SENTENZA N. 192
ANNO 2007
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE
SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma
quarto del codice penale, come modificato dall’art. 3 della legge 5 dicembre
2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n.
Visti gli atti di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 4
giugno 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto in fatto
1. – Il Tribunale di Ravenna, con tre ordinanze di
analogo tenore emesse il 12 gennaio 2006 (r.o. n. 102
e n. 103 del 2006) e il 24 gennaio 2006 (r.o. n. 104
del 2006), ed il Tribunale di Cagliari, con ordinanza emessa l’8 marzo 2006 (r.o. n. 295 del 2006), hanno sollevato, in riferimento agli
artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come
sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice
penale e alla legge 26 luglio 1975, n.
I giudici a quibus –
investiti dei processi nei confronti di persone imputate dei reati di
estorsione in concorso (ordinanza r.o. n. 102 del
2006); di detenzione e vendita illecite di sostanze stupefacenti (ordinanze r.o. n. 103 e n. 295 del 2006); e di rapina aggravata,
violenza sessuale aggravata e porto abusivo di arma (ordinanza r.o. n. 104 del 2006) – riferiscono che in ciascuno dei
casi sottoposti al loro esame sarebbero configurabili a favore degli imputati
(la cui responsabilità risulterebbe comprovata dalle acquisizioni processuali)
determinate circostanze attenuanti: rispettivamente, quella del contributo di
minima importanza alla commissione del reato, di cui all’art. 114 cod. pen.; quella del fatto di lieve entità, di cui all’art. 73,
comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo
unico delle leggi in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope,
prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza); e
quelle del danno patrimoniale di speciale tenuità e dell’avvenuta riparazione
del danno, di cui all’art. 62, numeri 4) e 6), cod. pen.
Agli imputati –
soggiungono i rimettenti – è stata tuttavia contestata la recidiva reiterata,
di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., avendo
essi riportato in precedenza due o più condanne per delitti dolosi di vario
genere.
Ciò premesso, i
giudici a quibus
osservano come le disposizioni regolative del cosiddetto giudizio di
comparazione fra circostanze eterogenee trovino applicazione, in virtù
dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., anche quando
si tratti di circostanze inerenti alla persona del colpevole, qual è la
recidiva. A seguito, tuttavia, della modifica operata dall’art. 3 della legge
n. 251 del 2005 – entrata in vigore prima della commissione dei fatti oggetto
dei giudizi a quibus
– restano esclusi «i casi previsti dall’art. 99, quarto comma, nonché dagli
articoli 111 e 112, primo comma, numero 4)», cod. pen.,
per i quali «vi è divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle
ritenute circostanze aggravanti». Di conseguenza, le circostanze attenuanti
configurabili nei casi di specie a favore degli imputati – le quali,
anteriormente alla novella, avrebbero dovuto essere ritenute senz’altro
prevalenti sulla recidiva reiterata, tenuto conto delle modalità dei fatti e
dell’entità dei precedenti penali dei giudicabili – alla luce dell’attuale
formulazione della norma censurata potrebbero essere considerate, al più, solo
equivalenti ad essa.
A parere dei
rimettenti, peraltro, la neointrodotta regola
limitativa degli esiti del giudizio di comparazione tra circostanze si porrebbe
in contrasto sia «con il principio di ragionevolezza quale accezione
particolare del principio di uguaglianza» (art. 3, primo comma, Cost.), il quale funge da limite alla discrezionalità
legislativa nella determinazione della qualità e quantità delle sanzioni
penali; sia con il principio della funzione rieducativa della pena (art. 27,
terzo comma, Cost.).
Il giudizio di
bilanciamento tra circostanze costituirebbe, difatti, uno strumento per consentire
al giudice il perfetto adeguamento della pena al caso concreto, tramite la
valorizzazione degli elementi positivi o negativi più significativi ai fini
della qualificazione del fatto e del suo autore. Precludendo in assoluto la
dichiarazione di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata, la norma
censurata determinerebbe, viceversa, un «appiattimento» del trattamento
sanzionatorio, in rapporto a situazioni che potrebbero risultare assai diverse;
e rischierebbe, al tempo stesso, di imporre l’applicazione di pene
manifestamente sproporzionate all’entità del fatto, la cui espiazione non
consentirebbe la rieducazione del condannato.
Tale evenienza
ricorrerebbe puntualmente nei casi di specie: giacché, una volta ritenute le
attenuanti solo equivalenti alla recidiva reiterata, le pene minime irrogabili
agli imputati (prima della diminuzione prevista per il rito abbreviato, da essi
richiesto) – vale a dire: cinque anni di reclusione ed euro 516 di multa, nei
casi di cui alle ordinanze r.o. n. 102 e n. 104 del
2006; due anni di reclusione ed euro 5.164 di multa, nei casi di cui alle
ordinanze r.o. n. 103 e n. 295 del 2006 – si
rivelerebbero palesemente eccessive rispetto ai fatti per cui si procede.
L’ordinanza r.o. n. 104 del 2006 soggiunge, altresì, che
l’irragionevolezza denunciata risulterebbe esaltata dal fatto che la
preclusione del giudizio di prevalenza delle attenuanti è stata sancita a
carico del recidivo reiterato indipendentemente dalla gravità dei delitti
commessi, dalla data della loro commissione e dall’entità delle pene irrogate:
mentre ad una diversa conclusione si sarebbe potuti pervenire qualora la
preclusione in parola fosse stata limitata ai soli recidivi reiterati
condannati per reati di una certa gravità, analogamente a quanto lo stesso
legislatore della legge n. 251 del
2. – Analoga
questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Tribunale di
Livorno, con ordinanza emessa il 14 marzo 2006 (r.o.
n. 405 del 2006), nell’ambito di un processo penale nei confronti di persona
imputata del reato di cessione e detenzione illecite di sostanza stupefacente,
di cui all’art. 73, commi 1 e 1-bis,
del d.P.R. n. 309 del 1990 (come modificato dall’art.
4-bis del decreto-legge 30 dicembre
2005, n. 272, convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2006, n.
49), con l’aggravante della recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale.
Sulla premessa
della configurabilità, nel caso di specie, dell’attenuante del fatto di lieve
entità, di cui al comma 5 del citato art. 73, anche tale giudice rimettente
assume che l’art. 69, quarto comma, cod. pen. –
impedendo, nell’attuale formulazione, di ritenere le circostanze attenuanti prevalenti
sulla recidiva reiterata – contrasti tanto con il principio di ragionevolezza
(art. 3 Cost.), stante il radicale divario, a fronte
della commissione del medesimo fatto, tra la pena che può essere inflitta al
recidivo reiterato e quella irrogabile al soggetto che non lo è; quanto con la
funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.),
considerata l’assoluta sproporzione del trattamento sanzionatorio rispetto alla
effettiva gravità dell’illecito, che in casi quale quello oggetto del giudizio a quo la norma censurata finirebbe per
determinare.
3. – Con quattro
ordinanze, di analogo tenore, emesse il 3 marzo 2006 (r.o.
n. 223 del 2006), il 28 febbraio 2006 (r.o. n. 235
del 2006), l’8 aprile 2006 (r.o. n. 297 del 2006) e
l’11 marzo 2006 (r.o. n. 404 del 2006), il Tribunale
di Cagliari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27,
primo e terzo comma, Cost., questione di legittimità
costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen.,
come modificato dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui
stabilisce il «divieto di prevalenza» delle circostanze attenuanti sulle
circostanze aggravanti, nell’ipotesi prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen.
Il Tribunale
rimettente – chiamato a giudicare persone imputate del reato di detenzione o
cessione illecita di sostanze stupefacenti, di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, con l’aggravante della recidiva
reiterata – premette che, in ognuno dei casi, tenuto conto della modesta
quantità di stupefacente detenuta o ceduta dagli imputati e delle altre
modalità dell’azione, il fatto andrebbe ritenuto di lieve entità, ai fini
dell’applicazione del comma 5 dello stesso art. 73: disposizione, quest’ultima,
che – secondo la costante giurisprudenza di legittimità – contempla non già una
fattispecie autonoma di reato, ma una circostanza attenuante ad effetto
speciale, la quale, nel caso di concorso con eventuali aggravanti, resta dunque
obbligatoriamente soggetta al giudizio di comparazione previsto dall’art. 69
cod. pen.
Tale attenuante
comporta, d’altra parte, una sensibilissima mitigazione della risposta punitiva
ai reati di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti
o psicotrope, tanto nell’assetto anteriore che in quello successivo alle modifiche
apportate dal decreto-legge n. 272 del 2005, convertito, con modificazioni,
nella legge n. 49 del 2006: in particolare, dopo tale novella, la pena della
reclusione da sei a venti anni e della multa da euro
Siffatta
soluzione normativa si rivelerebbe contraria ai principi di ragionevolezza e di
eguaglianza: giacché, per un verso, imporrebbe di punire allo stesso modo fatti
di diversa gravità concreta (nella specie, l’illecita detenzione o lo spaccio
di stupefacenti di lieve entità verrebbero puniti con la medesima pena prevista
i fatti non lievi); e, per un altro verso, farebbe sì che vengano puniti in
modo del tutto diverso fatti oggettivamente identici o analoghi (quali, nella
specie, l’illecita detenzione o lo spaccio di stupefacenti di lieve entità),
sulla base del solo elemento differenziale rappresentato dalla qualità di
recidivo reiterato dell’autore.
Tramite la norma
censurata, il legislatore avrebbe introdotto, in sostanza, un «automatismo
sanzionatorio» atto a determinare una «indiscriminata omologazione» dei
recidivi reiterati, sulla base di una presunzione assoluta di pericolosità che
– prescindendo dalla natura dei delitti cui si riferiscono le precedenti condanne,
dall’epoca della loro commissione e dalla identità della loro indole rispetto a
quella del nuovo reato – non troverebbe fondamento nell’«id quod plerumque accidit». La recidiva reiterata, difatti, potrebbe non
essere indicativa di una effettiva pericolosità, segnatamente allorché vengano
in considerazione condanne risalenti nel tempo e relative a delitti di scarsa
gravità, o comunque non significativi sul piano criminale in rapporto al nuovo
delitto per cui si procede.
Tale «automatismo
sanzionatorio», ancorato alla sola personalità del colpevole ed alla sua
pericolosità presunta, lederebbe anche l’art. 25, secondo comma, Cost., il quale sancisce un legame indissolubile tra la
sanzione penale e la commissione di un «fatto»: impedendo, quindi, che si
punisca la mera pericolosità sociale o l’«atteggiamento interiore» del reo.
La norma
censurata si porrebbe in contrasto, altresì, con i principi stabiliti dall’art.
27, primo e terzo comma, Cost. Al riguardo,
verrebbero in rilievo tanto il principio di personalità della responsabilità
penale, a fronte del quale la pena non potrebbe essere aggravata solo per
soddisfare esigenze di prevenzione generale e di difesa sociale; quanto il
principio di proporzionalità della pena, insito nella funzione retributiva, il
quale impone la congruità della pena irrogata in concreto rispetto alla gravità
del fatto ed alle condizioni personali dell’agente; quanto, infine, il
principio della finalità rieducativa della pena: finalità che – secondo la
giurisprudenza di questa Corte – deve essere associata alla funzione
retributiva in termini di necessaria coesistenza. Da tale complesso di precetti
costituzionali emergerebbe dunque l’esigenza dell’individualizzazione della
pena, giacché solo mediante l’adeguamento della risposta punitiva alle
caratteristiche del singolo caso – adeguamento che costituisce l’obiettivo del
giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee – sarebbe possibile
assicurare un’effettiva eguaglianza di fronte alle pene, rendendo realmente
«personale» la responsabilità penale e facendo sì che il trattamento
sanzionatorio assolva ad una funzione rieducativa.
Il novellato art.
69, quarto comma, cod. pen. – con l’escludere il
giudizio di prevalenza delle attenuanti rispetto alla recidiva reiterata –
impedirebbe viceversa il suddetto adeguamento, imponendo l’irrogazione di pene
che possono rivelarsi, come nei casi di specie, del tutto sproporzionate
rispetto all’effettiva entità dei fatti e dunque inidonee, proprio perché
percepite come ingiuste ed abnormi, ad agevolare la risocializzazione del reo.
4. – Il Tribunale
di Cagliari ha sollevato questione di legittimità costituzionale della medesima
norma, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo
comma, Cost., con due ulteriori ordinanze, emesse il
3 aprile 2006 (r.o. n. 307 del 2006) ed il 23 giugno
2006 (r.o. n. 559 del 2006), che svolgono censure in
parte differenziate.
Anche in tali
occasioni, il rimettente – investito di processi penali nei confronti di
persone imputate dei reati di cessione e detenzione illecite di sostanze
stupefacenti, di cui all’art. 73, commi 1 e 1-bis, del d.P.R. n. 309 del 1990, con
l’aggravante della recidiva reiterata – ritiene che i fatti oggetto di giudizio
vadano qualificati di lieve entità, ai fini dell’applicazione dell’attenuante
di cui al comma 5 del citato art. 73; e che tale attenuante – ove non lo
impedisse la norma censurata – dovrebbe essere considerata prevalente rispetto
alla recidiva reiterata.
Ciò posto, il giudice
a quo osserva come, alla luce delle
indicazioni di questa Corte, l’adeguamento della pena al caso concreto da parte
del giudice – sulla base dei parametri forniti dall’art. 133 cod. pen. – rappresenti attuazione e sviluppo dei principi
costituzionali di eguaglianza, di personalità della responsabilità penale e di
finalizzazione della pena alla rieducazione; e come, al tempo stesso, la pena
abbia un carattere «polifunzionale» – rispondendo sia a fini di prevenzione
generale e difesa sociale, sia a fini di prevenzione speciale e di rieducazione
del reo – senza che fra tali finalità sia possibile stabilire una «gerarchia
statica»: così che il legislatore, nei limiti della ragionevolezza, può far
prevalere, di volta in volta, l’una o l’altra di esse, a patto, però, che
nessuna risulti obliterata.
Ai sensi
dell’art. 133 cod. pen., d’altro canto, la «pena
giusta» deve essere determinata combinando in maniera sintetica, ma razionale,
il giudizio in ordine alla gravità del reato e quello concernente la capacità a
delinquere, desunta, fra l’altro, dai precedenti penali e giudiziari. Tale
ultimo criterio – quello, cioè, della capacità a delinquere – potrebbe essere
letto o come espressivo della finalità specialpreventiva
della pena, cioé quale indice, «proiettato nel
futuro», della pericolosità sociale del reo; ovvero come «ancorato al momento
del fatto», nel senso che esso rappresenterebbe null’altro che una componente
del giudizio relativo alla colpevolezza, in un’ottica retributiva. Anche a
voler privilegiare, peraltro, l’aspetto specialpreventivo
e rieducativo della pena, tali funzioni non potrebbero comunque prescindere –
alla luce dei ricordati dicta
di questa Corte – dall’applicazione di una pena «giusta», ossia proporzionata
alla gravità complessiva della responsabilità dell’autore. Nel contesto
dell’art. 133, secondo comma, cod. pen., inoltre,
l’indice rappresentato dai precedenti penali e dalla complessiva condotta di
vita dell’imputato sarebbe «del tutto indipendente dalla valutazione del
fatto»: con la conseguenza che, quanto è maggiore la rilevanza accordata a tale
elemento, tanto più la sanzione – «a causa dell’efficacia determinante svolta
dal "tipo d’autore”» – acquisterebbe caratteri di «esemplarità», incompatibili
non soltanto con il principio della finalità rieducativa della pena, ma anche
con il principio di offensività desumibile dall’art.
25, secondo comma, Cost.
Il giudizio di
comparazione delle circostanze, di cui all’art. 69 cod. pen.
– prosegue il rimettente – attiene anch’esso alla valutazione del reato nel suo
complesso, e deve essere operato dal giudice alla stregua dei criteri di cui
all’art. 133 cod. pen. e nel rispetto dei limiti
fissati discrezionalmente dal legislatore, in base a scelte di politica
criminale: scelte che non debbono tuttavia varcare il confine della
ragionevolezza, né creare disparità di trattamento prive di giustificazione,
rimanendone altrimenti lesi il principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., e, di riflesso, quelli di personalità della
responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena.
Tali limiti non
risulterebbero osservati, per contro, dal nuovo disposto dell’art. 69, quarto
comma, cod. pen., nella parte in cui vieta di
ritenere le circostanze attenuanti prevalenti sulla recidiva reiterata.
Con l’impedire
che elementi di segno contrario possano travolgere l’indice negativo
rappresentato dalla reiterazione del reato, il legislatore avrebbe infatti
introdotto una sorta di presunzione legale di pericolosità sociale, o
quantomeno di spiccata tendenza a delinquere del recidivo reiterato. La
razionalità di una simile previsione risulterebbe peraltro dubbia: e ciò
anzitutto alla luce del carattere «perpetuo» della recidiva, la quale si
configura – fatta eccezione per la recidiva infraquinquennale
– a prescindere dal lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’ultimo
reato, e dunque anche in casi in cui, essendosi al cospetto di precedenti
penali remoti, l’indicata presunzione di pericolosità non trovi in concreto
giustificazione.
Per altro verso,
poi, il divieto di «subvalenza» della recidiva
reiterata è stato sancito in rapporto a tutte le circostanze attenuanti,
indipendentemente dal fatto che esse abbiano carattere soggettivo od oggettivo,
o che si tratti di attenuanti ad effetto comune o ad effetto speciale.
Sotto il primo
profilo, tuttavia, la non omogeneità degli elementi considerati nel giudizio di
bilanciamento renderebbe irrazionale la preclusione: giacché, se la
disposizione mira a rendere indefettibile la valutazione della recidiva nel
giudizio relativo alla personalità dell’imputato, detto divieto sarebbe «forse»
giustificabile in rapporto alle attenuanti che hanno fondamento nella tendenza
a delinquere del reo; ma risulterebbe comunque illogico rispetto alle
attenuanti a carattere oggettivo, le quali riflettono esclusivamente il minor
disvalore del fatto.
Sotto il secondo
profilo, alle attenuanti ad effetto speciale risulta sovente sottesa una
valutazione legislativa «del tutto diversa della gravità del fatto e quindi del
bisogno sociale di repressione»: il che avverrebbe puntualmente per
l’attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R.
n. 309 del 1990, stante la «siderale distanza» intercorrente fra gli episodi di
piccolo spaccio, spesso commessi da tossicodipendenti che in cambio della loro
attività ricevono dal fornitore la sostanza necessaria al loro consumo; e gli
episodi di vero e proprio traffico, volti a rifornire il mercato degli
stupefacenti e a procurare ingenti guadagni.
Di conseguenza,
l’elisione degli effetti dell’attenuante in parola, a fronte dei limiti al
bilanciamento con la recidiva reiterata, imporrebbe di applicare agli imputati
nei giudizi a quibus,
per fatti di «spaccio minuto», la stessa pena prevista per il trafficante,
ossia una pena iniqua perché non proporzionata alla gravità della loro
responsabilità penale.
5. – Con tre
ordinanze di analogo tenore, emesse il 25 marzo 2006 (r.o.
n. 308 del 2006), il 6 aprile 2006 (r.o. n. 408 del
2006) e il 20 maggio 2006 (r.o. n. 615 del 2006),
nell’ambito di procedimenti penali nei confronti di persone imputate dei reati
di detenzione e cessione illecite di sostanze stupefacenti, con l’aggravante
della recidiva reiterata, il Tribunale di Perugia ha sollevato, in riferimento
agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., questione di
legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen.,
come modificato dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui
esclude che possa ritenersi prevalente sulla recidiva reiterata la circostanza
attenuante ad effetto speciale di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990: circostanza che il giudice a quo reputa configurabile nei casi di
specie.
Il Tribunale
rimettente muove anch’esso dal rilievo che, per affermazione di questa Corte,
l’adeguamento della pena ai casi concreti – cui il giudizio di bilanciamento
fra circostanze di segno opposto è preordinato – costituisce espressione dei
principi di personalità della responsabilità penale e della finalità
rieducativa della pena, nonché, al tempo stesso, strumento di attuazione dell’eguaglianza
di fronte alla sanzione penale.
Su tale premessa,
il giudice a quo osserva che è ben
vero che anche nel caso in cui sia preclusa la formulazione di un giudizio di
prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti – come avviene attualmente per la
recidiva reiterata, in forza dall’art. 69, quarto comma, cod. pen. – permane un residuo margine di graduabilità della
pena; ma che tale graduabilità residua deve risultare comunque idonea ad
assicurare la ricordata finalità rieducativa, oltre che connotata da
razionalità e proporzionalità.
Ciò non
avverrebbe, per contro, nell’ipotesi in cui – per valutazioni attinenti alla
concreta offensività del reato di produzione,
traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti – detto reato possa
considerarsi di lieve entità: apparendo del tutto incongruo che, in tale
ipotesi, venga preclusa la formulazione di un giudizio di prevalenza
dell’attenuante di cui al comma 5 del citato art. 73 rispetto alla recidiva
reiterata. In questo modo, infatti, sulla base di una mera presunzione,
svincolata dall’apprezzamento del fatto concreto e della effettiva pericolosità
del reo – il quale potrebbe risultare gravato da precedenti assai tenui e di
diversa indole – si imporrebbe l’irrogazione di una pena corrispondente a quella,
di gran lunga superiore, che il legislatore ha stabilito in rapporto al
«disvalore oggettivo del reato nella sua dimensione ordinaria».
6. – Con
ordinanza emessa il 24 febbraio 2006 (r.o. n. 406 del
2006) il Tribunale di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo
comma, 25, secondo comma, 27, terzo comma, 101, secondo comma, e 111, primo e
sesto comma, Cost., questione di legittimità
costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen.,
come modificato dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui
stabilisce il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle
circostanze aggravanti inerenti alla persona del colpevole, nel caso previsto
dall’art. 99, quarto comma, cod. pen.
Il giudice a quo – premesso di essere chiamato a
giudicare una persona tratta in arresto nella flagranza della cessione a terzi
di una modestissima quantità di eroina: fatto da ritenere di lieve entità ai
sensi dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del
1990 – rileva come la circostanza attenuante prevista da tale disposizione
abbia, per costante giurisprudenza di legittimità, carattere prettamente
oggettivo, essendo volta a mitigare le severe pene stabilite per le violazioni
in materia di stupefacenti allorché la condotta presenti una ridotta offensività; così da rendere il sistema sanzionatorio
stabilito dal citato d.P.R. n. 309 del 1990
complessivamente conforme al dettato costituzionale. La pena inflitta in
concreto dovrebbe risultare, infatti, sempre adeguata alla effettiva offensività della singola condotta criminosa, in base al
disposto dell’art. 25, secondo comma, Cost.; e
conforme, altresì, alla finalità rieducativa della sanzione penale, prevista
dall’art. 27, terzo comma, Cost.
Alla
realizzazione di tali principi costituzionali era preordinata anche la
previsione dell’art. 69 cod. pen. – nel testo
anteriore alla novella – in tema di giudizio di comparazione tra circostanze
eterogenee, la quale consentiva al giudice di adeguare discrezionalmente la
pena alla concreta offensività del fatto sottoposto
al suo giudizio. Per contro, la nuova formulazione della norma – vietando il
giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti, anche ad effetto speciale,
rispetto alla recidiva reiterata (giudizio che si imporrebbe nel caso di
specie) – precluderebbe il conseguimento del suddetto obiettivo in presenza di
determinate condizioni personali dell’imputato: ponendosi così in contrasto,
non soltanto con i precetti, già ricordati, degli artt. 25, secondo comma, e
27, terzo comma, Cost.; ma anche con quelli degli
artt. 101, secondo comma, e 111, primo e sesto comma, Cost.,
stante l’impossibilità, per il giudice, «di adempiere, nel processo,
all’obbligo di legge di adeguare la sanzione al caso concreto ed irrogare una
sanzione che abbia finalità rieducative».
Ad avviso del
giudice rimettente, sarebbe violato anche l’art. 3, primo comma, Cost., giacché, per effetto della norma denunciata, a
condotte estremamente diverse sotto il profilo della offensività
conseguirebbe una identica sanzione.
7. – In tutti i
giudizi di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha chiesto che le questioni siano dichiarate non fondate.
La difesa
erariale osserva, in via preliminare, come la modifica apportata all’art. 69
cod. pen. dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005 si
collochi nell’alveo di un indirizzo legislativo – già precedentemente
manifestatosi tramite norme che hanno escluso o limitato il giudizio di
equivalenza o di prevalenza rispetto a determinate circostanze aggravanti –
volto a ridimensionare il potere discrezionale del giudice, in sede di
bilanciamento delle circostanze eterogenee: potere che, a seguito della riforma
operata dal decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla
giustizia penale), convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n.
La scelta
discrezionale del legislatore sottesa alla norma denunciata non confliggerebbe,
peraltro, con il principio di ragionevolezza, essendo diretta ad attuare –
unitamente alla riforma della disciplina della recidiva, di cui all’art. 99
cod. pen., introdotta dall’art. 4 della stessa legge
n. 251 del 2005 – una forma di prevenzione speciale della recidiva reiterata,
inasprendone il trattamento sanzionatorio.
La norma
censurata non contrasterebbe neppure con la funzione rieducativa della pena,
dovendosi escludere che essa comporti l’applicazione di pene sproporzionate, in
quanto indirizzata nei confronti di soggetti che hanno commesso un altro reato
essendo già recidivi ed hanno così dimostrato un alto e persistente grado di «antisocialità»: l’irrigidimento della risposta punitiva
resterebbe ancorato, quindi, ad un fatto che obiettivamente attesta la
particolare pericolosità del colpevole, onde non potrebbe essere considerato
arbitrario.
D’altro canto, il
nuovo testo dell’art. 99 cod. pen., pur rendendo (in
parte) fissi gli aumenti di pena previsti per le varie ipotesi di recidiva,
avrebbe conservato il carattere facoltativo della relativa applicazione
(introdotto dalla riforma del 1974), salvo che per i reati di cui all’art. 407,
comma 2, lettera a), del codice di
procedura penale. Rimarrebbe pertanto integro il potere del giudice di
escludere l’applicazione della circostanza aggravante – quantomeno agli effetti
della commisurazione della pena – allorché ritenga che la ricaduta nel reato
non sia indice di insensibilità etico-sociale del colpevole, o sia comunque
irrilevante dal punto di vista della tutela sociale, in considerazione del
lungo tempo trascorso dal precedente reato. Con la conseguenza che, anche nelle
ipotesi di recidiva reiterata, il giudice sarebbe tuttora in grado di adeguare
il trattamento sanzionatorio alla effettiva gravità del fatto ed alla reale
necessità di rieducazione del colpevole.
Considerato in diritto
1.1. – Il
Tribunale di Ravenna, con tre distinte ordinanze (r.o.
n. 102, n. 103 e n. 104 del 2006) ed il Tribunale di Cagliari, con una
ulteriore ordinanza (r.o. n. 295 del 2006), dubitano
della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e
27, terzo comma, della Costituzione, dell’art. 69, quarto comma, del codice
penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, nella
parte in cui, nel disciplinare il concorso di circostanze eterogenee,
stabilisce il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva
reiterata, prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen.
Ad avviso dei
rimettenti, la neointrodotta regola limitativa degli
esiti del giudizio di comparazione tra circostanze – giudizio che mira a
permettere al giudice il perfetto adeguamento della pena al caso concreto – si
porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza e con la funzione
rieducativa della pena, determinando, per un verso, un livellamento del
trattamento sanzionatorio di situazioni assai diverse; e imponendo, per un
altro verso, l’applicazione di pene che possono risultare manifestamente
sproporzionate all’entità del fatto, la cui espiazione non consentirebbe la
rieducazione del condannato.
1.2. – Analogo
dubbio di costituzionalità è sollevato dal Tribunale di Livorno (ordinanza r.o. n. 405 del 2006), a cui parere il nuovo art. 69,
quarto comma, cod. pen., violerebbe, in parte qua, tanto l’art. 3, primo
comma, Cost., stante il radicale divario – a fronte
del medesimo fatto – tra la pena che, per effetto della norma censurata, può
essere inflitta al recidivo reiterato e quella irrogabile a chi non lo è;
quanto l’art. 27, terzo comma, Cost., attesa la
sproporzione della risposta punitiva alla effettiva gravità dell’illecito
commesso, che la norma stessa sarebbe idonea a determinare.
1.3. – Il
Tribunale di Cagliari, con quattro ordinanze (r.o. n.
223, n. 235, n. 297 e n. 404 del 2006), sottopone a scrutinio di
costituzionalità l’art. 69, quarto comma, cod. pen.,
nella medesima articolazione precettiva, con riferimento agli artt. 3, 25,
secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost.
Avendo di mira,
in particolare, le conseguenze che la norma denunciata determinerebbe sul
trattamento sanzionatorio dei delitti di produzione, traffico e detenzione
illeciti di sostanze stupefacenti – in termini di ineluttabile
"neutralizzazione”, rispetto al recidivo reiterato, della sensibilissima
mitigazione della risposta punitiva prefigurata per l’attenuante del fatto «di
lieve entità», di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R.
9 ottobre 1990, n. 309 – il giudice rimettente ritiene compromessi, anzitutto,
i principi di ragionevolezza e di eguaglianza. Con l’escludere, infatti, che le
attenuanti possano essere ritenute prevalenti sulla recidiva reiterata, il
nuovo art. 69, quarto comma, cod. pen., da un lato,
imporrebbe di punire allo stesso modo fatti di diversa gravità concreta (in
specie, l’illecita detenzione o lo spaccio di stupefacenti di lieve entità
verrebbero puniti con la medesima pena prevista i fatti non lievi); dall’altro
lato, farebbe sì che vengano puniti in modo del tutto diverso fatti
oggettivamente identici o analoghi (quali, in specie, l’illecita detenzione o
lo spaccio di stupefacenti di lieve entità), sulla base del solo elemento
differenziale rappresentato dalla qualità di recidivo reiterato dell’autore.
Il legislatore
avrebbe introdotto, in sostanza, tramite la previsione normativa denunciata, un
«automatismo sanzionatorio» atto a determinare una «indiscriminata
omologazione» dei recidivi reiterati: «omologazione» da reputare peraltro
irrazionale, in quanto basata su una presunzione assoluta di pericolosità che –
prescindendo dalla natura dei delitti cui si riferiscono le precedenti
condanne, dall’epoca della loro commissione e dalla identità della loro indole
rispetto a quella del nuovo reato – non troverebbe fondamento nell’«id quod plerumque accidit».
Ne risulterebbe
quindi leso anche l’art. 25, secondo comma, Cost., il
quale sancisce un legame indissolubile tra la sanzione penale e la commissione
di un «fatto»: impedendo, così, che si punisca la mera pericolosità sociale
presunta o l’«atteggiamento interiore» del reo.
Da ultimo, la
disposizione impugnata si porrebbe in contrasto con l’art. 27, primo e terzo
comma, Cost., avuto riguardo sia al principio di
personalità della responsabilità penale, il quale esclude che la pena possa
essere aggravata solo per soddisfare esigenze di prevenzione generale o di
difesa sociale, indipendentemente dalla valutazione della personalità del
condannato; sia al principio di proporzionalità della pena – insito nella
funzione retributiva – il quale postula la congruità della risposta punitiva
rispetto alla gravità concreta del fatto; sia alla finalità rieducativa della
pena, che verrebbe frustrata dalla irrogazione di pene eccessivamente severe in
rapporto all’effettiva entità del reato commesso.
1.4. – Lo stesso
Tribunale di Cagliari ha sollevato questione di legittimità costituzionale
della medesima norma, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27,
primo e terzo comma, Cost., con due ulteriori
ordinanze (r.o. n. 307 e n. 559 del 2006), che
svolgono censure in parte differenziate.
Il Tribunale
rimettente ritiene nell’occasione leso l’art. 3 Cost.,
in rapporto al principio di ragionevolezza, sotto un duplice profilo. In primo
luogo, perché la norma censurata introdurrebbe una presunzione legale di
pericolosità sociale del recidivo priva di fondamento razionale, stante il
carattere «perpetuo» della recidiva, la quale si configura – fatta eccezione
per la recidiva infraquinquennale – indipendentemente
dal lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’ultimo reato. In secondo
luogo, perché il divieto di «subvalenza» della
recidiva reiterata risulta sancito – in assunto, altrettanto irrazionalmente –
in rapporto a tutte le attenuanti: e dunque anche a quelle a carattere
oggettivo (non omogenee rispetto alla recidiva, in quanto non riferite alla
personalità dell’autore, ma espressive del minor disvalore del fatto) e a
quelle ad effetto speciale, cui è sovente sottesa una valutazione legislativa
del tutto diversa in ordine alla gravità del fatto medesimo.
Gli artt. 25,
secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost.
sarebbero d’altro canto vulnerati in quanto l’«efficacia determinante»
attribuita – ai fini della commisurazione del trattamento sanzionatorio – ai
precedenti penali del reo, e dunque al «tipo d’autore», farebbe sì che la pena
acquisti caratteri di «esemplarità», incompatibili con i principi di offensività del reato e della finalità rieducativa della
pena.
1.5. – Con tre
ordinanze di analogo tenore (r.o. n. 308, n. 408 e n.
615 del 2006), il Tribunale di Perugia dubita, in riferimento agli artt. 3 e
27, terzo comma, Cost., della legittimità
costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen.,
come modificato dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui
esclude che possa ritenersi prevalente sulla recidiva reiterata la circostanza
attenuante ad effetto speciale del fatto di lieve entità, prevista dall’art.
73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del
A parere di tale
giudice rimettente, i parametri costituzionali evocati risulterebbero
compromessi a fronte della impossibilità di giustificare – in presenza di un
reato in materia di stupefacenti, qualificabile come di lieve entità – l’enorme
divario tra la pena minima di un anno di reclusione, oltre la multa,
applicabile in presenza dell’attenuante de
qua; e quella di sei anni di reclusione, oltre la multa, che dovrebbe
essere invece inflitta ove l’attenuante stessa non possa essere ritenuta
prevalente, ma, al più, solo equivalente rispetto alla concorrente aggravante
della recidiva reiterata: donde la lesione del principio di eguaglianza e della
finalità rieducativa della pena.
1.6. – Il
Tribunale di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma,
25, secondo comma, 27, terzo comma, 101, secondo comma, e 111, primo e sesto
comma, Cost., questione di legittimità costituzionale
dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come
modificato dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui
stabilisce il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle
circostanze aggravanti inerenti alla persona del colpevole, nel caso previsto
dall’art. 99, quarto comma, cod. pen. (ordinanza r.o. n. 406 del 2006).
Secondo il
giudice a quo, la norma impugnata
violerebbe gli artt. 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.,
in quanto – prevedendo una indefettibile elisione delle attenuanti concorrenti
nei confronti del recidivo reiterato – non consentirebbe al giudice di
infliggere una pena adeguata alla effettiva offensività
della singola condotta criminosa e conforme alla finalità rieducativa della
sanzione penale.
Verrebbero di
conseguenza compromessi anche gli artt. 101, secondo comma, e 111, primo e
secondo comma, Cost., stante l’impossibilità, per il
giudice, «di adempiere, nel processo, all’obbligo di legge di adeguare la
sanzione al caso concreto» e di «irrogare una sanzione che abbia finalità
rieducativa».
La disposizione
denunciata lederebbe, infine, l’art. 3 Cost., facendo
sì che a condotte estremamente diverse, sotto il profilo della offensività, consegua una identica sanzione.
2. – Le ordinanze
di rimessione sollevano questioni di costituzionalità inerenti alla medesima
norma, svolgendo altresì censure in larga parte identiche o analoghe, onde i
relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.
3. – Le questioni
sono inammissibili.
3.1. – I giudici a quibus
dubitano, in riferimento a plurimi parametri costituzionali, della conformità a
Costituzione dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art.
3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui – nel disciplinare il
concorso di circostanze eterogenee – vieta al giudice di ritenere le
circostanze attenuanti prevalenti sull’aggravante della recidiva reiterata,
prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen. La
maggioranza dei rimettenti sottopone a scrutinio tale divieto nella sua
globalità; mentre il solo Tribunale di Perugia si duole, in modo specifico, del
fatto che la preclusione del giudizio di prevalenza sia stata sancita anche in
rapporto alla circostanza attenuante ad effetto speciale del fatto di lieve
entità, prevista dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n.
309 del 1990, relativamente ai delitti di produzione, traffico e detenzione
illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope.
Le censure
formulate dai giudici a quibus trovano, in ogni caso, la loro comune premessa
fondante nell’assunto per cui la norma denunciata avrebbe introdotto una
indebita limitazione del potere-dovere del giudice di adeguamento della pena al
caso concreto – adeguamento funzionale alla realizzazione dei principi di
eguaglianza, di necessaria offensività del reato, di
personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena
– introducendo un «automatismo sanzionatorio», correlato ad una presunzione iuris et de iure di pericolosità sociale del
recidivo reiterato. Si tratterebbe, peraltro, di una presunzione irrazionale, a
fronte dei caratteri di "perpetuità” e "genericità” propri della recidiva, la
quale – fatta eccezione per le ipotesi di recidiva aggravata previste dai
numeri 1) e 2) dell’art. 99, secondo comma, cod. pen.
(recidiva specifica e infraquinquennale) – si
configura a prescindere dal tempo trascorso dalla condanna precedente e dalla
identità dell’indole fra il nuovo delitto e quelli anteriormente commessi.
Ad avviso dei
rimettenti, cioè, il fatto che il colpevole del nuovo reato abbia riportato due
o più precedenti condanne per delitti non colposi – quali che essi siano –
farebbe inevitabilmente scattare il meccanismo limitativo degli esiti del
giudizio di bilanciamento tra circostanze prefigurato dall’art. 69, quarto
comma, cod. pen.: con l’effetto di "neutralizzare” –
anche quando si sia in presenza di precedenti penali remoti, non gravi e
scarsamente significativi in rapporto alla natura del nuovo delitto – la
diminuzione di pena connessa alle circostanze attenuanti concorrenti,
indipendentemente dalla natura e dalle caratteristiche di queste ultime.
Siffatto assunto
poggia peraltro, a sua volta, sul presupposto – implicito e non motivato – che,
a seguito della legge n. 251 del 2005, la recidiva reiterata sia divenuta
obbligatoria e non possa essere, dunque, discrezionalmente esclusa dal giudice
– quantomeno agli effetti della commisurazione della pena – in correlazione
alle peculiarità del caso concreto; con la conseguenza di rendere inapplicabile
la censurata disciplina in tema di bilanciamento con le circostanze attenuanti
concorrenti.
3.2. – Quella che
i rimettenti danno per scontata non rappresenta, tuttavia, l’unica lettura
astrattamente possibile del vigente quadro normativo.
A sostegno della
tesi della obbligatorietà, in ogni caso, della recidiva reiterata, regolata dal
quarto comma dell’art. 99 cod. pen. (nel nuovo testo
introdotto dall’art. 4 della legge n. 251 del 2005) – così come della recidiva
cosiddetta pluriaggravata, di cui al terzo comma del medesimo articolo –
parrebbe militare, in effetti, prima facie, l’argomento letterale. L’avvenuta utilizzazione,
in tali disposizioni, con riferimento al previsto aumento di pena, del verbo
essere all’indicativo presente («è») – in luogo della voce verbale «può», che
compariva nel testo precedente, e che figura tuttora nei primi due commi dello
stesso art. 99 cod. pen., con riferimento alla
recidiva semplice e alla recidiva aggravata – indurrebbe difatti a ritenere che
il legislatore abbia inteso ripristinare, rispetto alle due forme di recidiva
considerate, il regime di obbligatorietà preesistente alla riforma attuata dal
decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito, con modificazioni, nella legge
7 giugno 1974, n. 220.
Nondimeno –
secondo quanto osservato da più parti – la nuova formula normativa potrebbe
essere letta anche nel diverso senso che l’indicativo presente «è» si
riferisca, nella sua imperatività, esclusivamente alla misura dell’aumento di
pena conseguente alla recidiva pluriaggravata e reiterata – aumento che, a
differenza che per l’ipotesi della recidiva aggravata, di cui al secondo comma
dell’art. 99 cod. pen., il legislatore del
La soluzione
interpretativa in parola risulterebbe avvalorata – ad avviso dei suoi fautori –
soprattutto dal rilievo che l’unica previsione espressa di obbligatorietà della
recidiva, presente nell’art. 99 cod. pen., è quella
racchiusa nell’attuale quinto comma; quest’ultimo – con disposizione collocata
dopo la regolamentazione di tutte le forme di recidiva – stabilisce che, «se si
tratta di uno dei delitti indicati all’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale,
l’aumento della pena per la recidiva è obbligatorio e, nei casi indicati al
secondo comma, non può essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere
per il nuovo delitto». Da tale previsione si desumerebbe che, al di fuori delle
ipotesi espressamente contemplate, il legislatore abbia inteso mantenere il
carattere della facoltatività: e che, dunque – per quanto al presente più
interessa – la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria unicamente ove
concernente uno dei delitti indicati dal citato art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, il
quale reca un elenco di reati ritenuti dal legislatore, a vari fini, di
particolare gravità e allarme sociale.
Avendo omesso di
verificare la praticabilità di tale diversa opzione interpretativa, i giudici
rimettenti non si sono posti neppure l’ulteriore problema – anch’esso
rilevante, in rapporto al thema decidendum – della corretta esegesi della previsione
del quinto comma dell’art. 99 cod. pen., dianzi
riprodotta: quello, cioè, di stabilire se – affinché divenga operante il regime
di obbligatorietà della recidiva ivi prefigurato – debba rientrare nell’elenco
dei gravi reati, di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen.,
il delitto oggetto della precedente condanna; ovvero il nuovo delitto che vale
a costituire lo status di recidivo;
o, piuttosto, indifferentemente l’uno o l’altro, o addirittura entrambi;
soluzioni, queste, tutte alternativamente prospettate dai primi interpreti della
norma, a fronte del suo dettato letterale.
3.3. – Nei limiti
in cui si escluda che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria, è
d’altro canto possibile ritenere – come rilevato, nella sostanza, anche
dall’Avvocatura dello Stato – che venga meno, eo ipso, anche l’«automatismo» oggetto di censura, relativo alla
predeterminazione dell’esito del giudizio di bilanciamento tra circostanze
eterogenee sulla base di una asserita presunzione assoluta di pericolosità
sociale. Conformemente, infatti, ai criteri di corrente adozione in tema di
recidiva facoltativa, il giudice applicherà l’aumento di pena previsto per la
recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso
concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione
dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e
della maggiore pericolosità del reo.
Di conseguenza,
allorché la recidiva reiterata concorra con una o più attenuanti, è possibile
sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento –
soggetto al regime limitativo di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen. – unicamente quando, sulla base dei criteri dianzi
ricordati, ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire, di
per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede; mentre, in
caso contrario, non vi sarà luogo ad alcun giudizio di comparazione: rimanendo
con ciò esclusa la censurata elisione automatica delle circostanze attenuanti.
I giudici a quibus non
indicano, del resto, quali argomenti si oppongano ad una simile conclusione. In
particolare, essi non si chiedono se la conclusione stessa possa trovare
ostacolo nell’indirizzo dominante della giurisprudenza di legittimità –
formatosi anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 (e
peraltro avversato dalla dottrina largamente maggioritaria) – in forza del
quale la facoltatività della recidiva atterrebbe unicamente all’aumento di
pena, e non anche agli altri effetti penali della stessa, rispetto ai quali il
giudice sarebbe comunque vincolato a ritenere esistente la circostanza; o se
assuma, al contrario, rilievo dirimente – pure nella cornice di detto indirizzo
– la considerazione che il giudizio di bilanciamento attiene anch’esso al
momento commisurativo della pena. In effetti, qualora
si ammettesse che la recidiva reiterata, da un lato, mantenga il carattere di
facoltatività, ma dall’altro abbia efficacia comunque inibente in ordine
all’applicazione di circostanze attenuanti concorrenti – siano esse ad effetto
comune o speciale – ne deriverebbe la conseguenza, all’apparenza paradossale,
di una circostanza "neutra” agli effetti della determinazione della pena (ove
non indicativa di maggiore colpevolezza o pericolosità del reo), nell’ipotesi
di reato non (ulteriormente) circostanziato; ma in concreto "aggravante” –
eventualmente, anche in rilevante misura – nell’ipotesi di reato circostanziato
"in mitius”.
In altre parole, appare assai problematico, sul piano logico, supporre che la
recidiva reiterata non operi rispetto alla pena del delitto in quanto tale e
determini, invece, un sostanziale incremento di pena rispetto al delitto
attenuato: profilo problematico,
questo, con il quale i giudici a quibus avrebbero dovuto necessariamente misurarsi.
3.4. – In tale
ottica, l’eventuale esclusione dell’obbligatorietà della recidiva reiterata,
nei termini precedentemente indicati, verrebbe dunque ad inficiare tanto la
motivazione sulla rilevanza che quella sulla non manifesta infondatezza delle
questioni, formulate dai rimettenti.
Sotto il primo
profilo, vale infatti osservare che, alla
stregua di quanto riferito nelle ordinanze di rimessione, tutti i giudici
rimettenti – fatta eccezione per il solo Tribunale di Ravenna, in rapporto
all’ordinanza r.o. n. 104 del 2006 – procedono per
delitti non compresi nell’elenco dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc.
pen. I delitti di produzione, traffico e detenzione
illeciti di sostanze stupefacenti (oggetto dei giudizi a quibus in rapporto a tredici delle
quindici ordinanze di rimessione) risultano difatti inclusi nel suddetto elenco
solo ove ricorrano le ipotesi aggravate ai sensi degli artt. 80, comma 2, e
74 del d.P.R. n. 309 del 1990; mentre il delitto di
estorsione (cui ha riguardo l’ordinanza r.o. n. 102
del 2006) vi figura solo se
aggravato ai sensi dell’art. 629, secondo comma, cod. pen.
(numeri 2 e 6 dell’art. 407, comma 2, lettera a, cod. proc. pen.).
I rimettenti che procedono per i delitti ora indicati non riferiscono,
peraltro, dell’avvenuta contestazione delle predette aggravanti.
D’altro canto, tutte le ordinanze di rimessione –
senza alcuna eccezione – o non
indicano i delitti ai quali si riferiscono le precedenti condanne riportate
dagli imputati, ovvero (come la citata ordinanza del Tribunale di Ravenna r.o. n. 104 del 2006) fanno riferimento a condanne relative
a delitti non compresi nell’elencazione dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc.
pen.
Sotto il secondo
profilo, poi – al lume di quanto dianzi indicato – sia il problema dei limiti
di obbligatorietà della recidiva reiterata, sia quello della necessità o meno
di effettuare comunque il giudizio di comparazione, a fronte di una recidiva
facoltativa, incidono anche sulla valutazione di non manifesta infondatezza
della questione formulata dai singoli rimettenti: questi ultimi – espressamente
o implicitamente – si dolgono tutti del fatto che la presunzione di
pericolosità, sottesa alla norma denunciata, scatti a prescindere dalla natura
dei reati di cui si discute.
La stessa
ordinanza del Tribunale di Ravenna r.o. n. 104 del
2006 – l’unica emessa, come detto, nell’ambito di un processo per delitti
inclusi nella lista dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen.
(in specie, rapina e violenza sessuale aggravate dall’uso di armi: numeri 2 e
7-bis della citata disposizione) –
afferma, del resto, expressis verbis, che
la valutazione circa la ragionevolezza della scelta legislativa di limitare i
possibili esiti del giudizio di bilanciamento potrebbe essere diversa, in
presenza di un divieto di prevalenza delle attenuanti limitato ai soli recidivi
reiterati «condannati per reati di una certa gravità»; e ciò analogamente a
quanto la medesima legge n. 251 del
4. – L’assenza di
indirizzi consolidati sulle tematiche dianzi evidenziate (facoltatività o meno
della "nuova” recidiva reiterata; conseguenze della facoltatività sul giudizio
di bilanciamento) – assenza del tutto ovvia alla data delle ordinanze di
rimessione (in quanto di poco posteriori all’entrata in vigore della novella) –
è riscontrabile anche allo stato attuale, essendosi
per questi motivi
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito
dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e
alla legge 26 luglio 1975, n.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5
giugno 2007.
F.to:
Maria
Depositata
in