Sentenza n. 249 del 2010

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SENTENZA N. 249

ANNO 2010

Commento alla decisione di

Fioravante Rinaldi

St Con il "discriminante” (dell’aggravante di clandestinità)

l’"equazione” (di costituzionalità) risulta impossibile.

Un dispositivo retto da una motivazione quasi "matematica”

 per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-    Francesco                      AMIRANTE                                 Presidente

-    Ugo                               DE SIERVO                                   Giudice

-    Paolo                             MADDALENA                                 "

-    Alfio                             FINOCCHIARO                               "

-    Alfonso                         QUARANTA                                    "

-    Franco                           GALLO                                             "

- Luigi                                MAZZELLA                                     "

-    Gaetano                        SILVESTRI                                       "

-    Sabino                           CASSESE                                          "

-    Maria Rita                     SAULLE                                           "

-    Giuseppe                       TESAURO                                        "

-    Paolo Maria                   NAPOLITANO                                 "

-    Giuseppe                       FRIGO                                               "

-    Alessandro                    CRISCUOLO                                    "

-    Paolo                             GROSSI                                            "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, del codice penale, come introdotto dall’art. 1, lettera f), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), o nel testo risultante dalle modifiche apportate, in sede di conversione, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), promossi dal Tribunale di Livorno con ordinanza del 4 febbraio 2009 e dal Tribunale di Ferrara con ordinanza del 26 gennaio 2010, rispettivamente iscritte ai nn. 16 e 121 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 6 e 17, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 giugno 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.

Ritenuto in fatto

1. – Il Tribunale di Livorno in composizione monocratica, con ordinanza del 4 febbraio 2009 (r.o. n. 16 del 2010), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, comma (recte: numero) 11-bis, del codice penale.

Il rimettente procede, nei confronti di un cittadino straniero, per il reato di cui all’art. 13, comma 13, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), contestato con l’aggravante dell’avere l’imputato commesso il fatto «trovandosi illegalmente sul territorio nazionale». Nell’ordinanza di rimessione vi sono riferimenti alla previsione circostanziale come introdotta dall’art. 1, comma 1, lettera f), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica). La questione di legittimità, per altro, è stata deliberata molti mesi dopo che il citato provvedimento governativo è stato convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 24 luglio 2008, n. 125.

Nel merito, il Tribunale non ritiene che la previsione aggravante possa giustificarsi in base ad una presunzione di pericolosità connessa alla condizione di «clandestinità» del reo. Una tale giustificazione, a prescindere dal suo fondamento, non si attaglierebbe infatti a tutti i casi disciplinati dalla nuova figura circostanziale, che si riferisce ad ogni situazione di presenza irregolare (ad esempio quella dello straniero munito di per messo di soggiorno scaduto), e dunque eccede i limiti della nozione corrente di «clandestinità». D’altra parte la disposizione censurata, secondo il rimettente, trova applicazione anche quando l’interessato non abbia tenuto, in epoca antecedente al reato, comportamenti che possano in seguito denotare una particolare inclinazione a delinquere.

1.1. – Una prima violazione dell’art. 3 Cost. consisterebbe proprio – secondo il giudice a quo – nella parificazione indiscriminata tra situazioni fortemente eterogenee. Lo straniero può trovarsi in circostanze che ne determinano una specifica pericolosità criminale, ma tra queste non potrebbe annoverarsi, per se stessa, la carenza di un valido titolo di soggiorno.

Non sarebbe proponibile una comparazione tra la norma censurata e le previsioni di cui ai numeri 9 e 11 dell’art. 61 cod. pen. (ove trova sanzione l’abuso di una posizione di comando, di protezione o di rapporto fiduciario). Neppure sussisterebbero effettive analogie, a parere del rimettente, con le aggravanti fondate sulla latitanza o sulla recidiva. Tali circostanze, infatti, riguardano persone delle quali è già stata accertata una responsabilità penale, o la cui condizione di personale pericolosità è attestata mediante un provvedimento cautelare del giudice: soggetti, dunque, il cui (nuovo) comportamento criminoso esprimerebbe una particolare determinazione nella devianza. La stessa logica non potrebbe essere riferita a persone che, magari per il solo effetto di circostanze contingenti o di difficoltà burocratiche, si trovano a violare una prescrizione a carattere amministrativo: sarebbe irragionevole, di conseguenza, l’identità del trattamento loro riservato rispetto a quello previsto per soggetti di accertata pericolosità.

Anche la quantificazione della pena nella cornice edittale – prosegue il Tribunale – può essere fondata, in applicazione del secondo comma dell’art. 133 cod. pen., sulle condizioni o qualità personali del reo. Tuttavia la norma appena citata opererebbe su un piano diverso da quello proprio della disposizione censurata, perché quest’ultima, pur nell’ambito eventuale di un bilanciamento con altre circostanze, impone al giudice di valorizzare la condizione del reo, a prescindere dalla sua rilevanza.

1.2. – L’art. 61, numero 11-bis, cod. pen. violerebbe anche il principio di personalità della responsabilità penale, in quanto, a parere del rimettente, connette un aumento di pena al «tipo d’autore» e non già alla pericolosità concretamente manifestata dall’interessato.

Il difetto di proporzione nel trattamento punitivo, d’altra parte, priverebbe la pena della sua funzione rieducativa, non potendo il condannato percepirla come strumento utile al suo reinserimento nella società, ma solo ed appunto come una punizione eccedente il grado della propria responsabilità.

1.3. – Osserva infine il Tribunale, in punto di rilevanza, che non rileva l’astratta possibilità di neutralizzare gli effetti dell’aggravante attraverso il giudizio di comparazione regolato dall’art. 69 cod. pen. Proprio la ricorrenza della fattispecie, infatti, impone il bilanciamento con eventuali attenuanti, e produce quindi effetti nel procedimento di computo della sanzione, indipendentemente dall’esito del procedimento stesso.

2. – Il Tribunale di Ferrara in composizione monocratica, con ordinanza del 26 gennaio 2010 (r.o. n. 121 del 2010), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, cod. pen., introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera f), del decreto-legge n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge n. 125 del 2008.

Il rimettente procede, con rito direttissimo, nei confronti di un cittadino straniero imputato del reato di illecita detenzione di stupefacenti, previsto dal comma 1-bis dell’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza). L’imputazione comprende la circostanza «dello status di soggetto illegalmente presente nello Stato», contestata in applicazione della norma oggetto di censura.

Il giudice a quo riferisce che, in esito all’udienza del 15 luglio 2008, sentite le conclusioni delle parti, aveva già sollevato questione di legittimità costituzionale della nuova previsione aggravante, nella versione allora vigente, cioè quella introdotta dal decreto-legge n. 92 del 2008 e non ancora modificata dalla relativa legge di conversione. Il giudizio incidentale era stato definito dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 277 del 2009, di restituzione degli atti al rimettente, affinché procedesse ad una nuova valutazione in punto di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione sollevata.

Secondo il Tribunale, la Corte aveva indicato essenzialmente tre elementi di novità sopravvenuti all’ordinanza introduttiva: le modifiche apportate dalla legge di conversione al tenore della nuova previsione circostanziale; la norma di interpretazione autentica, concernente i cittadini comunitari, introdotta con l’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica); l’inserimento nel sistema penale della figura criminosa dell’ingresso o soggiorno illegale nel territorio dello Stato, mediante il nuovo art. 10-bis del decreto legislativo n. 286 del 1998, introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della stessa legge n. 94 del 2009.

In particolare, sempre a parere del rimettente, la Consulta avrebbe ritenuto necessaria una valutazione di impatto delle novità normative nella prospettiva della successione di leggi penali nel tempo. Per altro verso, il giudice a quo sarebbe stato richiesto di valutare l’attualità delle proprie censure alla luce del fatto che le condotte poste a fondamento della fattispecie aggravante costituiscono, ormai, l’oggetto di un’autonoma incriminazione, e non di un mero illecito amministrativo.

Dopo la restituzione degli atti, il giudizio principale è ripreso. Nel corso della relativa udienza, anche su sollecitazione del difensore dell’imputato, il Tribunale ha ritenuto di sollevare nuovamente questione in merito alla legittimità della fattispecie aggravante contestata.

2.1. – La questione sarebbe rilevante, anzitutto, pur dopo che la previsione aggravante ha subito le modifiche recate dalla legge di conversione: trattandosi di variazioni prive di incidenza sul contenuto precettivo della disposizione già introdotta dal decreto-legge, dovrebbe riconoscersi efficacia ex tunc alla norma attualmente vigente, la quale dunque sarebbe applicabile nei confronti dell’imputato, già dichiaratosi «clandestino» e privo di documenti utili per la sua identificazione.

La rilevanza della questione non sarebbe intaccata, nella specie, neppure dalla seconda delle novità normative sottoposte all’attenzione del rimettente, posto che nel giudizio principale si procede nei confronti di persona con cittadinanza nigeriana, e dunque extracomunitaria.

Sarebbe ininfluente sul piano della rilevanza, infine, la stessa introduzione del reato cosiddetto di «immigrazione clandestina». È vero, secondo il rimettente, che la previsione circostanziale non si applica al reato previsto dal nuovo art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, così come ad ogni altro reato che sanzioni direttamente l’illegale presenza o permanenza nel territorio nazionale. La prima parte dell’art. 61 cod. pen. stabilisce, infatti, che le circostanze comuni aggravano il reato solo «quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali». Tuttavia, nel giudizio a quo, il reato in contestazione non attiene alla disciplina dell’immigrazione, riguardando piuttosto la materia degli stupefacenti. Dunque la novella non avrebbe determinato, nel caso concreto, alcun effetto di «assorbimento» della fattispecie circostanziale.

2.2. – Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente ritiene che la nuova circostanza sia collegata esclusivamente allo status del reo, ispirandosi ai canoni propri del «diritto penale d’autore». Non sarebbe in particolare richiesta, per la sua applicazione, alcuna verifica di connessione tra la condizione soggettiva dell’interessato e la condotta penalmente sanzionata. L’aumento di pena non dipenderebbe, quindi, né dalla maggior gravità del reato né dalla maggior pericolosità dell’autore, cioè dai fattori che segnano altre circostanze riguardanti la persona del colpevole, come la recidiva o la condizione di latitanza.

Dunque, ed anzitutto, la norma censurata violerebbe il principio costituzionale del "fatto materiale” colpevole quale presupposto della responsabilità penale, principio che sarebbe desumibile dal secondo comma dell’art. 25 e dal primo comma dell’art. 27 Cost.

Il vulnus non potrebbe essere evitato attraverso lo strumento dell’interpretazione adeguatrice, che pure sarebbe stata proposta nel dibattito dottrinario sulla previsione censurata. Non potrebbe accedersi, in particolare, alla tesi che l’aggravante sia applicabile solo nei confronti degli stranieri già raggiunti da un provvedimento di espulsione o comunque emesso al fine di indurne l’allontanamento dal territorio nazionale. Tale tesi, secondo il Tribunale, contrasta con l’intenzione del legislatore e comunque con la lettera della legge, la quale segna il confine oltre il quale l’esigenza dell’adeguamento va perseguita con il sindacato di costituzionalità, e non attraverso l’interpretazione.

2.3. – In secondo luogo – osserva il rimettente – la previsione censurata implicherebbe un difforme trattamento sanzionatorio per condotte materiali tra loro identiche, che assumerebbe significato addirittura paradossale nel caso in cui soggetti «clandestini» e soggetti legittimati alla presenza nel territorio nazionale si rendano responsabili, in concorso tra loro, del medesimo fatto di reato.

La violazione del principio di uguaglianza sarebbe ancora più evidente dopo l’intervento di interpretazione «autentica» che ha escluso i cittadini comunitari dall’ambito applicativo della norma censurata, anche quando si trovino in posizione di soggiorno irregolare nel territorio dello Stato. L’identica condotta materiale, tenuta da soggetti tutti irregolarmente immigrati, sarebbe trattata diversamente sul solo presupposto della cittadinanza degli stranieri interessati.

2.4. – La norma censurata, implicando l’applicazione di una (maggior) pena senza corrispondenza ad un condotta materiale del reo, violerebbe anche l’art. 27, comma 3, Cost., cioè il principio di necessaria finalizzazione rieducativa della pena. Non rileverebbe, al proposito, la sopravvenuta rilevanza penale del soggiorno irregolare: «l’eccedenza della sanzione continua a dipendere da uno status che, rilevante per tutti gli stranieri quando integra l’autonoma fattispecie di reato ex art. 10-bis T.u. sull’immigrazione, comporta invece un aggravio di pena esclusivamente per alcuni (apolidi ed extracomunitari)».

La violazione della finalità rieducativa della pena emergerebbe anche in via mediata, attraverso il nuovo testo dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, ove è stabilito che non possa essere sospesa, in caso di applicazione dell’aggravante in esame, l’esecuzione delle pene detentive brevi. La regola contrasterebbe con espresse indicazioni della Corte costituzionale (è citata la sentenza n. 78 del 2007), secondo le quali la mera condizione di soggiornante irregolare non legittima, in danno dello straniero, presunzioni tali da escluderlo dall’accesso ai benefici penitenziari.

2.5. – Secondo il rimettente, la legittimità costituzionale della norma censurata sarebbe compromessa da «ulteriori» profili di intrinseca irragionevolezza. Irrazionale sarebbe, in sostanza, la presunzione di maggior pericolosità che la norma collega alla «illegalità» della presenza del reo nel territorio nazionale, posto che non vi sarebbe alcuna «relazione automatica» tra l’adempimento degli obblighi concernenti l’immigrazione ed il compimento o non di un determinato reato.

Inoltre, la legge non distingue tra le varie possibili situazioni di «illegalità» del soggiorno, parificando coloro per i quali sia semplicemente scaduto il termine del permesso e coloro che non abbiano ottemperato ad un decreto di espulsione, ed omettendo di assegnare rilievo ad un «giustificato motivo» della violazione, che addirittura può scriminare comportamenti di rilevanza criminosa diretta (come il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998).

L’applicabilità dell’aggravante anche nel caso di comportamenti «inesigibili» varrebbe, tra l’altro, a segnarne la differenza rispetto alla fattispecie che concerne la latitanza, fondata sulla sottrazione volontaria all’esecuzione di un provvedimento restrittivo, ed a documentare ulteriormente l’asserita violazione del canone di ragionevolezza.

2.6. – Le censure fin qui richiamate, a parere del Tribunale, risultano indifferenti alla natura amministrativa o penale dell’illecito compiuto dal cittadino extracomunitario nell’entrare o nel trattenersi irregolarmente sul territorio nazionale.

Anzitutto, lo stesso reato di nuova introduzione colpirebbe uno status e non una condotta materiale, di talché non potrebbe derivarne un connotato di «materialità» per l’aggravante riferita ad un ulteriore reato. Per altro verso, la commissione di un illecito penale antecedente alla realizzazione del reato aggravato (e cioè la violazione delle norme sull’immigrazione) non varrebbe ad assimilare la posizione dell’interessato a quella del recidivo.

Il rimettente evidenzia, in proposito, che l’applicazione della norma censurata non presuppone un accertamento definitivo dell’illecito concernente l’immigrazione, come invece è richiesto dall’art. 99 cod. pen. La recidiva, inoltre, si applica solo ai delitti e presuppone la commissione di un delitto non colposo, mentre la circostanza in esame riguarda anche le contravvenzioni, e presuppone un reato contravvenzionale, eventualmente solo colposo. L’efficacia della recidiva, infine, sarebbe stata mitigata da una forte compressione degli automatismi applicativi (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 192 del 2007), mentre l’aggravante censurata, come detto, si applicherebbe finanche quando ricorra un «giustificato motivo» per la violazione delle norme sull’immigrazione.

Tornando poi al novum rappresentato dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, il giudice a quo nega ogni possibile effetto di legittimazione in ordine alla previsione censurata. La sanzione penale per l’irregolarità del soggiorno è comunque collegata ad una violazione delle regole pertinenti, mentre la quota di pena inflitta per la stessa irregolarità, rispetto ad un qualunque diverso reato, non corrisponde ad una porzione del reato medesimo. Né una tale corrispondenza potrebbe fondarsi su una presunzione assoluta di pericolosità del reo, illegittima perché inattendibile, e già disconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale.

2.7. – Il Tribunale – specificando l’oggetto della domanda rivolta alla Corte costituzionale, che consiste nella caducazione della norma censurata – osserva che proprio la natura ablatoria dell’intervento richiesto escluderebbe la rilevanza, nella specie, della giurisprudenza contraria all’ammissibilità di interventi manipolatori sulle scelte sanzionatorie in materia di immigrazione (sono citate le sentenze n. 22 del 2007, n. 236 del 2008 e n. 156 del 2009). Per altro verso, è richiamata la giurisprudenza costituzionale che individua nella manifesta irragionevolezza il limite posto all’insindacabilità delle scelte legislative in materia di configurazione dei reati e di determinazione del trattamento punitivo (sono citate le sentenze n. 26 del 1979, n. 102 del 1985, n. 341 del 1994, n. 313 del 1995, n. 217 del 1996, n. 287 del 2001 e le ordinanze n. 163 del 1996, n. 110 del 2002, n. 323 del 2002, n. 172 del 2003, n. 158 del 2004).

Secondo il rimettente, «in considerazione dell’inscindibile nesso strutturale tra disposizione interpretata e disposizione interpretativa, va chiesta anche la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 1, comma 1, della legge n. 94 del 2009».

Inoltre, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la Corte costituzionale dovrebbe estendere la dichiarazione di illegittimità al già citato art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., limitatamente all’inciso «e per i delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’art. 61, primo comma, 11-bis», posto che detta norma, in caso di ablazione della fattispecie richiamata, rimarrebbe priva di autonomia applicativa (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2004).

2.8. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 18 maggio 2010, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata inammissibile e «comunque» infondata.

Non potrebbe essere condivisa la tesi, attribuita al rimettente, che la previsione censurata valga ad aggravare la pena non per una «condotta colpevole», ma in relazione ad un mero status giuridico. Dovrebbe infatti ritenersi, anche in base al criterio dell’interpretazione costituzionalmente orientata, che la circostanza in questione riguardi solo gli stranieri che violino le disposizioni sull’immigrazione con una «condotta cosciente e volontaria». Tale soluzione ermeneutica sarebbe avvalorata dalla più recente introduzione, nel nostro ordinamento, del reato di «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato», previsto dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge n. 94 del 2009.

Secondo la difesa erariale, ove interpretata nel senso anzidetto, la norma censurata sarebbe immune dai vizi denunciati dal rimettente.

Considerato in diritto

1. – I Tribunali di Livorno e di Ferrara, entrambi in composizione monocratica, sollevano questioni di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, del codice penale, che prevede una circostanza aggravante comune per i fatti commessi dal colpevole «mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale». La disposizione censurata è stata introdotta dall’art. 1, comma 1, lettera f), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 24 luglio 2008, n. 125.

1.1. – I rimettenti prospettano anzitutto, e per molteplici aspetti, una violazione dell’art. 3 della Costituzione.

Secondo il Tribunale di Livorno, la nuova previsione aggravante istituirebbe una indebita assimilazione fra il trattamento di soggetti responsabili d’una mera infrazione amministrativa (tale essendo ancora considerata la violazione delle norme in materia di immigrazione all’epoca dell’ordinanza di rimessione) ed il trattamento di soggetti che abbiano abusato della propria funzione o qualità personale (art. 61, numeri 9 e 11, cod. pen.), o abbiano già commesso reati in precedenza (art. 99 cod. pen.), o siano già stati individuati come pericolosi mediante un provvedimento giudiziale (art. 61, numero 6, cod. pen.).

Anche secondo il Tribunale di Ferrara la condotta prevista dalla norma censurata sarebbe parificata, senza giustificazione, a fattispecie del tutto differenti, come quella della latitanza (fondata sulla sottrazione volontaria ad un provvedimento restrittivo) e quella della recidiva, ove l’aggravamento di pena è generalmente non automatico, si connette alla commissione di un delitto non colposo, e consegue solo ad una sentenza irrevocabile di condanna per l’episodio criminoso antecedente.

Entrambi i rimettenti, inoltre, prospettano la intrinseca irragionevolezza di una presunzione di maggior pericolosità collegata alla mera carenza di un titolo per il soggiorno nel territorio dello Stato, senza alcuna distinzione tra le varie possibili violazioni della legge sull’immigrazione, e senza alcuna rilevanza per il caso che ricorra un «giustificato motivo». Il Tribunale di Ferrara osserva, in particolare, che non sarebbe giustificabile l’applicazione di una maggior pena in assenza di qualsiasi necessaria correlazione tra la condizione del reo e la gravità del reato commesso.

Neppure troverebbe giustificazione, sempre secondo il Tribunale di Ferrara, la differenza di trattamento istituita, riguardo a fatti di identica natura, tra persone che si trovino o non regolarmente nel territorio dello Stato, e finanche tra persone che vi si trovino tutte irregolarmente, a seconda che si tratti di cittadini comunitari o di persone prive di cittadinanza o con cittadinanza extracomunitaria.

1.2. – Il solo rimettente ferrarese prospetta una violazione congiunta degli artt. 25, secondo comma, e 27, primo comma, Cost., per il difetto di pertinenza del maggior trattamento punitivo al fatto di reato, e per la sua esclusiva inerenza ad uno «status personale del reo», così da conformarsi ai canoni del «diritto penale d’autore».

1.3. – Il Tribunale di Livorno, dal canto proprio, evoca quale parametro di legittimità l’art. 27, primo comma, Cost., posto che la disposizione censurata minerebbe il rapporto di proporzionalità tra la pena inflitta ed il grado della responsabilità personalmente riferibile al reo, ed opererebbe un trasferimento della logica punitiva dal piano della colpevolezza al «tipo d’autore».

1.4. – Entrambi i rimettenti, infine, denunciano l’asserita violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto la sproporzione per eccesso della sanzione rispetto al fatto, sul piano obiettivo e nella stessa percezione soggettiva da parte del condannato, priverebbe la corrispondente porzione della pena della necessaria finalizzazione rieducativa.

1.5. – Quale portato della richiesta pronuncia a carattere ablatorio, in ordine alla previsione di cui all’art. 61, numero 11-bis, cod. pen., il Tribunale di Ferrara prospetta una dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale relativamente a due norme la cui efficacia regolatrice si riferisce, per l’intero, alla norma censurata. Si tratta, in primo luogo, dell’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), che contiene una disposizione interpretativa della nuova previsione circostanziale. Illegittimo dovrebbe dichiararsi, inoltre, l’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, che preclude la sospensione degli adempimenti esecutivi concernenti le pene detentive (relativamente) brevi, limitatamente all’inciso «e per i delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’art. 61, primo comma, n. 11-bis».

2. – L’identità di oggetto dei due giudizi introdotti con le ordinanze indicate in epigrafe rende opportuna, ai fini d’una valutazione unitaria delle questioni, la riunione dei relativi procedimenti.

3. – La questione sollevata dal Tribunale di Livorno deve essere dichiarata inammissibile.

Come questa Corte ha già avuto modo di osservare (ordinanze n. 277 del 2009 e n. 66 del 2010), condizione essenziale di rilevanza delle questioni concernenti la nuova previsione circostanziale è che quest’ultima risulti concretamente applicabile nel giudizio a quo.

Nel caso di specie, come in altri precedenti, nessun rilievo è stato svolto al fine di illustrare per quale ragione una circostanza aggravante fondata sulla «illegalità» del soggiorno dovrebbe applicarsi anche per reati che, al pari di quello contestato nel giudizio principale, consistono proprio in violazioni della disciplina in materia di immigrazione. Va considerato, in proposito, quanto stabilito nella prima parte dell’art. 61 cod. pen., e cioè che le circostanze comuni aggravano il reato solo «quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali».

La carenza assoluta di motivazione sui presupposti interpretativi che condizionano l’applicazione della norma censurata da parte del giudice rimettente rende inammissibile, nel giudizio incidentale di costituzionalità, la questione sollevata (ex multis, ordinanze n. 346 del 2006 e n. 61 del 2007).

4. – La questione sollevata dal Tribunale di Ferrara è fondata.

4.1. – Questa Corte, in tema di diritti inviolabili, ha dichiarato, in via generale, che essi spettano «ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani» (sentenza n. 105 del 2001). La condizione giuridica dello straniero non deve essere pertanto considerata – per quanto riguarda la tutela di tali diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi, specie nell’ambito del diritto penale, che più direttamente è connesso alle libertà fondamentali della persona, salvaguardate dalla Costituzione con le garanzie contenute negli artt. 24 e seguenti, che regolano la posizione dei singoli nei confronti del potere punitivo dello Stato.

Il rigoroso rispetto dei diritti inviolabili implica l’illegittimità di trattamenti penali più severi fondati su qualità personali dei soggetti che derivino dal precedente compimento di atti «del tutto estranei al fatto-reato», introducendo così una responsabilità penale d’autore «in aperta violazione del principio di offensività […]» (sentenza n. 354 del 2002). D’altra parte «il principio costituzionale di eguaglianza in generale non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero» (sentenza n. 62 del 1994). Ogni limitazione di diritti fondamentali deve partire dall’assunto che, in presenza di un diritto inviolabile, «il suo contenuto di valore non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante» (sentenze n. 366 del 1991 e n. 63 del 1994).

La necessità di individuare il rango costituzionale dell’interesse in comparazione, e di constatare altresì l’ineluttabilità della limitazione di un diritto fondamentale, porta alla conseguenza che la norma limitativa deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo sufficiente, ai fini del controllo sul rispetto dell’art. 3 Cost., l’accertamento della sua non manifesta irragionevolezza (sentenza n. 393 del 2006).

4.2. – Con riferimento al caso specifico, si deve ricordare che le «condizioni personali e sociali» fanno parte dei sette parametri esplicitamente menzionati dal primo comma dell’art. 3 Cost., quali divieti direttamente espressi dalla Carta costituzionale, che rendono indispensabile uno scrutinio stretto delle fattispecie sospettate di violare o derogare all’assoluta irrilevanza delle "qualità” elencate dalla norma costituzionale ai fini della diversificazione delle discipline.

Questa Corte ha più volte applicato tale metodo nel campo del diritto penale, dichiarando costituzionalmente illegittime norme che avevano costruito una fattispecie incriminatrice su presunzioni assolute di pericolosità, con l’effetto di istituire discriminazioni irragionevoli. Si è già fatto cenno, in proposito, alla riconosciuta illegittimità della previsione che puniva l’ubriachezza (art. 688 cod. pen.) solo per coloro che avessero già riportato una condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità delle persone (sentenza n. 354 del 2002). In analoga prospettiva è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 708 cod. pen. (Possesso ingiustificato di valori), posto che la suddetta norma sanciva una «discriminazione nei confronti di una categoria di soggetti composta da pregiudicati per reati di varia natura o entità contro il patrimonio», senza una corrispondenza effettiva ed attuale tra la condizione in discorso e la funzione di tutela dell’incriminazione (sentenza n. 370 del 1996).

Comportamenti pregressi dei soggetti non possono giustificare normative penali che attribuiscano rilevanza – indipendentemente dalla necessità di salvaguardare altri interessi di rilievo costituzionale – ad una qualità personale e la trasformino, con la norma considerata discriminatoria, in un vero "segno distintivo” delle persone rientranti in una data categoria, da trattare in modo speciale e differenziato rispetto a tutti gli altri cittadini.

5. – Sulla scorta dei principi sinora ricordati, si deve riconoscere che l’aggravante di cui alla disposizione censurata non rientra nella logica del maggior danno o del maggior pericolo per il bene giuridico tutelato dalle norme penali che prevedono e puniscono i singoli reati.

Non potrebbe essere ritenuta ragionevole e sufficiente, d’altra parte, la finalità di contrastare l’immigrazione illegale, giacché questo scopo non potrebbe essere perseguito in modo indiretto, ritenendo più gravi i comportamenti degli stranieri irregolari rispetto ad identiche condotte poste in essere da cittadini italiani o comunitari. Si finirebbe infatti per distaccare totalmente la previsione punitiva dall’azione criminosa contemplata nella norma penale e dalla natura dei beni cui la stessa si riferisce, specificamente ritenuti dal legislatore meritevoli della tutela rafforzata costituita dalla sanzione penale.

La contraddizione appena rilevata assume particolare evidenza dopo la recente modifica introdotta dall’art. 1, comma 1, della legge n. 94 del 2009, che ha escluso l’applicabilità dell’aggravante de qua ai cittadini di Paesi appartenenti all’Unione europea. È noto infatti che esistono ipotesi di soggiorno irregolare del cittadino comunitario, come, ad esempio, nel caso di inottemperanza ad un provvedimento di allontanamento, punita dall’art. 21, comma 4, del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), con l’arresto da uno a sei mesi e con l’ammenda da 200 a 2.000 euro. Anche sotto tale profilo, risulta che la particolare disciplina dell’aggravante censurata nel presente giudizio fa leva prevalentemente sullo status soggettivo del reo, giacché la circostanza non si applica ai cittadini di Stati dell’Unione europea neppure nella più grave ipotesi dell’inottemperanza ad un provvedimento di allontanamento, vale a dire quando l’irregolarità del soggiorno è stata riscontrata ed ha formato oggetto di valutazione da parte della competente autorità di sicurezza, che ha emesso un ordine trasgredito dal soggetto interessato, il quale ha assunto, per tale condotta, una specifica responsabilità penale. È evidente, in altre parole, che la giustificazione della fattispecie censurata non può fondarsi su una presunzione correlata alla violazione delle norme sull’ingresso e sulla permanenza nello Stato di soggetti privi della cittadinanza italiana. E ciò si nota a prescindere dalla relazione tra lo status dell’immigrato in condizione irregolare e l’offesa tipica del reato che di volta in volta venga in considerazione.

6. – Le recenti modifiche legislative hanno messo in luce con nettezza ancora maggiore la natura discriminatoria dell’aggravante oggetto della presente questione. Difatti, l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio nazionale erano considerati dalla legge – all’epoca dei fatti che hanno dato origine al processo pendente davanti al Tribunale di Ferrara – alla stregua di illeciti amministrativi, mentre attualmente, cioè dopo l’introduzione di un autonomo reato di immigrazione irregolare, gli stessi comportamenti sono divenuti causa di responsabilità penale. L’illegittimità del soggiorno viene dunque in rilievo in una duplice prospettiva, producendo una intensificazione del trattamento sanzionatorio che deve essere considerata in questa sede, giacché fa parte integrante della valutazione complessiva sulla compatibilità costituzionale della norma censurata. Questa Corte non può ignorare il contesto normativo esistente al momento della sua pronuncia e rispetto ad esso, preso nel suo insieme, deve orientare il proprio giudizio.

Veniva già prima in risalto uno squilibrio fra il trattamento giuridico dell’atto trasgressivo precedente (ingresso o soggiorno irregolare nel territorio dello Stato), allora non penalmente rilevante, e la previsione di un incremento della sanzione, a carattere penale, prevista per il reato "comune” commesso dallo straniero. Emergeva anche, e soprattutto, l’assenza di un qualsiasi legame tra la violazione delle leggi sull’immigrazione e le condotte singolarmente poste a base delle più diverse norme penali incriminatrici.

L’introduzione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato non solo non ha fatto venir meno la contraddizione derivante dalla eterogeneità della natura della condotta antecedente rispetto a quella dei comportamenti successivi, ma ha esasperato la contraddizione medesima, in quanto ha posto le premesse per possibili duplicazioni o moltiplicazioni sanzionatorie, tutte originate dalla qualità acquisita con un’unica violazione delle leggi sull’immigrazione, ormai oggetto di autonoma penalizzazione, e tuttavia priva di qualsivoglia collegamento con i precetti penali in ipotesi violati dal soggetto interessato.

Lo straniero extracomunitario viene punito una prima volta all’atto della rilevazione del suo ingresso o soggiorno illegale nel territorio nazionale, ma subisce una o più punizioni ulteriori determinate dalla perdurante esistenza della sua qualità di straniero irregolare, in rapporto a violazioni, in numero indefinito, che pregiudicano interessi e valori che nulla hanno a che fare con la problematica del controllo dei flussi migratori.

L’irragionevolezza della conseguenza si coglie pienamente ove si consideri che da una contravvenzione punita con la sola pena pecuniaria può scaturire una serie di pene aggiuntive, anche a carattere detentivo, che il criterio di computo su base percentuale può condurre a valori elevatissimi, dando luogo a prolungate privazioni di libertà. Non solo lo straniero in condizione di soggiorno irregolare, a parità di comportamenti penalmente rilevanti, è punito più gravemente del cittadino italiano o dell’Unione europea, ma lo stesso rimane esposto per tutto il tempo della sua successiva permanenza nel territorio nazionale, e per tutti i reati previsti dalle leggi italiane (tranne quelli aventi ad oggetto condotte illecite strettamente legate all’immigrazione irregolare), ad un trattamento penale più severo.

Tutto ciò si pone in contrasto con il principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost., che non tollera irragionevoli diversità di trattamento.

7. – È vero che, per evitare il verificarsi di bis in idem sostanziali, il sistema penale italiano prevede tecniche di considerazione unitaria delle specifiche condotte, sia nel caso che una circostanza aggravante comune rappresenti un elemento essenziale del reato o ne costituisca una circostanza aggravante speciale (art. 61, prima parte, cod. pen.) – su questa base è stata dichiarata inammissibile la questione sollevata dal Tribunale di Livorno, come illustrato al par. 3 –, sia nell’ipotesi di reato complesso, che sussiste quando «la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per se stessi, reato» (art. 84, primo comma, cod. pen.).

Quest’ultima norma, mirata ad escludere il concorso di reati, non è tuttavia applicabile al caso di specie, che riguarda una circostanza aggravante comune. L’ingresso e il soggiorno illegale sul territorio dello Stato non sono previsti dalla legge come elementi costitutivi della generalità dei reati, ma solo di quelli che attengono alla violazione delle norme in materia di immigrazione, di talché il reato comune commesso dallo straniero in condizione irregolare non potrebbe considerarsi complesso, e come tale capace di "assorbire” la violazione dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998. D’altra parte l’irregolarità del soggiorno non concorre a delineare un reato aggravato tipico, come avviene ad esempio nell’ipotesi – prevista dall’art. 625, primo comma, numero 2, cod. pen. – di furto aggravato dalla violenza sulle cose, che può integrare di per sé un fatto di danneggiamento. La figura del reato complesso, che preclude un fenomeno di bis in idem sostanziale, consiste invece in un fatto tipicamente inclusivo, sul piano circostanziale, della condotta altrimenti considerata quale reato a sé stante.

La costruzione di un reato complesso deve essere opera del legislatore, e non può quindi risultare dalla combinazione, in sede di applicazione giurisprudenziale, tra le singole figure criminose e le circostanze aggravanti comuni.

Si deve, in definitiva, escludere che la contraddizione prima evidenziata possa essere risolta in via interpretativa o mediante l’utilizzazione di strumenti sistematici già disponibili nell’ordinamento positivo.

8. – La stessa impossibilità di una interpretazione conforme si deve riconoscere a proposito dell’ambito di applicazione della norma censurata. La formulazione testuale della disposizione che la contiene esclude infatti che l’aggravante de qua debba applicarsi soltanto nei casi in cui la condotta criminosa sia stata agevolata dalla presenza illegale del reo sul territorio nazionale o il reato sia stato commesso per consentire l’ingresso o la permanenza illegale. La previsione legislativa non contiene espressioni che possano autorizzare in alcun modo siffatte interpretazioni restrittive, le quali contrastano con la portata generale e indifferenziata della circostanza aggravante prevista. In tal senso si è già orientata la giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. III pen., 26 novembre 2009, n. 4406).

9. – Alla luce di quanto detto, si deve concludere che la ratio sostanziale posta a base della norma censurata è una presunzione generale ed assoluta di maggiore pericolosità dell’immigrato irregolare, che si riflette sul trattamento sanzionatorio di qualunque violazione della legge penale da lui posta in essere.

Questa Corte ha già affermato che la stessa fattispecie di indebito trattenimento nel territorio nazionale, che pur implica la specifica inosservanza di un provvedimento espulsivo individualizzato, si limita a sanzionare una condotta illecita e «prescinde da una accertata o presunta pericolosità dei soggetti responsabili» (sentenza n. 22 del 2007). La violazione delle norme sul controllo dei flussi migratori può essere penalmente sanzionata, per effetto di una scelta politica del legislatore non censurabile in sede di controllo di legittimità costituzionale, ma non può introdurre automaticamente e preventivamente un giudizio di pericolosità del soggetto responsabile, che deve essere frutto di un accertamento particolare, da effettuarsi caso per caso, con riguardo alle concrete circostanze oggettive ed alle personali caratteristiche soggettive. In coerenza a tale orientamento, questa Corte ha avuto modo di affermare che «il mancato possesso di un titolo abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato […] non è univocamente sintomatico […] di una particolare pericolosità sociale» (sentenza n. 78 del 2007).

In definitiva, la qualità di immigrato «irregolare» – che si acquista con l’ingresso illegale nel territorio italiano o con il trattenimento dopo la scadenza del titolo per il soggiorno, dovuta anche a colposa mancata rinnovazione dello stesso entro i termini stabiliti – diventa uno "stigma”, che funge da premessa ad un trattamento penalistico differenziato del soggetto, i cui comportamenti appaiono, in generale e senza riserve o distinzioni, caratterizzati da un accentuato antagonismo verso la legalità. Le qualità della singola persona da giudicare rifluiscono nella qualità generale preventivamente stabilita dalla legge, in base ad una presunzione assoluta, che identifica un «tipo di autore» assoggettato, sempre e comunque, ad un più severo trattamento.

Ciò determina un contrasto tra la disciplina censurata e l’art. 25, secondo comma, Cost., che pone il fatto alla base della responsabilità penale e prescrive pertanto, in modo rigoroso, che un soggetto debba essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali. Un principio, quest’ultimo, che senz’altro è valevole anche in rapporto agli elementi accidentali del reato.

La previsione considerata ferisce, in definitiva, il principio di offensività, giacché non vale a configurare la condotta illecita come più gravemente offensiva con specifico riferimento al bene protetto, ma serve a connotare una generale e presunta qualità negativa del suo autore.

Né si potrebbe obiettare che la qualità di immigrato in condizione irregolare deriva pur sempre da un originario comportamento trasgressivo, utile a legittimare una presunzione legislativa a carattere assoluto circa la dimensione soggettiva dell’illecito o la capacità a delinquere del reo. Si è già visto infatti come tale condotta – sanzionata dal legislatore prima soltanto sul piano amministrativo, oggi anche su quello penale – non possa ripercuotersi su tutti i comportamenti successivi del soggetto, anche in assenza di ogni legame con la trasgressione originaria, differenziando in peius il trattamento del reo rispetto a quello previsto dalla legge per la generalità dei consociati.

10. – Non assumono rilievo, in senso contrario alle conclusioni fin qui esposte, le considerazioni relative alla presenza, nel sistema penale italiano, delle circostanze aggravanti relative allo stato di latitanza del reo (art. 61, numero 6, cod. pen.) ed alla recidiva (art. 99 cod. pen.).

Nel caso della latitanza – la previsione relativa alla quale non è stata mai sottoposta alla valutazione di questa Corte – il soggetto che commette il reato non è genericamente caratterizzato da una qualità derivante da comportamenti pregressi, ma si trova in una situazione originata da un provvedimento restrittivo dell’autorità giudiziaria che lo riguarda individualmente. All’esecuzione di tale provvedimento il latitante si sottrae con scelta deliberata, tanto che non risponderebbe dell’aggravante se avesse pur colpevolmente ignorato l’esistenza del provvedimento in suo danno.

Si discute insomma, ed in ogni caso, di una situazione non assimilabile a quella dell’immigrato in condizione di soggiorno irregolare, ove può mancare qualsiasi «individualizzazione» del precetto penale trasgredito. Nella previsione aggravante, infatti, vengono in astratto ed in modo generalizzato accomunate ipotesi molto diverse tra loro, fino a comprendere la situazione di soggetti in condizione di mera «irregolarità», anche per effetto di negligenza, e non attinti da alcun provvedimento che individualmente li riguardi.

V’è da aggiungere che il latitante si sottrae all’esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale, che presuppone un reato punito con la reclusione o con l’arresto (e connotato da sicura gravità, visto che conduce ad una pena detentiva eseguibile, o implica un trattamento cautelare), mentre l’immigrazione irregolare era prima soltanto un illecito amministrativo ed attualmente è punita dalla legge con una mera sanzione pecuniaria.

D’altra parte, nel sistema penale vigente la latitanza non è configurata come reato, con la conseguenza che non è ipotizzabile, a proposito dell’aggravante che vi si riferisce, la possibilità di un bis in idem sanzionatorio.

Parimenti inconferente sarebbe il richiamo all’aggravante della recidiva. L’art. 99 cod. pen. prevede infatti che l’applicazione della suddetta circostanza è subordinata ad una sentenza definitiva di condanna per un delitto non colposo, intervenuta prima del fatto per il quale la pena deve essere aumentata. Inoltre, la recidiva aggrava unicamente la pena per i delitti non colposi. Sono pertanto esclusi dall’area di operatività della citata norma codicistica sia i reati contravvenzionali che quelli colposi, mentre, come s’è visto prima, il reato di immigrazione clandestina è una contravvenzione, punita, oltretutto, con una pena pecuniaria.

Il recidivo è dunque un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale. Cionondimeno, con la sola eccezione dei reati di maggior gravità, l’applicazione della circostanza è subordinata all’accertamento in concreto, da parte del giudice, di una relazione qualificata tra i precedenti del reo ed il nuovo reato da questi commesso, che deve risultare sintomatico – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei fatti pregressi – sul piano della colpevolezza e della pericolosità sociale (da ultimo, ordinanza n. 171 del 2009).

Ben diversa è la disciplina per l’aggravante oggetto di censura, che può attivarsi finanche quando lo straniero ignori (per colpa) la propria condizione di irregolarità nel soggiorno (art. 59, secondo comma, cod. pen.), che prescinde da ogni collegamento funzionale con il reato cui accede, e che il giudice di tale reato deve accertare in via incidentale (senza attendere, per inciso, neppure l’esito di eventuali ricorsi amministrativi dell’interessato).

Si deve notare, a tale ultimo proposito, che il presupposto di una sentenza definitiva di condanna rende impossibile, nel caso della recidiva, quella formazione di giudicati ingiusti e contraddittori che potrebbe invece derivare, nella materia in esame, dalla accertata non irregolarità della presenza del soggetto nel territorio dello Stato, quando lo stesso sia già stato condannato per un altro reato, con l’applicazione dell’aggravante oggetto dell’odierna censura. Tale eventualità acquista speciale rilievo nell’ipotesi dello straniero che chieda il riconoscimento dello status di rifugiato e, nelle more della relativa procedura, si veda contestata la circostanza in un giudizio che, a differenza di quello concernente il reato di ingresso o soggiorno irregolare, non può essere sospeso (si veda, a tale ultimo proposito, il comma 6 dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998).

Tali paradossi sono preclusi dal legislatore nel caso della recidiva, in coerenza peraltro con la presunzione di innocenza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost., che non consente che si produca un effetto sanzionatorio ulteriore causato da un comportamento la cui illiceità penale deve essere ancora accertata in via definitiva.

11. – In considerazione di tutte le ragioni indicate, la norma censurata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione degli artt. 3, primo comma, e 25, secondo comma, Cost.

Restano assorbite le ulteriori censure proposte con riguardo al primo ed al terzo comma dell’art. 27 Cost.

12. – Il Tribunale di Ferrara assume che, a seguito dell’eliminazione dall’ordinamento della previsione circostanziale censurata, alcune norme ulteriori, introdotte contestualmente o successivamente, dovrebbero essere oggetto d’una dichiarazione consequenziale di illegittimità costituzionale.

In effetti, l’odierna pronuncia rende completamente priva di oggetto una disposizione che è nata al solo scopo di introdurre una norma interpretativa dell’art. 61, numero 11-bis, cod. pen., stabilendo che la relativa aggravante dovesse intendersi riferita unicamente agli apolidi ed ai cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea. Si tratta del già citato comma 1 dell’art. 1 della legge n. 94 del 2009.

Si riscontra dunque, tra la norma considerata e quella oggetto della decisione caducatoria, quel rapporto di inscindibile connessione che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, comporta una dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale, a norma dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (da ultimo, tra le molte, sentenza n. 186 del 2010).

A conclusione analoga deve pervenirsi rispetto ad una norma di diritto processuale che riguarda direttamente, ed in questa parte esclusivamente, le sentenze di condanna per reati in ordine ai quali ricorra l’aggravante di cui all’art. 61, numero 11-bis, cod. pen.

All’art. 656 cod. proc. pen. è disciplinata l’esecuzione delle sanzioni detentive, prevedendosi tra l’altro la sospensione degli adempimenti esecutivi nel caso di pene (relativamente) brevi, in vista dell’eventuale applicazione di misure alternative alla detenzione. Il comma 9 dell’articolo citato, alla lettera a), identifica i reati per i quali la sospensione non può essere disposta. L’elenco è stato integrato, anzitutto, con il d.l. n. 92 del 2008. Il riferimento ai reati aggravati dalla condizione di soggiorno irregolare del colpevole è stato poi introdotto, in sede di conversione, dalla legge n. 125 del 2008, la quale, dopo la citazione di alcuni delitti previsti dal codice penale, ha inserito l’inciso «e per i delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’art. 61, primo comma, numero 11-bis), del medesimo codice».

La norma citata da ultimo – cioè quella specificamente dettata, in un più ampio contesto, con l’inciso che si è trascritto – si trova in rapporto di inscindibile connessione con la disposizione che, in questa sede, viene dichiarata illegittima: rimossa quest’ultima, infatti, la norma processuale resta completamente priva di oggetto.

Si deve pertanto dichiarare, anche per tale norma, la illegittimità costituzionale in via consequenziale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, del codice penale;

dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica);

dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, limitatamente alle parole «e per i delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’art. 61, primo comma, numero 11-bis), del medesimo codice,»;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, cod. pen., sollevata dal Tribunale di Livorno con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'8 luglio 2010.