SENTENZA N. 245
ANNO 2011
Commento alla decisione di
Michele di Bari
per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Alfio FINOCCHIARO Giudice
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 116, primo comma, del codice civile, come modificato dall’art. 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promosso dal Tribunale ordinario di Catania nel procedimento vertente tra P.A. e M.A. e il Ministero dell’interno, con ordinanza del 17 novembre 2009, iscritta al n. 26 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 luglio 2011 il Giudice relatore Alfonso Quaranta.
Ritenuto in fatto
1.— Il Tribunale ordinario di Catania ha sollevato – in riferimento agli articoli 2, 3, 29, 31 e 117, primo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 116, primo comma, del codice civile, come modificato dall’art. 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano».
1.1.— In punto di fatto, il Tribunale remittente premette di essere stato adíto da una cittadina italiana e da un cittadino marocchino per la declaratoria dell’illegittimità del diniego opposto dall’ufficiale dello stato civile alla celebrazione del loro matrimonio.
In particolare, riferisce che in data 27 luglio 2009 i ricorrenti avevano chiesto all’ufficiale dello stato civile di procedere alla pubblicazione della celebrazione del matrimonio, producendo la documentazione prevista dalla allora vigente formulazione dell’art. 116 cod. civ.
Il successivo 28 agosto, quindi, gli stessi avevano chiesto che il matrimonio venisse celebrato.
Il 31 agosto 2009, l’ufficiale dello stato civile aveva motivato il diniego alla celebrazione del matrimonio per la mancanza di un «documento attestante la regolarità del permesso di soggiorno del cittadino marocchino», così come previsto dall’art. 116 cod. civ., come novellato dalla legge n. 94 del 2009, entrata in vigore nelle more.
1.2.— Tanto premesso in fatto, il giudice a quo prospetta l’illegittimità costituzionale della norma suddetta, giacché essa contrasterebbe:
con l’art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità;
con l’art. 3 Cost., per violazione del principio di eguaglianza e di ragionevolezza;
con l’art. 29 Cost., per violazione del diritto fondamentale a contrarre liberamente matrimonio e di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi sui quali è ordinato il sistema del matrimonio nel vigente ordinamento giuridico;
con l’art. 31 Cost., perché interpone un serio ostacolo alla realizzazione del diritto fondamentale a contrarre matrimonio;
con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
In particolare, il remittente precisa che il matrimonio costituisce espressione della libertà e dell’autonomia della persona, ed il diritto di contrarre liberamente matrimonio è oggetto della tutela di cui agli artt. 2, 3 e 29 Cost., in quanto rientra nei diritti inviolabili dell’uomo, caratterizzati dall’universalità. Inoltre, l’art. 31 Cost., nel sancire che la Repubblica agevola la formazione della famiglia, «esclude la legittimità di limitazioni di qualsiasi tipo alla libertà matrimoniale».
La libertà di contrarre matrimonio, prosegue il Tribunale di Catania, trova fondamento anche in altre fonti. A questo riguardo richiama l’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il già citato art. 12 della CEDU e l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e successivamente recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull’Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunità europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. In particolare, con specifico riferimento all’art. 12 della CEDU, il remittente osserva che la predetta norma «ricomprende la libertà matrimoniale tra quei diritti e libertà che devono essere assicurati senza distinzione di sorta» e che, «pur prevedendo che tale diritto debba essere esercitato nell’ambito di leggi nazionali», tuttavia, la stessa non consente «che queste ultime possano porre condizioni o restrizioni irragionevoli».
2.― È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, non fondata.
2.1.― L’Avvocatura dello Stato precisa, da un lato, che la modifica contenuta nella disposizione censurata «deve essere letta congiuntamente» al nuovo testo dell’art. 6, comma 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) che, in generale, prevede l’obbligo di esibizione della documentazione di soggiorno per gli atti di stato civile; dall’altro che il requisito della regolarità del soggiorno, richiesto ai fini della celebrazione del matrimonio, «tende a soddisfare l’esigenza del legislatore di garantire il presidio e la tutela delle frontiere ed il controllo dei flussi migratori».
La difesa statale sottolinea che la libertà di contrarre matrimonio e di scegliere il coniuge attiene alla sfera individuale del singolo sulla quale lo Stato, in linea di massima, non potrebbe/dovrebbe interferire, salvo che non vi siano interessi prevalenti incompatibili, quali potrebbero essere la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico. A questo riguardo, la difesa statale ritiene che il legislatore, nella propria discrezionalità, abbia considerato «lo status di “clandestino”» come «una situazione giuridica soggettiva valutabile negativamente in punto di ordine pubblico e sicurezza» e, pertanto, sufficiente a giustificare la limitazione del diritto a contrarre matrimonio.
Sostiene l’Avvocatura che, in un giudizio di bilanciamento di interessi, le prerogative dello Stato volte a tutelare la sovranità dei confini territoriali ed a controllare i flussi migratori, anche per evitare matrimoni di comodo, siano prevalenti e legittimino la scelta legislativa di limitare il diritto a contrarre matrimonio delle persone che non risultino in regola con le norme che disciplinano l’ingresso ed il soggiorno nel territorio nazionale.
2.2.— La norma censurata, sempre ad avviso della difesa dello Stato, non si porrebbe in contrasto con le Convenzioni internazionali richiamate dal giudice remittente e, in particolare, con gli artt. 8 e 12 della CEDU. Entrambe le disposizioni, infatti, attribuirebbero al legislatore nazionale il potere di limitare il diritto al matrimonio, in vista della tutela di valori «evidentemente ritenuti di rango superiore», tra i quali sono inclusi la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico. Siffatto potere di ingerenza sarebbe stato confermato, inoltre, dalla medesima Corte europea dei diritti dell’uomo.
Da ultimo, sempre a sostegno dell’esistenza di un’ampia discrezionalità legislativa, l’Avvocatura dello Stato richiama la giurisprudenza costituzionale e, in particolare, la sentenza n. 250 del 2010. Con la predetta pronuncia, la Corte costituzionale, precisa la difesa dello Stato, nel riconoscere al legislatore la discrezionalità di definire quali condotte costituiscano o meno fatti aventi rilevanza penale sembra aver «affermato la sussistenza di una discrezionalità del legislatore nel qualificare la situazione di “clandestinità” come rilevante in punto di tutela dell’ordine pubblico».
Pertanto, la necessità di un controllo giuridico dell’immigrazione, in vista della tutela di valori costituzionali – ordine pubblico, sovranità territoriale, rispetto di obblighi internazionali – giustifica e legittima la scelta legislativa oggetto di censura, frutto, prosegue l’Avvocatura, di un bilanciamento di valori, tutti di rango costituzionale, tale per cui la “clandestinità” è qualificata situazione ostativa al matrimonio, in ragione di esigenze di ordine pubblico, di difesa dei confini e di controllo del flusso migratorio.
Del pari infondati sarebbero i profili di censura relativi alla violazione degli artt. 2, 3, 29 e 31 Cost., poiché la norma impugnata «non è tale da impedire in assoluto il matrimonio tra il cittadino italiano e il cittadino straniero o tra cittadini stranieri»; piuttosto essa si limiterebbe a «regolamentare la posizione giuridica del cittadino straniero che intende contrarre matrimonio in Italia, in conformità alle norme dell’ordinamento in tema di ingresso e soggiorno degli stranieri» sul territorio nazionale. Del tutto inconferente sarebbe, infine, la giurisprudenza richiamata dal Tribunale remittente, poiché essa investirebbe profili diversi rispetto alla questione sollevata nel giudizio a quo.
Considerato in diritto
1.— Il Tribunale ordinario di Catania ha sollevato – in riferimento agli articoli 2, 3, 29, 31 e 117, primo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 116, primo comma, del codice civile, come modificato dall’art. 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano». La novella introdotta dalla predetta legge, in altri termini, fa carico allo straniero che intenda contrarre matrimonio in Italia di produrre tale atto.
La questione è stata sollevata nel corso di un giudizio civile, promosso da una cittadina italiana e da un cittadino marocchino, avente ad oggetto – previo accertamento della illegittimità del rifiuto opposto dall’ufficiale dello stato civile alla celebrazione del matrimonio tra gli stessi – la richiesta di pronuncia di un ordine all’ufficiale dello stato civile medesimo di celebrazione del matrimonio in questione.
1.1.— Il remittente reputa rilevante detta questione, sul presupposto che la già intervenuta effettuazione della pubblicazione – sotto il vigore della precedente formulazione dell’art. 116 cod. civ. – non esclude l’applicazione dello ius superveniens. Conclusione, questa, che risulta conforme a quanto precisato dalla circolare del Ministero dell’interno 7 agosto 2009, n. 19, la quale – oltre a confermare che dall’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 «il matrimonio dello straniero (extracomunitario) è subordinato alla condizione che lo stesso sia regolarmente soggiornante sul territorio nazionale» – specifica che la predetta condizione «deve sussistere all’atto della pubblicazione e al momento della celebrazione del matrimonio».
1.2.— Con riguardo, invece, al profilo della non manifesta infondatezza, il Tribunale pone in luce, in primo luogo, come il matrimonio costituisca espressione della libertà e dell’autonomia della persona, sicché il diritto a contrarlo liberamente è oggetto della tutela primaria assicurata dagli artt. 2, 3 e 29 Cost., in quanto rientra nel novero dei diritti inviolabili dell’uomo.
Tale diritto, infatti, tende a tutelare – osserva sempre il remittente – la piena espressione della persona umana, e come tale deve essere garantito a tutti in posizione di eguaglianza, come aspetto essenziale della dignità umana, senza irragionevoli discriminazioni. Inoltre, l’art. 31 Cost., nel prevedere che la Repubblica agevola «la formazione della famiglia», esclude la legittimità di limitazioni di qualsiasi tipo alla libertà matrimoniale.
Secondo il giudice a quo, questa Corte avrebbe ripetutamente affermato come nella sfera personale di chi si sia risolto a contrarre matrimonio non possa sfavorevolmente incidere alcunché che vi sia assolutamente estraneo, al di fuori cioè di quelle regole, anche limitative, proprie dell’istituto. Infatti, prosegue il remittente, il relativo vincolo, cui tra l’altro si riconnettono valori costituzionalmente protetti, deve rimanere frutto di una libera scelta autoresponsabile attenendo ai diritti intrinseci ed essenziali della persona umana ed alle sue fondamentali istanze, sottraendosi a ogni forma di condizionamento indiretto, ancorché eventualmente imposto dall’ordinamento (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 445 del 2002, n. 187 del 2000, n. 189 del 1991, n. 123 del 1990, n. 73 del 1987, n. 179 del 1976, n. 27 del 1969).
Ne deriverebbe, pertanto, la necessità – conclude sul punto il Tribunale di Catania – di sottrarre la libertà matrimoniale ad inammissibili condizionamenti, diversi da quelli giustificati dall’ordine pubblico.
1.3.— Sotto altro aspetto, inoltre, il remittente rileva che la libertà di contrarre matrimonio costituisce un diritto fondamentale della persona riconosciuto anche dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 16), dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 12) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 9).
In particolare, il Tribunale deduce che la CEDU – includendo la libertà matrimoniale tra quelle che devono essere assicurate senza distinzione di sorta (di sesso, di razza, di colore, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di appartenenza ad una minoranza nazionale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione) e pur prevedendo che il relativo diritto debba esser esercitato nell’ambito delle leggi nazionali – non consentirebbe che queste ultime possano porre condizioni o restrizioni irragionevoli.
Alla stregua di tali principi, la disposizione censurata – secondo il remittente – sarebbe «limitativa della libertà matrimoniale, sia per lo straniero che per i cittadini italiani», e sembrerebbe «determinare una discriminazione nell’esercizio di un diritto fondamentale dell’uomo legata ad una mera condizione personale, che non appare ragionevole», in assenza di esigenze «di salvaguardia di altri valori costituzionalmente rilevanti di pari grado», tali da giustificare un «limite al diritto fondamentale in esame».
2.― Tanto premesso sul contenuto dell’ordinanza di rimessione, appare opportuno procedere, in via preliminare, alla ricognizione del quadro normativo nel quale si inserisce la norma oggetto del vaglio di costituzionalità.
2.1.― In particolare, la questione sollevata attiene alla disciplina del matrimonio dello straniero in Italia, quale prevista dall’art. 116 cod. civ.
Prima della modifica legislativa, intervenuta con la citata legge n. 94 del 2009, ai sensi di tale norma lo straniero, intenzionato a contrarre matrimonio in Italia, doveva presentare all’ufficiale dello stato civile solo un nulla osta rilasciato dall’autorità competente del proprio Paese.
Oltre al predetto requisito formale, sul piano sostanziale, il nubendo doveva in ogni caso (e deve tuttora) rispettare le condizioni previste dalla normativa italiana riguardanti la capacità di contrarre matrimonio (tra l’altro, libertà di stato, età minima) e l’assenza di situazioni personali ostative (ad esempio, impedimenti per parentela ed affinità). Si tratta, infatti, di norme di applicazione necessaria secondo l’ordinamento interno, che devono comunque essere osservate, anche se non sono previste dalla legge nazionale dello straniero.
2.2.— Con la citata legge n. 94 del 2009 è stato modificato l’art. 116, primo comma, cod. civ.
La nuova norma stabilisce che «lo straniero che vuole contrarre matrimonio nella Repubblica deve presentare all’ufficiale dello stato civile», oltre al nulla osta, di cui sopra, «un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano».
Detta norma deve essere letta anche alla luce delle modifiche introdotte dal legislatore in merito ai requisiti necessari per l’acquisto della cittadinanza a seguito di matrimonio dello straniero con il cittadino italiano, disciplinati dalla legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza).
La legge n. 94 del 2009, al fine di ridurre il fenomeno dei cosiddetti “matrimoni di comodo”, come risulta dai suoi lavori preparatori (Senato della Repubblica, XVI legislatura, relazione al disegno di legge n. 733, che reca “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”), ha sostituito l’art. 5 della predetta legge n. 91 del 1992, prevedendo:
al comma 1, che «il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano può acquistare la cittadinanza italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero, qualora», al momento dell’adozione del decreto di acquisto della cittadinanza, «non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi»;
al successivo comma 2, che i termini sono, peraltro, «ridotti della metà in presenza di figli nati o adottati dai coniugi».
3.— Così ricostruito il quadro complessivo in cui si inserisce la disposizione censurata, si può procedere al chiesto scrutinio di costituzionalità.
La questione è fondata.
3.1.— Giova ricordare come questa Corte (sentenze n. 61 del 2011, n. 187 del 2010 e n. 306 del 2008) abbia affermato che al legislatore italiano è certamente consentito dettare norme, non palesemente irragionevoli e non contrastanti con obblighi internazionali, che regolino l’ingresso e la permanenza di stranieri extracomunitari in Italia.
Tali norme, però, devono costituire pur sempre il risultato di un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale, implicati dalle scelte legislative in materia di disciplina dell’immigrazione, specialmente quando esse siano suscettibili di incidere sul godimento di diritti fondamentali, tra i quali certamente rientra quello «di contrarre matrimonio, discendente dagli articoli 2 e 29 della Costituzione, ed espressamente enunciato nell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e nell’articolo 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (sentenza n. 445 del 2002).
In altri termini, è certamente vero che la «basilare differenza esistente tra il cittadino e lo straniero» – «consistente nella circostanza che, mentre il primo ha con lo Stato un rapporto di solito originario e comunque permanente, il secondo ne ha uno acquisito e generalmente temporaneo» – può «giustificare un loro diverso trattamento» nel godimento di certi diritti (sentenza n. 104 del 1969), in particolare consentendo l’assoggettamento dello straniero «a discipline legislative e amministrative» ad hoc, l’individuazione delle quali resta «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici» (sentenza n. 62 del 1994), quali quelli concernenti «la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione» (citata sentenza n. 62 del 1994). Tuttavia, resta pur sempre fermo – come questa Corte ha di recente nuovamente precisato – che i diritti inviolabili, di cui all’art. 2 Cost., spettano «ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani», di talché la «condizione giuridica dello straniero non deve essere pertanto considerata – per quanto riguarda la tutela di tali diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi» (sentenza n. 249 del 2010).
Sebbene, quindi, la ratio della disposizione censurata – proprio alla luce della ricostruzione che ne ha evidenziato il collegamento con le nuove norme sull’acquisto della cittadinanza e, dunque, la loro comune finalizzazione al contrasto dei cosiddetti “matrimoni di comodo” – possa essere effettivamente rinvenuta, come osserva l’Avvocatura dello Stato, nella necessità di «garantire il presidio e la tutela delle frontiere ed il controllo dei flussi migratori», deve osservarsi come non proporzionato a tale obiettivo si presenti il sacrificio imposto – dal novellato testo dell’art. 116, primo comma, cod. civ. – alla libertà di contrarre matrimonio non solo degli stranieri ma, in definitiva, anche dei cittadini italiani che intendano coniugarsi con i primi.
È, infatti, evidente che la limitazione al diritto dello straniero a contrarre matrimonio nel nostro Paese si traduce anche in una compressione del corrispondente diritto del cittadino o della cittadina italiana che tale diritto intende esercitare. Ciò comporta che il bilanciamento tra i vari interessi di rilievo costituzionale coinvolti deve necessariamente tenere anche conto della posizione giuridica di chi intende, del tutto legittimamente, contrarre matrimonio con lo straniero.
Si impone, pertanto, la conclusione secondo cui la previsione di una generale preclusione alla celebrazione delle nozze, allorché uno dei nubendi risulti uno straniero non regolarmente presente nel territorio dello Stato, rappresenta uno strumento non idoneo ad assicurare un ragionevole e proporzionato bilanciamento dei diversi interessi coinvolti nella presente ipotesi, specie ove si consideri che il decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) già disciplina alcuni istituti volti a contrastare i cosiddetti “matrimoni di comodo”.
Ed infatti, in particolare, l’art. 30, comma 1-bis, del citato d.lgs. n. 286 del 1998 prevede:
con riguardo agli stranieri regolarmente soggiornanti ad altro titolo da almeno un anno che abbiano contratto matrimonio nel territorio dello Stato con cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione europea, ovvero con cittadini stranieri regolarmente soggiornanti, che il permesso di soggiorno «è immediatamente revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è seguita l’effettiva convivenza salvo che dal matrimonio sia nata prole»;
con riguardo allo straniero che ha fatto ingresso in Italia con visto di ingresso per ricongiungimento familiare, ovvero con visto di ingresso al seguito del proprio familiare nei casi previsti dall’articolo 29, del medesimo d.lgs., ovvero con visto di ingresso per ricongiungimento al figlio minore, che la richiesta di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno «è rigettata e il permesso di soggiorno è revocato se è accertato che il matrimonio o l’adozione hanno avuto luogo allo scopo esclusivo di permettere all’interessato di soggiornare nel territorio dello Stato».
3.2.— Del pari, è ravvisabile, nella specie, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.
In proposito, si deve notare che la Corte europea dei diritti dell’uomo è recentemente intervenuta sulla normativa del Regno Unito in tema di capacità matrimoniale degli stranieri (sentenza 14 dicembre 2010, O’Donoghue and Others v. The United Kingdom).
In particolare, la Corte europea ha affermato che il margine di apprezzamento riservato agli Stati non può estendersi fino al punto di introdurre una limitazione generale, automatica e indiscriminata, ad un diritto fondamentale garantito dalla Convenzione (par. 89 della sentenza). Secondo i giudici di Strasburgo, pertanto, la previsione di un divieto generale, senza che sia prevista alcuna indagine riguardo alla genuinità del matrimonio, è lesiva del diritto di cui all’art. 12 della Convenzione.
Detta evenienza ricorre anche nel caso previsto dalla norma ora censurata, giacché il legislatore – lungi dal rendere più agevole le condizioni per l’accertamento del carattere eventualmente “di comodo” del matrimonio di un cittadino con uno straniero – ha dato vita, appunto, ad una generale preclusione a contrarre matrimonio a carico di stranieri extracomunitari non regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 116, primo comma, del codice civile, come modificato dall’art. 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio 2011.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente e Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2011.