SENTENZA N. 194
ANNO 2019
Commenti alla decisione di
I. Carlo Padula Le decisioni della Corte costituzionale
del 2019 sul decreto sicurezza, in questa Rivista, Studi, 2019/II, 377
II. Gabriele Conti, Troppo
presto per giudicare... ma con qualche premessa interpretativa generale. I
ricorsi in via principale di cinque Regioni contro il c.d. "decreto sicurezza eimmigrazione”, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
III. Alessio Rauti, Il
decreto sicurezza di fronte alla Consulta. L’importanza (e le incertezze) della
sentenza n. 194 del 2019, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
IV. Carlo Padula, Le
decisioni della Corte costituzionale del 2019 sul decreto sicurezza, per g.c. del Forum
di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario
MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS,
Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli
artt. 1, 12 e 13 del decreto-legge
4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale
e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del
Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia
nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e
confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella
legge 1° dicembre 2018, n. 132, nonché dell’intero decreto-legge, promossi
con ricorsi della Regione autonoma Sardegna e delle Regioni Umbria,
Emilia-Romagna, Basilicata, Marche, Toscana e Calabria, notificati il 31
gennaio-4 febbraio, l’1-6 febbraio, il 29 gennaio, l’1-6 febbraio, il 31
gennaio-4 febbraio e l’1 febbraio 2019, depositati in cancelleria l’1, il 4, il
5, il 6 e l’8 febbraio 2019, iscritti rispettivamente ai numeri 9, 10, 11, 12, 13, 17 e 18
del registro ricorsi 2019 e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica numeri 10, 11, 12 e 13, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del
Consiglio dei ministri;
uditi nella camera di consiglio del 18 giugno
2019 e nell’udienza pubblica del 19 giugno 2019 i Giudici relatori Marta
Cartabia, Daria de Pretis, Nicolò Zanon e Augusto Antonio Barbera;
uditi gli avvocati Massimo Luciani per la
Regione Umbria, Giandomenico Falcon e Andrea Manzi per la Regione
Emilia-Romagna, Stefano Grassi per la Regione Marche, Marcello Cecchetti per la
Regione Toscana, Giuseppe Naimo e Vincenzo Cannizzaro
per la Regione Calabria e gli avvocati dello Stato Giuseppe Albenzio e Ilia Massarelli per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in fatto
1.– La Regione Umbria, con ricorso notificato
il 31 gennaio-4 febbraio 2019 e depositato il 1° febbraio 2019 (reg. ric. n. 10
del 2019), ha impugnato diverse disposizioni del decreto-legge 4 ottobre 2018,
n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e
immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del
Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia
nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e
confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella
legge 1° dicembre 2018, n. 132, e tra queste gli artt. 1, 12 e 13.
In particolare, dell’art. 1 ha censurato: il
comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), i), l), m), n), numero 2), n-bis), o),
p), e q); il comma 2; il comma 3, lettera a), numeri 1) e 2); il comma 6; il
comma 7; il comma 8 e il comma 9.
Dell’art. 12 ha censurato tutte le disposizioni
di cui si compone, a eccezione: del comma 1, lettere a-bis) e a-ter); del comma
2, lettera d), numero 1-bis) e del comma 7.
Dell’art. 13, comma 1, ha censurato: la lettera
a), numero 2; la lettera b) e la lettera c).
La Regione Umbria opera una ricostruzione del
complessivo intervento normativo operato dal d.l. n. 113 del 2018 e, in via
preliminare, si sofferma sull’incidenza «delle norme impugnate nelle
attribuzioni costituzionali» della ricorrente, cui le prime arrecherebbero «un
grave pregiudizio».
A tale proposito, la ricorrente ricorda che
l’art. 117, secondo comma, lettere b) e h), della Costituzione, ricomprende le
materie «immigrazione» e «ordine pubblico e sicurezza» tra quelle assegnate
alla competenza esclusiva dello Stato. Tuttavia, la stessa Costituzione,
all’art. 118, terzo comma, riconoscerebbe esplicitamente l’esistenza di un
profondo legame fra queste materie e quelle di competenza concorrente, affidate
anche alla cura delle Regioni, tra le quali «tutela e sicurezza del lavoro»,
«istruzione», «tutela della salute», «previdenza complementare e integrativa»,
«coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», tutte
considerate rilevanti nel caso di specie.
La ricorrente sostiene che la Corte
costituzionale, con riferimento alla materia «immigrazione», avrebbe
riconosciuto la possibilità di interventi legislativi delle Regioni in ambiti
diversi da quelli attinenti alle politiche di programmazione dei flussi
d’ingresso e di soggiorno nel territorio nazionale, quali, ad esempio, il
diritto allo studio o all’assistenza sociale, attribuiti alla competenza
concorrente e residuale delle Regioni (sono citate le sentenze n. 299
e n. 134 del
2010). Le norme censurate coinvolgerebbero anche competenze che la Regione
Umbria avrebbe già «puntualmente esercitato».
Infine, la ricorrente osserva che «i migranti,
oltre che un onere per le Regioni (a causa dei servizi che esse devono
erogare), sono per esse anche una risorsa, perché il loro apporto lavorativo è
necessario per il buon funzionamento dei programmi di sviluppo regionali.
Sottrarre queste risorse senza alcun coinvolgimento delle Regioni è dunque in sé
violativo della loro sfera di autonomia».
Di qui, l’asserita legittimazione «alla
contestazione delle disposizioni» impugnate.
1.1.– Quanto al merito delle censure, con
specifico riferimento all’art. 1 del d.l. n. 113 del 2018, la ricorrente
lamenta la violazione degli artt. 2, 3, 10, secondo e terzo
comma, 117,
secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost.; degli artt. 11 e 117, primo comma,
Cost., in relazione agli artt. 15, lettera c), e 18 della direttiva
2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011,
recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della
qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme
per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione
sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta; dell’art. 117, primo comma,
Cost., in relazione agli artt. 6, 10, comma 1, 17, 23 e 24 del Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16
dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato e reso esecutivo
con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e agli artt. 2, 3 e 8 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata
a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,
n. 848.
Nel ricostruire la disciplina dell’istituto del
permesso di soggiorno per motivi umanitari, la ricorrente sottolinea in
particolare che, prima dell’intervento del decreto-legge impugnato, l’art. 5,
comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero), stabiliva che «[i]l rifiuto o la revoca del
permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni
o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non
soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti,
salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o
risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Il
permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciato dal questore secondo le
modalità previste nel regolamento di attuazione». Con l’art. 1 del d.l. n. 113
del 2018, l’inciso contenente la clausola di salvaguardia riferita ai «seri
motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi
costituzionali o internazionali dello Stato italiano» è stato soppresso, così
come la prevista possibilità del rilascio del permesso di soggiorno per motivi
umanitari da parte del questore.
A seguito della modifica normativa – prosegue
la Regione – il generale permesso di soggiorno per motivi umanitari è stato
sostituito da una pluralità di fattispecie tipizzate dallo stesso decreto-legge
oggetto di censura, e il suo rilascio sarebbe ora consentito quando lo
straniero «possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso,
di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro
Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione» (art. 19, comma 1, del t.u. immigrazione); quando vi siano «fondati motivi» che
egli possa «essere sottopost[o] a tortura» (art. 19,
comma 1.1); per «cure mediche» (art. 19, comma 2, lettera d-bis); per
«calamità» (art. 20-bis); per «atti di particolare valore civile» (art.
42-bis); per «protezione speciale» (art. 32, comma 3, del decreto legislativo
28 gennaio 2008, n. 25, recante «Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante
norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del
riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato»).
Dal quadro normativo riportato dalla difesa
regionale emergerebbe una situazione tale per cui gli stranieri, che prima
avrebbero potuto godere del permesso di soggiorno per motivi umanitari, per
effetto dell’intervento legislativo in esame risulterebbero irregolari qualora
non si trovassero nelle condizioni di cui all’art. 19, commi 1 e 1.1, del
novellato t.u. immigrazione o in quelle ulteriori per
le quali il medesimo testo unico o il d.lgs. n. 25 del 2008 prevedono il
rilascio di un permesso; detta irregolarità si estenderebbe anche a chi, già in
possesso del permesso per motivi umanitari, ne subisca la revoca oppure non ne
ottenga il rinnovo alla luce della novella legislativa, rispettivamente ai
sensi dei commi 1 e 8 dell’impugnato art. 1.
1.1.1.– Alla luce di quanto dedotto, la
ricorrente assume che le norme censurate incidano illegittimamente, non solo
sulle attribuzioni attinenti alla funzione legislativa ex art. 117, terzo
comma, Cost., ma anche su quelle relative alle funzioni amministrative ai sensi
dell’art. 118, primo comma, Cost., in quanto la Regione sarebbe costretta a
rimodulare dette funzioni, tanto con riferimento alla loro disciplina, quanto
al loro concreto esercizio, dovendo escludere dalla platea dei destinatari gli
stranieri che, in virtù della nuova legislazione statale, non potranno più
ottenere il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi
umanitari.
1.1.2.– In secondo luogo, ad avviso della Regione
Umbria, sarebbe violato l’art. 3 Cost. e con esso il legittimo affidamento dei
privati: da un lato, quello dei titolari di un permesso di soggiorno ottenuto
in virtù della precedente disciplina, dall’altro, quello di coloro che
confidavano nel rilascio del permesso sempre alla luce della disciplina
previgente.
La giurisprudenza della Corte di giustizia
dell’Unione europea, quella della Corte europea dei diritti dell’uomo nonché
quella della Corte costituzionale ammetterebbero l’incidenza su situazioni
soggettive pregresse (cosiddetti diritti quesiti) solo a condizione che
l’intervento legislativo sia necessario, proporzionato e motivato dal
riferimento a interessi costituzionalmente meritevoli di protezione; condizioni
che, tuttavia, non ricorrerebbero nella specie.
1.1.3.– In terzo luogo, sarebbero violati gli
artt. 2 e 3 Cost. perché verrebbe operata un’irragionevole distinzione tra
coloro che, a parità di condizioni di rilascio, dopo l’entrata in vigore del
d.l. n. 113 del 2018, non potranno più godere del permesso di soggiorno e
coloro che invece potranno mantenerlo ugualmente alla luce delle sopravvenienze
normative, distinzione tanto più irragionevole se si considera la sua
ripercussione sul godimento delle prestazioni pubbliche.
La disparità di trattamento rileverebbe anche
sotto un altro profilo. Secondo la giurisprudenza civile e amministrativa, i
requisiti per concedere il permesso di soggiorno per motivi umanitari
riguarderebbero le speciali esigenze relative alla «tutela della famiglia e dei
minori, ricongiungimento familiare, persecuzioni dovute a ragioni etniche,
religiose o politiche» (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 10
settembre 2008, n. 4317), nonché al «rischio effettivo di essere sottoposto a
pena di morte, tortura o trattamenti inumani o degradanti» (Corte di
cassazione, sezione prima civile, ordinanza 24 marzo 2011, n. 6879). Poiché le
fattispecie individuate dalla giurisprudenza non coinciderebbero integralmente
con quelle tipizzate dal legislatore, distinguere coloro che versano in tali
condizioni da coloro che presentano i requisiti per i nuovi «casi speciali»
violerebbe il principio di uguaglianza, in quanto entrambi i gruppi
ricomprenderebbero persone «vulnerabili» secondo la giurisprudenza della Corte
EDU, per le quali lo Stato deve necessariamente apprestare misure volte a
evitare che vengano sottoposte a trattamenti inumani e degradanti.
Conseguentemente, sarebbe violato anche l’art. 117, primo comma, Cost. «atteso
che la giurisprudenza ora citata fa leva sull’art. 3 CEDU».
1.1.4.– Per la ricorrente, sarebbe altresì
violato l’art. 10, terzo comma, Cost., che riconosce il diritto di asilo nel
territorio nazionale allo straniero cui sia impedito nel proprio paese
l’effettivo esercizio delle libertà democratiche. Il venir meno della formula
«motivi umanitari» a fondamento del rilascio del permesso di soggiorno – che,
si evidenzia nel ricorso, rispondeva alla necessità, imposta dall’art. 10,
terzo comma, Cost., di approntare ai richiedenti asilo una tutela elastica, in
quanto «consustanziale alla "configurazione ampia del diritto di asilo”»,
secondo le statuizioni della Corte di Cassazione, sezione prima civile,
sentenza 23 febbraio 2018, n. 4455 – avrebbe fatto venir meno anche la pienezza
della relativa tutela, ora relegata a singole fattispecie tipizzate, per ciò
solo inidonee a realizzare le prescrizioni costituzionali.
1.1.5.– La norma impugnata contrasterebbe poi
con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 15, lettera
c), e 18 della direttiva 2011/95/UE, perché escluderebbe dal regime di
protezione sussidiaria proprio le persone che, ove rientrassero nel paese di
origine, verrebbero esposte alla «minaccia grave individuale alla vita o alla
persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di
conflitto armato interno o internazionale».
1.1.6.– Le norme impugnate violerebbero inoltre
gli artt. 2, 10, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., in riferimento agli
artt. 2, 3 e 8 CEDU, e agli artt. 6, 10, comma 1, 17, 23 e 24 del Patto
internazionale sui diritti civili e politici. L’allontanamento dal territorio
italiano dei soggetti esclusi dal regime di protezione comprometterebbe
irrimediabilmente il diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui
all’art. 8 CEDU e agli artt. 17, 23 e 24 del Patto. A causa della povertà del
paese di provenienza, poi, sarebbe a rischio anche la loro vita e sicurezza
alimentare, in violazione degli artt. 2 e 3 CEDU e degli artt. 6 e 10, comma 1,
del Patto. Ne deriverebbe l’ulteriore violazione dell’art. 2 Cost., perché
verrebbero così compromessi i diritti inviolabili degli interessati.
1.1.7.– Da ultimo, secondo la Regione, le norme
censurate inciderebbero sugli ambiti di autonomia finanziaria riservati alle
Regioni ai sensi dell’art. 119 Cost. A tal proposito, la ricorrente osserva che
ai sensi dell’art. 35, comma 3, del t.u. immigrazione
«le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché
continuative, per malattia ed infortunio» e i «programmi di medicina preventiva
a salvaguardia della salute individuale e collettiva» sono in ogni caso
«garantiti ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in
regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno»; gli oneri
finanziari che ne derivano resterebbero comunque a carico delle Regioni, a
fronte di un aumento del numero di stranieri irregolari presenti sul territorio
e della corrispondente riduzione di una loro partecipazione alla spesa pubblica
tramite il versamento di imposte e contributi.
1.1.8.– Infine, la ricorrente formula una
specifica censura con riguardo all’art. 1, comma 1, lettera f), del d.l. n. 113
del 2018, che, nel novellare l’art. 18-bis del t.u.
immigrazione con l’inserimento del comma 1-bis, ha previsto l’accesso dei titolari
di permesso di soggiorno «speciali» ai (soli) «servizi assistenziali» e di
«studio». In tal modo, ad avviso della Regione, il legislatore statale avrebbe
escluso i titolari di detto permesso dall’accesso a servizi sociali diversi da
quelli espressamente indicati, così compromettendo manifestamente e
illegittimamente le attribuzioni regionali nelle materie di competenza
concorrente, quali la «formazione professionale», la «promozione e
organizzazione di attività culturali», nonché in quelle di competenza residuale
come le «politiche abitative». Ne deriverebbe la violazione dell’art. 117,
terzo e quarto comma Cost., in quanto le disposizioni impugnate, sia «autoapplicative» che di dettaglio, non lascerebbero alcun
margine di determinazione discrezionale alle Regioni nell’erogazione delle
prestazioni assistenziali.
Per le stesse ragioni, risulterebbe violato
anche l’art. 118 Cost., essendo sottratto alla Regione ogni spazio di esercizio
delle proprie attribuzioni amministrative nelle materie di competenza concorrente
o residuale sopra indicate, con particolare riferimento al terzo comma
dell’art. 118 Cost., in quanto la disciplina statale non avrebbe previsto alcun
obbligo dello Stato di concertare con le Regioni le modalità di assistenza nei
confronti dei richiedenti asilo e/o protezione internazionale, nonché nei
confronti dei soggetti già riconosciuti titolari di «protezione umanitaria».
1.2.– Con specifico riferimento all’art. 12 del
d.l. n. 113 del 2018, la ricorrente ritiene le disposizioni impugnate contrastanti
con gli artt. 2, 3, 97, 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost., nonché con
l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 3 CEDU.
La ricorrente ricorda che il Sistema di
protezione per richiedenti asilo e rifugiati (d’ora innanzi: SPRAR) è il
servizio costituito dalla rete di centri di accoglienza gestiti dagli enti
locali, che non si limitano ad accogliere i migranti, ma svolgono anche
progetti e attività di istruzione, integrazione sociale, informazione,
assistenza e orientamento nella costruzione di percorsi individuali e/o
collettivi di inserimento socio-economico, sicché le funzioni dei centri SPRAR
coinvolgerebbero ambiti attribuiti alle competenze concorrenti e residuali
delle Regioni, come quelli del «diritto allo studio» o all’«assistenza
sociale», nonché delle «politiche abitative».
Ciò posto, la Regione ricorrente evidenzia che
le disposizioni censurate sono intervenute «sulla platea dei beneficiari dei
servizi di accoglienza sul territorio che sono prestati dagli enti locali», in
quanto tali servizi sono stati ora riservati ai soli titolari delle vigenti
forme di protezione internazionale, ivi compresi i permessi speciali introdotti
dallo stesso d.l. n. 113 del 2018, oltre che ai minori stranieri non
accompagnati. Sono stati invece esclusi dalla possibilità di usufruire dei
relativi servizi i richiedenti la protezione internazionale, oltre che i
possessori dei precedenti permessi di soggiorno per motivi umanitari, oggi
soppressi.
Per tale motivo, si è provveduto a ridenominare lo SPRAR in Sistema di protezione per titolari
di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati (d’ora
in avanti: SIPROIMI).
Nel ricostruire la portata delle innovazioni
introdotte dall’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018, la ricorrente sottolinea che
quelle contenute nel comma 1 hanno modificato l’art. 1-sexies del decreto-legge
30 dicembre 1989, n. 416 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di
ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini
extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato),
convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 1990, n. 39, nel senso, già
innanzi descritto, di modificare il novero dei destinatari dei servizi
territoriali di accoglienza.
Ricorda, ancora, che, con il comma 2 dell’art.
12 del d.l. n. 113 del 2018 sono state modificate tutte le disposizioni del
decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della direttiva
2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione
internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai
fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione
internazionale), nel senso di espungere i frammenti normativi che facevano
riferimento ai richiedenti asilo in relazione alle strutture ex SPRAR, alle
quali tali soggetti non hanno più accesso, essendo destinati ad essere ospitati
solo nelle strutture governative disciplinate dagli artt. 9 e 11 del d.lgs. n.
142 del 2015.
Il comma 3 dell’art. 12 ha modificato il d.lgs.
n. 25 del 2008, cancellando dai criteri che definiscono la competenza per
territorio delle commissioni territoriali che esaminano le domande di
protezione internazionale dei richiedenti asilo quello della collocazione nel
centro ex SPRAR, inserendo disposizioni di coordinamento sui portatori di
esigenze speciali.
Il comma 5 dell’art. 12 del d.l. n. 113 del
2018 prevede, con una norma transitoria, che i richiedenti asilo presenti nel
sistema ex SPRAR alla data di entrata in vigore del decreto-legge, rimangano in
accoglienza fino alla scadenza del progetto in corso, già finanziato.
Il successivo comma 5-bis prevede, invece, per
i minori non accompagnati richiedenti asilo, che al compimento della maggiore
età essi rimangano nel sistema SIPROIMI fino alla definizione della domanda di
protezione internazionale.
Il comma 6, infine, detta un’ulteriore norma
transitoria per i titolari della protezione umanitaria presenti nel sistema ex
SPRAR, stabilendo che essi rimangano in accoglienza fino alla scadenza del
periodo temporale previsto dalle disposizioni di attuazione sul funzionamento
del medesimo sistema di protezione, e comunque non oltre la scadenza del
progetto di accoglienza.
Secondo la Regione Umbria, le disposizioni
impugnate produrrebbero un aggravio dei servizi di integrazione e
socio-assistenziali ordinari, dedicati alla generalità della popolazione
residente, predisposti e finanziati dagli enti locali e dalle Regioni, rendendo
«evidente» la lesione delle competenze legislative e amministrative regionali.
Sarebbe, infatti, impedito alla Regione di
esercitare le proprie attribuzioni nelle materie di competenza concorrente
«istruzione», «formazione professionale», «promozione e organizzazione di
attività culturali», nonché nelle materie di competenza regionale residuale
«servizi sociali», «assistenza sociale», «diritto allo studio», «politiche
abitative», in quanto nei centri governativi, gestiti dall’amministrazione
statale, non sarebbe previsto lo svolgimento di alcuna attività socio-assistenziale:
tale circostanza renderebbe evidente «che le disposizioni in esame cancellano
integralmente le competenze legislative regionali sopra indicate», perché tali
disposizioni sarebbero «autoapplicative» e
dettagliate, sicché non lascerebbero alla Regione «alcun margine di
discrezionale determinazione nell’ottica di un adattamento alle specifiche
esigenze della ricorrente», con conseguente violazione dell’art. 117, terzo e
quarto comma, Cost.
Risulterebbe, altresì, violato l’art. 118
Cost., in quanto alla Regione sarebbe «sottratto ogni spazio di esercizio delle
sue attribuzioni amministrative nelle materie di competenza sopra indicate».
Sarebbe, infine, specificamente violato l’art.
118, terzo comma, Cost., in quanto la disciplina in esame non avrebbe previsto
«l’obbligo dello Stato di concertare con le Regioni le modalità di assistenza
nei confronti dei richiedenti asilo e/o protezione internazionale, nonché nei
confronti dei soggetti già riconosciuti in stato di "protezione umanitaria”».
I medesimi parametri costituzionali sarebbero
violati, in seguito all’espulsione dal sistema di accoglienza del titolare del
precedente permesso di soggiorno per motivi umanitari senza alcuna verifica
circa la capacità di sostentarsi, anche in riferimento: alla tutela dei diritti
inviolabili dell’uomo, ex art. 2 Cost., in quanto le norme impugnate
comprometterebbero «il minimo di sostegno sociale dovuto a qualunque essere
umano»; al principio di ragionevolezza, ex art. 3 Cost., in quanto le
disposizioni censurate sarebbero irragionevoli, trattando allo stesso modo
«situazioni personali anche assai differenziate»; al principio di buon
andamento della P.A. ex art. 97 Cost., in quanto le norme impugnate
vanificherebbero «gli sforzi (anche finanziari) sostenuti dagli enti coinvolti
nel sistema Sprar», scaricando «il costo economico
sociale del migrante sugli ordinari servizi socio-assistenziali approntati e
finanziati dalle Regioni e dagli enti locali»; all’art. 117, primo comma,
Cost., in riferimento all’art. 3 CEDU, perché, a parere della ricorrente,
costituirebbe «trattamento degradante» la cessazione dei servizi di accoglienza
già avviati nei confronti di soggetti definiti «vulnerabili», quali sono i
richiedenti asilo e, ancor più, coloro che avevano ottenuto il permesso di
soggiorno per motivi umanitari secondo la previgente disciplina.
1.3.– Con specifico riferimento all’art. 13 del
d.l. n. 113 del 2018, la Regione Umbria ha impugnato le seguenti disposizioni:
comma 1, lettera a), numero 2), lettera b) e lettera c), in riferimento agli
artt. 2, 3, 10, terzo comma, 97, 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost.;
all’art. 117, primo comma, Cost., anche in relazione all’art. 2, comma 1, del
Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, che riconosce taluni diritti e libertà diversi da
quelli che figurano già nella convenzione e nel suo primo protocollo
addizionale, adottato a Strasburgo il 16 settembre 1963, e all’art. 12, comma
1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
1.3.1.– La Regione ricorrente precisa che
l’art. 13, nella parte oggetto di impugnazione (ad esclusione quindi del comma
1, lettera a, numero 1), ha modificato gli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 142 del
2015 e ne ha abrogato l’art. 5-bis.
In particolare, al comma 1 dell’art. 4 –
secondo cui «[a]l richiedente è rilasciato un permesso di soggiorno per
richiesta asilo valido nel territorio nazionale per sei mesi, rinnovabile fino
alla decisione della domanda o comunque per il tempo in cui è autorizzato a
rimanere nel territorio nazionale ai sensi dell’articolo 35-bis, commi 3 e 4,
del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25» – è stato aggiunto il seguente
periodo (che non è oggetto dell’odierna impugnazione): «[i]l permesso di
soggiorno costituisce documento di riconoscimento ai sensi dell’articolo 1,
comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre
2000, n. 445» (art. 13, comma 1, lettera a, numero 1, del d.l. n. 113 del
2018).
Dopo il comma 1 dell’art. 4 del d.lgs. n. 142
del 2015 è stato aggiunto il comma 1-bis, del seguente tenore: «[i]l permesso
di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione
anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989,
n. 223, e dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.
286» (art. 13, comma 1, lettera a, numero 2, del d.l. n. 113 del 2018).
è stato poi sostituito il comma 3 dell’art. 5
del d.lgs. n. 142 del 2015, che oggi risulta così formulato: «[l]’accesso ai
servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul
territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio
individuato ai sensi dei commi 1 e 2». Al comma 4 dello stesso art. 5 sono
state sostituite le parole «un luogo di residenza» con «un luogo di domicilio»
(art. 13, comma 1, lettera b, del d.l. n. 113 del 2018).
Infine, l’art. 13, comma 1, lettera c), del
d.l. n. 113 del 2018 ha disposto l’abrogazione dell’art. 5-bis del d.lgs. n.
142 del 2015, il quale prevedeva: «1. Il richiedente protezione internazionale
ospitato nei centri di cui agli articoli 9, 11 e 14 è iscritto nell’anagrafe
della popolazione residente ai sensi dell’articolo 5 del regolamento di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, ove non
iscritto individualmente. 2. è fatto obbligo al responsabile della convivenza
di dare comunicazione della variazione della convivenza al competente ufficio
di anagrafe entro venti giorni dalla data in cui si sono verificati i fatti. 3.
La comunicazione, da parte del responsabile della convivenza anagrafica, della
revoca delle misure di accoglienza o dell’allontanamento non giustificato del
richiedente protezione internazionale costituisce motivo di cancellazione
anagrafica con effetto immediato, fermo restando il diritto di essere
nuovamente iscritto ai sensi del comma 1».
Secondo la ricorrente, dal combinato disposto
delle norme sopra richiamate discenderebbe che il permesso di soggiorno per
richiesta di asilo costituisce un documento di riconoscimento ma non un titolo
per l’iscrizione anagrafica, pertanto il titolare di permesso di soggiorno per
richiesta di protezione internazionale non potrà essere iscritto all’anagrafe
dei residenti. Ciò nondimeno, il richiedente continuerà ad avere accesso ai
«servizi» previsti dal d.lgs. n. 142 del 2015 e a quelli «comunque erogati sul
territorio» nel luogo di domicilio.
Al riguardo, la difesa regionale rileva come la
gran parte dei servizi previsti dal d.lgs. n. 142 del 2015 sia erogata
attraverso il diretto coinvolgimento di Regioni ed enti locali e intersechi una
pluralità di materie di competenza concorrente della Regione Umbria. Tra questi
servizi, comunque garantiti ai richiedenti, sono richiamati: l’assistenza
sanitaria (art. 21, comma 1, del d.lgs. n. 142 del 2015); l’istruzione dei
minori richiedenti protezione internazionale e dei minori figli di richiedenti
protezione internazionale (art. 21, comma 2); la possibilità «di svolgere
l’attività lavorativa» (art. 22, comma 1); la partecipazione «ad attività di
utilità sociale» (art. 22-bis). Il riferimento a questi servizi confermerebbe,
secondo la ricorrente, l’ammissibilità delle censure prospettate.
1.3.2.– Muovendo dalla prospettiva delle
prerogative regionali asseritamente menomate, l’art. 13 del d.l. n. 113 del
2018 violerebbe gli artt. 2, 3, 97, 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost.
La norma impugnata imporrebbe alle Regioni
«alternativamente» di «escludere dall’erogazione di servizi e prestazioni i
richiedenti asilo, in violazione dei principi dettati dallo stesso legislatore
statale nel d.lgs. n. 142 del 2015», o di «modificare la corrispondente
normativa regionale in modo da garantire – a spese delle Regioni medesime,
s’intende – determinati servizi e prestazioni anche ai non iscritti
all’anagrafe dei residenti».
Secondo la ricorrente, l’esito sarebbe, in
entrambi le ipotesi, «paradossale» e in ogni caso «violativo»
delle prerogative regionali garantite dall’art. 117, terzo e quarto comma,
Cost.
L’illegittimità della norma impugnata
ridonderebbe anche in lesione dell’autonomia finanziaria regionale di cui
all’art. 119 Cost. e si porrebbe in contrasto con il principio di economicità
dell’azione amministrativa, imposto dall’art. 97 Cost. Al riguardo, la Regione
sarebbe tenuta a garantire anche ai richiedenti asilo i servizi erogati sul
proprio territorio, ma – stante l’impossibilità della loro iscrizione
all’anagrafe – non potrebbe considerarli «partecipi a pieno titolo, anche sotto
il profilo dei doveri tributari, contributivi, etc., della sua comunità di
residenti».
Sarebbe altresì violato l’art. 118 Cost. in
considerazione del fatto che il divieto di iscrizione all’anagrafe inciderebbe
sull’esercizio delle funzioni amministrative spettanti ai Comuni nelle materie
di competenza regionale sopra menzionate.
1.3.3.– L’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018
violerebbe, inoltre, gli artt. 3 e 10, terzo comma, Cost., in quanto il
legislatore statale, impedendo l’iscrizione anagrafica ai richiedenti asilo, avrebbe
riservato un trattamento diverso e deteriore a una particolare categoria di
stranieri, dando vita a una discriminazione del tutto irragionevole fondata
esclusivamente sul diverso tipo di permesso di soggiorno posseduto. Né potrebbe
valere a giustificare siffatta differenza di trattamento «la precarietà del
permesso di richiesta asilo», richiamata nella relazione di presentazione del
disegno di legge di conversione del d.l. n. 113 del 2018. Al riguardo, la
difesa regionale rileva come la durata semestrale sia prevista non solo per il
permesso di soggiorno in questione ma anche per quello «per calamità» (art.
20-bis t.u. immigrazione) e per quello «per motivi di
protezione sociale» (art. 18 t.u. immigrazione).
1.3.4.– La norma impugnata violerebbe, infine,
gli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 2, comma 1,
del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali e all’art. 12, comma 1, del Patto internazionale
relativo ai diritti civili, poiché «l’irragionevole preclusione all’iscrizione
anagrafica min[erebbe]
irrimediabilmente anche le garanzie previste dalle fonti sovranazionali
richiamate, gravemente compromettendo il diritto (garantito dagli artt. 2 e 3
Cost.) al riconoscimento pubblico del reale rapporto tra persona e territorio
dello Stato».
1.4.– Da ultimo, la Regione Umbria prospetta,
con riferimento alle disposizioni impugnate, anche la violazione dell’art. 77 Cost. e del
principio di leale collaborazione.
1.4.1.– Ad avviso della ricorrente, le norme
censurate, adottate tramite decreto-legge, sarebbero carenti dei presupposti di
straordinaria necessità e urgenza. Detta carenza emergerebbe dalla apoditticità
della relazione di accompagnamento alla legge di conversione, priva di
motivazione in ordine alla situazione di fatto che avrebbe legittimato il
Governo ad intervenire. In generale, le misure previste dall’atto legislativo
sarebbero ordinamentali e di sistema, «per definizione estrane[e]
all’ambito legittimamente regolabile con un decreto legge».
1.4.2.– Nel dettaglio, le disposizioni
censurate sarebbero tutte eterogenee, riguardando una serie «nutritissima» di
oggetti. Con riferimento all’art. 1, poi, la difesa regionale insiste sulla
«natura meramente fittizia dell’invocazione delle esigenze di urgenza in ordine
a questioni che non hanno nulla a che vedere con il fenomeno del contrasto
all’immigrazione clandestina», cui accenna il preambolo. Inoltre, in relazione
all’art. 12 del decreto-legge censurato, la Regione precisa come le funzioni
dell’ex SPRAR siano «assai articolate», dunque «non disciplinabili in via di
interventi di (asserita) necessità e urgenza». Le norme che hanno rivisto detto
sistema non sarebbero di immediata applicabilità, prevedendosi l’ultrattività
della precedente disciplina per le persone già collocate nei centri. Anche
l’art. 13, relativo all’iscrizione anagrafica, sarebbe una misura ordinamentale
incompatibile con l’atto fonte utilizzato.
1.5.– La Regione Umbria ritiene violato,
inoltre, il principio di leale collaborazione, alla luce del suo mancato
coinvolgimento durante l’iter legislativo di approvazione del decreto e nel
corso della sua conversione in legge, nonostante l’incidenza dello stesso sulle
prerogative regionali.
Laddove si ritenga che il principio di leale
collaborazione non trovi applicazione in ordine all’esercizio della funzione
legislativa, il vizio denunciato non verrebbe comunque meno, considerato che il
coinvolgimento regionale non è stato previsto nemmeno per quegli atti di
concreta amministrazione applicativi delle astratte previsioni del
decreto-legge.
2.– La Regione Emilia-Romagna, con ricorso
notificato il 1°-6 febbraio 2019 e depositato il 4 febbraio 2019 (reg. ric. n.
11 del 2019), ha impugnato molteplici disposizioni del d.l. n. 113 del 2018,
tra cui gli artt. 1, 12 e 13.
Dell’art. l, in particolare, ha censurato: il
comma l, lettere a), b), d), f), numero 1), i), numero 1), h), o), p), numeri
l) e 2); il comma 2, lettera a); il comma 6, lettere a), b), c) e d); il comma
7, lettere a) e b); il comma 8 e il comma 9.
Dell’art. 12 ha impugnato: il comma 1, lettere
a), a-bis), a-ter), b), c), d); il comma 2, lettere a), numeri 1) e 2), b), c),
d), numeri 1) e 2), f), numeri 1), 2) e 5), g), numeri 1) e 2), h), numeri 1) e
2), h-bis), l), m); il comma 3, lettera a); i commi 4, 5 e 6.
Dell’art. 13, comma 1, ha censurato: la lettera
a), numero 2); la lettera b), numeri l) e 2); la lettera c).
In ordine alla legittimazione della Regione
all’impugnativa, a tutela delle attribuzioni proprie, unitamente a quelle degli
enti locali, la ricorrente riconosce che le disposizioni censurate sono
ascrivibili a competenze statali esclusive, quali «diritto di asilo» e «condizione
giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea» (art.
117, secondo comma, lettera a, Cost.) nonché «immigrazione» (art. 117, secondo
comma, lettera b, Cost.), ma premette di agire per salvaguardare l’esercizio di
proprie competenze residuali, tra cui quelle in materia di assistenza sociale e
formazione professionale (art. 117, quarto comma, Cost.), e di proprie
competenze concorrenti, tra cui quelle relative alla tutela della salute,
all’istruzione e alla tutela del lavoro (art. 117, terzo comma, Cost.).
Negli ambiti di propria competenza da ultimi
richiamati, infatti, la Regione si troverebbe «condizionata […] a rispettare e
sviluppare le scelte contenute nella legislazione statale», di cui soprattutto
al t.u. immigrazione e da quest’ultimo espressamente
qualificata come normazione di principio per le Regioni (art. 1, comma 4).
Inoltre, secondo la ricorrente, la stessa
giurisprudenza costituzionale imporrebbe allo Stato di esercitare le proprie
competenze in materia di immigrazione e di condizione giuridica dello straniero
in stretto coordinamento con le Regioni, in quanto l’intervento pubblico non
potrebbe che riguardare anche ambiti – dall’assistenza all’istruzione, dalla
salute all’abitazione – attribuiti alle competenze regionali, residuali o
concorrenti.
Già sul piano del riparto costituzionale,
osserva la ricorrente, la presenza di interessi e di competenze regionali anche
all’interno della competenza esclusiva sulla immigrazione sarebbe oggetto di
espresso riconoscimento nell’art. 118, terzo comma, Cost., a mente del quale
«la legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle
materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell’art. 117».
Ciò posto, la ricorrente lamenta che lo Stato,
nell’esercizio delle proprie competenze, abbia dettato norme incostituzionali,
che costringerebbero «l’azione regionale in una cornice normativa illegittima,
condizionando e viziando conseguentemente gli stessi atti legislativi ed
amministrativi adottati dall’ente regionale nel rispetto di quella cornice».
Tale lesione sarebbe evidente con riguardo alle
disposizioni dell’art. l del d.l. n. 113 del 2018, che priverebbero i soggetti
– oggi titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari – di specifici
diritti, quali il godimento dell’assistenza sanitaria in condizione di parità
con i cittadini italiani, il diritto allo studio, il diritto al lavoro e alla
formazione professionale, in tal modo interferendo sulle funzioni attualmente
svolte dalla Regione: le posizioni soggettive «eliminate» in capo alle persone
titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari avrebbero, infatti,
natura di «diritti o di interessi pretensivi
conformati dalla legislazione regionale e azionabili, sulla base di tale
legislazione, nei confronti della Regione, degli enti strumentali della Regione
o degli enti locali».
Con particolare riferimento all’art. 12 del
d.l. n. 113 del 2018 sarebbe evidente l’interferenza con le funzioni
attualmente svolte dalla Regione e quindi la lesione indiretta delle competenze
di quest’ultima in tema di assistenza sociale e di quelle amministrative
esercitate dai Comuni ai sensi degli artt. 5 e 118, primo comma, Cost.
Infine, in relazione all’art. 13 del d.l. n. 113
del 2018, concernente la residenza anagrafica, la preclusione, o comunque la
limitazione della possibilità di ottenerla per i richiedenti asilo, farebbe sì
che queste persone, legittimamente presenti sul territorio della Regione e dei
suoi Comuni, si troverebbero «impedite» nel godimento di quei servizi per i
quali proprio la residenza costituisce presupposto essenziale.
La Regione dichiara, inoltre, di agire – a ciò
autorizzata dalla giurisprudenza costituzionale – anche a tutela delle
attribuzioni degli enti locali, e segnatamente dei Comuni, che esercitano
funzioni in materia di assistenza e di integrazione sociale dei richiedenti
asilo e, in generale, degli stranieri, sicché anche gli enti locali avrebbero
interesse «ad ottenere che le funzioni da essi esercitate per effetto di
vincoli costituzionali […] concretizzati da leggi regionali e statali, non
siano guidate da leggi illegittime».
2.1.– Quanto al merito delle censure, con
specifico riferimento all’art. 1 del d.l. n. 113 del 2018, la ricorrente
formula diversi motivi di ricorso, lamentando in via principale che l’avvenuta
soppressione del permesso di soggiorno per motivi umanitari e la sua
sostituzione con ipotesi di permesso di soggiorno per «casi speciali» non
sarebbe in grado di ricomprendere tutte le ipotesi di protezione risultanti da
obblighi costituzionali o internazionali dello Stato.
2.1.1.– Ad avviso della Regione, invero, la
precedente clausola generale del permesso di soggiorno per motivi umanitari di
cui all’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione, in
quanto clausola aperta ed elastica, non sarebbe sostituibile con la previsione
di casi tassativi, i quali, in ragione della loro stessa struttura e
conformazione, non potrebbero garantire la copertura dell’intera area di
accoglienza dovuta in esecuzione di obblighi costituzionali o internazionali.
Pertanto, la nuova disciplina contrasterebbe con gli artt. 2 e 3 Cost., in ragione
della violazione dei principi di inviolabilità della persona umana nei suoi
diritti fondamentali e nella sua dignità; con l’art. 10, secondo e terzo
comma, Cost., atteso che gli obblighi interni e internazionali di
protezione dello straniero risulterebbero inosservati; con l’art. 97 Cost., per
violazione del principio di ragionevolezza e buon andamento
dell’amministrazione in ragione dell’avvenuta individuazione e distinzione,
all’interno della popolazione regionale, di un gruppo di persone a condizione
giuridica irrimediabilmente degradata; con l’art. 117, primo comma,
Cost., per il dichiarato intento del legislatore a non sentirsi vincolato
all’adempimento degli obblighi costituzionali e internazionali; con gli artt. 117, terzo e
quarto comma, e 118,
primo e secondo comma, Cost., perché l’intervento legislativo ridonderebbe
sull’esercizio delle competenze regionali in materia di tutela della salute,
del lavoro e della formazione professionale e dell’assistenza sociale.
2.1.2.– In via subordinata, la Regione
Emilia-Romagna censura la nuova ipotesi di permesso di soggiorno per calamità,
introdotta dall’art. l, comma l, lettera h), del d.l. n. 113 del 2018, nella
parte in cui limita la possibilità di rilascio di detto titolo ai soli casi in
cui lo stato di calamità in cui versi il paese di origine dello straniero sia
«contingente ed eccezionale». Tale limitazione, secondo la Regione,
escluderebbe tutte le altre ipotesi in cui ricorrano ragioni diverse dalla
prevista «calamità contingente ed eccezionale», che non rendono comunque
possibile il rientro e la permanenza dello straniero in condizioni di
sicurezza, ma sia in ogni caso doveroso il riconoscimento della protezione
umanitaria per obbligo costituzionale o internazionale. Vi sarebbe pertanto una
violazione degli artt. 2, 3, 10 e 117, primo comma, Cost., ridondante in
lesione delle competenze regionali e comunali, garantite dagli artt. 117, terzo
e quarto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost.
2.1.3.– In terzo luogo, la Regione ravvisa
un’ulteriore violazione degli artt. 3, 10, secondo e terzo comma, e 117, primo
comma, Cost., nella parte in cui le disposizioni impugnate eliminano il
riferimento a «motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi
costituzionali o internazionali dello Stato italiano», ove queste siano intese
nel senso di precludere il rilascio del permesso di soggiorno in favore dei
soggetti comunque meritevoli del titolo in esecuzione di obblighi
internazionali e costituzionali, anche se non rientranti nelle circostanze
specificamente previste dalle norme sui permessi per casi speciali, ma comunque
collegati alla medesima area di protezione.
2.1.4.– La Regione Emilia-Romagna ritiene inoltre
che l’abrogazione di ogni riferimento al permesso di soggiorno per motivi
umanitari dal t.u. immigrazione privi i soggetti in
possesso di un permesso di soggiorno per motivi umanitari di una serie di
diritti civili o sociali, quali ad esempio il diritto alla formazione
professionale, al lavoro, all’accesso alle prestazioni sanitarie in condizione
di parità con i cittadini.
Sotto altro profilo, la ricorrente afferma che
l’applicazione immediata delle disposizioni impugnate avrebbe l’effetto di
sottrarre ai titolari di un permesso di soggiorno per motivi umanitari ancora
in corso di validità, una serie di facoltà e prestazioni erogate dalla Regione
o dagli enti locali in materia di tutela del lavoro, di istruzione, di
formazione e di avviamento professionale. Da tanto, la Regione ricorrente
ricava l’illegittimità di tali norme per violazione degli artt. 2 e 3 Cost. in
ragione della privazione di uno status legittimamente acquisito, con violazione
del principio dell’affidamento e con incisione di diritti fondamentali della
persona, quali il diritto al lavoro e alla formazione professionale di cui
all’art. 35 Cost., il diritto all’istruzione ex art. 34 Cost. e il diritto alla
salute presidiato dall’art. 32 Cost.
2.1.5.– In quinto luogo, la Regione Emilia-Romagna
deduce altresì «la illegittimità costituzionale dell’art. l, commi 8 e 9, per
violazione degli artt. 2 e 10, terzo comma, dell’art. 3 Cost., sotto il profilo
della tutela dell’affidamento e per disparità di trattamento, nonché dell’art.
117, primo comma, Cost., in relazione ai principi di certezza del diritto e di
tutela dell’affidamento sanciti dal diritto europeo». In particolare, ad avviso
della Regione ricorrente, il comma 8 sarebbe illegittimo perché non
consentirebbe il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari in
costanza delle condizioni che lo hanno reso giuridicamente dovuto, mentre il
comma 9, a sua volta, sarebbe illegittimo laddove prevede il rilascio solo di
un permesso per «casi speciali».
Dette disposizioni, laddove applicate
retroattivamente nei confronti degli stranieri che avevano fatto ingresso nel
territorio dello Stato prima del 5 ottobre 2018, contrasterebbero con gli artt.
2, 10, terzo comma, 3 (in relazione ai principi di affidamento e di certezza
del diritto interno), 117, primo comma, Cost. (per violazione dei principi di
affidamento e di certezza del diritto sanciti dal diritto europeo), trattandosi
«di persone già presenti sul territorio regionale e quindi integrate nel
sistema di assistenza e di protezione sociale apprestato dalla rete regionale,
i quali per effetto della interpretazione qui contestata come incostituzionale
ne verrebbero esclusi».
2.2.– Quanto all’art. 12 del d.l. n. 113 del
2018, la ricorrente ritiene le impugnate disposizioni lesive degli artt. 2, 3, 4, 5, 11, 35, 97, 114, 117, primo, terzo e
quarto comma, 118,
119 e 120 Cost., nonché
del principio di leale collaborazione.
Partendo dalla considerazione che l’intervento
normativo mira a limitare l’accoglienza nel sistema SPRAR (rinominato SIPROIMI)
ai soli titolari di protezione internazionale (compresa quella speciale,
sostituitasi, in parte, a quella umanitaria precedentemente esistente) e ai
minori stranieri non accompagnati, il ricorso è volto a contestare la
legittimità costituzionale «della sottrazione agli enti territoriali
dell’accoglienza ai richiedenti asilo e delle risorse destinate ad essa, in
quanto tale sottrazione priva le Regioni e gli enti locali di una parte delle
funzioni che ad essi spettano».
A tal fine, la ricorrente ricostruisce la
disciplina previgente del sistema SPRAR, evidenziando, per quanto qui
d’interesse, che esso è finanziato da un fondo nazionale alimentato anche da
risorse messe a disposizione dell’Unione europea, da ultimo grazie al
Regolamento (UE) del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014, n.
516 che istituisce il Fondo Asilo, migrazione e integrazione, che modifica la
decisione 2008/381/CE del Consiglio e che abroga le decisioni n. 573/2007/CE e
n. 575/2007/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e la decisione
2007/435/CE del Consiglio.
Ricorda che gli enti locali predisponevano un
sistema di seconda accoglienza che costituiva il passaggio successivo rispetto
alla cosiddetta prima accoglienza, espletata dopo le operazioni di primo
soccorso finalizzate a distinguere i richiedenti protezione dai cosiddetti
migranti economici, questi ultimi non ammessi sul territorio nazionale.
La ricorrente illustra poi le modifiche
apportate dal d.l. n. 113 del 2018, come convertito, con le quali sono state
profondamente variate le norme fondamentali di disciplina dell’ex SPRAR
contenute nell’art. 1-sexies del d.l.
n. 416 del 1989 e nell’art. 14 del d.lgs. n. 142 del 2015 – nei sensi già
descritti con riferimento al ricorso della Regione Umbria – introducendo anche
una disciplina transitoria.
2.2.1.– Il primo motivo di ricorso investe
specificamente l’art. 12, comma 1, lettere a), a-ter), b), c), d); comma 2,
lettere a), numeri 1) e 2), b), c), d), numeri 1) e 2), f), numeri 1) e 5), g),
numeri 1) e 2), h), numeri 1) e 2); comma 3, lettera a); comma 4 del d.l. n.
113 del 2018.
Secondo la Regione Emilia-Romagna,
l’accentramento in sedi e istituzioni statali delle funzioni di accoglienza dei
richiedenti asilo comprometterebbe la facoltà delle Regioni di disciplinare –
rispetto a soggetti che, in attesa di ulteriori decisioni, legittimamente
permangono sul territorio – le forme dell’assistenza ai richiedenti asilo, ivi
compresa l’istituzione di strutture idonee e l’individuazione delle funzioni
degli enti locali nella materia, ulteriori rispetto a quelle individuate dallo
Stato come funzioni fondamentali (tra cui il sistema locale dei servizi
sociali).
La Regione e gli enti locali sarebbero perciò
privati di funzioni (in materia di assistenza a una particolare categoria di
persone, bisognose di accoglienza) di cui sono costituzionalmente titolari e
che la ricorrente avrebbe già esercitato, peraltro attribuendo ai Comuni
«rilevantissime funzioni» in materia di integrazione sociale dei cittadini
stranieri immigrati.
Sarebbero, in tal modo, violati gli artt. 5,
114, 117, terzo e quarto comma e 118, primo comma, Cost., quest’ultimo, in
particolare, perché le funzioni di seconda accoglienza ai richiedenti asilo
erano correttamente allocate a livello comunale.
Ancora, la concentrazione delle funzioni di
accoglienza per i richiedenti asilo nelle strutture governative sarebbe
irragionevole e metterebbe a repentaglio basilari diritti riconosciuti
dall’art. 2 Cost., per la prospettiva «di sicure violazioni dei diritti umani
dei soggetti ospitati», essendo «notorio» che, nei centri statali, le
condizioni di accoglienza sarebbero peggiori rispetto a quelle assicurate nelle
strutture ex SPRAR, ponendosi al di sotto degli standard imposti dalle norme
europee.
2.2.2.– Il secondo motivo di ricorso censura
specificamente il comma 1, lettera a-bis), e il comma 2, lettera f), numero 2),
dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018.
Tali disposizioni avrebbero riformulato la
disciplina dei finanziamenti ai progetti di accoglienza nel sistema ex SPRAR,
precludendo l’accesso degli enti locali al Fondo nazionale per le politiche e i
servizi dell’asilo, comprendente anche fondi di provenienza europea
relativamente all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale.
Inoltre, sarebbe stato ridotto il ruolo spettante alla Conferenza unificata, la
quale, a fronte del precedente compito di interlocuzione nel momento
dell’emanazione del decreto ministeriale di ripartizione dei fondi, oggi
concorrerebbe solo al decreto ministeriale con il quale sono definititi i
criteri e le modalità per la presentazione da parte degli enti locali delle
domande di contributo per la realizzazione e la prosecuzione dei progetti
finalizzati all’accoglienza dei soggetti ammessi al SIPROIMI.
In tal modo, sarebbero violati gli artt. 117 e
119 Cost. e 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 5, comma l,
lettera b), del regolamento n. 516/2014/UE, in quanto, eliminando il canale di
finanziamento per gli ex SPRAR relativamente all’accoglienza dei richiedenti protezione,
gli enti locali sarebbero privati di qualunque via per accedere ai
finanziamenti per tale tipologia di servizio, che pure sarebbero competenti –
insieme alla Regione – a svolgere, nonché esclusi dai fondi europei.
Sarebbero altresì violati gli artt. 3, 97, 120
Cost. e il principio di leale collaborazione, per il ridimensionamento del
ruolo assunto dalla Conferenza unificata.
2.2.3.– Il terzo motivo di ricorso colpisce
specificamente il comma 2, lettera h-bis), dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018.
La disposizione prevede, in relazione ai minori
non accompagnati, che nel caso di indisponibilità di strutture governative,
essi siano accolti temporaneamente dai Comuni in cui si trovano, ma «senza
alcuna spesa o onere a carico del Comune interessato all’accoglienza».
La censura è avanzata in via cautelativa, ove
la disposizione dovesse essere interpretata nel senso di limitare la
possibilità dei Comuni, nell’esercizio di funzioni proprie, di finanziare
liberamente le proprie attività. In tal caso, infatti, risulterebbe lesa, a
parere della ricorrente, l’autonomia finanziaria degli enti locali, oltre che
il principio di buon andamento dell’amministrazione, in violazione degli artt.
97, 118 e 119 Cost.
2.2.4.– Il quarto motivo di ricorso investe
specificamente il comma 2, lettera l), dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018.
La norma abroga la disposizione che prevedeva
la possibilità, per i richiedenti asilo che in precedenza usufruivano dei servizi
SPRAR, di frequentare corsi di formazione professionale.
A parere della ricorrente, la disposizione
censurata violerebbe l’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., in connessione
con l’art. 35 Cost., ove interpretata nel senso di istituire un divieto in capo
alla Regione e agli enti locali di organizzare attività di formazione
professionale alle quali i richiedenti protezione internazionale possano
partecipare.
2.2.5.– Il quinto motivo di ricorso censura
specificamente il comma 2, lettera m), dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018.
La disposizione riserva ai già titolari di
protezione internazionale l’impiego in attività di utilità sociale in favore
delle collettività locali, promosse dai prefetti, d’intesa con i Comuni e le
Regioni.
Ove interpretata come un divieto rispetto alla
possibilità, per Comuni e Regioni, di organizzare tali attività in relazione ai
richiedenti asilo, violerebbe le competenze regionali in materia di formazione
professionale e tutela del lavoro e, dunque, l’art. 117, terzo e quarto comma,
Cost., in connessione con gli artt. 4 e 35 Cost.
2.2.6.– Il sesto motivo di ricorso investe
specificamente il comma 5 dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018.
La disposizione pone la scadenza del progetto
quale limite alla permanenza in accoglienza negli ex SPRAR dei richiedenti
asilo.
Secondo la ricorrente, sarebbero violati gli
artt. 3, 11, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU
in materia di tutela della vita privata e familiare, in quanto, in lesione del
principio di ragionevolezza, si porrebbe in diretta violazione dei diritti dei
soggetti in accoglienza, i quali da un giorno all’altro si ritroverebbero
«privi di qualunque tipo di sostegno ed espulsi dal contesto di vita nel quale
erano inseriti».
Sarebbe leso, altresì, l’art. 117, terzo e
quarto comma, nonché il principio di sussidiarietà di cui agli artt. 5, 114 e
118 Cost., che al terzo comma prevede forme di coordinamento proprio in materia
di immigrazione, e ancora il principio di leale collaborazione di cui all’art.
120 Cost., in quanto la disposizione costringerebbe gli enti locali a espellere
i richiedenti asilo dai propri centri, quand’anche le risorse economiche
dell’ente oppure quelle fornite dalla Regione nell’ambito delle proprie
competenze risultassero perfettamente sufficienti.
2.2.7.– Il settimo motivo di ricorso investe
specificamente il comma 6 dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018.
La norma pone la scadenza del progetto quale
limite alla permanenza in accoglienza negli ex SPRAR per i titolari di
protezione umanitaria, oggi soppressa.
Secondo la ricorrente, tali soggetti sarebbero
espulsi dal sistema dell’accoglienza, con conseguente aggravamento, senza
ragione, delle condizioni di permanenza temporanea sul territorio.
Sarebbero, perciò, violati gli artt. 3, 11 e
117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU in materia
di tutela della vita privata e familiare, in quanto, in lesione del principio
di ragionevolezza, la disposizione impugnata si porrebbe in diretta violazione
dei diritti dei soggetti in accoglienza, i quali da un giorno all’altro si
ritroverebbero privi di qualunque tipo di sostegno ed espulsi dal contesto di
vita nel quale erano inseriti.
2.3.– Con specifico riferimento all’art. 13 del
d.l. n. 113 del 2018, la Regione Emilia-Romagna ha impugnato le seguenti
disposizioni: comma 1, lettera a), numero 2), lettera b) e lettera c), in
riferimento agli artt.
2, 3, 5, 32, 34, 35, 97, 117 e 118 Cost.
2.3.1.– La ricorrente, dopo aver illustrato il
quadro normativo, afferma che con la norma impugnata è stata «dimezzata la
funzione del [permesso di soggiorno per richiesta asilo] che vale ai fini del
riconoscimento, ma non (più), invece, ai fini dell’iscrizione anagrafica presso
il Comune».
La difesa regionale ricorda che la residenza è
il luogo in cui la persona ha la dimora abituale (art. 43 del codice civile) e
che, pertanto, essa corrisponde «ad una situazione di fatto». Rammenta,
altresì, che la giurisprudenza di legittimità ha, da molti anni, riconosciuto
che quello all’iscrizione anagrafica è «un diritto soggettivo perfetto» (è
citata la sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili, 19 giugno
2000, n. 449).
La ricorrente passa, poi, a esaminare due
diverse interpretazioni delle disposizioni impugnate, entrambe comunque non
esenti da profili di incostituzionalità.
Secondo una lettura radicale, le norme
impugnate impedirebbero l’identificazione e la qualificazione dei richiedenti
asilo come residenti. In tal caso, i richiedenti asilo sarebbero soggetti privi
di residenza, non identificati nella comunità territoriale in cui si trovano;
avrebbero soltanto un domicilio, cioè una sede di affari e interessi, «ma non
un luogo nel quale essi, come persone, siano riconosciuti trovarsi
abitualmente». In altre parole, le norme impugnate «creerebbero delle persone
istituzionalmente di serie B, veri fantasmi sociali, privi persino del diritto
di essere ufficialmente considerat[i] come residenti
in un luogo», con evidente violazione sia dell’art. 2 Cost., sia del principio
di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., «nel senso più classico e primordiale
del termine, con riferimento in questo caso alla discriminazione in base alle
"condizioni personali e sociali”». Dal canto loro, le comunità interessate
sarebbero private «della possibilità di riconoscere chi ne è di fatto parte
stabile e conseguentemente della possibilità di utilizzare il luogo di
residenza quale presupposto dell’esercizio delle loro funzioni sia normative
che ancor più amministrative».
La ricorrente sostiene che quest’ultima
considerazione «risolv[a] in radice anche il problema
della ridondanza della questione di legittimità qui posta sulle funzioni
regionali»; sarebbe dunque evidente «la violazione di tutte le disposizioni
costituzionali che consentono e impongono tali attività di governo e di
amministrazione», e in particolare degli artt. 5, 97, 117 e 118 Cost. e ancora
prima dell’art. 3 Cost. «quale fondamento del principio di ragionevolezza».
In base alla seconda interpretazione, invece,
le norme impugnate non sarebbero volte a privare alcuno del diritto alla
residenza ma comporterebbero «"soltanto” l’impossibilità di utilizzare il
permesso di soggiorno quale documento utile a determinare la residenza».
Permarrebbero, dunque, la possibilità e il diritto di ottenere l’iscrizione
anagrafica in base ad altri documenti idonei a provare «il fatto della
residenza come dimora abituale». Analogamente resterebbe fermo il dovere delle
autorità comunali di accertare lo stesso fatto della residenza, iscrivendo ogni
residente nei registri dell’anagrafe. In base a questa diversa interpretazione,
le disposizioni impugnate non creerebbero «una categoria di esseri umani privi
del diritto e del dovere di essere riconosciuti quali residenti in un luogo»,
ma non sarebbero comunque esenti dalle censure di illegittimità costituzionale.
Le norme impugnate risulterebbero, infatti,
«completamente irragionevoli» in quanto finirebbero con l’ostacolare, piuttosto
che con il favorire, «il processo di accertamento della residenza», non potendo
essere utilizzato il permesso di soggiorno al fine di ottenere l’iscrizione
anagrafica. Parimenti irrazionale risulterebbe l’abrogazione dell’obbligo dei responsabili
dei centri di accoglienza di comunicare i nominativi delle persone accolte ai
fini dell’accertamento e dell’attestazione della loro residenza. Di qui
deriverebbe la violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e del
principio di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.).
2.3.2.– L’eliminazione dell’iscrizione
anagrafica comporterebbe, inoltre, «conseguenze rilevanti» sull’attività svolta
dai Comuni della Regione Emilia-Romagna e da quest’ultima. Infatti,
l’amministrazione regionale e quella comunale organizzano i servizi inerenti
alla sanità, all’istruzione e all’accesso all’impiego tramite l’iscrizione
anagrafica. Pertanto, il divieto di iscrizione anagrafica renderebbe
impossibile procedere alla programmazione dei servizi sociali. Verrebbero,
inoltre, complicate le funzioni di monitoraggio della popolazione e della
sicurezza locale, demandate agli enti comunali. Infine, la mancanza
dell’iscrizione anagrafica arrecherebbe una lesione «a funzioni legislative già
esercitate nella pienezza delle sue competenze da parte della Regione
Emilia-Romagna».
2.3.3.– Oltre che «dal punto di vista degli
enti», le norme impugnate risulterebbero irragionevoli anche se considerate
«dalla prospettiva del richiedente». In proposito, la ricorrente richiama la
giurisprudenza costituzionale nella quale si è affermato che «lo straniero è
anche titolare di tutti i diritti fondamentali che la Costituzione riconosce
spettanti alla persona» (è citata la sentenza n. 148 del
2008). Tra questi diritti rientra sicuramente il diritto alla salute (art.
32 Cost.), quello all’istruzione (art. 34 Cost.), quello al lavoro (art. 35
Cost.) e, in generale, tutti i diritti tutelati dall’art. 2 Cost.
L’impossibilità di iscrizione ai registri
anagrafici renderebbe molto più difficoltoso l’esercizio di questi diritti e
l’accesso ai servizi connessi, con conseguente violazione dei parametri
costituzionali sopra indicati.
2.3.4.– Da ultimo, le norme impugnate sarebbero
contradditorie e generative di disparità di trattamento alla luce di quanto
disposto dall’art. 6, comma 7, del t.u. immigrazione,
secondo cui, tra l’altro, «[l]e iscrizioni e variazioni anagrafiche dello
straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni
dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione».
La disparità di trattamento risiederebbe nel
fatto che il permesso di soggiorno per i richiedenti asilo è l’unico a non dare
accesso all’iscrizione anagrafica e quindi, tra tutti gli stranieri
regolarmente soggiornanti, i richiedenti asilo sarebbero i soli che non possono
ottenere l’iscrizione anagrafica e che non possono beneficiare dei servizi
connessi.
Sempre in relazione all’art. 6, comma 7, del t.u. immigrazione, vi sarebbero profili ulteriori di
disparità. Infatti, il secondo periodo di questa disposizione stabilisce che
«[i]n ogni caso la dimora dello straniero si considera abituale anche in caso
di documentata ospitalità da più di tre mesi presso un centro di accoglienza».
Pertanto, mentre per i titolari della protezione internazionale (che hanno
diritto all’iscrizione anagrafica) sarà rilevante la loro dimora abituale ex
art. 6, comma 7, del t.u. immigrazione, la medesima
situazione di fatto non potrà rilevare per i richiedenti asilo.
3.– La Regione Marche, con ricorso notificato
il 1°-6 febbraio 2019 e depositato il 5 febbraio 2019 (reg. ric. n. 13 del
2019), ha impugnato l’intero testo del decreto-legge, nonché singole disposizioni
del d.l. n. 118 del 2013, e tra queste, gli artt. 1, 12 e 13.
Dell’art. 1, in particolare, ha impugnato: il
comma 1, lettera b), numero 2), lettere e), f), g), h), i), o) e p), numero 1);
il comma 2 e il comma 8.
Dell’art. 12 ha impugnato: il comma 1, lettere
a), b) e c); il comma 2, lettere f), numero 1), l) e m).
Dell’art. 13, comma 1, ha censurato: le lettere
a), numero 2), e c).
La ricorrente ricostruisce il complesso
intervento normativo portato dal d.l. n. 113 del 2018, nei termini che si sono
ampiamente in precedenza già illustrati, con riferimento ai ricorsi presentati
dalle Regioni Umbria ed Emilia-Romagna.
In ordine alla legittimazione della Regione
all’impugnativa, a tutela delle attribuzioni proprie, unitamente a quelle degli
enti locali, la ricorrente ricorda che il decreto-legge in esame inciderebbe
sulle potestà normative, amministrative e organizzative nelle materie che
l’art. 117, terzo e quarto comma, Cost. assegna alla competenza legislativa concorrente
o residuale delle Regioni.
A queste ultime, infatti, la Costituzione
affiderebbe la competenza a regolare e organizzare lo svolgimento di funzioni
essenziali per la gestione del fenomeno migratorio, implicanti l’erogazione di
molteplici servizi in favore della popolazione straniera stabilitasi nel
proprio territorio. Verrebbero in rilievo, in particolare, i servizi per la
tutela della salute, la tutela del lavoro e le politiche attive del lavoro, la
formazione professionale, l’istruzione, l’assistenza sociale, l’edilizia
residenziale pubblica e, in generale, i servizi riferiti a tutte le prestazioni
volte a garantire l’inclusione e l’integrazione degli immigrati nel tessuto
socio-economico regionale. Tutti settori di intervento rientranti, secondo la
ricorrente, nelle materie di competenza legislativa concorrente o residuale
delle Regioni e oggetto di una distribuzione multilivello – tra Stato, Regioni
ed enti locali — delle corrispondenti funzioni amministrative (ai sensi
dell’art. 118, primo comma, Cost.).
La Regione Marche avrebbe esercitato le
competenze sopra richiamate sia con atti legislativi sia con attività
amministrative.
Secondo la ricorrente, le disposizioni del d.l.
n. 113 del 2018 rischierebbero di «vanificare del tutto» gli interventi
regionali volti a garantire l’ordinata gestione degli effetti, sul territorio e
sulla convivenza sociale, dei fenomeni migratori, con conseguente grave
pregiudizio per le Regioni e gli enti locali, chiamati a far fronte alle
situazioni di disagio sociale ed economico, degrado urbano ed emarginazione che
si verificherebbero laddove venissero meno le «misure di mitigazione».
In particolare, l’abrogazione dell’istituto
generale del permesso di soggiorno per motivi umanitari determinerebbe il
rischio concreto di un notevole incremento della popolazione straniera
irregolarmente presente sul territorio nazionale, con conseguente preclusione
dell’erogazione di tutti quei servizi a cui in precedenza i soggetti
interessati avevano legittimamente accesso.
A seguito della riforma, i legislatori
regionali sarebbero obbligati a introdurre modifiche rilevanti nella
legislazione e nell’organizzazione amministrativa riferita all’erogazione dei
servizi di accoglienza agli stranieri, «sostenendone i relativi costi (ivi compresa
la perdita degli effetti positivi delle misure fin qui adottate)».
In quest’ottica, oltre alle competenze innanzi
indicate, verrebbe in rilievo anche la competenza regionale residuale in
materia di «polizia amministrativa locale», con particolare riguardo alla
sicurezza urbana.
Per questi motivi, le modifiche introdotte dal
cosiddetto decreto sicurezza presenterebbero molteplici profili di
incostituzionalità ridondanti «senz’altro in lesione delle competenze
costituzionali attribuite alla Regione e che quest’ultima ha fino a oggi
concretamente esercitato con la sua attività legislativa e con l’organizzazione
dei servizi predisposti a favore degli stranieri titolari dei relativi permessi
di soggiorno».
3.1.– Quanto al merito dell’impugnativa, la
Regione Marche prospetta, in primo luogo, l’illegittimità costituzionale
dell’intero testo del d.l. n. 113 del 2018, per violazione dell’art. 77 Cost.
Ad avviso della ricorrente, mancherebbe nel preambolo
un’adeguata motivazione in grado di giustificare l’ampiezza di una riforma
ordinamentale realizzata tramite decretazione d’urgenza. Inoltre, il
decreto-legge in esame avrebbe un contenuto eterogeneo, riguardando plurimi
profili che spaziano dall’immigrazione alla protezione internazionale, dalla
cittadinanza alla sicurezza, dal contrasto della criminalità organizzata
all’organizzazione amministrativa dell’autorità nazionale e locale di pubblica
sicurezza. Infine, l’immigrazione viene ritenuta, dalla Regione Marche, un
fenomeno ormai ordinario, dinanzi al quale non potrebbero ricorrere i
presupposti di straordinaria necessità e urgenza legittimanti l’intervento
governativo.
3.2.– Quanto alle singole disposizioni
impugnate, con particolare riguardo alle censure rivolte nei confronti
dell’art. 1, la ricorrente deduce numerosi profili di incostituzionalità,
articolandoli in tre motivi di ricorso.
3.2.1.– Con il primo motivo, la Regione censura
il combinato disposto di cui all’art. 1, comma 1, lettera b), numero 2), comma
2 e comma 8, nonché il comma 1, lettere e), f), g), h), i), o), p), numero 1),
di detto articolo, per violazione, diretta e indiretta, di diversi parametri
costituzionali.
Per effetto delle disposizioni sopra indicate,
il ridimensionamento della tutela umanitaria riguarderebbe non solo i
richiedenti detta protezione dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018,
ma anche i titolari del "vecchio” permesso di soggiorno che, pur a condizioni
invariate, non potranno più ottenerne il rinnovo e per i quali dovrà invece
valutarsi la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 19, commi 1 e 1.1,
del t.u. immigrazione o la ricorrenza dei «casi
speciali». Di qui, l’asserito contrasto con l’art. 2 Cost. e il
connesso principio di dignità umana, poiché la novella legislativa escluderebbe
dal regime di protezione internazionale soggetti che, costretti a rientrare nel
proprio paese d’origine, si vedrebbero lesi nel godimento di diritti
fondamentali che concorrono a qualificare la dignità dell’uomo in quanto tale.
Sarebbero altresì violati gli artt. 2 e 3 Cost. sotto il
profilo dell’irragionevole lesione della posizione acquisita dagli stranieri in
virtù della previgente disciplina e che, senza adeguata normativa transitoria,
si ritroverebbero in condizione di irregolarità. Vi sarebbe inoltre una
disparità di trattamento tra coloro i quali, a parità di condizioni di
rilascio, dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, non potranno più
godere del permesso di soggiorno e coloro che potranno mantenerlo, con
conseguente discriminazione sul piano del godimento dei diritti e delle
prestazioni collegate.
Violato sarebbe poi l’art. 10, terzo comma,
Cost., perché la normativa impugnata escluderebbe soggetti che, secondo la
giurisprudenza di legittimità, sono titolari del diritto di asilo riconosciuto
dalla citata disposizione costituzionale.
Secondo la Regione, poi, le disposizioni
impugnate contrasterebbero anche con gli artt. 11 e 117, primo comma,
Cost. in riferimento agli artt. 15, lettera c) e 18 della direttiva
2011/95/UE, perché sarebbero esclusi dal regime di protezione ivi
disciplinato soggetti che invece avrebbero diritto alla protezione sussidiaria,
in quanto esposti, in caso di rimpatrio, alla «minaccia grave e individuale
alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata
in situazioni di conflitto armato interno o internazionale».
Parimenti, in violazione degli artt. 10,
secondo comma, e 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 6, 10,
comma 1, 17, 23 e 24 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e
agli artt. 2, 3 e 8 CEDU, sarebbero esclusi dal regime di protezione ivi
disciplinato soggetti esposti a un serio rischio per la propria vita e
sicurezza alimentare, nonché per il loro diritto fondamentale al rispetto della
vita privata e familiare.
Ad avviso della Regione Marche, gli evidenziati
profili di incostituzionalità sarebbero ancora più gravi in considerazione del
fatto che la novella legislativa interviene su un sistema di protezione
internazionale «attuato per dare seguito necessario ai principi di cui all’art.
10 Cost. Si deve, infatti considerare che le disposizioni impugnate nel
presente ricorso abrogano una disciplina "costituzionalmente obbligatoria”, in
quanto sistema normativo che, anche nell’interpretazione giurisprudenziale, ha
avuto la funzione di rendere effettivi i diritti fondamentali della persona».
Pertanto, si tratterebbe di norme che, una volta venute a esistenza, secondo
quanto affermato dalla Corte costituzionale (è citata la sentenza n. 49 del
2000), possono essere oggetto di modifica legislativa, ma non di
abrogazione pura e semplice, «così da eliminare la tutela precedentemente
concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale
delle cui attuazione costituiscono strumento».
Le disposizioni impugnate, in quanto
incostituzionali, inciderebbero illegittimamente sulle attribuzioni legislative
regionali riguardanti i servizi erogati in favore degli stranieri in materia di
tutela della salute, istruzione, formazione professionale, governo del
territorio, ex art. 117, terzo comma Cost., nonché su quelle concernenti i
servizi erogati in materia di assistenza sociale di cui all’art. 117, quarto
comma, Cost. e sulle relative funzioni amministrative ex art. 118 Cost., con la
conseguente necessità di rimodulazione delle stesse funzioni, così da escludere
gli stranieri non più qualificabili come «regolarmente soggiornanti» dal
godimento delle prestazioni concernenti i servizi sopra elencati, essenziali
per la corretta gestione degli effetti sociali e territoriali del fenomeno
migratorio.
La Regione ricorrente ritiene dunque evidente
la ridondanza dei denunciati profili di incostituzionalità nella lesione delle
attribuzioni regionali, che si concretizzerebbe proprio laddove le norme
adottate dal legislatore nazionale – nel caso di specie, ritenute dalla
ricorrente espressione della competenza esclusiva statale in materia di
«diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non
appartenenti all’Unione europea», nonché di «immigrazione» – pur non
contrastando con le regole costituzionali in tema di riparto di competenze tra
Stato ed enti territoriali, nondimeno obblighino le Regioni, nell’esercizio
delle proprie attribuzioni, a conformarsi a una disciplina legislativa
incostituzionale sotto altri profili (richiama, a tal fine, la sentenza n. 145 del
2016). Ciò accadrebbe nel caso in esame, poiché le norme impugnate
vincolerebbero illegittimamente le Regioni nella regolamentazione ed erogazione
dei servizi di accoglienza in favore degli stranieri, come quello sanitario e
quello concernente l’istruzione superiore e la formazione professionale, per i
quali alla Regione sarebbe preclusa la determinazione autonoma del volume e
delle modalità organizzative delle prestazioni.
La Regione ricorrente ricorda che a essa spetta
la facoltà di approvare norme di maggior favore nei confronti degli stranieri
nelle materie di propria competenza, alla luce delle direttive europee che
riconoscono al legislatore nazionale la possibilità di introdurre disposizioni
più favorevoli (ricorda, a tal fine, l’art. 2 della direttiva 2011/95/UE e
l’art. 4 della direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del
26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti
protezione internazionale) e del potere di concorrere all’attuazione del
diritto europeo attribuitole dall’art. 117, quinto comma, Cost. L’esercizio di
detta facoltà, ad avviso della ricorrente, verrebbe precluso dalla riduzione
del novero dei soggetti ammessi a fruire dei servizi assistenziali, operata a
livello statale.
Infine, la Regione afferma che la normativa
statale, «in quanto illegittima costituzionalmente, incide negativamente anche
sull’autonomia finanziaria regionale di cui all’art. 119 Cost.», con
particolare riguardo a quella in materia sanitaria, tenuto conto che gli oneri
delle prestazioni indicate all’art. 35, comma 3, lettere a), b), c), d) e), del
t.u. immigrazione, spettanti alle Regioni,
aumenteranno in ragione dell’aumento del numero degli stranieri irregolari,
analogamente a quanto accadrà per gli oneri da sostenere per i servizi sociali
e assistenziali per la formazione professionale e l’edilizia residenziale
pubblica.
3.2.2.– Con un secondo motivo di ricorso, la
Regione Marche censura l’art. 1, comma 1, lettere e), f), numeri 1) e 2), g),
h), i), numeri 1) e 2), del d.l. n. 113 del 2018, nella parte in cui,
modificando i permessi di soggiorno umanitari di cui agli artt. 18, comma 2,
18-bis, comma 1, e 22, comma 12-quater, del t.u.
immigrazione, e prevedendo ulteriori ipotesi di permesso di soggiorno tipiche
con durate e disciplina differenziate, non sarebbe in grado di ricomprendere,
nel proprio campo di applicazione, tutte le manifestazioni del diritto di
alloggio e del diritto alla formazione che richiedono il possesso di un titolo
di permanenza nel territorio nazionale «almeno biennale» (mentre i casi tipici
hanno durata più esigua). Ciò determinerebbe, per la ricorrente, una violazione
degli artt. 2 e 3 Cost., con
riguardo agli stranieri titolari del permesso di soggiorno di cui all’art. 32,
comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008.
Tale illegittimità si risolverebbe altresì in
lesione indiretta delle attribuzioni regionali relative alle materie cui si
riferiscono i diritti non contemplati dalle norme impugnate (ovvero,
«formazione professionale», «tutela del lavoro», «assistenza sociale»,
«edilizia residenziale pubblica»), di cui all’art. 117, terzo e quarto
comma, Cost., nonché delle relative competenze amministrative spettanti
alla Regione in base all’art. 118, primo comma,
Cost.
Inoltre, la normativa statale inciderebbe
negativamente anche sull’autonomia finanziaria regionale di cui all’art. 119 Cost., per
le medesime ragioni già illustrate con riferimento ai ricorsi di Umbria ed
Emilia-Romagna.
3.2.3.– Infine, con un diverso motivo, la
Regione censura il combinato disposto dell’art. 1, comma 1, lettera g), del
d.l. n. 113 del 2018, con il comma 2 del medesimo articolo, per violazione
degli artt. 2, 3 e 32 Cost., in quanto lo
speciale permesso di soggiorno per cure mediche, introdotto dalle norme
impugnate, non potrebbe essere rilasciato a chi versi in una situazione di
salute grave «ma non di particolare o eccezionale gravità», con conseguente
lesione indiretta delle attribuzioni regionali relative alla materia «tutela
della salute», nonché delle rispettive competenze amministrative, atteso che la
Regione sarebbe costretta a negare i servizi essenziali alla persona agli
stranieri che, pur versando in gravi situazioni di salute, non rientrino nel
campo di operatività di cui al comma 1, lettera g), dell’art. 1.
3.3.– Quanto all’art. 12 del d.l. n. 113 del
2018, esso è censurato nelle parti in cui ha escluso la possibilità che la rete
ex SPRAR eroghi i servizi di accoglienza ai soggetti che hanno formulato
richiesta di protezione internazionale, ma sono ancora in attesa del
pronunciamento dell’autorità amministrativa sulla richiesta medesima.
La ricorrente ritiene le elencate disposizioni
lesive degli artt. 2,
3, 10, secondo e terzo
comma, 11, 117, primo comma,
Cost., quest’ultimo in riferimento alla direttiva
2103/33/UE, con conseguente lesione indiretta delle attribuzioni
legislative in materia di «tutela della salute», «tutela del lavoro»,
«istruzione», «formazione professionale», «governo del territorio», con
riferimento all’edilizia residenziale pubblica, «assistenza sociale», nonché
delle relative funzioni amministrative, che gli artt. 117, terzo e
quarto comma, e 118
Cost., riconoscono alla Regione, nonché per lesione indiretta dell’autonomia
finanziaria regionale garantita dall’art. 119 Cost. e per
lesione indiretta delle attribuzioni che l’art. 118 Cost., anche in relazione
agli artt. 114 e 117, sesto comma, Cost., riconosce in favore dei Comuni, in
riferimento alle indicate materie di competenza legislativa regionale.
Ricorda che la direttiva 2013/33/UE, in
particolare con i considerando n. 26 e n. 27, stabilisce l’opportunità di
incoraggiare un appropriato coordinamento tra le autorità competenti per quanto
riguarda l’accoglienza dei richiedenti, e di promuovere, per questo, «relazioni
armoniose» tra le comunità locali e i centri di accoglienza, evidenziando la
centralità degli enti territoriali nella gestione del fenomeno migratorio. Del
resto, ricorda ancora la ricorrente, le norme costituzionali prescrivono che lo
svolgimento delle funzioni e dei servizi pubblici avvenga al livello più vicino
possibile rispetto al destinatario della funzione o del servizio medesimi,
salvo che per ragioni di differenziazione, sussidiarietà e adeguatezza risulti
necessario lo svolgimento di tali attività a un livello organizzativo superiore
(art. 118 Cost).
Le disposizioni impugnate avrebbero, invece, «radicalmente
precluso» alle Regioni e agli enti locali di esercitare le proprie competenze
costituzionalmente garantite nel settore dei servizi di accoglienza in favore
degli stranieri richiedenti asilo, sopprimendo drasticamente la rete di
interventi precedentemente garantiti a tali soggetti dal sistema SPRAR e
conseguentemente accentrando in capo allo Stato le relative competenze.
Ancora, secondo la Regione Marche, i
richiedenti asilo, per i quali – in attuazione dell’art. 8 della direttiva
2013/33/UE – non è prevista alcuna limitazione della libertà di circolazione
nell’attesa della definizione della loro domanda di protezione, sarebbero
liberi di stabilirsi nel territorio regionale e ciò «imporrà agli enti
territoriali di attuare misure volte a garantire la salute pubblica e la
sicurezza locale», oltre che il decoro urbano e l’ordine pubblico, in ciò
impediti dalle disposizioni impugnate, che li priverebbero delle risorse
finanziarie del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, sicché
ogni misura di sostegno agli stranieri dovrà essere attuata dalle
amministrazioni locali mediante impiego di risorse proprie, con conseguente
lesione dell’autonomia finanziaria garantita dall’art. 119 Cost.
Secondo la ricorrente, inoltre, l’esclusione
della possibilità di ricomprendere i richiedenti asilo in programmi di
formazione professionale volti all’inserimento lavorativo e di impiego in
lavori socialmente utili contrasterebbe con le norme della citata direttiva
2013/33/UE: sarebbero, così, violati gli artt. 2, 3, 10, secondo e terzo comma,
11 e 117, primo comma, Cost., con incisione sulle competenze spettanti, in
materia di accoglienza degli stranieri, alle Regioni e ai Comuni, «costretti ad
adeguarsi a una normativa incostituzionale e, dunque, a negare» tali
provvidenze ai richiedenti.
3.4.– Con specifico riferimento all’art. 13 del
d.l. n. 113 del 2018, la Regione Marche ha promosso questioni di legittimità
costituzionale delle disposizioni di cui al comma 1, lettera a), numero 2), e
lettera c), in riferimento agli artt. 3, 10, terzo comma, 114, 117, terzo,
quarto e sesto comma, 118 e 119 Cost.; all’art. 117, primo comma, Cost., in
relazione all’art. 2, comma 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e all’art. 12,
comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici; agli
artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione alla direttiva 2013/33/UE.
La ricorrente sottolinea, preliminarmente, come
la residenza rappresenti «il principale criterio di collegamento tra cittadino
e territorio, con rilevanti implicazioni sulla platea dei potenziali
beneficiari di misure socio-assistenziali, nonché di quelle rivolte a favorire
l’autonomia del cittadino».
3.4.1.– In particolare, la difesa regionale
ritiene che la disposizione di cui all’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2),
«per la parte in cui si debba intendere nel senso di vietare e dunque escludere
l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo», si ponga in contrasto con vari
parametri costituzionali.
Innanzitutto, sarebbero violati gli artt. 3 e
10, terzo comma, Cost., in quanto si realizzerebbe «una irragionevole e
sproporzionata disparità di trattamento rispetto ad altri stranieri in
condizioni del tutto analoghe», quali i titolari di permessi speciali previsti
dall’art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008 e dallo stesso d.l. n. 113 del
2018.
Sarebbe violato anche l’art. 117, primo comma,
Cost., in relazione all’art. 2, comma 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e
all’art. 12, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e
politici. Alla luce delle citate norme internazionali, infatti, i richiedenti
asilo, che sono titolari di un diritto all’ingresso nel territorio dello Stato
e che quindi si trovano legalmente nel territorio italiano, avrebbero il
diritto di fissare all’interno di tale territorio la propria residenza.
Ulteriori ragioni di incostituzionalità
sarebbero rinvenibili nella violazione degli artt. 11 e 117, primo comma,
Cost., in relazione alla direttiva 2013/33/UE, nella parte in cui quest’ultima
riconosce al richiedente asilo il diritto di fruire delle condizioni di
accoglienza concernenti la scolarizzazione e l’istruzione dei minori (art. 14
della direttiva), l’accesso al mercato del lavoro (art. 15), la formazione
professionale (art. 16), l’assistenza sanitaria e l’alloggio (artt. 17, 18 e
19).
3.4.2.– La ricorrente aggiunge che
l’interpretazione dell’impugnato art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), nel
senso di precludere l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, inciderebbe
senz’altro sulle attribuzioni regionali, legislative e amministrative, in
materia di tutela della salute, di tutela del lavoro, di istruzione, di
formazione professionale, di governo del territorio con riferimento
all’edilizia residenziale pubblica, e di assistenza sociale (artt. 117, terzo e
quarto comma, e 118 Cost.). La denunciata lesione delle attribuzioni regionali
deriverebbe dal fatto che l’iscrizione anagrafica costituisce il presupposto
necessario per l’accesso ai servizi e alle prestazioni concernenti le anzidette
materie; inoltre, la norma impugnata imporrebbe alla Regione di modificare la
propria legislazione vigente.
Le lesioni delle attribuzioni delle Regioni
ridonderebbero anche in una lesione delle competenze amministrative spettanti
ai Comuni quanto alla tenuta e alla gestione dei registri anagrafici della
popolazione residente sul territorio (artt. 114 e 118 Cost.).
3.4.3.– La norma di cui art. 13, comma 1,
lettera a), numero 2), impedirebbe, inoltre, ai Comuni di erogare ai
richiedenti asilo molteplici servizi essenziali per garantire la loro
integrazione socio-economica. Al riguardo, la difesa regionale ricorda che l’iscrizione
anagrafica costituisce il presupposto per l’accesso all’assistenza sociale, per
la concessione di sussidi e agevolazioni basati sulle condizioni di reddito,
per la priorità di accesso ai servizi, per l’applicazione di tariffe inferiori
a quelle massime, per la concessione di contributi a parziale o totale
copertura delle rette, per l’esenzione della contribuzione al costo dei servizi
e per usufruire del reddito di inclusione.
Inoltre, la mancata iscrizione anagrafica
inciderebbe sulle politiche attive del lavoro e, in particolare, sulla
possibilità per lo straniero di ottenere il riconoscimento dello stato di
disoccupazione ai sensi del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150
(Disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il
lavoro e di politiche attive, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 10
dicembre 2014, n. 183). A sua volta, l’assenza dello stato di disoccupazione
precluderebbe l’accesso a tutti i servizi di politica attiva del lavoro
finanziati dal Fondo Sociale Europeo.
A quanto detto, la difesa regionale aggiunge
l’irragionevolezza del sistema normativo derivante dall’art. 13 del d.l. n. 113
del 2018, posto che, da un lato, le norme vigenti riconoscono ai richiedenti
asilo il diritto a un alloggio (art. 18 della direttiva 2013/33/UE), mentre,
dall’altro lato, la norma impugnata nega agli stessi soggetti la possibilità di
ottenere l’iscrizione anagrafica. In questo modo sarebbe inciso anche il buon
andamento nell’esercizio delle funzioni dei singoli Comuni, i quali, per
svolgere i loro compiti, necessitano di conoscere esattamente il numero dei
soggetti stabilmente presenti nel proprio territorio.
Infine, la norma impugnata inciderebbe anche
sull’autonomia finanziaria regionale di cui all’art. 119 Cost.,
«particolarmente sotto il profilo dell’autonomia di spesa in relazione ai
servizi erogati per l’integrazione degli immigrati».
4.– La Regione Toscana, con ricorso notificato
il 31 gennaio-4 febbraio 2019 e depositato il 6 febbraio 2019 (reg. ric. n. 17
del 2019), ha impugnato, tra gli altri, l’art. 1, comma 1, lettere b) e f), e
comma 8, nonché l’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 113 del
2018, per violazione degli artt. 2, 3, 10, 32, 97, 117 primo, terzo e quarto
comma, e 118 Cost.
4.1.– La Regione evidenzia come le suddette
norme incidano su molteplici attribuzioni costituzionali della stessa e che
numerosi Comuni toscani hanno altresì chiesto alla medesima di far valere anche
la lesione delle attribuzioni degli enti locali, in ragione della «stretta
connessione – in particolare nelle materie dell’assistenza sociale,
dell’istruzione e dell’edilizia residenziale pubblica – tra le attribuzioni
costituzionali regionali e quelle delle autonomie locali, la quale "consente di
ritenere che la lesione delle competenze locali sia potenzialmente idonea a
determinare una vulnerazione delle competenze
regionali”» (vengono citate le sentenze n. 95 del
2007, n. 417
del 2005 e n.
196 del 2004).
4.1.1.– Con il primo motivo di ricorso, la
Regione censura, in particolare, l’illegittimità costituzionale del comma 1,
lettera b), e del comma 8, dell’impugnato art. 1, per violazione degli artt. 2,
3, 10, 32, 117, primo comma, Cost., nella parte in cui, eliminando l’istituto
del generale permesso di soggiorno per motivi umanitari e individuando solo
ipotesi tipiche e tassative di permesso di soggiorno, determinerebbero un
significativo numero di stranieri irregolari, così causando «una lesione
indiretta sulle attribuzioni legislative e amministrative regionali di cui agli
artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., in materia di tutela della
salute, istruzione, politiche attive del lavoro, assistenza sociale, servizi
sociali e formazione professionale».
Secondo la ricorrente, la legislazione e la
programmazione regionale che, fino a ora, hanno disciplinato e previsto
molteplici misure e interventi in favore dell’integrazione e inclusione sociale
dei titolari di permessi di soggiorno umanitario sarebbero fortemente incise
dalla novella legislativa, costringendo il legislatore regionale ad adeguarsi
alle nuove previsioni. Evidenzia altresì come i nuovi permessi speciali,
tipizzati dal decreto-legge, abbiano una durata ridotta a un anno, se non
addirittura inferiore, così di fatto escludendo i titolari di detti permessi da
alcune prestazioni invece finora erogate (assistenza sociale, accesso agli
alloggi di edilizia residenziale pubblica o l’iscrizione al servizio sanitario
nazionale).
Quanto sopra detto proverebbe, a dire della
Regione, la rilevanza e l’intreccio con materie di sicura competenza regionale,
sia concorrente che residuale, come altresì riconosciuto dalla giurisprudenza
della Corte costituzionale (di cui ricorda le sentenze n. 61 del
2011, n. 299
e n. 269 del
2010, n. 156
del 2006 e n.
300 del 2005).
Le disposizioni impugnate, quindi,
vanificherebbero la legislazione regionale e gli interventi che, sulla base di
questa, sono stati programmati ed erogati, con conseguente lesione delle attribuzioni
costituzionali nelle materie di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost.,
nonché delle relative funzioni amministrative spettanti ai sensi dell’art. 118
Cost. La Regione sarebbe infatti costretta a rimodulare dette funzioni con
esclusione di soggetti «fino a ieri pienamente regolari e fruitori di politiche
regionali volte a favorirne l’inclusione sociale, i quali sono divenuti o sono
destinati a divenire inesorabilmente irregolari».
Per gli stessi motivi, anche il comma 8
dell’art. 1 – che regola la disciplina transitoria dei permessi umanitari già
riconosciuti, stabilendo che alla scadenza potrà essere rilasciato un permesso
di soggiorno speciale di durata annuale, rinnovabile, ma non convertibile in
permesso per motivi di lavoro – risulterebbe costituzionalmente illegittimo,
giacché non permetterebbe al titolare di un permesso di soggiorno per motivi
umanitari in corso di validità di ottenerne il rinnovo a condizioni di rilascio
invariate.
Ad avviso della Regione, il permesso di
soggiorno per motivi umanitari, rilasciabile ai sensi dell’art. 5, comma 6, del
t.u. immigrazione nel testo previgente, trovava
fondamento negli artt. 2, 3 e 10 Cost., perché consentiva di riconoscere a
tutte le persone i diritti inviolabili dell’uomo nel rispetto del dovere di
solidarietà, nonché di evitare discriminazioni arbitrarie e irragionevoli (la
ricorrente ricorda, a tal fine, la sentenza n. 381 del
1999 in merito a «seri motivi umanitari»).
Tale permesso umanitario sarebbe altresì lo
strumento per attuare il diritto di asilo costituzionalmente garantito
dall’art. 10, terzo comma, Cost., e darebbe piena attuazione a norme
internazionali convenzionali ed europee (artt. 3 e 8 CEDU).
In ragione dei vincoli previsti negli artt. 10,
secondo e terzo comma, e 117, primo comma, Cost., secondo la ricostruzione
operata dalla Regione ricorrente, non sarebbe pertanto possibile, per il
legislatore nazionale, abrogare l’istituto del permesso di soggiorno per motivi
umanitari sostituendolo con altri che non garantiscano più un’attuazione
completa ed esaustiva ai suddetti parametri. Trattasi, per la Regione, di
«leggi costituzionalmente obbligatorie» che possono essere modificate o
sostituite, ma «senza arretramenti delle tutele».
Da quanto detto, discenderebbe inoltre la
violazione dell’art. 32 Cost. per le restrizioni all’iscrizione al Servizio
sanitario regionale.
La ricorrente ritiene che la violazione degli
artt. 2, 3 e 10 Cost. sia ancora più accentuata dalla considerazione del
particolare impatto delle norme impugnate sui minori stranieri non
accompagnati, i quali non potrebbero più beneficiare di un permesso di
soggiorno di due anni rinnovabile e convertibile al raggiungimento dei 18 anni o
allorché risultino essere in affidamento ai servizi sociali.
Per le considerazioni svolte, la Regione
ritiene che le norme impugnate incidano sulle materie della «tutela della
salute», dell’«istruzione», delle «politiche attive del lavoro», dell’«assistenza
sociale» e dei «servizi sociali», della «formazione professionale» e dunque
sulle attribuzioni costituzionalmente garantite alla Regione ai sensi dell’art.
117, terzo e quarto comma, Cost., nonché sulle relative funzioni amministrative
spettanti agli enti regionali e locali ex art. 118 Cost. Detta incidenza
determinerebbe che stranieri oggi regolari e fruitori degli interventi e delle
misure che la Regione Toscana ha attuato sul proprio territorio nelle materie
sopra elencate, diverranno irregolari «senza che sia reale […] la possibilità
della loro espulsione», con l’effetto di comportare alcuni obblighi
conformativi sulle attribuzioni regionali.
4.1.2.– Con un secondo motivo di ricorso, la
Regione Toscana denuncia poi l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma
1, lettera f), del d.l. n. 113 del 2018 per violazione degli artt. 2 e 3 Cost.,
nella parte in cui, nel consentire l’accesso ai servizi assistenziali e allo
studio, nonché l’iscrizione nell’elenco anagrafico ai titolari del permesso di
soggiorno speciale per stranieri vittime di violenza domestica (art. 18-bis del
t.u. immigrazione), lascerebbe fuori dal suo campo
applicativo il diritto all’alloggio e alla formazione, così incidendo sulla
competenza regionale in materia di «formazione professionale» e «edilizia
residenziale pubblica».
Escludendo dal diritto di alloggio e di
formazione gli stranieri vittime di violenza domestica, la disposizione
censurata discriminerebbe la posizione di questi ultimi, in possesso di un
permesso di soggiorno speciale, rispetto a quella dei titolari di un permesso
di soggiorno ex art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, e in generale
rispetto allo straniero regolarmente soggiornante, così violando gli artt. 2 e
3 Cost.
4.2.– Con specifico riferimento all’art. 13 del
d.l. n. 113 del 2018, la Regione Toscana ha impugnato il comma 1, lettera a),
numero 2), in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 97, 117, terzo e quarto comma, e
118 Cost.; all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 2, comma 1,
del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, all’art. 12, comma 1, del Patto internazionale
relativo ai diritti civili e politici, all’art. 7 della direttiva 2013/33/UE,
all’art. 14 CEDU e all’art. 26 della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951,
ratificata e resa esecutiva con legge 24 luglio 1954, n. 722.
4.2.1.– Preliminarmente, la difesa regionale
sottolinea che la norma impugnata si riferisce ai richiedenti asilo, i quali,
sino alla definizione della procedura a opera della commissione territoriale (o
sino alla decisione del ricorso avverso la pronuncia sulla richiesta di asilo),
sono titolari di un permesso di soggiorno e vengono sistemati nelle strutture
di prima accoglienza. Al riguardo, la ricorrente precisa che questo
procedimento non è di breve durata, tenuto conto che le commissioni impiegano
circa due anni per la relativa definizione, cui vanno sommati i tempi
dell’eventuale contenzioso.
Pertanto, alla luce delle richiamate norme
internazionali, i richiedenti asilo, in quanto soggiornanti legalmente nel
territorio italiano, avrebbero il diritto di fissare all’interno di tale
territorio la propria residenza.
Inoltre, la norma impugnata, non avendo
abrogato l’art. 6, comma 7, del t.u. immigrazione,
creerebbe «una situazione di assoluta incertezza sulla normativa applicabile ai
richiedenti asilo regolarmente presenti, a danno della efficienza dell’azione
amministrativa delle amministrazioni regionali e locali», con conseguente
violazione dell’art. 97 Cost.
4.2.2.– La ricorrente aggiunge che l’iscrizione
anagrafica è il presupposto per l’accesso all’assistenza sociale, per la
concessione di sussidi o agevolazioni previste dalla legislazione statale e
regionale basate sulle condizioni di reddito verificate mediante l’indicatore
della situazione economica equivalente (ISEE). A sua volta, presupposto per
ottenere l’ISEE è la residenza anagrafica.
Inoltre, il richiedente asilo non potrà
maturare i requisiti di durata della residenza necessari per l’accesso al
reddito di inclusione (REI) di cui al decreto legislativo 15 settembre 2017, n.
147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla
povertà), così come a tutte le altre prestazioni statali, regionali e locali
che vengono condizionate dalla durata della residenza.
La norma impugnata inciderebbe anche sulle
politiche attive del lavoro, essendo prevista la residenza per l’iscrizione
allo stato di disoccupazione di cui al d.lgs. n. 150 del 2015.
Quindi, nella misura in cui sarebbe vietata
l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, si precluderebbe alle Regioni e
agli enti locali di programmare interventi a loro favore nelle materie
dell’assistenza sociale, della formazione professionale, del lavoro, con
conseguente violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost.
Peraltro, limitatamente alle materie di potestà concorrente, la norma impugnata
non potrebbe ritenersi espressione di un principio fondamentale, non avendo
alcuna attinenza con gli ambiti delle politiche attive del lavoro e
dell’istruzione.
La disposizione censurata si porrebbe in
contrasto anche con l’art. 3 Cost., poiché discriminerebbe in modo
irragionevole i richiedenti asilo sia rispetto ai cittadini sia rispetto alle
altre categorie di stranieri regolarmente presenti sul territorio, cui
l’iscrizione anagrafica non è preclusa.
Inoltre, in considerazione del fatto che
l’iscrizione anagrafica è un diritto soggettivo, espressione dell’art. 2 Cost.,
la sua negazione ai richiedenti asilo violerebbe l’art. 14 CEDU, il quale vieta
ogni discriminazione tra cittadini degli Stati membri e stranieri regolarmente
soggiornanti. Parimenti violato sarebbe l’art. 26 della Convenzione di Ginevra,
dal cui contrasto discenderebbe la violazione dell’art. 10, secondo comma,
Cost. e dell’art. 117, primo comma, Cost., perché la disposizione impugnata non
sarebbe conforme alle norme e ai trattati internazionali attinenti alla
condizione giuridica dello straniero.
La difesa regionale precisa che la violazione
degli artt. 2, 3, 10, 97 e 117, primo comma, Cost. può essere fatta valere
dalla Regione ricorrente in quanto ridondante sulle competenze legislative
regionali in materia di politiche attive del lavoro, di assistenza sociale e
servizi sociali, di formazione professionale e istruzione (artt. 117, terzo e
quarto comma, Cost.) e sulle relative funzioni amministrative spettanti alle
regioni e agli enti locali (art. 118 Cost.).
Secondo la ricorrente l’abrogazione del diritto
all’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, oltre a rappresentare un atto
discriminatorio, imporrebbe al legislatore regionale la modifica della vigente
legislazione, determinando l’oggettiva impossibilità, per gli enti locali e per
la Regione, di avere contezza del numero effettivo delle persone regolarmente
presenti sul territorio e quindi di programmare e organizzare i servizi
necessari, e di fondare l’accesso al sistema di welfare sulla residenza.
Inoltre, la norma impugnata avrebbe l’effetto
di scorporare i richiedenti asilo dall’insieme degli stranieri regolarmente
soggiornanti sul territorio, quanto alla possibilità di accedere ai servizi e
agli interventi sociali.
Sempre a detta della difesa regionale, i
suddetti profili di incostituzionalità non sarebbero superati dalla
disposizione di cui all’art. 13, comma 1, lettera b), numero 1), del d.l. n.
113 del 2018, la quale dispone che «[l]’accesso ai servizi previsti dal
presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle
norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio» comunicato alla questura o
corrispondente all’indirizzo del centro presso cui il richiedente si trova.
Questa disposizione, infatti, non consentirebbe
di superare la previsione (contenuta nella legislazione regionale) della
residenza come condizione di accesso al sistema di assistenza sociale; inoltre,
l’eliminazione della residenza anagrafica per i richiedenti asilo imporrebbe
all’amministrazione regionale e agli enti locali che erogano i servizi
socio-sanitari l’organizzazione sulle piattaforme informatiche di due diverse
procedure, che complicheranno la gestione e faranno crescere i costi.
Infine, la variabilità del domicilio, rispetto
alla stabilità della residenza, renderebbe più difficile organizzare i
controlli sui soggetti presenti sul territorio e quindi programmare i servizi
socio-sanitari necessari, con il rischio di ingenerare «inefficienze contrarie
al principio di buon andamento» di cui all’art. 97 Cost.
5.– La Regione Calabria, con ricorso notificato
il 1° febbraio 2019 e depositato l’8 febbraio 2019 (reg. ric. n. 18 del 2019),
ha impugnato, tra gli altri, l’art. l, commi 1, 2, 3, 6, 7, 8 e 9; l’art. 12 e
l’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018.
Dopo aver ricostruito gli effetti
dell’intervento normativo – nei termini già ampiamente illustrati in precedenza
– la Regione Calabria deduce che le disposizioni impugnate comporterebbero
«sensibili condizionamenti sull’autonomia legislativa e amministrativa
regionale a causa dalle scelte imposte dalle nuove norme statali».
5.1.– Con specifico riferimento all’art. 1, del
d.l. n. 113 del 2018, la ricorrente sottolinea come l’abolizione del permesso
umanitario, prevista dalla disposizione impugnata, violerebbe diverse
previsioni del testo costituzionale.
Sarebbe in primo luogo violato il diritto di asilo
ex art. 10, terzo comma, Cost., impedendo all’ente territoriale di assicurare
prestazioni in favore di individui che avrebbero un titolo costituzionale a
riceverle.
Risulterebbe altresì violato l’art. 3 Cost., in
quanto la nuova disciplina statale determinerebbe una discriminazione «fra i
soggetti titolari della protezione internazionale e sussidiaria e i soggetti
titolari di protezione costituzionale», così vincolando la Regione a effettuare
tale discriminazione nell’erogazione delle prestazioni assistenziali; parimenti
lesi sarebbero gli artt. 31, 32, 34 e 35 Cost., in quanto la nuova normativa
«impedisce alle Regioni di fornire, ai soggetti titolari del diritto
costituzionale di asilo, le prestazioni assistenziali che costituiscono
attuazione di tali disposizioni».
Inoltre, l’impugnato art. 1 contrasterebbe con
l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, atteso che lo
Stato e le Regioni devono esercitare la funzione legislativa nel rispetto degli
obblighi internazionali ed europei, mentre la nuova disciplina imporrebbe alle
Regioni di non applicare la propria normativa in tema assistenziale in favore
di soggetti che potrebbero essere ben radicati nella società, al punto che un
loro allontanamento violerebbe il rispetto della vita privata e familiare.
Ad avviso della ricorrente, la nuova normativa,
in luogo di un approccio individualizzato, che prenda in considerazione
l’esigenza di non pregiudicare in maniera sproporzionata (rispetto alle
esigenze di sicurezza e ordine pubblico) il diritto convenzionale al rispetto
della vita privata e familiare e il grado di radicamento sociale nel territorio
del singolo straniero, avrebbe invece stabilito un illegittimo regime fondato
sul divieto generalizzato di rilascio e rinnovo di permessi di soggiorno per
motivi umanitari, prevedendo un meccanismo di eccezione fondato su casi
tipizzati e particolarmente ristretti.
Infine, in ragione dell’intreccio di competenze
statali e regionali in materia di immigrazione, l’intervento legislativo
avrebbe richiesto, ad avviso della ricorrente, l’attivazione di strumenti
cooperativi, per lo meno nella forma della consultazione, oltre alla previsione
di una regolamentazione transitoria di carattere integrato, alla cui formazione
avrebbero dovuto partecipare anche le Regioni. L’unilaterale riforma del
diritto di asilo violerebbe pertanto il principio di leale collaborazione, che
si impone ai sensi degli artt. 5 e 120 Cost. in ambiti caratterizzati da un
concorso di competenze inestricabilmente connesse (è richiamata la sentenza n. 251 del
2016).
5.2.– Quanto all’art. 12 del d.l. n. 113 del
2018, la ricorrente ritiene la disposizione lesiva degli artt. 2, 3, 10, 11 e
117, primo comma – con riferimento agli standard internazionali ed europei di
accoglienza – terzo e quarto comma, e 118 Cost., nonché del principio di leale
collaborazione.
La ricorrente premette che l’oggetto e le
finalità dell’intervento legislativo sarebbero individuabili nell’intento di
delineare una netta differenziazione tra gli investimenti in termini di
accoglienza e integrazione da destinare a coloro che hanno titolo definitivo a
permanere sul territorio nazionale, da una parte, e i servizi di prima
accoglienza e assistenza, da erogare a coloro che sono in temporanea attesa
della definizione della loro posizione giuridica, dall’altra.
La riforma del sistema di accoglienza avrebbe,
perciò, accentrato in capo allo Stato le competenze legislative ed
amministrative in tema di accoglienza ai richiedenti asilo: lungi dal
programmare i flussi d’ingresso degli stranieri, la disposizione mirerebbe a
promuovere l’inclusione sociale e il superamento della fase di assistenza,
tipiche attività – quelle dell’assistenza e dei servizi sociali – rientranti
nelle competenze residuali regionali, che sarebbero, così, compresse in
violazione del principio di leale collaborazione.
Tale compressione sarebbe, infatti, evidenziata
dal nuovo schema di capitolato d’appalto per la gestione dei centri di
accoglienza, approvato con decreto del Ministro dell’interno del 20 novembre
2018, il quale avrebbe radicalmente riformato il sistema dei servizi da
riservare ai soggetti ospitati nei centri di prima accoglienza, disciplinando
il tema dell’accoglienza e dell’integrazione in maniera così dettagliata da non
lasciare spazio alcuno alle competenze regionali o degli enti locali, riducendo
tutti i servizi alla persona. La ricorrente ricorda che la legislazione
regionale include provvedimenti specificamente tesi a determinare lo standard
di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale.
Quanto al merito, secondo la Regione Calabria
il nuovo regime di accoglienza violerebbe gli standard internazionali ed
europei in materia di accoglienza, assistenza e integrazione dei richiedenti,
imponendo alle Regioni di esercitare le proprie competenze in difformità
rispetto alle regole costituzionali che ne impongono l’osservanza.
La Convenzione di Ginevra del 1951, infatti,
non opererebbe alcuna distinzione tra rifugiati e richiedenti asilo, in quanto
il provvedimento di riconoscimento dello status di rifugiato avrebbe natura
solo dichiarativa, sicché l’imposizione a carico delle Regioni di limitare la
fornitura di prestazioni assistenziali solo alle misure di prima accoglienza,
assimilando i richiedenti asilo ai migranti irregolari, produrrebbe una
irragionevole discriminazione fra soggetti in possesso del medesimo status.
Allo stesso modo, la direttiva 2013/33/UE
imporrebbe una valutazione personalizzata delle esigenze degli individui in
condizione di vulnerabilità e dei minori, laddove il nuovo capitolato per i
servizi di accoglienza non contemplerebbe tale possibilità nell’ambito dei
centri governativi.
5.3.– Con specifico riferimento all’art. 13 del
d.l. n. 113 del 2018, la Regione Calabria ha impugnato le disposizioni di cui
al comma 1, lettera a), numero 2), lettera b) e lettera c), in riferimento agli
artt. 2, 3, 10, terzo comma, 11 e 117, primo terzo e quarto comma, Cost.
Preliminarmente, la difesa regionale sottolinea
che, sebbene l’anagrafe rientri nelle materie di competenza esclusiva statale,
ai sensi dell’art. 117, primo (recte: secondo) comma,
Cost., l’esercizio della competenza in questa materia
ben può interferire con gli ambiti rimessi alla potestà legislativa delle
Regioni, oltre che con le competenze amministrative degli enti locali.
La ricorrente afferma, altresì, che
l’iscrizione anagrafica è necessaria per il rilascio del certificato di
residenza e del documento di identità, e che tali documenti sono il presupposto
per il godimento di alcuni diritti. Al riguardo, la previsione dell’art. 13,
comma 1, lettera b), numero 1), non ricomprenderebbe l’intera gamma di diritti
previsti dall’ordinamento italiano spettanti all’individuo sulla base della
residenza anagrafica.
D’altra parte, secondo la difesa regionale, la
stessa relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del d.l. n.
113 del 2018 sembrerebbe escludere tale possibilità, limitandosi a sottolineare
che «l’esclusione dall’iscrizione anagrafica si giustifica per la precarietà
del permesso per richiesta di asilo e risponde alla necessità di definire
preventivamente la condizione giuridica del richiedente».
La ricorrente precisa che, ai fini del presente
ricorso, rilevano solo i casi di privazione di diritti connessi alla residenza
che rientrano nell’ambito delle competenze regionali, fra i quali va ricompreso
il diritto all’abitazione, e quindi l’accesso all’edilizia residenziale
pubblica, nonché il diritto a ottenere tariffe agevolate per l’accesso a
servizi regionali.
Da questo punto di vista, le leggi della
Regione Calabria nelle materie sopra indicate costituirebbero attuazione del
principio di non discriminazione tra rifugiati e richiedenti asilo che emerge
dalla Convenzione di Ginevra e, in particolare, dal suo art. 21 che assicura ai
rifugiati legalmente presenti nel territorio dello Stato un trattamento non
meno favorevole di quello assicurato ad altri stranieri nell’accesso
all’abitazione.
Secondo la difesa regionale, l’illegittimità
costituzionale delle norme impugnate si «accentua» alla luce della
giurisprudenza costituzionale, secondo cui sono irragionevoli le disposizioni
che limitano la platea dei beneficiari di un diritto in ragione di elementi
irrazionali o arbitrari (è citata la sentenza n. 306 del
2008).
6.– La Regione autonoma Sardegna, con ricorso
notificato il 31 gennaio-4 febbraio 2019 e depositato il 1° febbraio 2019 (reg.
ric. n. 9 del 2019), ha impugnato diverse disposizioni del d.l. n. 113 del 2018
e, tra queste, gli artt. 1, 12 e 13.
In particolare, dell’art. 1 ha censurato: il
comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), i), l), m), n), numero 2), n-bis), o),
p), q); il comma 2; il comma 3, lettera a), numeri 1) e 2); il comma 6; il
comma 7; il comma 8 e il comma 9.
Dell’art. 12 ha censurato tutte le disposizioni
di cui si compone, a eccezione: del comma 1, lettere a-bis) e a-ter); del comma
2, lettera d), numero 1-bis); del comma 7.
Dell’art. 13, comma 1, ha censurato: la lettera
a), numero 2; la lettera b); la lettera c).
7.– La Regione Basilicata, con ricorso
notificato il 29 gennaio 2019 e depositato il 4 febbraio 2019 (reg. ric. n. 12
del 2019), ha impugnato gli artt. 1 e 13 del d.l. n. 113 del 2018.
8.– In tutti i giudizi si è costituito il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che le questioni promosse siano dichiarate
inammissibili e infondate, con argomentazioni non dissimili tra i vari atti di
costituzione, che possono essere quindi riassunte unitariamente.
In via preliminare, secondo l’Avvocatura
generale i ricorsi sarebbero inammissibili, in ragione della mancanza di
un’«adeguata motivazione in merito alla asserita lesione della sfera di
competenza regionale, in quanto non suffragata da alcuna argomentazione che non
sia apoditticamente fondata sul riparto costituzionale di competenze
legislative».
La difesa statale ritiene poi che, secondo la
giurisprudenza costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 140 del
2015, n. 79,
n. 44 e n. 36 del 2014),
le Regioni possono invocare parametri diversi da quelli relativi al riparto
delle rispettive competenze legislative, soltanto qualora la violazione di tali
parametri comporti una compromissione delle attribuzioni regionali
costituzionalmente garantite, tali cioè da provocare la ridondanza delle
asserite violazioni sul relativo riparto, e siano indicate le specifiche competenze
ritenute lese e le ragioni della lamentata lesione. Nel caso di specie, invece,
le ricorrenti, nell’indicare le competenze asseritamente lese, si sarebbero
limitate a richiamare le leggi regionali in materia senza tuttavia enucleare
specificamente le ragioni del dedotto vulnus.
Secondo la difesa statale, «se si seguissero le
tesi dell[e] region[i] ricorrent[i], sarebbe sufficiente la presenza di una
disposizione regionale attuativa di una normativa statale per impedirne la
modifica in eterno».
8.1.– Quanto ai motivi di ricorso relativi
all’art. 1 del d.l. n. 113 del 2018, la difesa statale evidenzia come il
decreto-legge impugnato investirebbe materie, quale – per quello che qui rileva
– l’immigrazione, riservate alla legislazione esclusiva dello Stato, ai sensi
dell’art. 117, secondo comma, lettera b), Cost., e le eventuali ricadute sulle
competenze delle Regioni, «che pure potrebbero profilarsi rispetto alle attuali
legislazioni regionali, declinate su un assetto definito a livello statuale diverso
da quello di recente introdotto», non potrebbero tradursi in un limite al
legislatore statale rispetto a materie rientranti nella sua competenza
esclusiva.
In particolare – sostiene il Presidente del
Consiglio dei ministri – l’impugnato art. 1 sarebbe intervenuto a tipizzare,
«analogamente a quanto accade in altri Paesi europei» e in linea con quanto
previsto dalla direttiva 2011/95/UE, le forme di tutela di esigenze di
carattere umanitario complementare alla protezione internazionale (nelle due
ipotesi di status di rifugiato e di quello beneficiario di protezione
sussidiaria) i cui presupposti sono esaustivamente individuati dalla direttiva
stessa, cui dà attuazione il d.lgs. n. 251 del 2007, le cui norme (in
particolare gli artt. 14 e 17) non sarebbero state minimamente incise dal
decreto-legge impugnato. Ne deriverebbe, sotto questo profilo, il carattere
apodittico e infondato della censura avversa secondo cui l’indicato art. 1
violerebbe gli artt. 15, lettera c) e 18 della direttiva 2011/95/UE.
La difesa statale evidenzia altresì come le
norme introdotte dal d.l. n. 113 del 2018 si sostituiscano a una precedente
generica definizione normativa (contenuta nel previgente art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione), dai contorni non sufficientemente determinati,
«seri motivi di carattere umanitario», che in sede di applicazione aveva
portato nel tempo a uno «snaturamento» dell’istituto del permesso di soggiorno
umanitario, con l’attrazione di situazioni non tutte riconducibili al comune
denominatore della tutela dei diritti fondamentali. La nuova disciplina si
porrebbe dunque l’intento di ridisegnare la tutela delle esigenze temporanee di
carattere umanitario attraverso l’adozione di criteri positivi, integrativi di
quelli già rinvenibili nella legislazione vigente, «idonei ad orientare
l’attività valutativa dell’autorità competente».
In tale ottica, è stata quindi individuata una
nuova ipotesi di protezione (art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, come
novellato dall’art. 1, comma 1, lettera a, del d.l. n. 113 del 2018) che
correda di uno specifico permesso di soggiorno (per «protezione speciale») il
divieto di refoulement già previsto dall’art. 19, commi 1 e 1.1, del t.u. immigrazione. Detto divieto sarebbe inderogabile e
avrebbe una portata più ampia del divieto di espulsione previsto dall’art. 33
della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati.
Il potere e l’obbligo di valutare la ricorrenza
di controindicazioni al rimpatrio rimarrebbe quindi attribuito alle competenti
commissioni territoriali, allorché non ravvisino i requisiti per il
riconoscimento dello status di rifugiato o di beneficiario di protezione
sussidiaria. La protezione derivante dal divieto di refoulement opererebbe
anche nei confronti di chi ha già ottenuto la protezione internazionale, in
sede di revoca o cessazione di detto status, spettando alla Commissione
nazionale per il diritto d’asilo la stessa valutazione sulla necessità di una
protezione speciale ai sensi dell’art. 33 del d.lgs. n. 25 del 2008, che
richiama espressamente il novellato art. 32, comma 3, del medesimo decreto
legislativo.
Accanto alla «protezione speciale», il
resistente ricorda gli altri «casi speciali» di rilascio di un permesso di
soggiorno per esigenze di carattere umanitario: alcuni di essi già presenti
nell’ordinamento ed oggetto di ridefinizione a opera dell’impugnato
decreto-legge che ne avrebbe lasciato immutate la portata, la durata e le
facoltà connesse; altri disciplinati per la prima volta dallo stesso d.l. n.
113 del 2018.
A conferma del livello di tutela accordato dal
legislatore alle nuove ipotesi di permesso di soggiorno per esigenze di
carattere umanitario, la difesa statale evidenzia come le sezioni specializzate
in materia di protezione internazionale e immigrazione istituite presso i tribunali
ordinari abbiano competenza anche per le controversie in materia di rifiuto di
rilascio, diniego di rinnovo e revoca di tali permessi, «proprio in
considerazione della loro riconducibilità ad obblighi internazionali e
costituzionali e della loro natura di diritti soggettivi».
Sottolinea inoltre l’Avvocatura generale che le
nuove norme non sarebbero intervenute in tema di permessi di soggiorno per
minori stranieri non accompagnati, né in materia di diritto all’unità familiare
e alla vita privata e familiare, ambiti che continuerebbero a trovare copertura
normativa e autonoma disciplina nelle specifiche disposizioni del t.u. immigrazione.
La difesa statale ribadisce la riconducibilità
delle norme censurate agli ambiti di competenza legislativa statale esclusiva
di cui all’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., evidenziando
altresì come la circostanza che la materia dell’immigrazione proietti i suoi
effetti su ambiti materiali di competenza regionale, come quelli richiamati nei
ricorsi, non renderebbe per ciò solo sindacabili dalle Regioni le scelte del
legislatore nazionale in materia di disciplina dell’ingresso e soggiorno dei
cittadini stranieri e della loro condizione giuridica.
A tal fine, il Presidente del Consiglio dei
ministri richiama la giurisprudenza costituzionale (in primis, la sentenza n. 61 del
2011), che ha riconosciuto come l’intervento pubblico concernente gli
stranieri non possa limitarsi al mero controllo dell’ingresso e del soggiorno
sul territorio nazionale, dovendo necessariamente considerare altri ambiti,
quali l’assistenza sociale, l’istruzione, la salute o l’abitazione, che
coinvolgono diverse competenze normative, sia statali che regionali. In tale contesto,
si è però precisato che la disciplina dei presupposti per la legittima
permanenza dello straniero nel territorio nazionale e delle modalità di
regolarizzazione della sua presenza compete esclusivamente allo Stato, pur
potendo le Regioni, nell’esercizio delle competenze a esse spettanti, estendere
anche agli stranieri irregolari quegli interventi sociali che attengono alla
sfera dei diritti inviolabili dell’uomo, di cui all’art. 2 Cost., senza che ciò
possa legittimarne in qualche modo la presenza sul territorio nazionale.
Tale assetto, secondo il Presidente del
Consiglio dei ministri, non sarebbe assolutamente inciso dalle norme introdotte
col decreto-legge impugnato e troverebbe conferma sia nei principi che nelle
singole disposizioni del t.u. immigrazione.
Da quanto detto, emergerebbe chiaramente che,
seppur intersecanti, le competenze legislative statali e regionali sarebbero
nettamente distinte, sicché le Regioni non avrebbero titolo a ricorrere, poiché
la regolamentazione dei presupposti per la legittima permanenza in Italia non
invaderebbe le competenze regionali.
Tutte le censure sarebbero inammissibili in
ragione della mancata configurabilità di violazioni di prerogative regionali e
della carenza di adeguata motivazione.
In subordine, dette censure sarebbero comunque
infondate alla luce del quadro di tutele garantito dall’ordinamento ai diritti
fondamentali dei cittadini stranieri, in parte preesistente e confermato
dall’impugnato decreto-legge, in parte da questo riscritto «nel rispetto degli
obblighi costituzionali e internazionali dello Stato».
8.2.– Quanto alle censure rivolte contro l’art.
12 del d.l. n. 113 del 2018, l’Avvocatura generale, in primo luogo, traccia la
cornice normativa di riferimento ricavabile dal diritto europeo, individuando,
in particolare, la relativa fonte in materia di accoglienza dei richiedenti
asilo nella direttiva 2013/33/UE ed evidenziando che i diritti assicurati a
coloro che hanno già ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale
trovano invece la propria regolamentazione nella diversa direttiva 2011/95/UE.
A parere della difesa statale, le suddette fonti dimostrerebbero che, in sede
europea, la posizione del richiedente asilo è, pertanto, differenziata da
quella del titolare di protezione, con l’indicazione espressa delle condizioni
di accoglienza da riservare ai richiedenti asilo e dei diritti da assicurare ai
titolari di protezione.
Conseguentemente, nell’ordinamento nazionale,
le misure di accoglienza vengono disciplinate dal d.lgs. n. 142 del 2015, che
dà attuazione alla direttiva 2013/33/UE, mentre i diritti del titolare di
protezione sono elencati nel d.lgs. n. 251 del 2007. Non avrebbe, dunque,
«alcun fondamento la pretesa equiparazione delle due differenti posizioni,
quanto ai diritti, prestazioni e servizi, in specie quelli finalizzati
all’inclusione e integrazione, in quanto non supportata dalle fonti normative
europee ed internazionali».
Le disposizioni di cui all’art. 12 del d.l. n.
113 del 2018 si inquadrerebbero nell’ambito di una rivisitazione complessiva
del sistema statale di accoglienza, nell’ottica di una razionalizzazione dei
servizi, diretta ad assicurare ai richiedenti asilo condizioni materiali
adeguate a garantire una vita dignitosa, garantendone il sostentamento e la
tutela della salute, e a riservare i percorsi di inclusione sociale, funzionali
al conseguimento di un’effettiva autonomia personale, ai titolari di protezione
internazionale, oltre che ai minori stranieri non accompagnati e ai soggetti
per i quali sussistono specifiche esigenze umanitarie.
La limitazione dei servizi da rendere
attraverso la rete del SIPROIMI ai titolari di protezione internazionale
risiederebbe, dunque, nell’esigenza di riservare prioritariamente l’accesso al
sistema finalizzato all’integrazione a quei soggetti la cui condizione è
connotata dal requisito della stabilità, rispetto ad altre condizioni di
carattere temporaneo.
Tale riorganizzazione del sistema
dell’accoglienza, dunque, risponderebbe a criteri di ragionevolezza, ponendosi
nell’ottica «di una visione globale del fenomeno migratorio», che tenga anche
conto della configurazione dei flussi di ingresso.
8.2.1.– Con specifico riferimento alle norme
transitorie di cui ai commi 5 e 6 dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018, la
difesa statale sostiene che esse mirerebbero proprio a non interrompere i
progetti di accoglienza in corso, non solo per i richiedenti asilo (comma 5),
ma anche per i titolari di protezione umanitaria (comma 6) già presentì nel
sistema di protezione alla data di entrata in vigore del decreto-legge, secondo
le disposizioni di attuazione sul funzionamento del sistema che fissano in ogni
caso dei limiti temporali predeterminati all’accoglienza dei beneficiari di
protezione.
Osserva, ancora, la difesa statale che il
sistema di seconda accoglienza resterebbe inalterato nelle sue connotazioni
strutturali e funzionali, in quanto: continua a essere imperniato sugli enti
locali; resta invariato il complesso di prestazioni erogate agli ospiti delle
strutture che ne fanno parte; restano altresì invariati il meccanismo e la
fonte di finanziamento, risultando modificata esclusivamente la platea dei
soggetti destinatari dei servizi resi.
Quanto al presunto ridimensionamento del ruolo
della Conferenza unificata prospettato dalla Regione Emilia-Romagna,
l’Avvocatura generale deduce che il ricorso non chiarisce in quale modo
sarebbero state lese prerogative costituzionalmente riservate alla Regione o
agli enti locali (apparendo pertanto, sotto questo profilo, la censura
inammissibile); sarebbe evidente, piuttosto, che la riforma, attraendo
l’intervento della Conferenza unificata «al ben più qualificato momento» della
definizione dei criteri e delle modalità per la presentazione da parte degli
enti locali delle domande di contributo per la realizzazione e la prosecuzione
dei progetti finalizzati all’accoglienza, non sminuirebbe affatto il contributo
della Conferenza stessa.
Infine, la difesa statale evidenzia che la
lettera h-bis) del comma 2 dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018, disposizione
alla quale la Regione Emilia-Romagna imputa possibili effetti pregiudizievoli
di un’autonoma capacità di spesa comunale per le politiche di integrazione dei
minori stranieri non accompagnati, è stata abrogata dall’art. 1, comma 769,
della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per
l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021).
8.3.– Quanto ai motivi di ricorso relativi
all’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018, la difesa statale ritiene che la norma in
questione sia riconducibile alla competenza legislativa statale in materia di
anagrafe (art. 117, secondo comma, lettera i, Cost.); inoltre, i compiti di
vigilanza sull’anagrafe sono assegnati al Ministero dell’interno dall’art. 14
del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma dell’organizzazione del
Governo, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59). Quello
dell’anagrafe sarebbe, quindi, un servizio di competenza statale e le relative
funzioni sono delegate al sindaco quale ufficiale di Governo, ai sensi
dell’art. 54 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle
leggi sull’ordinamento degli enti locali).
Secondo l’Avvocatura, l’esclusione
dell’iscrizione all’anagrafe per i richiedenti asilo si fonderebbe sulla
«temporaneità del predetto permesso di soggiorno, in attesa della definizione
della posizione giuridica del richiedente». In particolare, l’obiettivo
perseguito dal legislatore sarebbe quello di scongiurare «il sovraccarico di
iscrizioni anagrafiche di richiedenti asilo presso Comuni di piccole dimensioni
sul cui territorio si trovano centri di accoglienza, con i conseguenti
adempimenti anche in termini di cancellazioni e di ripetuti accertamenti in
caso di irreperibilità, e soprattutto per eliminare l’anomalia del rilascio di
carte d’identità con validità decennale a cittadini stranieri la cui posizione
giuridica sul territorio non è stata ancora definita».
Sarebbe quindi giustificato un trattamento
differenziato rispetto agli altri cittadini stranieri regolarmente soggiornanti
la cui posizione giuridica è già definita.
Alla luce di queste considerazioni non sarebbe
pertinente il richiamo dell’art. 6, comma 7, del t.u.
immigrazione, in considerazione della specialità della norma prevista per i
richiedenti asilo. Inoltre, dall’esclusione dell’iscrizione anagrafica non
discenderebbe alcun pregiudizio ai diritti di questi ultimi, che sono
riconosciuti sulla base della titolarità del permesso di soggiorno; in
particolare, l’art. 34 dello stesso testo unico elenca il permesso per
richiesta di asilo tra quelli che prevedono l’iscrizione obbligatoria al
servizio sanitario nazionale. Inoltre, l’impugnato art. 13 fissa nel domicilio
il criterio di collegamento idoneo all’accesso ai servizi erogati sul
territorio. Sarebbe dunque esclusa la violazione dell’art. 117, secondo (recte: terzo) e quarto comma, Cost.
Parimenti infondate sarebbero anche le censure
mosse rispetto agli artt. 2, 3 e 10 Cost.: l’art. 2 Cost. non sarebbe violato
perché verrebbe comunque assicurata la tutela dei diritti fondamentali; non vi
sarebbe contrasto con l’art. 3 Cost. in considerazione della diversa posizione
degli stranieri titolari di altre tipologie di permesso di soggiorno e
soprattutto dei cittadini europei; sarebbe esclusa anche la violazione
dell’art. 10 Cost., in quanto le norme europee (è citata la direttiva
2013/33/UE) non impongono modalità di registrazione della presenza sul
territorio degli Stati membri, diverse dal rilascio di un’autorizzazione al
soggiorno valida per la durata del procedimento di esame della domanda.
Peraltro, la disciplina europea (art. 2, comma 1, del Protocollo n. 4 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali) e quella internazionale (art. 12, comma 1, del Patto internazionale
relativo ai diritti civili e politici) presuppongono la legale presenza dello
straniero nel territorio dello Stato, sicché sarebbe assurdo richiamare queste
disposizioni per censurare una normativa intesa a rendere regolare e legittima
la permanenza degli stranieri nel territorio nazionale.
Non si ravviserebbe una violazione dei
parametri costituzionali indicati dalle ricorrenti nemmeno in relazione al
fatto che il periodo trascorso regolarmente dal richiedente asilo non potrà
essere computato ai fini della eventuale successiva richiesta di concessione
della cittadinanza; a tal fine, infatti, la legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove
norme sulla cittadinanza) prenderebbe in considerazione solo la persona a cui
lo status di rifugiato è già stato riconosciuto.
8.4.– Quanto alla denunciata illegittimità
costituzionale, per violazione dell’art. 77 Cost., delle disposizioni contenute
nel decreto-legge, la difesa statale avanza, anzitutto, una duplice eccezione
di inammissibilità nei confronti dell’impugnazione rivolta al decreto-legge
nella sua interezza.
In primo luogo, la questione sarebbe
inammissibile perché verrebbe «sottoposto a censura l’intero testo normativo,
adottato dallo Stato nell’esercizio delle proprie competenze, e censurato ex adverso in dettaglio solo per alcuni profili».
L’impugnazione regionale di un atto legislativo nella sua interezza, per
violazione dei presupposti di cui all’art. 77 Cost., non sarebbe ammissibile,
posto che la Regione sarebbe pur sempre sottoposta «ai vincoli di attinenza»
connessi alla ripartizione costituzionale di competenze.
Inoltre, e più nello specifico, la ricorrente
non avrebbe adeguatamente motivato in ordine alla asserita lesione delle
competenze regionali derivante dalla insussistenza dei presupposti di necessità
ed urgenza e, dunque, alla ridondanza del vizio sulle attribuzioni che la
Costituzione riserva alle Regioni.
Nel merito, la difesa statale insiste sulla non
fondatezza delle censure. L’Avvocatura generale riporta a sostegno della sua tesi
la giurisprudenza costituzionale che ha affermato come «il sindacato sulla
legittimità dell’adozione da parte del Governo di un decreto-legge vada
limitato ai casi di evidente mancanza dei presupposti di straordinaria
necessità o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro
valutazione» (si richiamano, ex plurimis, le sentenze n. 287
e n. 244 del
2016, n. 32
del 2014, n.
22 del 2012, n.
128 del 2008 e n. 171 del 2007).
Tale manifesta mancanza non parrebbe ravvisarsi nel caso di specie, poiché il
decreto impugnato «anche quando è caratterizzato da disposizioni a contenuto
plurimo, articolato e differenziato al suo interno, nondimeno appare fornito di
intrinseca coerenza, in quanto le disposizioni che lo compongono presentano una
sostanziale omogeneità di scopo».
8.5.– Con riguardo, infine, alla asserita
violazione del principio di leale collaborazione, l’Avvocatura generale rileva
come non sarebbe individuabile alcun obbligo di consultazione delle Regioni
durante la fase di adozione dei decreti-legge, data la peculiarità dei casi in
cui questi possono essere adottati e la celerità dei termini per la
presentazione degli stessi alle Camere (vengono richiamate le sentenze n. 298 del
2009, n. 275
del 2005 e n.
196 del 2004).
9.– La Regione autonoma Sardegna e la Regione
Basilicata, rispettivamente in data 5 e 10 giugno 2019, hanno depositato atto
di rinuncia al ricorso, accettata, per entrambe le Regioni, dal Presidente del
Consiglio dei ministri con atto depositato il 13 giugno 2019.
10.– In prossimità dell’udienza le Regioni
Umbria, Emilia-Romagna, Marche, Toscana e Calabria, e il Presidente del
Consiglio dei ministri hanno depositato memorie nelle quali insistono nelle
conclusioni già rassegnate, rispettivamente, nei ricorsi e negli atti di
costituzione.
Considerato in diritto
1.– Le Regioni Umbria, Emilia-Romagna,
Basilicata, Marche, Toscana e Calabria e la Regione autonoma Sardegna hanno
promosso plurime questioni di legittimità costituzionale con riguardo
all’intero decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in
materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché
misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il
funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione
dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito,
con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, nonché ad alcune sue
disposizioni, fra le quali gli artt. 1, 12 e 13.
2.– Riservata a separata pronuncia la decisione
delle questioni vertenti sulle altre disposizioni impugnate con i ricorsi
indicati in epigrafe, i giudizi aventi a oggetto gli artt. 1, 12 e 13, nonché
l’intero decreto-legge, devono essere riuniti, in ragione della parziale
connessione oggettiva e della parziale identità delle questioni all’esame della
Corte.
3.– Nelle more del giudizio, la Regione
autonoma Sardegna e la Regione Basilicata, rispettivamente in data 5 e 10
giugno 2019, hanno depositato atto di rinuncia al ricorso, accettata, per
entrambe le Regioni, dal Presidente del Consiglio dei ministri con atto
depositato il 13 giugno 2019.
Ai sensi dell’art. 23 delle Norme integrative
per i giudizi davanti alla Corte costituzionale deve essere pertanto dichiarata
l’estinzione dei giudizi promossi dalle anzidette Regioni (ex plurimis, sentenza n. 201 del
2018).
4.– Quanto alle questioni promosse dalle altre
ricorrenti, questa Corte è chiamata preliminarmente a verificare le ragioni
addotte dalle Regioni a giustificazione della lamentata incidenza diretta o
indiretta di siffatte questioni sulle competenze legislative e amministrative
di cui sono titolari esse stesse e gli enti locali, a tutela delle cui
attribuzioni le prime possono agire dinanzi a questa Corte (sentenze n. 205
e n. 29 del 2016,
n. 220 del 2013,
n. 311 del 2012,
n. 298 del 2009,
n. 169 e n. 95 del 2007,
n. 417 del 2005,
n. 196 del 2004).
5.– Devono essere anzitutto esaminate le
censure relative all’art. 77 Cost., avanzate dalla Regione Marche in relazione
all’intero testo del decreto-legge, poiché l’eventuale accoglimento di esse
assorbirebbe ogni altra censura.
In particolare, ad avviso della Regione Marche,
mancherebbe nel preambolo un’adeguata motivazione in grado di giustificare il
ricorso alla decretazione d’urgenza per una così ampia riforma a carattere
ordinamentale. Inoltre, il decreto-legge in esame avrebbe un contenuto
eterogeneo. Infine, l’immigrazione viene ritenuta, dalla Regione Marche, un
fenomeno ormai ordinario, in relazione al quale non potrebbero ricorrere i
presupposti di straordinaria necessità e urgenza legittimanti l’intervento
governativo in base all’art. 77 Cost. La mancanza dei presupposti di
straordinaria necessità ed urgenza vizierebbe l’intero decreto rendendo illegittima
per vizio in procedendo anche la relativa legge di conversione.
5.1.– In via preliminare, questa Corte è
chiamata a pronunciarsi sulle eccezioni di inammissibilità avanzate dalla
difesa statale.
5.2.– In primo luogo, l’Avvocatura generale
ritiene inammissibile l’impugnazione dell’intero decreto-legge, perché verrebbe
«sottoposto a censura l’intero testo normativo, adottato dallo Stato
nell’esercizio delle proprie competenze, e censurato ex adverso
in dettaglio solo per alcuni profili».
L’eccezione non è fondata. Questa Corte ritiene
ammissibili le questioni, avanzate in via principale, avverso interi atti
legislativi, purché l’impugnativa non «comporti la genericità delle censure che
non consenta la individuazione della questione oggetto dello scrutinio di
costituzionalità», e sempre che le leggi impugnate siano «caratterizzate da
normative omogenee e tutte coinvolte dalle censure» (sentenze n. 247 del
2018, n. 14
del 2017 e n.
195 del 2015).
Poiché la Regione Marche ha contestato diversi profili
del decreto-legge n. 113 del 2018, tutti riconducibili alla violazione
dell’art. 77 Cost, non vi è dunque contraddizione, né disomogeneità rispetto
all’oggetto dell’impugnazione regionale dell’intero decreto. La ricorrente ha,
infatti, ampiamente motivato in ordine alle possibili ragioni di
incostituzionalità dell’atto impugnato in relazione alla carenza dei
presupposti di necessità ed urgenza.
5.3.– In secondo luogo, la difesa statale
ritiene inammissibile l’impugnazione dell’intero decreto-legge perché la
ricorrente non avrebbe adeguatamente motivato la asserita lesione delle
competenze regionali derivante dalla pretesa insussistenza dei presupposti di
necessità ed urgenza. Non sarebbe stata dimostrata, quindi, la ridondanza del
vizio sulle attribuzioni che la Costituzione riserva alle Regioni.
L’eccezione è fondata.
In più occasioni, questa Corte ha avuto modo di
affermare che «le Regioni possono evocare parametri di legittimità
costituzionale diversi da quelli che sovrintendono al riparto di competenze fra
Stato e Regioni solo a due condizioni: quando la violazione denunciata sia
potenzialmente idonea a riverberarsi sulle attribuzioni regionali
costituzionalmente garantite […] e quando le Regioni ricorrenti abbiano
sufficientemente motivato in ordine alla ridondanza della lamentata
illegittimità costituzionale sul riparto di competenze, indicando la specifica
competenza che risulterebbe offesa e argomentando adeguatamente in proposito»
(ex multis, sentenza n. 198 del
2018). L’esigenza di evitare un’ingiustificata espansione dei vizi
censurabili dalle Regioni nel giudizio in via d’azione e, quindi, la
trasformazione della natura di tale rimedio giurisdizionale obbliga le Regioni
stesse a dare conto, in maniera puntuale e dettagliata, della effettiva
sussistenza e della portata del «condizionamento» prodotto dalla norma statale
impugnata.
5.4.– Il ricorso della Regione Marche appare
carente sotto il profilo della motivazione.
Il vizio in ridondanza deve, infatti, essere
illustrato in modo da soddisfare un duplice requisito: per un verso, non deve
risultare generico, e quindi difettare dell’indicazione delle competenze
asseritamente violate; per un altro, non deve essere apodittico, e deve dunque
essere adeguatamente motivato in ordine alla sussistenza, nel caso oggetto di
giudizio, di un titolo di competenza regionale rispetto all’oggetto regolato
dalla legge statale.
Nel caso di specie, non è sufficiente
sostenere, come fa la Regione ricorrente, che le disposizioni del decreto-legge
«incidono sull’esercizio delle funzioni proprie delle Regioni nei settori della
"tutela della salute”, della "tutela del lavoro”, dell’"istruzione”, della
"formazione professionale”, del "governo del territorio”, con riferimento
all’edilizia residenziale pubblica, e dell’”assistenza sociale”, nonché sulle
corrispondenti funzioni amministrative regionali e locali». Di fronte a un atto
legislativo, quale il d.l. n. 113 del 2018, a contenuto normativo differenziato,
che incide su diversi settori dell’ordinamento giuridico, tutti riferibili,
come si vedrà a breve, alla competenza esclusiva dello Stato, la ridondanza del
vizio sulle competenze regionali e locali deve essere argomentata in relazione
allo specifico contenuto normativo del decreto e alla idoneità dello stesso a
obbligare la Regione a esercitare le proprie attribuzioni in conformità a una
disciplina legislativa statale in contrasto con norme costituzionali.
6.– Occorre ora passare allo scrutinio delle
altre questioni promosse nei confronti degli artt. 1, 12 e 13 del d.l. n. 113
del 2018.
7.– L’art. 1 del d.l. n. 113 del 2018 reca «[d]isposizioni in materia di permesso di soggiorno per motivi
umanitari e disciplina di casi speciali di permessi di soggiorno temporanei per
esigenze di carattere umanitario». Per effetto di tale articolo, il legislatore
ha soppresso l’istituto generale e atipico del permesso di soggiorno per motivi
umanitari, di cui all’art. 5, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998,
n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), e in sua vece ha
contestualmente previsto alcuni «speciali permessi di soggiorno temporanei per
esigenze di carattere umanitario».
Secondo le Regioni ricorrenti la sostituzione
di un permesso di soggiorno di carattere generale con alcune fattispecie
tipizzate determinerebbe una restrizione dell’ambito di applicazione della protezione
per motivi umanitari, con conseguente violazione di numerosi parametri
costituzionali (artt. 2, 3, 10, 31, 32, 34, 35 e 97 Cost., oltre all’art. 77
Cost.), europei e internazionali (e quindi anche degli artt. 11 e 117, primo
comma, Cost.) e con ricadute, sia pure indirette, sulle competenze concorrenti
e residuali delle Regioni in materia di assistenza sociale e sanitaria, di
formazione e politiche attive del lavoro, di istruzione ed edilizia
residenziale pubblica, oltre che sulle funzioni degli enti locali, in
violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost.
7.1.– Lo scrutinio delle censure prospettate
nei confronti dell’art. 1 del d.l. n. 113 del 2018 impone, secondo la costante
giurisprudenza costituzionale (tra le più recenti, sentenze n. 116
e n. 100 del
2019, n. 246
e n. 148 del
2018), l’individuazione dell’ambito materiale al quale vanno ascritte le
disposizioni impugnate, tenendo conto della loro ratio, della finalità, del
contenuto e dell’oggetto della disciplina. Allo scopo si rende dunque
necessario ricostruire sinteticamente l’istituto della protezione umanitaria,
prima e dopo l’impugnato intervento statale.
7.2.– Il sistema della protezione dello
straniero in Italia è articolato su tre livelli: il riconoscimento dello status
di rifugiato, la protezione sussidiaria e la protezione umanitaria.
Mentre le prime due forme di protezione trovano
fonte diretta nelle normative internazionali ed europee, la protezione
umanitaria è un istituto riconducibile a previsioni dell’ordinamento interno.
Lo status di rifugiato è regolato dalla
Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata e resa esecutiva in
Italia con la legge 24 luglio 1954, n. 722, esplicitamente richiamata dalle
rilevanti direttive dell’Unione europea come «pietra angolare della disciplina
giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati» (direttiva
2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime
sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di
rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale,
nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, poi abrogata
dalla direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13
dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o
apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno
status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare
della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione
riconosciuta). Tale status è riconosciuto a chi si trova fuori dal paese di cui
ha la cittadinanza o la dimora abituale e non voglia farvi ritorno «per il
timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità,
opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale» (art. 2,
lettera d, della direttiva 2011/95/UE che riprende la Convenzione di Ginevra).
La «protezione sussidiaria» è regolata dalle
citate direttive UE ed è accordata a chi non possiede i requisiti per essere
riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi per
ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, correrebbe «un rischio
effettivo di subire un grave danno» (art. 2, lettera f, della direttiva
2011/95/UE), con ciò intendendosi la pena di morte o l’essere giustiziato, la
tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante, ovvero la
minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante dalla violenza
indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale (art.
15 della direttiva 2011/95/UE).
Quanto alla «protezione umanitaria», l’art. 6,
paragrafo 4, della direttiva 115/2008/UE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili
negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è
irregolare, prevede la possibilità – non già l’obbligo – per gli Stati membri
di estendere l’ambito delle forme di protezione tipiche sino a ricomprendere
«motivi umanitari, caritatevoli o di altra natura», rilasciando allo scopo un
apposito permesso di soggiorno. A detta facoltà, gli Stati membri hanno dato
attuazione nei modi più vari.
Dunque, lo status di rifugiato e la protezione
sussidiaria, specificazione della medesima voce «protezione internazionale»,
sono accordati in osservanza di obblighi europei e internazionali: il primo per
proteggere la persona da atti di persecuzione; la seconda per evitare che
questa possa subire un grave danno. Viceversa, la protezione umanitaria è
rimessa in larga misura alla discrezionalità dei singoli Stati, per rispondere
a esigenze umanitarie, caritatevoli o di altra natura.
Col decreto-legge in esame, il legislatore
nazionale è intervenuto solo sull’istituto della protezione umanitaria, senza
incidere su quella dovuta in base a obblighi europei e internazionali.
7.3.– Nell’ordinamento italiano, la protezione
umanitaria fu immessa per la prima volta a opera dell’art. 14, comma 3, della
legge 30 settembre 1993, n. 388, recante «Ratifica ed esecuzione: a) del
protocollo di adesione del Governo della Repubblica italiana all’accordo di
Schengen del 14 giugno 1985 tra i Governi degli Stati dell’Unione economica del
Benelux, della Repubblica federale di Germania e della Repubblica francese
relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, con due
dichiarazioni comuni; b) dell’accordo di adesione della Repubblica italiana
alla convenzione del 19 giugno 1990 di applicazione del summenzionato accordo
di Schengen, con allegate due dichiarazioni unilaterali dell’Italia e della
Francia, nonché la convenzione, il relativo atto finale, con annessi l’atto
finale, il processo verbale e la dichiarazione comune dei Ministri e Segretari
di Stato firmati in occasione della firma della citata convenzione del 1990, e
la dichiarazione comune relativa agli articoli 2 e 3 dell’accordo di adesione
summenzionato; c) dell’accordo tra il Governo della Repubblica italiana ed il
Governo della Repubblica francese relativo agli articoli 2 e 3 dell’accordo di
cui alla lettera b); tutti atti firmati a Parigi il 27 novembre 1990», che ha
modificato le condizioni di soggiorno degli stranieri regolate dal
decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416 (Norme urgenti in materia di asilo politico,
di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei
cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato),
convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 1990, n. 39.
Il citato art. 14 della legge n. 388 del 1993
configurava la protezione umanitaria come ipotesi di deroga al rigetto (e alla
revoca) della domanda di permesso di soggiorno, deroga consentita appunto
quando ricorressero seri motivi di carattere umanitario. Tale articolo, infatti,
prevedeva che un provvedimento di rifiuto o di revoca del permesso di soggiorno
potesse essere adottato quando lo straniero non soddisfacesse le condizioni di
soggiorno applicabili nel territorio di uno degli Stati contraenti, salvo che
ricorressero «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti
da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» (art. 4,
comma 12-ter, del d.l. n. 416 del 1989).
Questo originario riferimento alle esigenze di
carattere umanitario, suscettibili di evitare il rifiuto o la revoca del
permesso di soggiorno, è stato testualmente ripreso dall’art. 5, comma 6, della
legge 6 marzo 1998, n. 40 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero), per poi sedimentarsi nell’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione, il cui testo prevedeva, fino all’entrata
in vigore del decreto-legge in esame, che il rifiuto o la revoca del permesso
di soggiorno potessero essere adottati quando lo straniero non soddisfacesse le
condizioni di soggiorno salva la ricorrenza di «seri motivi, in particolare di
carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali
dello Stato italiano». Il permesso di soggiorno per motivi umanitari era
rilasciato dal questore secondo le modalità previste nel regolamento di
attuazione.
A seguito dell’introduzione della protezione
internazionale (a opera del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251,
intitolato «Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime
sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del
rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale,
nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta»), nelle due
forme del riconoscimento dello status di rifugiato e di beneficiario di
protezione sussidiaria, era altresì previsto che, in caso di non accoglimento
della domanda di protezione internazionale, le competenti commissioni
territoriali trasmettessero gli atti al questore per l’eventuale rilascio del
permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 5, comma 6, del t.u.
immigrazione, qualora sussistessero «gravi motivi di carattere umanitario»
(art. 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, intitolato
«Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure
applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello
status di rifugiato»).
Per completare il quadro normativo
immediatamente precedente all’entrata in vigore della disposizione impugnata,
occorre ancora menzionare che, accanto al permesso di soggiorno per motivi
umanitari di cui all’art. 5, comma 6, il t.u.
immigrazione prevedeva altresì alcune fattispecie particolari di permesso di
soggiorno (per motivi di protezione sociale, ex art. 18; per particolare
sfruttamento lavorativo, ex art. 22, comma 12-quater; per le vittime di
violenza domestica, ex art. 18-bis), in cui erano comunque evidenti le esigenze
di carattere umanitario sottese alle singole fattispecie.
7.4.– La protezione umanitaria ha ricevuto
ampia applicazione nella prassi giurisprudenziale, che ne ha via via precisato
i contorni, grazie all’attività interpretativa della giurisprudenza di merito e
di legittimità che ha assicurato l’effettività del quadro normativo ora
brevemente descritto alla luce delle esigenze di tutela dei diritti
fondamentali della persona, garantiti dalla Costituzione e dagli altri
strumenti di tutela europea e internazionale.
Secondo la Corte di cassazione, in particolare,
il permesso di soggiorno per motivi umanitari si collega al diritto di asilo
costituzionale, di cui all’art. 10, terzo comma, Cost., oltre che alla
«protezione complementare» che la normativa europea consente agli Stati membri
di riconoscere, anche per motivi umanitari o caritatevoli, alle persone che non
possono rivendicare lo status di rifugiato e neppure beneficiare della
protezione sussidiaria, benché siano minacciate nei propri diritti fondamentali
in caso di rinvio nel paese d’origine (così, tra le molte, Cassazione civile,
sezioni unite, sentenze 11 dicembre 2018, n. 32177 e n. 32044). Inoltre, nella
giurisprudenza di legittimità immediatamente anteriore alle modifiche
introdotte dal decreto impugnato, i «seri motivi umanitari» erano tutti
accomunati dallo scopo di tutelare situazioni di vulnerabilità attuali o
accertate, con giudizio prognostico, come conseguenza discendente dal rimpatrio
dello straniero, in presenza di un’esigenza concernente la salvaguardia di
diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale
(Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 12 novembre 2018, n.
28996).
7.5.– In tale cornice normativa, è intervenuto
l’impugnato art. 1 del d.l. n. 113 del 2018 che ha eliminato dall’art. 5, comma
6, del t.u. immigrazione il riferimento ai «seri
motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o
internazionali dello Stato italiano» e, più in generale, ha espunto
dall’ordinamento ogni riferimento al permesso di soggiorno «per motivi
umanitari» contenuto in diversi testi normativi. Tuttavia, la medesima
disposizione ha contestualmente delineato una serie di «casi speciali di
permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario».
In sintesi, per effetto dell’impugnato art. 1
del d.l. n. 113 del 2018, il permesso di soggiorno per motivi umanitari, che
scompare come istituto generale e atipico, viene sostituito dai seguenti
permessi di soggiorno: a) permessi di soggiorno per «casi speciali» (ipotesi di
cui agli artt. 18, 18-bis e 22, comma 12-quater, del t.u.
immigrazione); b) permesso di soggiorno per «cure mediche» (ipotesi di cui
all’art. 19, comma 2, lettera d-bis); c) permesso di soggiorno per calamità
(ipotesi di cui all’art. 20-bis); d) permesso di soggiorno per motivi di
particolare valore civile (ipotesi di cui all’art. 42-bis).
I permessi di soggiorno per «casi speciali»
(ipotesi di cui agli artt. 18, 18-bis e 22, comma 12-quater, del t.u. immigrazione), sostituiscono i precedenti permessi di
soggiorno «per motivi di protezione sociale», «per vittime di violenza
domestica» e «per particolare sfruttamento lavorativo», dei quali mantengono
sostanzialmente invariata la portata.
In particolare, lo speciale permesso di cui
all’art. 18 del t.u. immigrazione è rilasciato dal
questore quando siano accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento
nei confronti di uno straniero ed emergano concreti pericoli per la sua
incolumità per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di
un’organizzazione criminale dedita allo sfruttamento della prostituzione, al
fine di consentirgli di sottrarsi alla violenza e a detti condizionamenti
nonché di partecipare a un programma di assistenza e integrazione sociale.
Il permesso di cui al successivo art. 18-bis è
rilasciato dal questore a fronte di accertate situazioni di violenza o abuso
per consentire alla vittima di sottrarsi alla violenza domestica, con ciò
intendendosi «uno o più atti, gravi ovvero non episodici, di violenza fisica,
sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia
o del nucleo familiare o tra persone legate, attualmente o in passato, da un
vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva, indipendentemente dal fatto
che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con
la vittima».
Il permesso di cui all’art. 22, comma
12-quater, è rilasciato dal questore nelle ipotesi di particolare sfruttamento
lavorativo, allo straniero che abbia presentato denuncia e cooperi nel
procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro.
Il permesso di soggiorno per «cure mediche» (di
cui all’art. 19, comma 2, lettera d-bis) è rilasciato dal questore agli
stranieri che versino in condizioni di salute di particolare gravità, accertate
mediante idonea documentazione proveniente da una struttura sanitaria pubblica o
da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, e tali da
determinare un rilevante pregiudizio alla salute degli stessi in caso di
rientro nel paese di origine o di provenienza.
Il permesso di soggiorno per calamità (di cui
all’art. 20-bis) è rilasciato dal questore quando il paese verso il quale lo
straniero dovrebbe fare ritorno versa in una situazione di contingente ed
eccezionale calamità che non consente il rientro e la permanenza in condizioni
di sicurezza.
Il permesso di soggiorno per atti di
particolare valore civile (di cui all’art. 42-bis), infine, deve essere
autorizzato dal Ministro dell’interno, su proposta del prefetto competente, ed
è rilasciato nei casi in cui lo straniero abbia compiuto atti di particolare
valore civile.
Accanto a dette ipotesi, il legislatore,
modificando l’art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, ha poi introdotto un
nuovo permesso di soggiorno per «protezione speciale» per i casi in cui non si
accolga la domanda di protezione internazionale dello straniero e al contempo
ne sia vietata l’espulsione o il respingimento, nell’eventualità che questi
«possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua,
di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o
sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel
quale non sia protetto dalla persecuzione» (art. 19, comma 1, del t.u. immigrazione), oppure esistano fondati motivi di
ritenere che rischi di essere sottoposto a tortura (art. 19, comma 1.1., del t.u. immigrazione).
In sintesi, con l’impugnato art. 1 del d.l. n.
113 del 2018 il legislatore è intervenuto sulle qualifiche che danno titolo ai
permessi di soggiorno sul territorio nazionale specificando, in un ventaglio di
ipotesi nominate, i «seri motivi di carattere umanitario» prima genericamente
enunciati all’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione.
7.6.– Non vi è alcun dubbio che tale intervento
sia esercizio di competenze legislative esclusive dello Stato, ai sensi
dell’art. 117, secondo comma, Cost.
Come osservato dalle stesse ricorrenti, viene
innanzitutto in rilievo la materia «immigrazione», di cui all’art. 117, secondo
comma, lettera b), Cost. Essa infatti comprende, come la giurisprudenza di questa
Corte ha già chiarito, non solo gli «aspetti che attengono alle politiche di
programmazione dei flussi di ingresso e di soggiorno nel territorio nazionale»
(sentenza n. 2
del 2013, così come sentenze n. 61 del
2011, n. 299
del 2010 e n.
134 del 2010), ma, ed è ciò che qui rileva, le condizioni per il rilascio
del permesso di soggiorno (sentenza n. 156 del
2006).
Questa Corte ha anche più volte precisato che
il legislatore statale gode di «ampia» discrezionalità nella disciplina di
detta materia (sentenze
n. 277 del 2014, n. 202 del 2013
e n. 172 del
2012), dato che essa è «collegata al bilanciamento di molteplici interessi
pubblici» (tra le molte, sentenze n. 172 del
2012 e n.
250 del 2010); e che, pur disponendo di tale ampia discrezionalità, il
legislatore naturalmente resta sempre tenuto al rispetto degli obblighi
internazionali, sulla base dell’art. 117, primo comma, Cost., e costituzionali
(sentenze n. 202
del 2013, n.
172 del 2012 e n. 245 del 2011),
compreso il criterio di ragionevolezza intrinseca (tra le altre, sentenza n. 172 del
2012).
Le medesime disposizioni impugnate, peraltro,
sono anche espressione della competenza legislativa statale in materia di
«diritto di asilo», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., che
nell’ordinamento costituzionale italiano copre uno spettro più ampio rispetto
al diritto dei rifugiati di cui alla citata Convenzione di Ginevra. Per la
definizione del contenuto di tale materia, infatti, ci si deve riferire
all’art. 10, terzo comma, Cost., che appunto riconosce il «diritto d’asilo nel
territorio della Repubblica» come diritto fondamentale dello straniero «al
quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà
democratiche garantite dalla Costituzione italiana».
A favore di un inquadramento delle disposizioni
impugnate nella materia «diritto di asilo» depone la consolidata giurisprudenza
di legittimità che, in riferimento alla disciplina previgente, aveva ritenuto
che il diritto di asilo costituzionale ex art. 10, terzo comma, Cost. avesse
ricevuto integrale attuazione grazie al concorso dei tre istituti concernenti
la protezione dei migranti: la tutela dei rifugiati, la protezione sussidiaria
di origine europea e la protezione umanitaria (tra le molte, Corte di
Cassazione, sezione prima civile, ordinanza 15 maggio 2019, n. 13082; sezione
sesta civile, ordinanza 19 aprile 2019, n. 11110; sezione sesta civile,
ordinanza 4 agosto 2016, n. 16362). Di conseguenza, ogni intervento legislativo
che, indipendentemente dal suo contenuto, incida, come quello oggetto delle
presenti questioni di costituzionalità, sull’uno o sull’altro dei tre istituti
che danno vita nel loro complesso alla disciplina dell’asilo costituzionale
deve per ciò stesso essere ascritto alla materia denominata «diritto di asilo»,
di esclusiva competenza dello Stato, in base all’art. 117, secondo comma,
lettera a), Cost.
7.7.– La circostanza che si tratti di
disposizioni adottate dallo Stato nell’esercizio di proprie competenze
legislative esclusive fa sì che non siano configurabili violazioni dirette del
riparto di competenze disegnato dal Titolo V, Parte II, della Costituzione;
tuttavia ciò non implica che le Regioni non possano denunciare la violazione di
parametri costituzionali diversi da quelli relativi al riparto di competenze,
assumendo la lesione indiretta di proprie attribuzioni costituzionalmente
garantite (sentenze
n. 139, n.
73 e n. 17
del 2018, e n.
412 del 2001).
Con riguardo alle disposizioni in esame, in
effetti, le Regioni prospettano lesioni indirette alle loro competenze,
lamentando che le modalità attraverso le quali lo Stato ha esercitato le
proprie competenze legislative, in quanto asseritamente viziate da
illegittimità costituzionale, per la violazione dei parametri costituzionali e
internazionali sopra richiamati, condizionerebbero l’esercizio di numerose
competenze legislative regionali sia di tipo concorrente che di tipo residuale,
in materia di assistenza sociale, tutela della salute, formazione e politiche
attive del lavoro, istruzione ed edilizia residenziale pubblica. In particolare,
le ricorrenti ritengono che la disposizione impugnata restringerebbe
illegittimamente la platea delle persone regolarmente soggiornanti sul
territorio e con essa anche quella dei destinatari delle prestazioni sociali
garantite dalle Regioni, costringendo queste ultime, al pari degli enti locali
di cui esse affermano essere sostituti processuali, a esercitare le loro
competenze in contrasto con la Costituzione.
Come già ricordato, questa Corte ha
costantemente affermato che le questioni sollevate dalle Regioni in riferimento
a parametri non attinenti al riparto delle competenze statali e regionali sono
ammissibili quando la disposizione statale, pur conforme al riparto
costituzionale delle competenze, obbligherebbe le Regioni – nell’esercizio di altre
loro attribuzioni normative, amministrative o finanziarie – a conformarsi a una
disciplina legislativa asseritamente incostituzionale, per contrasto con
parametri, appunto, estranei a tale riparto (tra le altre, sentenze n. 5 del
2018, n. 287
e n. 244 del
2016). Tuttavia, in presenza di un intervento normativo ascrivibile
all’esercizio di potestà legislativa esclusiva spettante allo Stato, affinché
una censura basata sulla violazione indiretta delle competenze regionali sia
ammissibile, occorre che essa sia adeguatamente argomentata.
7.8.– Alla luce dei suddetti criteri, le
questioni aventi a oggetto l’art. 1 del d.l. n. 113 del 2018 non sono
ammissibili.
Il vizio di incostituzionalità della legge
statale lamentato dalle ricorrenti consisterebbe in una illegittima restrizione
dei titoli di soggiorno e nella conseguente illegittima esclusione di una quota
di persone dal novero della popolazione regolarmente residente sul territorio e
beneficiaria delle prestazioni sociali erogate dalle Regioni (e dagli enti
locali). Tutte le censure danno per certo che l’effetto concreto delle
disposizioni impugnate sia quello di ridurre il numero dei titolari di un
regolare permesso di soggiorno. Tuttavia tale motivazione non è sufficiente a
dimostrare la ridondanza in concreto sulle competenze regionali, alla luce del
dato normativo come sopra illustrato. Gli argomenti addotti dalle ricorrenti si
basano sull’assunto indimostrato che il passaggio da un permesso di soggiorno
generale e atipico, per «seri motivi di carattere umanitario», a una serie di
«casi speciali», comporti di per sé una restrizione della protezione
complementare contraria a Costituzione.
Invero, l’effettiva portata dei nuovi permessi
speciali potrà essere valutata solo in fase applicativa, nell’ambito della
prassi amministrativa e giurisprudenziale che andrà formandosi, in relazione
alle esigenze dei casi concreti e alle singole fattispecie che via via si
presenteranno. In proposito, è appena il caso di osservare che
l’interpretazione e l’applicazione dei nuovi istituti, in sede sia
amministrativa che giudiziale, sono necessariamente tenute al rigoroso rispetto
della Costituzione e dei vincoli internazionali, nonostante l’avvenuta
abrogazione dell’esplicito riferimento agli «obblighi costituzionali o
internazionali dello Stato italiano» precedentemente contenuto nell’art. 5,
comma 6, del t.u. immigrazione.
In questo senso, del resto, si è espresso, in
sede di emanazione del decreto impugnato, il Presidente della Repubblica il
quale, nella lettera indirizzata al Presidente del Consiglio dei ministri il 4
ottobre 2018, ha sottolineato che «restano "fermi gli obblighi costituzionali e
internazionali dello Stato”, pur se non espressamente richiamati nel testo
normativo, e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’art. 10 della
Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti
dall’Italia». Anche la stessa relazione illustrativa del disegno di legge di
conversione conferma che l’intervento legislativo si muove nel solco tracciato
dagli obblighi costituzionali e internazionali della Repubblica, da esso,
appunto, in nessun modo menomati.
La doverosa applicazione del dato legislativo
in conformità agli obblighi costituzionali e internazionali potrebbe rivelare
che il paventato effetto restrittivo rispetto alla disciplina previgente sia
contenuto entro margini costituzionalmente accettabili. Diversamente questa
Corte potrà essere adita in via incidentale, restando ovviamente
impregiudicata, all’esito della presente pronuncia, ogni ulteriore valutazione
di legittimità costituzionale della disposizione in esame.
Dato quindi il carattere ipotetico e meramente
eventuale delle questioni, così come prospettate dalle ricorrenti, non può
dirsi dimostrato l’illegittimo condizionamento indiretto delle competenze
regionali denunciato nei ricorsi.
7.9.– Va ricordato, infine, che, anche qualora
le norme statali impugnate producessero l’effetto di escludere una parte delle
persone che in precedenza avrebbe avuto diritto al permesso umanitario dal
godimento dei nuovi permessi speciali, non sarebbe comunque impedito oggi alle
Regioni di continuare a offrire alle medesime persone le prestazioni in
precedenza loro assicurate nell’esercizio delle proprie competenze legislative
concorrenti o residuali.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte,
infatti, le Regioni possono erogare prestazioni anche agli stranieri in
posizione di irregolarità e possono farlo senza che ciò interferisca in alcun
modo con le regole per il rilascio del permesso di soggiorno, che restano
riservate alla legge statale sulla base della competenza esclusiva in materia
di «immigrazione» e «diritto di asilo» (in particolare le sentenze n. 61 e
del 2011 e n.
269 del 2010) Le Regioni, del resto, non offrono elementi concreti «in
relazione all’entità della compressione finanziaria» (sentenza n. 79 del
2018) che potrebbe derivare da scelte di questo tipo.
Anche sotto questi profili, dunque, le ragioni
addotte dalle ricorrenti a sostegno della "ridondanza” non consentono di
superare il vaglio di ammissibilità.
8.– Le Regioni Umbria, Emilia-Romagna, Marche e
Calabria promuovono questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12 del
d.l. n. 113 del 2018, avanzando censure variamente articolate, illustrate nel
Ritenuto in fatto.
8.1.– Come già evidenziato in relazione
all’art. 1 del d.l. n. 113 del 2018, lo scrutinio di tali censure impone l’individuazione
dell’ambito materiale al quale va ascritta la disposizione impugnata.
Ciò implica la necessità di una, sia pur
sintetica, ricostruzione della disciplina normativa del sistema italiano di
accoglienza dei richiedenti asilo.
8.2.– Prima delle modifiche apportate dal
cosiddetto decreto sicurezza, l’accoglienza dei richiedenti asilo – all’esito
di un percorso evolutivo caratterizzato dalla necessità di gestire "in
emergenza” afflussi massicci di cittadini stranieri sul territorio nazionale –
era imperniata, in forza delle previsioni del decreto legislativo 18 agosto
2015, n. 142 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative
all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della
direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e
della revoca dello status di protezione internazionale), su un sistema
articolato in più fasi e finanziato dal Fondo nazionale per le politiche e i
servizi dell’asilo (d’ora innanzi: FNPSA), istituito dall’art. 1-septies del
decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416 (Norme urgenti in materia di asilo
politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di
regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel
territorio dello Stato), convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio
1990, n. 39, e successivamente modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189
(Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo).
Una fase iniziale, dedicata al soccorso,
all’assistenza immediata e all’identificazione, si svolgeva nell’ambito di
centri governativi situati in corrispondenza dei luoghi maggiormente
interessati dagli afflussi (art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 142 del 2015). A
essa seguiva una fase di prima accoglienza, riservata alla verbalizzazione
della domanda di protezione e all’avvio della procedura di esame della stessa,
nonché all’accertamento delle condizioni di salute del cittadino straniero:
pure tale fase si svolgeva in centri governativi (art. 9 del d.lgs. n. 142 del
2015), anche istituiti in via straordinaria (art. 11 del d.lgs. n. 142 del
2015). La procedura contemplava, infine, il passaggio alla fase di cosiddetta
seconda accoglienza: gli stranieri che avessero formalizzato la domanda di
asilo e fossero privi di mezzi di sussistenza adeguati, venivano avviati (ai
sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 142 del 2015) nelle strutture territoriali che
costituivano il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati
(d’ora innanzi: SPRAR), previsto dall’art. 1-sexies del d.l. n. 416 del 1989,
come convertito e successivamente modificato. Tale sistema era affidato agli
enti locali, aderenti a esso su base volontaria, previa approvazione di
progetti finanziati quasi per intero dal Ministero dell’interno e finalizzati
all’inclusione ed integrazione sociale dei soggetti ospitati, grazie ad
attività e servizi la cui erogazione era comunque limitata nel tempo, anche per
la scarsità dei posti a disposizione rispetto ai soggetti in accoglienza.
L’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018 modifica
tale sistema, con un complesso reticolo di innovazioni incidenti sia sul d.l.
n. 416 del 1989 sia sul d.lgs. n. 142 del 2015.
In linea generale, può affermarsi che lo scopo
dell’intervento legislativo è quello di riservare i progetti di integrazione e
inclusione sociale, attivati nell’ambito della cosiddetta seconda fase del
sistema di accoglienza territoriale previsto dall’articolo 1-sexies del d.l. n.
416 del 1989, come convertito e successivamente modificato, esclusivamente ai
soggetti già titolari di protezione internazionale, ai minori stranieri non
accompagnati nonché ai titolari di specifici permessi di soggiorno individuati
dal cosiddetto decreto sicurezza, che hanno sostituito, come si è visto, il
permesso di soggiorno per motivi umanitari.
L’accoglienza dei richiedenti asilo, invece, è
assicurata esclusivamente dai centri governativi attivati ai sensi degli
articoli 9 e 11 del d.lgs. n. 142 del 2015.
Il comma 1 dell’art. 12 interviene sull’art.
1-sexies del d.l. n. 416 del 1989, modificandone, in particolare, il primo
comma, nel senso di restringere la platea di coloro che possono accedere ai
servizi territoriali locali (cosiddetti di seconda accoglienza), ora limitata
agli stranieri che abbiano un titolo tendenzialmente stabile e definitivo a
permanere sul territorio dello Stato.
Viene riformulato anche il comma 2 dell’art.
1-sexies del citato d.l. n. 416 del 1989, che disciplina il finanziamento dei
progetti presentati dagli enti locali: la nuova disposizione stabilisce, in
particolare, che, con decreto del Ministro dell’interno, sentita la Conferenza
unificata (che si specifica debba esprimersi entro trenta giorni) sono definiti
i criteri e le modalità per la presentazione da parte degli enti locali delle
domande di contributo per la realizzazione e la prosecuzione dei progetti di
accoglienza; sempre con decreto del Ministro dell’interno si provvede poi
all’ammissione al finanziamento dei progetti presentati dagli enti locali, nei
limiti delle risorse disponibili del FNPSA.
Si provvede, inoltre, a ridenominare
lo SPRAR in «Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e
per i minori stranieri non accompagnati» (d’ora innanzi: SIPROIMI).
Il comma 2 dell’art. 12 del d.l. n. 113 del
2018 interviene invece sul d.lgs. n. 142 del 2015, in modo da ristrutturare
l’impianto complessivo del sistema di accoglienza, nel senso di espungere i
frammenti normativi che facevano riferimento ai richiedenti asilo in relazione
alle strutture ex SPRAR, alle quali tali soggetti non hanno più accesso.
Per quanto d’interesse in questa sede, viene
eliminata, sempre rispetto ai richiedenti asilo, la distinzione tra la fase di
prima accoglienza assicurata nelle strutture governative e la fase di seconda accoglienza
nelle strutture gestite dagli enti locali, alle quali ultime i richiedenti
protezione internazionale non hanno più accesso.
Viene riformulato l’art. 14 del d.lgs. n. 142
del 2015, sin dalla sua rubrica, che non è più dedicata alla disciplina del
«Sistema di accoglienza territoriale», ma alle «Modalità di accesso al sistema
di accoglienza». Vengono puntualmente abrogate le parti concernenti l’ex SPRAR
e, all’esito delle modifiche introdotte, la disposizione prevede che il
richiedente che ha formalizzato la domanda e che risulta privo di mezzi
sufficienti a garantire una qualità di vita adeguata al sostentamento proprio e
dei propri familiari, ha accesso, con questi ultimi, alle misure di accoglienza
disciplinate dal medesimo decreto (ossia a quelle garantite dai centri
governativi di accoglienza di cui agli artt. 9 e 11).
Dell’art. 22 del d.lgs. n. 142 del 2015, che
disciplina il lavoro e la formazione professionale per i richiedenti asilo,
viene abrogato il comma 3, che prevedeva, per questi ultimi, la possibilità di
frequentare corsi di formazione professionale, eventualmente previsti dal
programma dell’ente locale nell’ambito del servizio territoriale di
accoglienza.
Infine, ed analogamente, l’art. 22-bis del
d.lgs. n. 142 del 2015, che disciplina la partecipazione ad attività di utilità
sociale, viene novellato, con la sostituzione nei commi 1 e 3 dell’espressione
«richiedenti protezione internazionale» con l’espressione «titolari di
protezione internazionale».
I commi 5, 5-bis e 6 dell’art. 12 del d.l. n.
113 del 2018 contengono disposizioni transitorie, dedicate a coloro che fossero
già accolti nell’ambito del sistema SPRAR alla data di entrata in vigore del
cosiddetto decreto sicurezza.
Nel caso dei richiedenti asilo (comma 5) si
prevede che essi rimangano nel sistema ex SPRAR fino alla scadenza del progetto
di accoglienza in corso già finanziato. Viene ribadita la continuità
dell’accoglienza per i neo maggiorenni richiedenti asilo (comma 5-bis) fino
alla definizione della domanda di protezione internazionale. Infine, quanto ai
titolari di protezione umanitaria (comma 6), si prevede che essi restino
all’interno dell’ex SPRAR fino alla scadenza del periodo previsto dalle
disposizioni di attuazione sul funzionamento del sistema medesimo e comunque
non oltre la scadenza del progetto di accoglienza.
Il comma 7 dell’art. 12, infine, prevede una
clausola di neutralità finanziaria.
8.3.– Le Regioni ricorrenti, in generale,
ascrivono la disciplina impugnata alla materia «immigrazione», di cui all’art.
117, secondo comma, lettera b), Cost., di competenza esclusiva statale.
Si è già osservato che la giurisprudenza di
questa Corte riconduce alla materia «immigrazione», tra l’altro, gli interventi
pubblici connessi alla programmazione dei flussi di ingresso ovvero al
soggiorno degli stranieri nel territorio nazionale.
Come illustrato in precedenza – e come
confermato dalla relazione di accompagnamento al disegno di legge di
conversione del decreto-legge – la normativa in esame non già si occupa dei flussi
di ingresso degli stranieri sul territorio nazionale, né semplicemente regola
le condizioni del loro soggiorno su di esso. Essa ha invece di mira l’esigenza
di riservare prioritariamente l’accesso al sistema finalizzato all’integrazione
a quei soggetti la cui condizione è connotata da una tendenziale stabilità,
derivante dall’accoglimento della richiesta di protezione internazionale.
Il filo conduttore delle molteplici
disposizioni di cui si compone il censurato art. 12, in particolare, è
ravvisabile nella rimodulazione della platea di soggetti legittimati a
usufruire dei servizi di inclusione e integrazione offerti dalle strutture
territoriali, in base ai progetti finanziati, quasi per l’intero, con le
risorse del FNPSA.
L’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018, dunque,
presenta alcune connessioni con il fenomeno migratorio, e le Regioni ricorrenti
non errano quando individuano, come ambito materiale parzialmente coinvolto,
quello dell’«immigrazione» (art. 117, secondo comma, lettera b, Cost.).
Tuttavia, l’intervento normativo di cui si ragiona deve essere inquadrato
soprattutto nelle materie «diritto d’asilo» e «condizione giuridica dei
cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea» contemplate dall’art.
117, secondo comma, lettera a), Cost., sempre di competenza esclusiva statale.
Con ogni evidenza, la disposizione censurata disciplina, infatti, il
trattamento di coloro che – una volta fatto ingresso nel territorio dello Stato
– richiedono all’Italia protezione internazionale.
8.4.– La riconducibilità dell’art. 12 del d.l.
n. 113 del 2018 a materie comunque attribuite alla potestà legislativa
esclusiva dello Stato esclude anche in questo caso la configurabilità di
violazioni dirette del riparto di competenze disegnato dal Titolo V, Parte II,
della Costituzione.
Vero che, secondo la giurisprudenza
costituzionale (da ultimo, sentenza n. 2 del
2013), in linea di principio, è riconosciuta la possibilità di interventi
legislativi delle Regioni e delle Province autonome con riguardo al fenomeno
dell’immigrazione, in relazione ad ambiti materiali – dall’assistenza sociale
all’istruzione, dalla salute all’abitazione – attribuiti alla competenza
concorrente e residuale delle Regioni (sentenze n. 299
e n. 134 del
2010, n. 156
del 2006, n.
300 del 2005).
Come si è chiarito, tuttavia, si è nel caso di
specie al cospetto di un intervento normativo pienamente ascrivibile
all’esercizio di plurime competenze esclusive statali, come, del resto,
riconosciuto dalle stesse Regioni ricorrenti.
Ne consegue che le censure mosse nei confronti
dell’art. 12 prospettano, a ben vedere, lesioni indirette di competenza, in
conseguenza della violazione di parametri estranei al Titolo V, Parte II, della
Costituzione.
Tale ricostruzione è, del resto, coerente con
l’impianto dei ricorsi regionali. Tutte le Regioni ricorrenti hanno, infatti,
individuato, in primo luogo, ambiti di propria competenza (o di competenza
degli enti locali, le cui attribuzioni esse sono abilitate a tutelare nel
giudizio costituzionale), nei quali avrebbero concretamente esercitato funzioni
legislative e amministrative. In ciò risiede la ragione dell’evocazione dei
parametri di cui agli artt. 114, 117, terzo, quarto e sesto comma, 118, 119 e
120 Cost. In secondo luogo, lamentano che tali ambiti sarebbero stati
indirettamente incisi dalla normativa impugnata, ritenuta costituzionalmente
illegittima per violazione di parametri estranei al Titolo V, Parte II, della
Costituzione.
I parametri costituzionali evocati sono, oltre
all’art. 77, gli artt. 3 e 97 Cost., che presidiano i principi di
ragionevolezza e buon andamento della pubblica amministrazione; l’art. 2 Cost.,
che garantisce tutela ai diritti fondamentali delle persone; gli artt. 4 e 35
Cost., sul diritto al lavoro; gli artt. 10, 11 e 117, primo comma, Cost. in
riferimento al rispetto degli obblighi internazionali ed europei, e in
relazione a diversi parametri interposti, costituiti da norme della CEDU e da
norme di diritto dell’Unione.
8.5.– Ciò posto, tutte le questioni sollevate
sono inammissibili, come eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato, per
difetto di motivazione sull’asserita lesione indiretta delle competenze delle
Regioni e degli enti locali.
Secondo la già menzionata giurisprudenza
costituzionale (sentenza
n. 145 del 2016; in senso analogo, successivamente, sentenze n. 198
e n. 137 del
2018), le questioni sollevate dalle Regioni in riferimento a parametri non
attinenti al riparto delle competenze statali e regionali «sono ammissibili al
ricorrere di due concomitanti condizioni: in primo luogo, la ricorrente deve
individuare gli ambiti di competenza regionale – legislativa, amministrativa o
finanziaria – incisi dalla disciplina statale, indicando le disposizioni
costituzionali sulle quali, appunto, trovano fondamento le proprie competenze
in tesi indirettamente lese (ex plurimis, sentenze n. 83
e n. 65 del 2016,
n. 251 e n. 89 del 2015);
e, in secondo luogo, la Corte deve ritenere che sussistano competenze regionali
suscettibili di essere indirettamente lese dalla disciplina impugnata (ex plurimis, sentenze n. 220
e n. 219 del
2013). Ciò si verifica quando la disposizione statale, pur conforme al
riparto costituzionale delle competenze, obbligherebbe le Regioni –
nell’esercizio di altre loro attribuzioni normative, amministrative o
finanziarie – a conformarsi a una disciplina legislativa asseritamente
incostituzionale, per contrasto con parametri, appunto, estranei a tale
riparto».
Pertanto, come pure già detto, affinché una
censura siffatta sia ammissibile, in presenza di un intervento normativo
ascrivibile all’esercizio di potestà legislativa esclusiva spettante allo
Stato, occorre che venga enunciata e adeguatamente argomentata la compressione
degli spazi di autonomia pur sempre spettanti alle Regioni nell’ambito del
complesso fenomeno di governo dell’immigrazione.
Negli odierni giudizi, le Regioni ricorrenti
hanno prospettato, come effetto delle disposizioni impugnate, la lesione
indiretta delle proprie competenze (e di quelle degli enti locali), in
particolare in relazione a una determinata categoria di soggetti, costituita
dai richiedenti asilo, oggi esclusi dal sistema territoriale di accoglienza.
Esse asseriscono che l’esercizio di tali competenze, in relazione a tale
categoria di soggetti, sarebbe del tutto «impedito», ovvero «condizionato» –
nel senso che sarebbe loro imposto di esercitare le suddette funzioni in modo
costituzionalmente illegittimo, con lesione di parametri appunto non attinenti
al riparto delle competenze statali e regionali – oppure, ancora, «aggravato»
sul piano finanziario.
Tuttavia, la motivazione che esse adducono a
sostegno delle censure non appare adeguata, alla luce dello stesso dato
normativo come in precedenza illustrato.
Come sottolineato anche dalla difesa statale, a
seguito dell’entrata in vigore della disposizione impugnata, il sistema
territoriale di accoglienza resta, infatti, sostanzialmente invariato, per
quanto riguarda la sua organizzazione, l’ampiezza della rete territoriale e le
modalità di accesso a tale sistema da parte degli enti locali.
Oggetto di modifica risulta essere la platea
dei soggetti ammessi a beneficiare dell’accoglienza territoriale. Va da sé che
questo dato è tutt’altro che secondario o irrilevante, poiché, ora, i
richiedenti asilo non accedono, alle stesse condizioni precedenti, alla seconda
fase del sistema di accoglienza. Su questo aspetto, ogni ulteriore valutazione
di legittimità costituzionale resta ovviamente impregiudicata. Quel che in
questa sede rileva è che nessuna delle norme impugnate importa obblighi,
divieti o condizionamenti, a carico delle Regioni e dei Comuni, tali da
impedire loro di esercitare, anche a favore dei richiedenti asilo – al di fuori
del sistema territoriale di accoglienza – le proprie attribuzioni legislative o
amministrative, nelle (più sopra indicate) materie di competenza concorrente o
residuale, ovvero tali da costringerli a esercitare dette attribuzioni secondo
modalità costituzionalmente illegittime per lesione di parametri costituzionali
non attinenti al riparto delle competenze statali o regionali.
Restano pienamente in vigore, infatti, tutte le
norme del d.lgs. n. 286 del 1998 che consentono, ed anzi auspicano, interventi
siffatti in favore dei cittadini stranieri in genere.
L’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998,
ad esempio, autorizza Regioni, Province e Comuni, nell’ambito delle rispettive
attribuzioni e dotazioni di bilancio, ad adottare provvedimenti concorrenti al
perseguimento dell’obiettivo di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono
il pieno riconoscimento dei diritti e degli interessi riconosciuti agli
stranieri nel territorio dello Stato, con particolare riguardo a quelli
inerenti all’alloggio, alla lingua, all’integrazione sociale, nel rispetto dei
diritti fondamentali della persona umana.
L’art. 40 del medesimo decreto, ancora, dispone
che le Regioni, in collaborazione con le Province e con i Comuni e con le
associazioni e le organizzazioni di volontariato, predispongono centri di
accoglienza destinati a ospitare, anche in strutture per ospitare cittadini
italiani o cittadini di altri Paesi dell’Unione europea, stranieri regolarmente
soggiornanti (quali sono appunto i richiedenti asilo) per motivi diversi dal
turismo, che siano temporaneamente impossibilitati a provvedere autonomamente
alle proprie esigenze alloggiative e di sussistenza; in tali centri di
accoglienza le Regioni provvedono, ove possibile, ai servizi sociali e
culturali idonei a favorire l’autonomia e l’inserimento sociale degli ospiti.
Il successivo art. 42, dal canto suo, prevede
che lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni, nell’ambito delle proprie competenze,
anche in collaborazione con le associazioni di stranieri e con le
organizzazioni stabilmente operanti in loro favore, nonché in collaborazione
con le autorità o con enti pubblici e privati dei Paesi di origine, favoriscono
una serie di attività di tipo sociale e assistenziale volte, tra l’altro,
all’effettuazione di corsi della lingua e della cultura di origine, alla
diffusione di ogni informazione utile al positivo inserimento nella società
italiana degli stranieri medesimi, alla conoscenza e alla valorizzazione delle
espressioni culturali, ricreative, sociali, economiche e religiose degli
extracomunitari regolarmente soggiornanti.
È ben vero che Regioni e Comuni, se riterranno
di intervenire, dovranno reperire ulteriori risorse. Da un lato, tuttavia, ciò
non sorprende, poiché si tratterebbe del necessario ricorso al potere di spesa,
sulla base di scelte di priorità di natura politica compiute in ambito
regionale; dall’altro, non possono che corrispondentemente sottrarsi alle
censure regionali le pertinenti scelte di priorità di spesa compiute dal
legislatore statale, in settori di sua esclusiva competenza.
In ogni caso, anche ad ammettere che scelte
statali di questa natura possano incidere negativamente sulle Regioni, la
motivazione dei ricorsi non raggiunge la soglia che consente l’accesso allo
scrutinio di merito. Anche sotto questo specifico profilo, infatti, la
motivazione che nei ricorsi dovrebbe giustificare la ridondanza, in termini di
lesione dell’autonomia finanziaria presidiata dall’art. 119 Cost., non assurge
al livello di completezza sufficiente a superare la soglia dell’ammissibilità.
Questa Corte, ancora di recente (sentenza n. 79 del
2018), ha ritenuto ben possibile motivare anche tramite l’indicazione
dell’art. 119 Cost. la ridondanza di questioni sollevate su parametri
costituzionali che non riguardano la ripartizione di competenze tra Stato e
Regioni. Tuttavia, ha ritenuto necessario che, in questi casi, la Regione
ricorrente «argomenti in concreto in relazione all’entità della compressione
finanziaria lamentata e alla sua concreta incidenza sull’attività di competenza
regionale». Ha perciò dichiarato inammissibili questioni promosse attraverso
censure che lamentavano effetti negativi sulle finanze regionali meramente
«generici e congetturali», poiché ciò rendeva solo astrattamente configurata e
del tutto immotivata in concreto la pretesa lesione dell’esercizio delle
funzioni amministrative regionali.
Stante l’assenza, in ciascuno dei ricorsi, di
idonee considerazioni in materia, tali affermazioni sono agevolmente
estensibili anche agli odierni giudizi, sicché le questioni promosse nei
confronti dell’art. 12 del d.l. n. 113 del 2018 devono essere dichiarate inammissibili
per difetto di motivazione sull’asserita lesione indiretta delle competenze
delle Regioni e degli enti locali.
9.– Le Regioni Umbria, Emilia-Romagna, Marche,
Toscana e Calabria impugnano l’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del
d.l. n. 113 del 2018; le Regioni Umbria, Emilia-Romagna e Calabria anche le
lettere b) e c) del comma 1 dell’art. 13; la Regione Marche anche la lettera c)
dello stesso comma. Le ricorrenti formulano censure variamente articolate sia
rispetto a parametri relativi al riparto di competenze tra Stato e Regioni sia
in relazione a parametri ulteriori, per la cui illustrazione si rinvia a quanto
riportato nel Ritenuto in fatto.
Anche in questo caso si rende preliminarmente
necessario individuare l’ambito materiale di pertinenza delle norme impugnate,
al fine di verificare l’ammissibilità delle censure promosse in relazione a
parametri diversi da quelli relativi al riparto di competenze. è dunque
opportuna una, sia pure sintetica, ricostruzione del quadro normativo in cui le
disposizioni impugnate si inseriscono.
9.1.– L’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018
apporta una serie di modifiche agli artt. 4 e 5 del decreto legislativo 18
agosto 2015, n. 142 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme
relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché
della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento
e della revoca dello status di protezione internazionale), e ne abroga l’art.
5-bis.
In particolare, l’art. 13 impugnato si compone
di un solo comma, che è articolato, al suo interno, in tre lettere (a, b e c).
La lettera a) modifica l’art. 4 del d.lgs. n.
142 del 2015 e reca due disposizioni (contraddistinte dai numeri 1 e 2): con la
prima (che non è oggetto di impugnazione) è aggiunto il seguente periodo al
comma 1 del citato art. 4: «Il permesso di soggiorno costituisce documento di
riconoscimento ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera c), del decreto del
Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.» (numero 1); con la
seconda (che è impugnata da tutte le Regioni ricorrenti) è inserito, dopo il
comma 1 del citato art. 4, il comma 1-bis del seguente tenore: «Il permesso di
soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica
ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e
dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.»
(numero 2).
La lettera b) modifica l’art. 5 del d.lgs. n.
142 del 2015 e reca due disposizioni (contraddistinte dai numeri 1 e 2,
espressamente impugnate dalle Regioni Umbria, Emilia-Romagna e Calabria ma
implicitamente anche dalle altre ricorrenti): con la prima è così sostituito il
comma 3 del citato art. 5: «L’accesso ai servizi previsti dal presente decreto
e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è
assicurato nel luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1 e 2.»
(numero 1); con la seconda è così modificato il comma 4 del citato art. 5: «le
parole "un luogo di residenza” sono sostituite dalle seguenti: "un luogo di
domicilio”» (numero 2).
Infine, la lettera c) dispone l’abrogazione
dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015, che disciplinava le modalità di
iscrizione anagrafica del richiedente protezione internazionale.
9.2.– Dal contenuto sopra descritto delle
disposizioni recate dall’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018, e in particolare di
quelle fatte oggetto di impugnazione, emerge con chiarezza che le stesse devono
essere lette congiuntamente, costituendo, ciascuna, un frammento di un quadro
normativo unitario per ratio e per contenuto, come confermato dal fatto che le
lettere a), b) e c) del comma 1 del citato art. 13 incidono su tre disposizioni
(a loro volta consecutive) del d.lgs. n. 142 del 2015 (artt. 4, 5 e 5-bis).
Altrettanto chiaramente risulta che le stesse
disposizioni vanno ricondotte agli ambiti di competenza legislativa esclusiva
dello Stato relativi a «diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini
di Stati non appartenenti all’Unione europea» (art. 117, secondo comma, lettera
a, Cost.) e alle «anagrafi» (art. 117, secondo comma, lettera i, Cost.).
Argomenti decisivi in tal senso sono: la sedes materiae (d.lgs. n. 142 del 2015, relativo, tra l’altro,
all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale) in cui si
inseriscono le disposizioni impugnate; lo specifico tenore letterale dell’art.
13, comma 1, lettera a), numero 2), che richiama la disciplina dell’iscrizione
anagrafica; l’interpretazione sistematica del Capo II del Titolo I del d.l. n.
113 del 2018, recante «Disposizioni in materia di protezione internazionale»,
oltre che dello stesso Titolo I, recante «Disposizioni in materia di rilascio
di speciali permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere
umanitario nonché in materia di protezione internazionale e di immigrazione».
D’altra parte, che le norme impugnate siano da ricondurre a tali competenze
legislative statali non è negato dalle ricorrenti (ed è anzi espressamente
riconosciuto nel ricorso dell’Emilia Romagna).
Nemmeno è rinvenibile una incidenza delle
stesse disposizioni sulle competenze amministrative proprie dei Comuni, posto
che i servizi gestiti dai Comuni in materia di anagrafe restano pur sempre
«servizi di competenza statale» (così la rubrica dell’art. 14 del decreto legislativo
18 agosto 2000, n. 267 «Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali») e le relative funzioni sono esercitate dal sindaco «quale ufficiale di
Governo».
Ciò nondimeno, le ricorrenti ritengono che,
anche volendo escludere la sussistenza di una violazione diretta delle
competenze regionali e degli enti locali, le norme impugnate – in ragione del
fatto che la legislazione regionale e quella statale prevedono la residenza
come presupposto per l’accesso e il godimento di taluni servizi erogati dalle
Regioni e dagli enti locali – comportino una indiretta lesione delle loro
competenze e di quelle degli enti locali e su questo presupposto ne lamentano
l’illegittimità in relazione all’art. 77 Cost., per quanto riguarda
l’impugnazione della Regione Umbria, e agli artt. 2, 3, 5, 10, terzo comma, 32,
34, 35 e 97 Cost., oltre che alle norme del diritto dell’Unione europea e ai
trattati internazionali richiamati sopra.
Le Regioni ricorrenti fondano, dunque, la loro
legittimazione a ricorrere sulla ricaduta indiretta, su ambiti in cui le stesse
hanno competenza, di una normativa, quella concernente le modalità di
iscrizione anagrafica dei richiedenti protezione internazionale, riconducibile
a materie di potestà legislativa esclusiva dello Stato. Tale ricaduta si
collegherebbe all’inevitabile condizionamento che le disposizioni censurate
produrrebbero sulla platea dei destinatari dei servizi previsti dalla normativa
regionale a favore dei residenti (dai quali dovrebbero essere esclusi i
richiedenti asilo).
La motivazione svolta dalle ricorrenti si
snoda, quindi, attraverso un doppio passaggio argomentativo: il primo è volto a
rappresentare una ricaduta indiretta della normativa impugnata sulle competenze
regionali in materia di salute, istruzione, formazione professionale, servizi e
politiche sociali; il secondo a dimostrare la violazione di parametri
costituzionali diversi da quelli attinenti al riparto di competenze.
Con riferimento a tale profilo dei gravami
regionali – e ribadita l’impossibilità di ascrivere le disposizioni censurate
ad ambiti materiali rimessi in tutto o in parte alle Regioni – si deve
richiamare quanto osservato supra con riferimento
alle impugnazioni già esaminate, e cioè che, in astratto, non può escludersi
che, nei casi in cui sussista una lesione ancorché mediata delle loro
attribuzioni costituzionali, le Regioni siano legittimate a contestare norme
statali per violazione di parametri costituzionali diversi da quelli attinenti
al riparto di competenze. Come più volte ricordato, questa Corte ha, infatti,
variamente configurato le forme e i modi della «ridondanza» sulle competenze
regionali di questioni aventi a oggetto una normativa statale, giungendo a
ritenere ammissibili anche questioni promosse avverso disposizioni riconducibili
ad ambiti materiali riservati allo Stato (tra le più recenti, sentenze n. 139,
73 e 17 del 2018, n. 170 del 2017).
In questi casi, tuttavia, come già precisato
sopra, grava sulla Regione ricorrente un onere motivazionale particolare, ossia
quello di dimostrare, in concreto, ragioni e consistenza della lesione
indiretta delle proprie competenze, non essendo sufficiente l’indicazione in
termini meramente generici o congetturali di conseguenze negative per
l’esercizio delle attribuzioni regionali.
Questo necessario passaggio argomentativo
risulta carente nei ricorsi introduttivi del presente giudizio, che si limitano
a postulare un’astratta attitudine delle norme contestate a incidere su ambiti
assegnati alla Regione e agli enti locali, ma di tale incidenza non danno conto
in maniera che essa possa essere valutata da questa Corte. Né a tali fini
risulta decisivo il fatto (ripetutamente messo in evidenza nei ricorsi) che
numerose leggi delle Regioni ricorrenti prevedono l’erogazione di servizi a
favore dei residenti, dando con ciò rilievo al requisito della residenza.
Sebbene si tratti di normativa emanata nell’esercizio delle competenze
legislative regionali in materia di sanità, istruzione, formazione
professionale e politiche sociali, resta indimostrata la ridondanza su tali
attribuzioni delle questioni fatte valere nel presente giudizio, le quali, come
visto, attengono allo status del richiedente protezione internazionale.
Da quanto precede deriva un difetto di
motivazione sulla ridondanza delle prospettate censure sulle competenze
regionali e degli enti locali, con la conseguenza che, restando impregiudicata
ogni altra valutazione della legittimità costituzionale delle disposizioni
contestate, le stesse censure non superano il vaglio dell’ammissibilità.
Le questioni promosse devono essere, quindi,
dichiarate inammissibili.
10.– Dalle considerazioni che precedono
consegue infine l’inammissibilità delle censure prospettate con riguardo alla
violazione del principio di leale collaborazione, di cui agli artt. 5 e 120
Cost.
Questa Corte ha costantemente affermato che il
principio di leale cooperazione viene in rilievo negli ambiti in cui si
verifica un intreccio di competenze statali e regionali (da ultima e per tutte,
sentenza n. 161
del 2019).
Come risulta dall’analisi sin qui svolta, nel
caso in esame il legislatore statale ha invece esercitato le competenze che la
Costituzione gli ha attribuito in via esclusiva in materia di diritto di asilo,
condizione giuridica dello straniero, immigrazione e anagrafi, sicché il
principio di leale cooperazione non è stato correttamente invocato.
Vero è che questa Corte ha affermato che
l’accoglienza dei migranti prevede l’intervento coordinato di Stato e Regioni,
ciascuno nel proprio ambito di competenza (sentenze n. 2 del
2013, n. 61
del 2011, n.
299 e n. 134
del 2010, n.
156 del 2006 e n. 300 del 2005).
A tal fine, tuttavia, l’art. 118, terzo comma, Cost. nella materia
dell’«immigrazione» contempla l’ipotesi di «forme di coordinamento fra Stato e
Regioni», stabilite dalla legge statale, soltanto a valle, e cioè in relazione
all’esercizio delle funzioni amministrative, e non a monte, in relazione
all’esercizio della stessa funzione legislativa statale che è, e rimane, di
competenza esclusiva dello Stato.
In ogni caso, nella fattispecie in esame, il
legislatore statale è intervenuto con lo strumento del decreto-legge ed è
appena il caso di sottolineare che la natura e le caratteristiche di tale atto,
come risultano dall’art. 77 Cost., escludono in radice la possibilità di prevedere
forme di consultazione delle Regioni nell’ambito della decretazione d’urgenza.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione
delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse con i ricorsi indicati
in epigrafe;
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibili le questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 1, 12 e 13 del decreto-legge 4 ottobre
2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e
immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del
Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia
nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e
confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, in
legge 1° dicembre 2018, n. 132, promosse dalle Regioni Umbria, Emilia-Romagna,
Marche, Toscana e Calabria, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 5, 10, secondo e
terzo comma, 31, 32, 34, 35, 77, secondo comma, 97, 114, 117, terzo, quarto e
sesto comma, 118 e 119 e 120 della Costituzione, nonché al principio di leale
collaborazione e agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in riferimento: agli
artt. 2, 3, 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848; all’art. 2, comma 1, del
Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali; agli artt. 6, 10, comma 1, 12, comma 1, 17, 23 e 24
del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New
York il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato e reso
esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881; all’art. 26 della Convenzione di
Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata e resa esecutiva con legge 24 luglio
1954, n. 722; all’art. 5, comma 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 516/2014
del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014, che istituisce il
Fondo Asilo, migrazione e integrazione, che modifica la decisione 2008/381/CE
del Consiglio e che abroga le decisioni n. 573/2007/CE e n. 575/2007/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio e la decisione 2007/435/CE del Consiglio;
agli artt. 15, lettera c), e 18 della direttiva 2011/95 UE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione,
a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di
protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le
persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul
contenuto della protezione riconosciuta (rifusione); alla direttiva 2013/33 UE
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme
relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (rifusione),
con i ricorsi indicati in epigrafe:
2) dichiara estinto il processo, relativamente
alle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 12 e 13 del d.l. n.
113 del 2018, come convertito, promosse dalla Regione autonoma Sardegna, con il
ricorso indicato in epigrafe;
3) dichiara estinto il processo, relativamente
alle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 13 del d.l. n. 113
del 2018, come convertito, promosse dalla Regione Basilicata, con il ricorso
indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Marta CARTABIA – Daria de PRETIS – Nicolò ZANON
– Augusto BARBERA, Redattori
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 24 luglio 2019.