenta: a) la violazione dell’art. 3
Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, poiché le disposizioni impugnate
con consentirebbero soluzioni alternative ove la rinegoziazione con i fornitori
non fosse esperibile; b) l’irragionevolezza dei meccanismi di rinegoziazione, i
quali sarebbero privi di riferimenti parametrici necessari per assicurare
congruità e corrispettività ai nuovi contratti da proporre agli appaltatori; c)
il contrasto di dette disposizioni con l’art. 117, terzo comma, Cost., dal
momento che, pur essendo ascrivibili al coordinamento della finanza pubblica,
presenterebbero natura di norme di dettaglio; d) il contrasto con l’art. 3
Cost., anche sotto il profilo della proporzionalità, per il carattere di
"taglio lineare” che disciplinerebbe in modo indifferenziato realtà
contrattuali molto diversificate; e) l’assenza di un’effettiva intesa tra
Regione e Stato in ossequio al principio di leale collaborazione.
7.1.– Quanto alla censura inerente alla irragionevolezza di un percorso di
rinegoziazione "obbligato”, tale assunto viene testualmente smentito dalla
combinazione delle norme impugnate dalla ricorrente.
Il comma 1 dell’art. 9-ter indica le finalità ed i modi attuativi del contenimento della
spesa sanitaria, stabilendo che «tenuto conto della progressiva attuazione del
regolamento recante definizione degli standard
qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza
ospedaliera di cui all’intesa sancita dalla Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano
del 5 agosto 2014, al fine di garantire la realizzazione di ulteriori
interventi di razionalizzazione della spesa: a) per l’acquisto dei beni e
servizi di cui alla tabella A allegata al presente decreto, gli enti del
Servizio sanitario nazionale sono tenuti a proporre ai fornitori una
rinegoziazione dei contratti in essere che abbia l’effetto di ridurre i prezzi
unitari di fornitura e/o i volumi di acquisto, rispetto a quelli contenuti nei
contratti in essere, e senza che ciò comporti modifica della durata del
contratto, al fine di conseguire una riduzione su base annua del 5 per cento
del valore complessivo dei contratti in essere; b) al fine di garantire, in
ciascuna regione, il rispetto del tetto di spesa regionale per l’acquisto di dispositivi
medici fissato, coerentemente con la composizione pubblico-privata
dell’offerta, con accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra
lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, da adottare
entro il 15 settembre 2015 e da aggiornare con cadenza biennale, fermo restando
il tetto di spesa nazionale fissato al 4,4 per cento, gli enti del Servizio
sanitario nazionale sono tenuti a proporre ai fornitori di dispositivi medici
una rinegoziazione dei contratti in essere che abbia l’effetto di ridurre i
prezzi unitari di fornitura e/o i volumi di acquisto, rispetto a quelli
contenuti nei contratti in essere, senza che ciò comporti modifica della durata
del contratto stesso». Il comma 2 del medesimo articolo, inoltre, stabilisce
che «[l]e disposizioni di cui alla lettera a)
del comma 1 si applicano anche ai contratti per acquisti dei beni e servizi di
cui alla tabella A allegata al presente decreto, previsti dalle concessioni di
lavori pubblici, dalla finanza di progetto, dalla locazione finanziaria di
opere pubbliche e dal contratto di disponibilità, di cui, rispettivamente, agli
articoli 142 e seguenti, 153, 160-bis
e 160-ter del codice di cui al
decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163. In deroga all’articolo 143, comma
8, del predetto decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, la rinegoziazione
delle condizioni contrattuali non comporta la revisione del piano economico
finanziario dell’opera, fatta salva la possibilità per il concessionario di
recedere dal contratto; in tale ipotesi si applica quanto previsto dal comma 4
del presente articolo». Alla luce delle successive disposizioni, tale percorso
di rinegoziazione non è né rigido, né tassativo.
Il comma 2 dell’art. 9-septies stabilisce, infatti, la possibilità di realizzare i
risparmi attraverso soluzioni alternative: «[l]e regioni e le province autonome
di Trento e di Bolzano, al fine di salvaguardare i livelli essenziali di
assistenza, possono comunque conseguire l’obiettivo economico-finanziario di
cui al comma 1 [comma che rinvia – tra l’altro – all’art. 9-ter] anche adottando misure alternative,
purché assicurino l’equilibrio del bilancio sanitario con il livello del
finanziamento ordinario».
Il successivo comma 4 dell’art. 9-ter prevede inoltre la facoltà di recesso
reciproco da parte del contraente pubblico e di quello privato, disponendo che
«Nell’ipotesi di mancato accordo con i fornitori, nei casi di cui al comma 1,
lettere a) e b), entro il termine di trenta giorni dalla trasmissione della
proposta in ordine ai prezzi o ai volumi come individuati ai sensi del comma 1,
gli enti del Servizio sanitario nazionale hanno diritto di recedere dal
contratto, in deroga all’articolo 1671 del codice civile, senza alcun onere a
carico degli stessi. È fatta salva la facoltà del fornitore di recedere dal
contratto entro trenta giorni dalla comunicazione della manifestazione di
volontà di operare la riduzione, senza alcuna penalità da recesso verso
l’amministrazione. Il recesso è comunicato all’amministrazione e ha effetto
decorsi trenta giorni dal ricevimento della relativa comunicazione da parte di
quest’ultima». La norma può essere attuata – secondo quanto di seguito
specificato – attraverso una informata istruttoria in tema di prezzi di mercato
da parte del committente ed una valutazione in contraddittorio con
l’affidatario, circa l’opportunità di mantenere il legame contrattuale; in tale
contesto, l’incontro delle rispettive volontà può essere orientato
positivamente dal criterio della reductio
ad aequitatem, qualora ne ricorrano i presupposti.
Infine, il comma 5 dell’art. 9-ter consente un’ulteriore facoltà agli enti del SSN che abbiano
risolto il contratto, prevedendo che «nelle more dell’espletamento delle gare
indette in sede centralizzata o aziendale, possono, al fine di assicurare
comunque la disponibilità dei beni e servizi indispensabili per garantire
l’attività gestionale e assistenziale, stipulare nuovi contratti accedendo a
convenzioni-quadro, anche di altre regioni, o tramite affidamento diretto a
condizioni più convenienti in ampliamento di contratto stipulato, mediante gare
di appalto o forniture, da aziende sanitarie della stessa o di altre regioni o
da altre stazioni appaltanti regionali per l’acquisto di beni e servizi, previo
consenso del nuovo esecutore». In altre parole, viene consentita un’ulteriore
opzione nella fase transitoria che precede il nuovo affidamento concorsuale.
In sostanza, il quadro normativo di cui si contesta
la conformità a Costituzione affida al committente pubblico diverse alternative:
la riduzione dei prezzi unitari o dei volumi d’acquisto originariamente
previsti dal contratto, il recesso, la conferma (realizzando su altri tipi di
spese il risparmio complessivamente programmato dalla manovra finanziaria),
l’adesione transitoria a più vantaggiose ipotesi contrattuali stipulate da
altri committenti, nelle more della procedura concorsuale eventualmente
indetta.
È evidente che tali opzioni devono essere valutate
non in modo arbitrario ma secondo i principi di buon andamento ed economicità,
attraverso adeguata istruttoria (nell’ambito della quale l’eventuale
raggiungimento di un nuovo equilibrio può ragionevolmente esigere, sia la
ridiscussione di clausole già esistenti, sia l’introduzione di patti
ulteriori), svolta in contraddittorio con l’affidatario del contratto, la cui
volontà rimane determinante per l’esito definitivo della procedura di
rinegoziazione. In pratica, l’alterazione dell’originario sinallagma non viene
automaticamente determinata dalla norma, ma esige un esplicito consenso di
entrambe le parti. Ove tale consenso non venga raggiunto, soccorrono appunto le
ipotesi alternative di cui s’è detto del recesso, della nuova gara e della
adesione transitoria a contratti più vantaggiosi.
La formulazione delle norme in esame finisce quindi
per bilanciare, secondo modalità non implausibili,
l’autonomia contrattuale della parte pubblica e della parte privata, l’esigenza
di continuità dei servizi sanitari e la salvaguardia degli interessi finanziari
del coordinamento della finanza pubblica sottesi alla manovra di riduzione
della spesa.
L’operatività della rinegoziazione rimane
circoscritta alla sola eventualità che i contraenti raggiungano un nuovo
accordo attraverso la ridefinizione in concreto delle loro originarie
determinazioni. In definitiva, l’offerta di modifica ex art. 9-ter rimane
comunque condizionata dalla verifica che il sinallagma del contratto originario
non sia dalla stessa inciso fino a pregiudicarne la convenienza per
l’amministrazione e la remuneratività per l’esecutore.
Sotto questo profilo, la disciplina impugnata supera
il vaglio di costituzionalità poiché disegna un meccanismo idoneo a garantire
che le posizioni contrattuali inizialmente concordate tra le parti non siano
automaticamente modificate o comunque stravolte dalla sopravvenienza normativa,
ma siano circoscritte nel perimetro della normale alea assunta ex contractu,
nell’ambito della quale deve essere ricompreso, trattandosi di contratti di
durata, anche l’intervento del legislatore.
Dunque la disposizione va interpretata nel senso del
conferimento di una facoltà al committente, la quale non comporta che le
quantità ed i prezzi unitari degli acquisti dei beni e dei servizi futuri
risultino necessariamente ridotti in modo automatico e lineare.
La riduzione della spesa va al contrario inquadrata
in un piano globale di risparmio che obbliga l’ente pubblico ad istruire e
motivare la scelta più conveniente tra le diverse opzioni consentite dal
legislatore.
7.2.– Quanto detto a proposito della facoltatività della rinegoziazione comporta
la non fondatezza della censura di irragionevolezza dei meccanismi attuativi, i
quali – secondo le ricorrenti – sarebbero privi di riferimenti parametrici per
assicurare congruità e corrispettività ai successivi contratti da proporre agli
appaltatori.
In proposito, il comma 3 dell’art. 9-ter prevede che «[a]i fini
dell’applicazione delle disposizioni di cui alla lettera b) del comma 1, e nelle more dell’individuazione dei prezzi di
riferimento da parte dell’Autorità nazionale anticorruzione, il Ministero della
salute mette a disposizione delle regioni i prezzi unitari dei dispositivi
medici presenti nel nuovo sistema informativo sanitario ai sensi del decreto
del Ministro della salute 11 giugno 2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
n. 175 del 29 luglio 2010» ed il successivo comma 7 stabilisce che «[p]resso il Ministero della salute è istituito, senza nuovi o
maggiori oneri a carico della finanza pubblica, l’Osservatorio nazionale sui
prezzi dei dispositivi medici allo scopo di supportare e monitorare le stazioni
appaltanti e verificare la coerenza dei prezzi a base d’asta rispetto ai prezzi
di riferimento definiti dall’Autorità nazionale anticorruzione o ai prezzi
unitari disponibili nel flusso consumi del nuovo sistema informativo sanitario».
Oltre ai riferimenti parametrici previsti da tali
disposizioni le stazioni committenti ben possono fare riferimento ad ogni
indagine di mercato per definire le decisioni più appropriate nella gestione di
queste misure di contenimento della spesa, che non possono certamente
pregiudicare la qualità e la continuità dei servizi sanitari. Il riferimento ad
elementi parametrici è non solo consentito alle stazioni committenti, ma
diventa corredo istruttorio indefettibile per valutare la congruità delle
decisioni applicative o alternative della riduzione dei contratti.
7.3.– Le esposte argomentazioni consentono anche di dichiarare non fondata
l’ulteriore censura proposta dalla ricorrente, secondo cui quella impugnata
sarebbe comunque una disciplina di dettaglio, incompatibile con la potestà
legislativa attribuita allo Stato dall’art. 117, terzo comma, Cost.
Infatti, la disposizione in esame, correttamente
interpretata, pone un obiettivo di carattere macroeconomico alla spesa
regionale temporalmente limitato, lasciando sufficienti alternative alla
Regione per realizzarlo.
7.4.– Analoghe considerazioni consentono di dichiarare la non fondatezza della
censura argomentata con riguardo alla pretesa violazione del principio di
proporzionalità di cui all’art. 3 Cost.
Le alternative consentite dalla disposizione
impugnata permettono di escludere la rigidità e la sproporzione delle misure
introdotte dal legislatore.
Sono proprio l’equilibrio e la proporzionalità i
criteri direttivi delle scelte cui è chiamato dalla norma il committente
pubblico della sanità.
7.5.– Infine, per quel che concerne l’art. 9-bis del d.l.
n. 78 del 2015 e la pretesa violazione del principio di leale collaborazione
che deriverebbe dall’assenza di un’effettiva intesa, è infondato l’assunto
della Regione Veneto, secondo cui il "taglio” al SSN per il 2015 sarebbe stato
di fatto imposto alle Regioni, altrimenti esposte al rischio di subirlo secondo
le determinazioni unilaterali dello Stato, come previsto dall’art. 46, comma 6,
del d.l. n. 66 del 2014 così come modificato dall’art. 1, comma 398, lettera c), della legge n. 190 del 2014.
Poiché questa Corte ha già respinto le impugnative
regionali rivolte contro il predetto art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014,
come modificato, ed il relativo meccanismo (sentenza n. 65 del
2016), esse non possono più venire in considerazione come eventualità
idonee a determinare una lesione dei parametri evocati dalla ricorrente, con la
conseguenza che l’intesa non può ritenersi frutto di illegittima costrizione.
8.– Le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 9-quater, commi 1, 2, 4, 5
e 6, del d.l. n. 78 del 2015, promosse dalla Regione Veneto in riferimento agli
artt. 3, 32, 97, 117, secondo e terzo comma, Cost., nonché al principio di
leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., non sono fondate nei sensi e
nei limiti di seguito precisati.
La ricorrente, in sostanza, interpreta le
disposizioni impugnate come il conferimento al decreto ministeriale di un
potere impositivo nei confronti dei medici finalizzato all’adozione di
standardizzati modelli di cura, i quali sarebbero lesivi dell’esercizio della
professione medica e riverbererebbero tale effetto sulla cura dei pazienti e sull’autonomia
regionale.
In tal senso vengono lette le espressioni che
demandano al decreto ministeriale l’individuazione delle condizioni di
erogabilità e di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza specialistica
ambulatoriale, quelle che stabiliscono l’effettuazione dei controlli
conformativi alle suddette prescrizioni e quelle che prevedono applicazione di
sanzioni e responsabilità.
Sarebbero gravemente lesivi della garanzia del
diritto costituzionale alla salute ed invasivi delle competenze regionali: a)
il comma 1, nello stabilire che «con decreto del Ministro della salute, previa
intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni
e le province autonome di Trento e di Bolzano, siano individuate le condizioni
di erogabilità e le indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle
prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale»; b) il comma 2, nel
prescrivere che «[l]e prestazioni erogate al di fuori delle condizioni di
erogabilità previste dal decreto ministeriale di cui al comma 1 sono a totale
carico dell’assistito»; c) il comma 4, nel prescrivere che «[g]li enti del
Servizio sanitario nazionale curano l’informazione e l’aggiornamento dei medici
prescrittori ed effettuano i controlli necessari ad
assicurare che la prescrizione delle prestazioni sia conforme alle condizioni e
alle indicazioni di cui al decreto ministeriale previsto dal comma 1»; d) i
commi 5 e 6, nel prevedere rispettivamente che «[i]n caso di un comportamento
prescrittivo non conforme alle condizioni e alle indicazioni di cui al decreto
ministeriale previsto dal comma 1, l’ente richiede al medico prescrittore le ragioni della mancata osservanza delle
predette condizioni ed indicazioni. In caso di mancata risposta o di
giustificazioni insufficienti, l’ente adotta i provvedimenti di competenza,
[nei confronti del] medico prescrittore dipendente
del Servizio sanitario nazionale […] e nei confronti del medico convenzionato
con il Servizio sanitario nazionale», e che «la mancata adozione da parte
dell’ente del Servizio sanitario nazionale dei provvedimenti di competenza nei
confronti del medico prescrittore comporta la
responsabilità del direttore generale ed è valutata ai fini della verifica del
rispetto degli obiettivi assegnati al medesimo dalla regione».
Deve essere innanzitutto precisato che il decreto di cui
al citato comma 1, il quale prevede le condizioni di erogabilità e le
indicazioni di appropriatezza prescrittiva, ed il successivo comma 2, che pone
a carico dell’assistito le prestazioni al di fuori delle condizioni di
erogabilità, non vietano certamente al medico le prescrizioni ritenute
necessarie nel caso concreto e non pregiudicano quindi la sua prerogativa di
operare secondo "scienza e coscienza”.
Dette disposizioni rispondono invece ad una finalità
di razionalizzazione del SSN, indirizzando il governo della spesa sanitaria e
farmaceutica in un contesto di compatibilità economico-finanziaria che non
esclude – attraverso un tempestivo e continuo aggiornamento dei prontuari –
l’accesso a presidi innovativi ed a farmaci per le malattie rare. Peraltro, il
SSN già conosce peculiari istituti in grado di consentire ai pazienti privi di
altre opportunità terapeutiche valide l’uso di farmaci o terapie che, anche in
assenza di una sperimentazione clinica completa, potrebbero apportare benefici
attraverso una prognosi favorevole al paziente in termini di rapporto
rischio/beneficio (così, ad esempio, la legge 10 marzo del 2010, n. 38, recante
«Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del
dolore», ed il decreto del Ministero della sanità 18 maggio 2001, n. 279,
recante «Regolamento di istituzione della rete nazionale delle malattie rare e
di esenzione dalla partecipazione al costo delle relative prestazioni sanitarie
ai sensi dell’articolo 5, comma 1, lettera b) del decreto legislativo 29 aprile
1998, n. 124»).
Quanto alle altre disposizioni impugnate, relative
all’informazione, al controllo, alle sanzioni e alle responsabilità connesse
all’erogazione delle prestazioni, ove fossero assunti nel significato
attribuito dalla Regione ricorrente, esse sarebbero certamente contrarie ai
parametri costituzionali evocati; tuttavia, tale significato non è l’unico
attribuibile al testo normativo, del quale è possibile un’interpretazione
conforme al dettato costituzionale (ex plurimis, sentenza n. 279 del
2016).
Peraltro, sullo specifico argomento dei limiti alla
discrezionalità legislativa in tema di esercizio dell’arte medica, la
giurisprudenza di questa Corte appare assolutamente congruente con
l’attribuzione di un diverso significato alle disposizioni impugnate, come
appresso specificato.
Così è stato più volte affermato il "carattere
personalistico” delle cure sanitarie, sicché la previsione legislativa non può
precludere al medico la possibilità di valutare, sulla base delle più
aggiornate e accreditate conoscenze tecnico-scientifiche, il singolo caso
sottoposto alle sue cure, individuando di volta in volta la terapia ritenuta
più idonea ad assicurare la tutela della salute del paziente (in senso
conforme, tra le altre, sentenza n. 151 del
2009). Alla luce di tale indefettibile principio, l’"appropriatezza
prescrittiva” prevista dall’art. 9-quater,
comma 1, del d.l. n. 78 del 2015 ed i parametri contenuti nel decreto
ministeriale devono essere dunque intesi come un invito al medico prescrittore di rendere trasparente, ragionevole ed
informata la consentita facoltà di discostarsi dalle indicazioni del decreto
ministeriale.
In tale accezione ermeneutica devono essere intese
anche le disposizioni in tema di controlli di conformità alle indicazioni del
decreto ministeriale: esse non possono assolutamente conculcare il libero
esercizio della professione medica, ma costituiscono un semplice invito a
motivare scostamenti rilevanti dai protocolli. È invece assolutamente
incompatibile un sindacato politico o meramente finanziario sulle prescrizioni,
poiché la discrezionalità legislativa trova il suo limite «[nel]le acquisizioni
scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si
fonda l’arte medica: sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di
fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il
consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali (sentenze n. 338 del
2003 e n.
282 del 2002)» (sentenza n. 151 del
2009).
A tali evidenze scientifiche ed ai richiamati
principi giurisprudenziali deve pertanto attenersi la redazione del decreto
ministeriale, il quale deve tenere conto – in particolare – della dinamica
evolutiva terapeutica e della specificità del paziente, inteso come soggetto
titolare di un diritto alla appropriata attribuzione dei presidi diagnostici e
terapeutici. Ciò comporta che la vigilanza e l’eventuale comminazione di
sanzioni al medico non possano essere ispirate ad una mera ratio di deterrenza verso il proliferare della spesa sanitaria, ma
siano, al contrario, dirette alla tutela del paziente e del servizio, così da
intercettare eventuali gravi scostamenti dalla fisiologia della pratica medica,
diretti a soddisfare unicamente gli interessi economici dei soggetti coinvolti
nell’industria farmaceutica e nella produzione dei servizi sanitari o comunque
altri interessi, ulteriori e confliggenti con l’efficace ed efficiente gestione
della sanità.
Infatti, è costante orientamento di questa Corte che
«scelte legislative dirette a limitare o vietare il ricorso a determinate
terapie – la cui adozione ricade in linea di principio nell’ambito
dell’autonomia e della responsabilità dei medici, tenuti ad operare col
consenso informato del paziente e basandosi sullo stato delle conoscenze
tecnico-scientifiche a disposizione – non sono ammissibili ove nascano da pure
valutazioni di discrezionalità politica, e non prevedano "l’elaborazione di
indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e
delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi – di norma
nazionali o sovranazionali – a ciò deputati”, né costituiscano "il risultato di
una siffatta verifica”. Si può ora aggiungere che stabilire il confine fra
terapie ammesse e terapie non ammesse, sulla base delle acquisizioni
scientifiche e sperimentali, è determinazione che investe direttamente e
necessariamente i principi fondamentali della materia, collocandosi
"all’incrocio fra due diritti fondamentali della persona malata: quello ad
essere curato efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell’arte medica;
e quello ad essere rispettato come persona, e in particolare nella propria
integrità fisica e psichica” (sentenza n. 282 del
2002)» (sentenza
n. 338 del 2003).
Alla luce di quanto precede, deve dunque essere
esclusa qualsiasi lesione dell’autonomia regionale in relazione
all’organizzazione del servizio sanitario ed al suo buon andamento, poiché le
norme impugnate, nella predetta accezione ermeneutica, attengono proprio alla
cura del buon andamento della sanità complessivamente inteso.
Coerente con la prospettiva ermeneutica
costituzionalmente orientata è la formulazione dei commi 5 e 6 dell’art. 9-quater.
La richiesta di chiarimenti al medico prescrittore e l’eventuale riduzione del trattamento
economico accessorio deve essere intesa come rigorosamente riferita, non a mere
elaborazioni statistiche sull’andamento generale delle prescrizioni, ma a
fattispecie di grave scostamento dalle evidenze scientifiche in materia. Si
tratta, a ben vedere, di una norma applicativa del principio di vigilanza
sull’operato del personale sanitario che, più che innovativa, è sostanzialmente
specificativa delle modalità di contrasto nei confronti di alcune prassi
gravemente patologiche.
Peraltro, considerato lo stretto legame logico e
funzionale tra l’abuso prescrittivo e gli interessi di tutela del paziente e
del buon andamento sanitario, nonché la complessa dialettica scientifica che
può caratterizzare alcune ipotesi di sospetto abuso, il sindacato in esame
implica non solo che all’interessato sia assicurato il diritto a controdedurre rispetto all’addebito contestato, ma anche
che egli possa interagire nelle fasi prodromiche all’assunzione della decisione
formale, in modo da assicurare in tale sede la piena cognizione dei fatti e
degli interessi in gioco. E ciò da solo spiega che quello istituito dalla norma
non è un controllo burocratico bensì un sindacato che deve essere gestito – come
esattamente osservato dall’Avvocatura generale dello Stato – secondo le regole
deontologiche dell’esercizio della professione medica.
Di quanto argomentato è naturale conseguenza la
responsabilità del direttore generale per omessa vigilanza ai sensi dell’art.
9-quater, comma 6.
Dunque l’intero contesto normativo dell’art. 9-quater impugnato dalla Regione Veneto
trova nell’esposta interpretazione sistematica la ragione della propria
conformità ai parametri costituzionali evocati.
9.– Ferma restando la definizione della pregiudiziale questione di legittimità
costituzionale dell’art. 9-septies,
commi 1 e 2, del d.l. n. 78 del 2015 proposta dalla Regione Liguria in riferimento all’art. 77 Cost., occorre ora
occuparsi delle censure formulate in modo articolato da entrambe le ricorrenti
nei confronti della medesima norma in riferimento agli artt. 3, 32, 97, 117,
secondo e terzo comma, Cost., nonché al principio di leale collaborazione di
cui all’art. 120 Cost. ed all’art. 5, lettera g), della legge cost. n. 1 del 2012, in relazione all’art. 11 della
legge n. 243 del 2012.
Va premesso che tali censure possono essere esaminate
limitatamente ai profili di riduzione del livello di finanziamento del SSN
poiché l’entità assoluta del contributo alla finanza pubblica – di cui quello
afferente al SSN è una parte – è stato stabilito da precedenti disposizioni già
scrutinate da questa Corte, secondo il costante orientamento per cui
l’imposizione dei risparmi di spesa rientra nell’esercizio della funzione di
coordinamento della finanza pubblica di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. (sentenza n. 65 del
2016).
9.1.– Le censure rivolte dalle ricorrenti avverso la pretesa definitività del
"taglio lineare” delle risorse non sono fondate.
In particolare, non può essere condivisa
l’affermazione secondo cui l’assenza di un termine alla vigenza di dette misure
di contenimento rende le disposizioni impugnate contrarie al principio di autonomia
regionale, in quanto indefinitamente protratte nel tempo.
Le ricorrenti deducono tale carattere dalla mancanza
di una esplicita previsione di un termine finale, ma – come correttamente
sostenuto dalla difesa erariale – la manovra inerente a tale riduzione si è
svolta secondo un orizzonte triennale nell’ambito del quale sono state poi
apportate alcune correzioni.
In tale articolato quadro finanziario l’art. 9-septies, comma l, del d.l. n. 78 del
2015 richiama espressamente l’art. l, comma 556, della legge n. 190 del 2014,
il quale prevede che «il livello del finanziamento del Servizio sanitario
nazionale a cui concorre lo Stato è stabilito in 112.062.000.000 euro per
l’anno 2015 e in 115.444.000.000 euro per l’anno 2016, salve eventuali
rideterminazioni in attuazione dell’articolo 46, comma 6, del decreto-legge 24
aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014,
n. 89, come modificato dal comma 398 del presente articolo, in attuazione di
quanto previsto dall’articolo l, comma l, del Patto per la salute».
Peraltro, l’art. 1, comma 568, della legge 28
dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», ha rideterminato
il livello del finanziamento del SSN e questo è stato ulteriormente modificato
dall’art. l, comma 392, della legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di
previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per
il triennio 2017-2019).
Il periodo di vigenza della norma impugnata non la
rende dunque incompatibile con l’autonomia finanziaria della Regione.
Se la temporaneità della soluzione normativa scelta
dal legislatore è coerente con l’esigenza di assicurare nel breve periodo il
concorso delle Regioni alla risoluzione di una grave situazione di emergenza
economica del Paese, evitando che detta esigenza diventi "tiranna” attraverso
una stabilizzazione apodittica dei sacrifici imposti all’ente territoriale e
alla collettività amministrata, nondimeno deve essere rinnovato al legislatore
l’invito a corredare le iniziative legislative incidenti sull’erogazione delle
prestazioni sociali di rango primario con un’appropriata istruttoria
finanziaria. Ciò soprattutto al fine di definire in modo appropriato, anche tenendo
conto delle scansioni temporali dei cicli di bilancio e più in generale della
situazione economica del Paese, il quadro delle relazioni finanziarie tra lo
Stato, le Regioni e gli enti locali, evitando la sostanziale estensione
dell’ambito temporale di precedenti manovre che potrebbe sottrarre al confronto
parlamentare la valutazione degli effetti complessivi e sistemici di queste
ultime in un periodo più lungo (sentenza n. 154 del
2017).
9.2.– È altresì infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.
9-septies, commi 1 e 2, del d.l. n.
78 del 2015, promossa dalla Regione Liguria in relazione al preteso effetto
«sugli impegni di spesa già assunti» dalla medesima.
Le disposizioni (peraltro non impugnate dalla
ricorrente) strumentali alla riduzione di cui all’art. 9-septies non comportano alcuna lesione degli impegni già assunti
poiché – come già in precedenza evidenziato – consentono una pluralità di
soluzioni per l’amministrazione interessata alla loro attuazione. È evidente
che l’esistenza di impegni giuridicamente vincolanti, preesistenti all’entrata
in vigore del d.l. n. 78 del 2015, deve essere presa in considerazione nella
scelta delle alternative consentite dal legislatore, salvaguardando
l’adempimento di obbligazioni già perfezionate.
Peraltro – come rilevato dall’Avvocatura generale
dello Stato – il taglio complessivo delle risorse destinate alle Regioni – di
cui, come detto, quello della sanità costituisce una parte – era già disposto dall’art. 46, comma 6, del d.l. n.
66 del 2014, così come modificato dall’art. 1, comma 398, lettera c), della legge n. 190 del 2014, entrato
in vigore all’inizio dell’esercizio 2015, il quale stabiliva che le Regioni a
statuto ordinario avrebbero dovuto comunque contribuire al risanamento della
finanza pubblica per 3.452 milioni di euro, da ripartire in sede di Conferenza
permanente e che, in caso di assenza di intesa entro il 31 gennaio 2015, si
sarebbe applicato «quanto previsto dal secondo periodo, considerando anche le
risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale».
Ne consegue che la Regione Liguria, in quanto destinataria di tale riduzione
complessiva, avrebbe dovuto tener conto dell’obiettivo di contenimento previsto
da detta legge nell’ambito della gestione degli impegni di spesa.
9.3.– Le censure rivolte da entrambe le Regioni all’art. 9-septies, commi 1 e 2, in riferimento agli artt. 32 e 117, secondo
comma, lettera m), Cost., in relazione
alla pretesa compressione dei LEA quali prestazioni sanitarie indefettibili,
non sono fondate nei sensi e nei limiti di seguito precisati.
9.3.1.– Le ricorrenti non presentano elementi probatori in grado di confermare
tale assunto. È costante l’orientamento di questa Corte nel senso che la prova
della lesione delle prerogative regionali, dipendente dalla riduzione di
risorse destinate ai livelli essenziali delle prestazioni, non può consistere
in un’apodittica doglianza, ma deve essere sorretta da elementi obiettivi che,
nel caso di specie – per quanto si dirà in prosieguo – non sono stati dedotti in misura idonea
(sulla prova della violazione delle attribuzioni regionali, ex multis, sentenze n. 205,
n. 151, n. 127 e n. 65 del 2016,
n. 89 del 2015,
n. 26 del 2014).
E’ stato altresì precisato – in tema di riduzione
delle risorse degli enti territoriali per il raggiungimento degli obiettivi di
finanza pubblica – che il legislatore statale può imporle (ex multis, sentenza n. 36 del
2004) purché la riduzione sia ragionevole e tale da non pregiudicare le
funzioni assegnate all’ente territoriale, dal momento che «l’eccessiva
riduzione delle risorse e l’incertezza sulla loro definitiva entità […] non
consentono una proficua utilizzazione delle stesse in quanto "[s]olo in presenza di un ragionevole progetto di impiego è
possibile realizzare una corretta ripartizione delle risorse […] e garantire il
buon andamento dei servizi con esse finanziati (sentenza n. 188 del
2015)”» (sentenza
n. 10 del 2016).
I LEA, in quanto appartenenti alla più ampia
categoria dei LEP, devono essere determinati dal legislatore statale e
garantiti su tutto il territorio nazionale ai sensi dell’art. 117, secondo
comma, lettera m), Cost. L’art. 8,
comma 1, della legge n. 42 del 2009, recante «Principi e criteri direttivi
sulle modalità di esercizio delle competenze legislative e sui mezzi di
finanziamento», dispone in proposito che «[a]l fine di adeguare le regole di
finanziamento alla diversa natura delle funzioni spettanti alle regioni, nonché
al principio di autonomia di entrata e di spesa fissato dall’articolo 119 della
Costituzione, i decreti legislativi di cui all’articolo 2 [nel caso di specie
il decreto n. 68 del 2011 e le successive modifiche e integrazioni] sono
adottati secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi: a) classificazione
delle [….] spese relative a materie di competenza esclusiva statale, in
relazione alle quali le regioni esercitano competenze amministrative; tali
spese sono: 1) spese riconducibili al vincolo dell’articolo 117, secondo comma,
lettera m), della Costituzione; 2)
spese non riconducibili al vincolo di cui al numero 1); […] b) definizione
delle modalità per cui le spese riconducibili alla lettera a), numero 1), sono
determinate nel rispetto dei costi standard associati ai livelli essenziali
delle prestazioni fissati dalla legge statale in piena collaborazione con le
regioni e gli enti locali, da erogare in condizioni di efficienza e di
appropriatezza su tutto il territorio nazionale; […]».
Da tale norma si evince, tra l’altro, che: a) le
spese per i LEA devono essere quantificate attraverso l’"associazione” tra i
costi standard e gli stessi livelli stabiliti dal legislatore statale in modo
da determinare, su scala nazionale e regionale, i fabbisogni standard
costituzionalmente vincolati ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.; b) tali fabbisogni devono
essere individuati dallo Stato attraverso la "piena collaborazione” con gli
enti territoriali; c) l’erogazione delle prestazioni deve essere caratterizzata
da efficienza ed appropriatezza su tutto il territorio nazionale.
In ordine alla puntuale attuazione del regime dei
costi e dei fabbisogni standard sanitari che avrebbe dovuto assicurare la
precisa delimitazione finanziaria dei LEA rispetto alle altre spese sanitarie,
si è verificata – dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 68 del 2011 – una
lunga fase di transizione, ancora oggi in atto, attraverso l’applicazione,
d’intesa con le Regioni, di criteri convenzionali di riparto. Ciò in attesa di
acquisire dati analitici idonei a determinare costi e fabbisogni in modo
conforme al richiamato art. 8, comma 1, della legge n. 42 del 2009.
In definitiva, non può sottacersi, nella perdurante
inattuazione della legge n. 42 del 2009 già lamentata da questa Corte (sentenza n. 273 del
2013), l’esistenza di una situazione di difficoltà che non consente tuttora
l’integrale applicazione degli strumenti di finanziamento delle funzioni
regionali previste dall’art. 119 Cost.
A tale situazione è eziologicamente
collegata l’assenza, nella disposizione in esame, di una previsione circa la
doverosa separazione del fabbisogno LEA dagli oneri degli altri servizi
sanitari. Sotto tale profilo neppure la recente adozione del decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri 12 gennaio 2017 (Definizione e
aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all’articolo 1,
comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502) è di per sè in grado di supplire a detta carenza. La persistenza di
tale situazione può causare la violazione degli artt. 32 e 117, secondo comma,
lettera m), Cost., nei casi in cui
eventuali disposizioni di legge trasferiscano "a cascata”, attraverso i diversi
livelli di governo territoriale, gli effetti delle riduzioni finanziarie sulle
prestazioni sanitarie costituzionalmente necessarie (in tal senso sentenza n. 275 del
2016).
Nel caso in esame, tuttavia, le ricorrenti non hanno
dedotto elementi in grado di provare l’effettiva lesione dei suddetti precetti
costituzionali.
Infatti, i molteplici dati finanziari prodotti sono
sprovvisti di una coerente proiezione macroeconomica dei costi in termini di
fabbisogno regionale, che consenta di dimostrare la ricaduta lesiva della norma
impugnata sulla spesa costituzionalmente necessaria. Le ricorrenti si limitano
ad enumerare tali elementi senza illustrare la loro interazione sulle
risultanze complessive dei rispettivi bilanci e senza enucleare – come previsto
dal richiamato art. 8, comma 1, della legge n. 42 del 2009 – nel monte
complessivo della spesa regionale sanitaria, il fabbisogno LEA di cui viene
lamentata la compressione da parte della disposizione impugnata.
9.3.2.– Se le precedenti considerazioni sono sufficienti ai fini della
declaratoria di infondatezza della questione, sono tuttavia utili alcune
riflessioni circa la mancata proiezione precedentemente evidenziata, elemento
necessario per dimostrare il pregiudizio causato da norme sproporzionatamente
riduttive di risorse destinate all’erogazione di prestazioni sociali di
carattere primario. Infatti, la trasversalità e la primazia della tutela
sanitaria rispetto agli interessi sottesi ai conflitti Stato-Regioni in tema di
competenza legislativa, impongono una visione teleologica e sinergica della
dialettica finanziaria tra questi soggetti, in quanto coinvolgente l’erogazione
di prestazioni riconducibili al vincolo di cui all’art. 117, secondo comma,
lettera m), Cost.
Se, al fine di assicurare la garanzia dei livelli
essenziali delle prestazioni (LEP), alla cui categoria, come detto, appartengono
i LEA, «spetta al legislatore predisporre gli strumenti idonei alla
realizzazione ed attuazione di esso, affinché la sua affermazione non si
traduca in una mera previsione programmatica, ma venga riempita di contenuto
concreto e reale [di talché] è la garanzia dei diritti incomprimibili ad
incidere sul bilancio e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa
erogazione» (sentenza
n. 275 del 2016), non vi è dubbio che le Regioni stesse debbano collaborare
all’individuazione di metodologie parametriche in grado di separare il
fabbisogno finanziario destinato a spese incomprimibili da quello afferente ad
altri servizi sanitari suscettibili di un giudizio in termini di sostenibilità
finanziaria.
Sotto tale profilo, è bene quindi ricordare che la
determinazione dei LEA è un obbligo del legislatore statale, ma che la sua
proiezione in termini di fabbisogno regionale coinvolge necessariamente le
Regioni, per cui la fisiologica dialettica tra questi soggetti deve essere
improntata alla leale collaborazione che, nel caso di specie, si colora della
doverosa cooperazione per assicurare il migliore servizio alla collettività.
Da ciò consegue che la separazione e l’evidenziazione
dei costi dei livelli essenziali di assistenza devono essere simmetricamente
attuate, oltre che nel bilancio dello Stato, anche nei bilanci regionali ed in
quelli delle aziende erogatrici secondo la direttiva contenuta nel citato art.
8, comma 1, della legge n. 42 del 2009.
In definitiva, la dialettica tra Stato e Regioni sul
finanziamento dei LEA dovrebbe consistere in un leale confronto sui fabbisogni
e sui costi che incidono sulla spesa costituzionalmente necessaria, tenendo
conto della disciplina e della dimensione della fiscalità territoriale nonché
dell’intreccio di competenze statali e regionali in questo delicato ambito
materiale. Ciò al fine di garantire l’effettiva programmabilità e la reale
copertura finanziaria dei servizi, la quale – data la natura delle situazioni
da tutelare – deve riguardare non solo la quantità ma anche la qualità e la
tempistica delle prestazioni costituzionalmente necessarie.
Ne consegue ulteriormente che, ferma restando la
discrezionalità politica del legislatore nella determinazione – secondo canoni
di ragionevolezza – dei livelli essenziali, una volta che questi siano stati
correttamente individuati, non è possibile limitarne concretamente l’erogazione
attraverso indifferenziate riduzioni della spesa pubblica. In tale ipotesi verrebbero
in essere situazioni prive di tutela in tutti i casi di mancata erogazione di
prestazioni indefettibili in quanto l’effettività del diritto ad ottenerle «non
può che derivare dalla certezza delle disponibilità finanziarie per il
soddisfacimento del medesimo diritto» (sentenza n. 275 del
2016).
Deve essere infine sottolineato che – in attesa di
una piena definizione dei fabbisogni LEA – misure più calibrate e più stabili
di quelle fino ad oggi assunte sono utili per la riqualificazione di un
servizio fondamentale per la collettività come quello sanitario. Questa Corte
ha affermato che la programmazione e la proporzionalità tra risorse assegnate e
funzioni esercitate sono intrinseche componenti del «principio del buon
andamento [il quale] – ancor più alla luce della modifica intervenuta con
l’introduzione del nuovo primo comma dell’art. 97 Cost. ad opera della legge
costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di
bilancio nella Carta costituzionale) – è strettamente correlato alla coerenza
della legge finanziaria», per cui «organizzare e qualificare la gestione dei
servizi a rilevanza sociale da rendere alle popolazioni interessate […] in modo
funzionale e proporzionato alla realizzazione degli obiettivi previsti dalla
legislazione vigente diventa fondamentale canone e presupposto del buon
andamento dell’amministrazione, cui lo stesso legislatore si deve attenere
puntualmente» (sentenza
n. 10 del 2016).
9.4.– Per gli stessi motivi che hanno comportato il rigetto delle precedenti
censure deve ritenersi non fondata anche la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 9-septies,
commi 1 e 2, del d.l. n. 78 del 2015, promossa dalla Regione Liguria in
riferimento al principio di leale collaborazione, per non aver il legislatore
statale atteso l’avvio della fase attuativa dei nuovi meccanismi di risparmio e
contenimento della spesa sanitaria. In particolare, va sottolineato come la
riduzione complessiva delle risorse destinate alla Regione fosse già entrata in
vigore con il d.l. n. 66 del 2014, modificato dalla legge n. 190 del 2014, e
quindi il principio di leale collaborazione non risulta violato dall’attuativa
prescrizione statale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione delle
altre questioni di legittimità costituzionale promosse dalla Regione Veneto con
il ricorso indicato in epigrafe;
riuniti i giudizi,
1) dichiara
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9-bis;
9-ter, commi l, lettere a) e b),
2, 3, 4, 5, 8 e 9; 9-quater, commi l,
2, 4, 5, 6 e 7; 9-septies, commi l e 2,
del decreto-legge 19 giugno 2015, n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di
enti territoriali. Disposizioni per garantire la
continuità dei dispositivi di sicurezza e di controllo del territorio.
Razionalizzazione delle spese del Servizio sanitario nazionale nonché norme in
materia di rifiuti e di emissioni industriali), convertito, con
modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 125, promosse, in riferimento agli
artt. 5, 117, quarto comma, 118 e 119 della Costituzione, dalla Regione Veneto
con il ricorso indicato in epigrafe;
2) dichiara
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9-septies, commi 1 e 2, del d.l. n. 78 del
2015, come convertito, promosse, in
riferimento agli artt. 118 e 119 Cost., nonché in relazione all’art. 1, comma
398, lettera c), della legge 23
dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», dalla Regione
Liguria con il ricorso indicato in epigrafe;
3) dichiara
non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9-bis del d.l.
n. 78 del 2015, come convertito, promossa in riferimento al principio di leale
collaborazione di cui all’art. 120 Cost., dalla Regione Veneto con il ricorso
indicato in epigrafe;
4) dichiara
non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 9-ter, commi
l, lettere a) e b), 2, 3, 4, 5, 8 e 9 del d.l. n. 78 del 2015, come convertito,
promossa in riferimento agli artt. 3, 32, 97, 117, secondo e terzo comma, Cost.
nonché al principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., dalla
Regione Veneto con il ricorso indicato in epigrafe;
5) dichiara
non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 9-quater,
commi 1, 2, 4, 5 e 6, del d.l. n. 78 del 2015, come convertito, promossa, in
riferimento agli artt. 3, 32, 97, 117, secondo e terzo comma, Cost. nonché al
principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., dalla Regione
Veneto con il ricorso indicato in epigrafe;
6) dichiara
non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9-septies, commi 1 e 2, del d.l. n. 78 del
2015, come convertito, promossa, in riferimento all’art. 77 Cost., dalla
Regione Liguria con il ricorso indicato in epigrafe;
7) dichiara
non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 9-septies,
commi 1 e 2, del d.l. n. 78 del 2015, come convertito, promosse, in riferimento
agli artt. 3, 32, 97, 117, secondo e terzo comma, e 119, nonché al principio di
leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., dalle Regioni Veneto e Liguria
con i ricorsi indicati in epigrafe;
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 marzo 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Aldo CAROSI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 12 luglio 2017.