CONSULTA ONLINE
SENTENZA N. 250
ANNO 2010
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
-
Francesco
AMIRANTE
Presidente
-
Ugo
DE SIERVO
Giudice
-
Paolo
MADDALENA
"
-
Alfio
FINOCCHIARO
"
-
Alfonso
QUARANTA
"
-
Franco
GALLO
"
- Luigi
MAZZELLA
"
-
Gaetano
SILVESTRI
"
-
Sabino
CASSESE
"
- Maria
Rita
SAULLE
"
-
Giuseppe
TESAURO
"
- Paolo
Maria
NAPOLITANO
"
-
Giuseppe
FRIGO
"
-
Alessandro
CRISCUOLO
"
-
Paolo
GROSSI
"
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286
(Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a),
della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza
pubblica), promossi dal Giudice di pace di Lecco, sezione distaccata di Missaglia, con ordinanza del 1° ottobre 2009 e dal Giudice
di pace di Torino con ordinanza del 6 ottobre 2009, rispettivamente iscritte ai
nn. 292 e 300 del registro ordinanze 2009 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn.
49 e 51, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti gli atti di intervento del Presidente
del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 giugno
2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in
fatto
1.1. – Con ordinanza del 1°
ottobre 2009, il Giudice di pace di Lecco, sezione distaccata di Missaglia, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27 e
117 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art.
10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della
legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), il
quale punisce con l’ammenda da
Il giudice a quo riferisce
di essere investito del processo penale nei confronti di un cittadino
extracomunitario, imputato del reato previsto dalla norma censurata «perché
faceva ingresso e si tratteneva nel territorio dello Stato senza
autorizzazione» (fatto che, nel capo di imputazione, viene indicato come
commesso il 13 agosto 2009).
L’imputazione trae origine
da un controllo effettuato da una pattuglia dei Carabinieri, in esito al quale
si era accertato che lo straniero – sprovvisto di qualsiasi documento di
riconoscimento – si trovava illegalmente sul territorio nazionale, non avendo
richiesto nel termine di legge il permesso di soggiorno dopo l’ingresso in
Italia, avvenuto nel dicembre 2007 attraverso il confine nella zona di
Ventimiglia. Nei suoi confronti era stato quindi emesso decreto prefettizio di
espulsione e conseguenziale ordine del Questore di
Lecco di lasciare il territorio dello Stato entro cinque giorni: provvedimento,
quest’ultimo, motivato con l’impossibilità tanto di procedere ad un immediato
accompagnamento coattivo alla frontiera dell’espellendo, essendo necessario
effettuare accertamenti supplementari in ordine alla sua identità e acquisire
un valido documento per l’espatrio; quanto di trattenerlo presso un centro di
identificazione ed espulsione, per indisponibilità di posti. Parallelamente, lo
straniero era stato tratto a giudizio per rispondere della contravvenzione di
cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998.
Ciò premesso in punto di
fatto, il rimettente reputa che la norma impugnata sia costituzionalmente
illegittima anzitutto nella parte in cui non annovera, tra gli elementi
costitutivi del reato da essa delineato, l’assenza di un «giustificato motivo»,
così da evitare la punizione di soggetti la cui irregolare permanenza in
Italia, anche se non coperta da una vera e propria causa di giustificazione,
risulti comunque non «rimproverabile» per valide ragioni oggettive o soggettive.
Alla luce di quanto
affermato dalla Corte costituzionale in rapporto al reato di cui all’art. 14,
comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 (sono citate le sentenze n. 5 del 2004 e
n. 22 del 2007),
si tratterebbe, infatti, di una previsione indispensabile al fine di rendere la
fattispecie criminosa conforme ai principi di colpevolezza e di proporzionalità
(art. 27 Cost.), potendo essa trovare applicazione in situazioni disparate, e
anche nei confronti di soggetti che non comprendono la lingua italiana o che
entrano in contatto per la prima volta con l’ordinamento nazionale.
Ne deriverebbe anche la
violazione dell’art. 3 Cost., stante l’irrazionale disparità di trattamento
rispetto all’ipotesi criminosa di cui al citato art. 14, comma 5-ter, che
contempla, di contro, il predetto elemento negativo. Le due figure di reato
risulterebbero, infatti, pienamente assimilabili, colpendo entrambe la
permanenza illegale dello straniero nel territorio dello Stato: in un caso
(art. 10-bis), per generica violazione delle norme del d.lgs. n. 286 del 1998;
nell’altro (art. 14, comma 5-ter), per inosservanza specifica dell’ordine del
questore di lasciare il territorio nazionale entro cinque giorni. La differente
natura dell’obbligo violato potrebbe giustificare, bensì, il diverso
trattamento sanzionatorio delle due ipotesi, ma non l’adozione di difformi
criteri di valutazione della rimproverabilità della
condotta.
Nel caso di specie,
l’omissione censurata avrebbe impedito alla difesa di fornire la prova – in
quanto allo stato non rilevante – della circostanza che, dopo l’8 agosto 2009
(data di entrata in vigore della legge n. 94 del 2009), sarebbe stato
impossibile o quantomeno difficoltoso, per l’imputato, lasciare il territorio
dello Stato prima di divenire destinatario del provvedimento di espulsione.
Il rimettente rileva, per
altro verso, che, ai sensi del comma 5 dell’art. 10-bis, il giudice deve
emettere sentenza di non luogo a procedere per il reato in esame nel caso in
cui lo straniero sia stato materialmente espulso, ovvero respinto ai sensi
dell’art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998. Anche per tale parte la
norma impugnata violerebbe i principi di eguaglianza (art. 3 Cost.) e di
colpevolezza (art. 27 Cost.), trattando la medesima condotta in modo
differenziato a seconda che l’autorità amministrativa – anche in conseguenza di
proprie scelte organizzative – riesca ad eseguire il respingimento o
l’espulsione, o, al contrario, non avendone la possibilità, impartisca allo
straniero l’ordine di lasciare il territorio dello Stato, a proprie spese, nel
termine di cinque giorni: nel qual caso lo straniero si troverebbe esposto alla
severa pena – reclusione da uno a quattro anni – prevista dall’art. 14, comma
5-ter, per l’inottemperanza a tale ordine.
La norma censurata
violerebbe, da ultimo, l’art. 117 Cost., ponendosi in contrasto con le
previsioni della direttiva 2008/115/CE del 16 dicembre 2008, recante norme e
procedure comuni applicabili negli Stati membri per il rimpatrio di cittadini
di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. L’art. 7, paragrafo 1, della
citata direttiva identifica, infatti, la modalità ordinaria di esecuzione dell’espulsione
nel rimpatrio volontario, prevedendo che, a tale fine, debba essere accordato
allo straniero «un periodo congruo di durata compresa fra sette e trenta
giorni, fatte salve le deroghe di cui paragrafi 2 e 4».
La configurazione come reato
di qualunque ingresso o permanenza illegale nello Stato mirerebbe ad eludere
tale vincolo comunitario, rendendo operante la deroga prevista dall’art. 2,
paragrafo 2, lettera b), della direttiva, in forza della quale gli Stati membri
possono decidere di non applicare la direttiva stessa «ai cittadini di paesi
terzi sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di
sanzione penale». In tal modo, la modalità ordinaria di esecuzione
dell’espulsione resterebbe l’accompagnamento immediato alla frontiera a mezzo
della forza pubblica, conformemente all’attuale previsione dell’art. 13, comma
4, del d.lgs. n. 286 del 1998.
Né varrebbe opporre che il
termine per l’adeguamento della legislazione degli Stati membri alla direttiva
– fissato al 24 dicembre 2010 (art. 20) – non è ancora scaduto. Alla data
dell’8 agosto 2009, infatti, la direttiva 2008/115/CE era già vigente da
diversi mesi, essendo la stessa entrata in vigore il ventesimo giorno
successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (art. 22). Di
conseguenza – secondo il rimettente – per escludere che l’art. 10-bis del
d.lgs. n. 286 del 1998 sia contrario alla direttiva, bisognerebbe ipotizzare
che la norma interna sia stata emanata con la volontà di rimuoverla o
modificarla prima della scadenza del termine ultimo di adeguamento: volontà non
desumibile, per contro, né dalla lettera della norma stessa – che non reca
alcuna limitazione temporale di efficacia – né dalla sua ratio.
1.2. – È intervenuto nel
giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le
questioni siano dichiarate infondate, salvo per quanto attiene alla seconda, da
reputare inammissibile.
Riguardo alla mancata
previsione del «giustificato motivo», la difesa dello Stato rileva che la
fattispecie criminosa resta comunque soggetta ai principi generali in materia
penale, che comprendono plurime cause di non punibilità, tra cui la incolpevole
ignoranza della norma incriminatrice, l’inesigibilità del comportamento lecito
e la «buona fede»: donde l’insussistenza di una disparità di trattamento
rispetto ad altre figure criminose previste dalla medesima fonte normativa.
Con riferimento, poi, alla
prevista pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere nel caso di
avvenuta espulsione o di respingimento dello straniero, la questione sarebbe
inammissibile, in quanto il rimettente criticherebbe, in realtà, l’art. 14,
comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, che non è oggetto di contestazione nel
giudizio a quo. La censura risulterebbe comunque infondata, sia perché le due
fattispecie non sarebbero assimilabili, come emerge dal diverso trattamento
sanzionatorio; sia perché l’applicazione della pena dipenderebbe comunque dallo
straniero interessato, che entra o si trattiene illecitamente nel territorio
dello Stato, e non già dalla pubblica amministrazione, che non riesca a
respingerlo alla frontiera o ad espellerlo fisicamente.
Palesemente insussistente
sarebbe, infine, l’asserita violazione dell’art. 117 Cost., non essendo ancora
decorso il termine per adeguare l’ordinamento nazionale alla direttiva invocata
dal rimettente.
2.1. – Con ordinanza emessa
il 6 ottobre 2009, nell’ambito di un processo penale nei confronti di uno
straniero imputato del reato previsto dalla stessa norma censurata, il Giudice
di pace di Torino ha sollevato plurime questioni di legittimità costituzionale
di detta norma (art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998), in riferimento agli
artt. 2, 3, 24, secondo comma, 25, secondo comma, e 97, primo comma, Cost.
Ad avviso del giudice a quo,
sussisterebbe violazione dell’art. 3 Cost. per contrasto con il principio di
eguaglianza, sotto un triplice profilo.
Anzitutto, perché – punendo
indiscriminatamente chi sia entrato o si sia trattenuto illegalmente nel
territorio dello Stato – equiparerebbe situazioni assai diverse e soggetti di
differente pericolosità sociale. Essa colpirebbe, infatti, allo stesso modo
tanto lo straniero che, entrato clandestinamente in Italia, vi rimanga vivendo
dei proventi di attività criminose, quanto colui il quale, anche se entrato
irregolarmente o trattenutosi senza permesso, si sia tuttavia integrato nella
comunità sociale, vivendo onestamente; quanto, ancora, chi, entrato
legittimamente (a esempio, per un soggiorno di breve durata), si sia trattenuto
oltre il termine del visto di ingresso per motivi puramente contingenti, non
sempre configurabili come cause di forza maggiore (quali l’aver perso l’aereo o
il non aver ricevuto tempestivamente dai parenti all’estero il denaro
necessario per l’acquisto del biglietto di viaggio).
Lo stesso legislatore si
sarebbe, del resto, reso conto della diversità delle situazioni che possono
venire in rilievo, tanto da introdurre, con l’art. 1-ter del decreto-legge 1° luglio
2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito,
con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, uno speciale regime per
gli stranieri soggiornanti in modo irregolare che risultassero svolgere
attività di assistenza a terzi, consentendo loro di accedere ad una procedura
di sanatoria nelle cui more il procedimento penale rimaneva sospeso.
L’irragionevolezza della
nuova fattispecie penale si coglierebbe anche in rapporto al trattamento
sanzionatorio, considerato nel suo complesso: cioè, non soltanto in rapporto
alla comminatoria della pena dell’ammenda da
Una ulteriore violazione del
principio di eguaglianza deriverebbe dal fatto che la norma censurata, a
differenza dell’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, non subordina
la punibilità della permanenza dello straniero nel territorio dello Stato
all’assenza di un «giustificato motivo»: formula, questa, che – come chiarito
dalla Corte costituzionale (sentenza n. 5 del
2004) – è diretta «ad escludere la configurabilità del reato in presenza di
situazioni ostative di particolare pregnanza, le quali, anche senza integrare
cause di giustificazione in senso tecnico, incidono sulla stessa possibilità
soggettiva od oggettiva di adempiere all’intimazione, escludendola ovvero
rendendola difficoltosa o pericolosa». In tal modo, l’autore della
contravvenzione prevista dall’art. 10-bis risulterebbe irrazionalmente posto in
condizione deteriore rispetto all’autore del delitto di cui all’art. 14, comma
5-ter, che pure è più grave ed assorbe la contravvenzione in forza della
clausola «salvo che il fatto costituisca più grave reato», con cui la norma
impugnata esordisce.
Essa violerebbe, inoltre,
l’art. 24, secondo comma, Cost. in quanto renderebbe punibili tutti gli
stranieri irregolarmente presenti in Italia al momento dell’entrata in vigore
della legge n. 94 del 2009, i quali non si siano spontaneamente allontanati dal
territorio dello Stato; e ciò, senza che siano stati previsti un termine e una
«modalità operativa» per ottemperare al precetto. Con la conseguenza che a
detti soggetti non rimarrebbe che uscire clandestinamente dall’Italia per non
autodenunciarsi, in contrasto con il principio nemo tenetur se detegere, costituente
espressione del diritto di difesa.
La mancata previsione della
possibilità di un allontanamento volontario e delle relative modalità colliderebbe
anche con la direttiva 2008/115/CE, la quale stabilisce, all’art. 7, che –
fatta eccezione per talune specifiche ipotesi – la decisione di rimpatrio debba
fissare per la partenza volontaria un periodo congruo, di durata compresa tra i
sette e i trenta giorni, prorogabile, ove necessario, in rapporto alle
circostanze concrete.
L’art. 10-bis del d.lgs. n.
286 del 1998 risulterebbe incompatibile con l’art. 24, secondo comma, Cost.
anche sotto un diverso profilo. A mente dell’art. 38 del medesimo decreto
legislativo, difatti, i minori stranieri comunque presenti sul territorio dello
Stato sono soggetti all’obbligo scolastico, al pari dei loro coetanei italiani:
obbligo del cui adempimento sono responsabili i genitori, sotto comminatoria di
sanzione penale (art. 731 del codice penale). A tale riguardo, l’art. 6, comma
2, del d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dalla legge n. 94 del 2009,
prevede, bensì, che in deroga alla regola generale ivi stabilita, lo straniero
non è tenuto ad esibire alla pubblica amministrazione i documenti attestanti la
regolarità del suo soggiorno ai fini dell’ottenimento dei provvedimenti
riguardanti – oltre le attività sportive e ricreative a carattere temporaneo e
l’accesso alle prestazioni sanitarie di cui all’art. 35 – anche le prestazioni
scolastiche obbligatorie. Tuttavia, mentre l’art. 35, comma 5, del d.lgs. n.
286 del 1998 stabilisce espressamente che l’accesso alle strutture sanitarie da
parte dello straniero non in regola non possa comportare alcun tipo di segnalazione
all’autorità, salvi i casi in cui sia obbligatorio il referto a parità di
condizioni con il cittadino italiano, analoga statuizione non è ripetuta in
rapporto alle prestazioni scolastiche obbligatorie. In tal modo, quindi, lo
straniero – pur non dovendo presentare alcun documento attestante la regolarità
del suo soggiorno ai fini dell’iscrizione dei propri figli a scuola – potrebbe
essere comunque segnalato come «clandestino» dal personale scolastico che
rivesta le qualifiche di cui agli artt. 361 e 362 del codice penale e che venga
a conoscenza in altro modo della sua condizione di irregolarità. Stante,
peraltro, la facilità con la quale detta condizione può emergere nel corso
dell’attività scolastica, il migrante che voglia rispettare la legge posta a
presidio del diritto-dovere all’istruzione sarebbe costretto, in pratica, ad
autodenunciarsi per il reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998,
con ulteriore violazione del principio «nemo tenetur se detegere».
Censurabile sarebbe anche la
circostanza che la norma impugnata non preveda alcuna forma di garanzia a
favore dello straniero clandestino che intenda chiedere al tribunale per i
minorenni, ai sensi dell’art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998, l’autorizzazione a
permanere nel territorio italiano per un periodo di tempo determinato, anche in
deroga alle altre disposizioni del testo unico, per gravi motivi legati alla
tutela di un familiare di minore età. Con la presentazione dell’istanza in
parola, lo straniero verrebbe, dunque, una volta ancora a «certificare» la
propria posizione di irregolarità: con conseguente violazione tanto del
principio «nemo tenetur se detegere», quanto dell’art. 3 Cost., per ingiustificata
disparità di trattamento rispetto allo straniero che abbia presentato domanda
di protezione internazionale. Il comma 6 dell’art. 10-bis stabilisce, infatti,
che in quest’ultimo caso il procedimento penale resti sospeso e che
l’accoglimento della domanda comporti la declaratoria di non luogo a procedere
per il reato in esame.
Il rimettente osserva, per
altro verso, come la disciplina dettata dalla norma impugnata risulti
congegnata, nel suo complesso, in vista della finalità – ritenuta prioritaria –
di allontanare lo straniero dal territorio dello Stato. Ai fini dell’esecuzione
dell’espulsione dello straniero sottoposto a procedimento penale per il reato
in esame non è, infatti, richiesto il nulla osta dell’autorità giudiziaria, e,
d’altro canto, una volta acquisita la notizia dell’espulsione o del
respingimento dello straniero, il giudice deve pronunciare sentenza di non
luogo a procedere (art. 10-bis, commi 4 e 5). Gli artt. 16-bis [recte: 62-bis] del d.lgs. n. 274 del 2000 e 16, comma 1,
del d.lgs. n. 286 del 1998 – rispettivamente aggiunto e modificato dalla legge
n. 94 del 2009 – prevedono, inoltre, che il giudice di pace, nel pronunciare
condanna per il reato in questione, ove non ricorrano le cause ostative
previste dall’art. 14, comma 1, possa sostituire la pena con la misura
dell’espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni.
Il risultato
dell’allontanamento dello straniero clandestino dal territorio dello Stato era
e resta, tuttavia, già conseguibile tramite l’espulsione amministrativa;
sicché, una volta accertata l’illegale presenza del soggetto nel territorio
dello Stato, si aprirebbero contestualmente ed automaticamente due procedimenti
aventi lo stesso scopo: uno amministrativo e l’altro penale, il secondo,
peraltro, subordinato al primo, dovendosi concludere con la declaratoria di non
luogo a procedere ove il procedimento amministrativo – maggiormente celere –
abbia concluso il suo «iter naturale». Assetto, questo, che violerebbe, oltre
al principio di ragionevolezza, anche quello di buon andamento dei pubblici
uffici, di cui all’art. 97, primo comma, Cost., incidendo negativamente sulla
durata dei processi e provocando un inutile incremento di costi.
La norma censurata si
porrebbe in contrasto, poi, con l’art. 25, comma 2, Cost., venendo a sanzionare
penalmente una particolare condizione personale e sociale – in specie, quella
di chi versa nella situazione di «clandestino» per non essersi uniformato alle
disposizioni del d.lgs. n. 286 del 1998 – anziché la commissione di un fatto
offensivo di un bene costituzionalmente protetto. Si tratterebbe, in sostanza,
di una «colpa d’autore» o «per il modo di essere dell’agente»: scelta
legislativa da reputare inaccettabile, giacché l’irrogazione di sanzioni penali
potrebbe giustificarsi solo quando appaia indispensabile «per assicurare la
conservazione o promuovere il progresso della comunità sociale o quando
sussista il pericolo che l’individuo commetta fatti delittuosi». Nella specie,
per converso, se pure è vero che taluni degli stranieri clandestini sono dediti
al delitto, è altrettanto vero, tuttavia, che molti altri prestano attività
lavorativa – spesso in condizioni di sfruttamento – o comunque non commettono
reati né minacciano la sicurezza collettiva.
Risulterebbe violato,
infine, l’art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale: e ciò, a causa dello stato di estrema indigenza
in cui versa la quasi totalità degli immigrati clandestini.
Quanto, poi, alla rilevanza
delle questioni, essa risulterebbe – ad avviso del giudice a quo – evidente. Lo
straniero imputato nel giudizio principale risulta essere, infatti, entrato in
Italia senza un regolare visto né risulta munito di permesso di soggiorno,
sicché, allo stato, dovrebbe essere «quasi sicuramente» ritenuto colpevole del
contestato reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, con
possibile applicazione della misura sostitutiva dell’espulsione. Tale misura
influirebbe, peraltro, pesantemente sulla sua integrazione sociale e sulla sua
situazione familiare: in base alla documentazione prodotta in giudizio,
l’imputato avrebbe avuto, infatti, recentemente un figlio da una cittadina
extracomunitaria regolarmente soggiornante, con cui convive, e presterebbe
attività lavorativa come collaboratore domestico presso una famiglia, la quale
avrebbe intrapreso le pratiche per la sua regolarizzazione.
2.2. – È intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate
inammissibili o infondate.
Secondo la difesa dello
Stato sarebbero senz’altro inammissibili per difetto di rilevanza le questioni
che concernono gli artt. 6, comma 2, 31 e 38 del d.lgs. n. 286 del 1998,
trattandosi di disposizioni non applicabili nel giudizio a quo.
Parimenti inammissibile
sarebbe la censura di violazione dell’art. 3 Cost., riferita alla possibilità
di sostituzione della pena con la misura dell’espulsione, in quanto
l’applicabilità di quest’ultima viene prospettata come meramente eventuale.
Altrettanto dovrebbe dirsi
per la censura di violazione dell’art. 2 Cost., giacché dalla stessa ordinanza
di rimessione risulta che l’imputato non versa in condizioni di indigenza,
svolgendo un’attività lavorativa; come pure per la censura di violazione
dell’art. 25, secondo comma, Cost., che apparirebbe priva di «attinenza con il
processo a quo».
Le residue censure
risulterebbero infondate.
La norma impugnata
rappresenterebbe, infatti, espressione dell’ampia discrezionalità legislativa
in ordine all’individuazione delle condotte punibili e delle relative sanzioni:
discrezionalità il cui esercizio non potrebbe ritenersi irragionevole per il
solo fatto che la misura dell’espulsione, conseguente all’applicazione della
sanzione penale, fosse già in precedenza prevista come sanzione amministrativa.
Né rileverebbe la
circostanza che l’autore del fatto possa identificarsi tanto in una persona
onesta che in un delinquente. La sanzione è, infatti, comminata nei confronti
di chi – onesto o delinquente – si trovi illecitamente nel territorio dello
Stato, onde non sussisterebbe la disparità tra le situazioni poste a raffronto
dal rimettente.
Per quel che concerne, poi,
la mancata previsione della «quasi esimente» del «giustificato motivo», la
fattispecie criminosa in questione resterebbe comunque soggetta ai principi
generali applicabili in materia penale, che comprendono varie cause di non
punibilità, tra cui l’incolpevole ignoranza della norma incriminatrice,
l’inesigibilità del comportamento lecito e la «buona fede».
Quanto all’assenza di
disciplina transitoria, la disposizione censurata ha natura sostanziale, onde
troverebbe applicazione il principio previsto dall’art. 2 del codice penale.
Inconferente sarebbe,
altresì, il riferimento all’art. 97 Cost., trattandosi di disposizione
inapplicabile all’amministrazione della giustizia.
Quanto, infine, alla
denunciata violazione del principio di solidarietà, la norma è inserita nel
corpo del d.lgs. n. 286 del 1998, onde rimarrebbero garantiti i rifugiati
politici e coloro che presentano domanda di protezione internazionale, come,
del resto, espressamente prevede il comma 6 dello stesso art. 10-bis.
Considerato
in diritto
1. – Il Giudice di pace di
Lecco, sezione distaccata di Missaglia, dubita della
legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio
1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art.
1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in
materia di sicurezza pubblica), il quale punisce con l’ammenda da
Ad avviso del rimettente, la
norma impugnata violerebbe gli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui non annovera,
tra gli elementi costitutivi del reato, l’assenza di un «giustificato motivo».
In tal modo, essa, da un lato, renderebbe punibili, in contrasto con i principi
di colpevolezza e di proporzionalità, anche condotte di illecito trattenimento
non «rimproverabili» all’agente per valide ragioni oggettive o soggettive;
dall’altro, sarebbe fonte di una irrazionale disparità di trattamento rispetto
all’analoga fattispecie criminosa di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs.
n. 286 del 1998 (inosservanza, «senza giustificato motivo», dell’ordine del
questore di lasciare il territorio nazionale).
La disposizione censurata
lederebbe i medesimi parametri costituzionali (artt. 3 e 27 Cost.) anche sotto
un diverso profilo. Stabilendo, infatti, che il giudice debba pronunciare
sentenza di non luogo a procedere nel caso di avvenuta espulsione dell’autore
del fatto o di suo respingimento ai sensi dell’art. 10, comma 2, del d.lgs. n.
286 del 1998 (comma 5 dell’art. 10-bis), essa farebbe dipendere l’applicazione
della sanzione penale dalla circostanza, del tutto indipendente dalla volontà
dello straniero, che l’autorità amministrativa non riesca ad eseguire
l’espulsione o il respingimento prima della condanna.
Risulterebbe leso, infine,
l’art. 117 Cost., giacché la configurazione come reato di qualunque ingresso o
soggiorno illegale nello Stato mirerebbe ad eludere la direttiva 2008/115/CE
del 16 dicembre 2008 – in forza della quale il provvedimento di espulsione deve
essere di regola eseguito nella forma del rimpatrio volontario – e a rendere
operante la deroga prevista dall’art. 2, paragrafo 2, lettera b), della
direttiva stessa per i casi in cui il rimpatrio costituisca «sanzione penale» o
«conseguenza di una sanzione penale».
2. – L’art. 10-bis del
d.lgs. n. 286 del 1998 è sottoposto a scrutinio di costituzionalità anche dal
Giudice di pace di Torino, che ne prospetta anzitutto il contrasto con l’art. 3
Cost. sotto plurimi profili.
In primo luogo, perché,
punendo indiscriminatamente lo straniero che sia entrato o si sia trattenuto
illegalmente nel territorio dello Stato, equiparerebbe situazioni di fatto ben
diverse e soggetti di differente pericolosità sociale.
In secondo luogo, per
l’irrazionalità del trattamento sanzionatorio, caratterizzato dalla comminatoria
dell’ammenda da
In terzo luogo, perché –
diversamente da quanto avviene per il più grave reato previsto dall’art. 14,
comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 – la norma impugnata non subordina la
punibilità dell’illegale permanenza nel territorio dello Stato alla condizione
che la violazione sia commessa «senza giustificato motivo».
Sarebbe violato, inoltre,
l’art. 24, secondo comma, Cost., giacché, in mancanza di una disciplina
transitoria, la nuova incriminazione costringerebbe tutti gli stranieri
irregolarmente presenti in Italia al momento dell’entrata in vigore della legge
n. 94 del 2009 ad uscire clandestinamente dall’Italia per non autodenunciarsi,
in contrasto con il principio nemo tenetur se detegere, costituente
espressione del diritto di difesa.
L’art. 24, secondo comma,
Cost. sarebbe leso anche per una diversa ragione. Lo straniero irregolarmente
presente sul territorio dello Stato che intenda adempiere l’obbligo scolastico
cui sono soggetti i figli minori (art. 38 del d.lgs. n. 286 del 1998) – obbligo
presidiato da sanzione penale (art. 731 del codice penale) – pur non dovendo
esibire ai fini dell’iscrizione dei figli a scuola alcun documento attestante
la regolarità del suo soggiorno (art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998),
finirebbe inevitabilmente per autodenunciarsi, sia per la facilità con la quale
la sua condizione di irregolarità può emergere nel corso dell’attività
didattica, sia per la sussistenza di un obbligo di denuncia di tale condizione
da parte del personale scolastico che rivesta le qualifiche di cui agli artt.
361 e 362 cod. pen.
Un ulteriore profilo di
compromissione degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost. si connetterebbe alla
circostanza che la norma denunciata non prevede, a favore dello straniero
clandestino che intenda proporre istanza di permanenza nel territorio dello
Stato a fini di tutela di un familiare minore (art. 31 del d.lgs. n. 286 del
1998), garanzie analoghe a quelle accordate allo straniero che presenti domanda
di protezione internazionale (sospensione del procedimento penale, con
declaratoria di non luogo a procedere in caso di accoglimento): sicché, anche
con la presentazione dell’istanza in questione, lo straniero finirebbe per
«certificare» la propria posizione di irregolarità in violazione del principio nemo tenetur se detegere.
La norma impugnata
violerebbe, poi, i principi di ragionevolezza e di buon andamento dei pubblici
uffici (artt. 3 e 97, primo comma, Cost.), in quanto perseguirebbe, alla luce
della sua complessiva struttura, una finalità – allontanare lo straniero
illecitamente presente nel territorio dello Stato – già realizzabile tramite la
procedura di espulsione amministrativa, la quale prende comunque avvio
parallelamente al procedimento penale; il che comporterebbe pregiudizio alla
ragionevole durata dei processi e inutile incremento dei costi.
Risulterebbe violato,
ancora, l’art. 25, secondo comma, Cost., in quanto la disposizione censurata
sanzionerebbe penalmente una particolare condizione personale e sociale –
quella di straniero «clandestino», derivante dalla mera violazione delle norme
che disciplinano l’ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato – e non
già la commissione di un fatto offensivo di un bene costituzionalmente
protetto.
Da ultimo, verrebbe leso
l’art. 2 Cost., giacché, in contrasto con la garanzia di rispetto dei diritti
inviolabili dell’uomo e il dovere di solidarietà, la nuova previsione punitiva
colpirebbe persone che versano, per la quasi totalità, in stato di estrema
indigenza.
3. – Le ordinanze di
rimessione sollevano questioni parzialmente analoghe, relative alla medesima
norma, sicché i giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.
4. – Nell’approccio al thema decidendum, giova
preliminarmente rilevare come, al di là della generica e indifferenziata
formulazione del petitum, i giudici rimettenti
sottopongano all’esame di questa Corte due diversi ordini di questioni.
Da un lato, infatti, essi
contestano, sotto plurimi aspetti, la legittimità costituzionale della scelta
di penalizzazione sottesa alla norma impugnata, prospettando, con ciò,
doglianze che preluderebbero – ove fondate – alla integrale ablazione della
norma stessa. Dall’altro lato, denunciano invece la contrarietà a Costituzione
di specifiche articolazioni della disciplina sostanziale o processuale del
reato in esame, formulando così censure destinate a sfociare – nel caso di
accoglimento – in una declaratoria di illegittimità costituzionale solo
parziale.
Ciò puntualizzato, le
questioni sollevate sono in parte infondate e in parte manifestamente
inammissibili.
5. – Con riferimento alle
questioni del primo gruppo (volte, cioè, a censurare globalmente la scelta di
penalizzazione espressa dalla norma impugnata) – sulle quali, per evidenti
ragioni di pregiudizialità logica, va portata prioritariamente l’attenzione –
lo scrutinio di costituzionalità non può che trovare il suo referente generale
nel principio, affermato dalla costante giurisprudenza di questa Corte, in
forza del quale l’individuazione delle condotte punibili e la configurazione
del relativo trattamento sanzionatorio rientrano nella discrezionalità del
legislatore: discrezionalità il cui esercizio può formare oggetto di sindacato,
sul piano della legittimità costituzionale, solo ove si traduca in scelte
manifestamente irragionevoli o arbitrarie (ex plurimis,
sentenze n. 47
del 2010, n.
161, n. 41
e n. 23 del 2009,
n. 225 del 2008).
6. – Su tale premessa viene
anzitutto in rilievo, per il suo carattere radicale, la censura di violazione
dei principi di materialità e di necessaria offensività del reato, formulata
dal Giudice di pace di Torino in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost.
6.1. – Al riguardo, va
disattesa l’eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura dello Stato, basata
sul generico assunto che la dedotta violazione costituzionale sarebbe priva di
«attinenza con il processo a quo». Risulta evidente, al contrario, come
l’eventuale rimozione della norma impugnata, conseguente all’accoglimento della
questione, inciderebbe sull’esito del giudizio principale, destinato altrimenti
a concludersi – secondo quanto si afferma nell’ordinanza di rimessione – con
una declaratoria di responsabilità dell’imputato per la contravvenzione in
questione.
6.2. – Nel merito, tuttavia,
il dedotto vulnus costituzionale non è riscontrabile.
Contrariamente a quanto
sostiene il giudice rimettente, non si può infatti ritenere che l’art. 10-bis
del d.lgs. n. 286 del 1998, introducendo nell’ordinamento la contravvenzione di
«ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato», penalizzi una mera
«condizione personale e sociale» – quella, cioè, di straniero «clandestino» (o,
più propriamente, «irregolare») – della quale verrebbe arbitrariamente presunta
la pericolosità sociale. Oggetto dell’incriminazione non è un «modo di essere»
della persona, ma uno specifico comportamento, trasgressivo di norme vigenti.
Tale è, in specie, quello descritto dalle locuzioni alternative «fare ingresso»
e «trattenersi» nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni
del testo unico sull’immigrazione o della disciplina in tema di soggiorni di
breve durata per visite, affari, turismo e studio, di cui all’art. 1 della
legge n. 68 del 2007: locuzioni cui corrispondono, rispettivamente, una
condotta attiva istantanea (il varcare illegalmente i confini nazionali) e una a
carattere permanente il cui nucleo antidoveroso è omissivo (l’omettere di
lasciare il territorio nazionale, pur non essendo in possesso di un titolo che
renda legittima la permanenza).
La condizione di cosiddetta
"clandestinità” non è un dato preesistente ed estraneo al fatto, ma
rappresenta, al contrario, la conseguenza della stessa condotta resa penalmente
illecita, esprimendone in termini di sintesi la nota strutturale di illiceità
(non diversamente da come la condizione di pregiudicato per determinati reati
deriva, salvo il successivo accertamento giudiziale, dall’avere commesso i
reati stessi).
6.3. – Né può condividersi,
per altro verso, l’assunto in forza del quale si sarebbe di fronte ad un
illecito «di mera disobbedienza», non offensivo – anche solo nella forma della
messa in pericolo – di alcun bene giuridico meritevole di tutela: illecito la
cui repressione darebbe vita ad una ipotesi di «diritto penale d’autore», al di
sotto della quale si radicherebbe l’intento di penalizzare, ex se, situazioni
di povertà ed emarginazione (e ciò similmente a quanto si verificava, in
passato, mediante la fattispecie contravvenzionale – dichiarata
costituzionalmente illegittima dalla sentenza n. 519 del
1995 – della cosiddetta mendicità non invasiva, di cui all’art. 670, primo
comma, cod. pen.).
Il bene giuridico protetto
dalla norma incriminatrice è, in realtà, agevolmente identificabile
nell’interesse dello Stato al controllo e alla gestione dei flussi migratori,
secondo un determinato assetto normativo: interesse la cui assunzione ad
oggetto di tutela penale non può considerarsi irrazionale ed arbitraria –
trattandosi, del resto, del bene giuridico "di categoria”, che accomuna buona
parte delle norme incriminatrici presenti nel testo unico del 1998 – e che
risulta, altresì, offendibile dalle condotte di ingresso e trattenimento
illegale dello straniero.
L’ordinata gestione dei
flussi migratori si presenta, in specie, come un bene giuridico "strumentale”,
attraverso la cui salvaguardia il legislatore attua una protezione in forma
avanzata del complesso di beni pubblici "finali”, di sicuro rilievo
costituzionale, suscettivi di essere compromessi da fenomeni di immigrazione
incontrollata. Ciò, secondo una strategia di intervento analoga a quella che
contrassegna vasti settori del diritto penale complementare, nei quali la
sanzione penale – specie contravvenzionale – accede alla violazione di
discipline amministrative afferenti a funzioni di regolazione e controllo su
determinate attività, finalizzate a salvaguardare in via preventiva i beni,
specie sovraindividuali, esposti a pericolo dallo
svolgimento indiscriminato delle attività stesse (basti pensare, ad esempio, al
diritto penale urbanistico, dell’ambiente, dei mercati finanziari, della
sicurezza del lavoro). Caratteristica, questa, che, nel caso in esame, viene
peraltro a riflettersi nell’esiguo spessore della risposta punitiva prefigurata
dalla norma impugnata, di tipo meramente pecuniario.
È incontestabile, in
effetti, che il potere di disciplinare l’immigrazione rappresenti un profilo
essenziale della sovranità dello Stato, in quanto espressione del controllo del
territorio. Come questa Corte ha avuto modo di rimarcare, «lo Stato non può […]
abdicare al compito, ineludibile, di presidiare le proprie frontiere: le regole
stabilite in funzione d’un ordinato flusso migratorio e di un’adeguata
accoglienza vanno dunque rispettate, e non eluse […], essendo poste a difesa
della collettività nazionale e, insieme, a tutela di coloro che le hanno
osservate e che potrebbero ricevere danno dalla tolleranza di situazioni
illegali» (sentenza
n. 353 del 1997). La regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno degli
stranieri nel territorio dello Stato è, difatti, «collegata alla ponderazione
di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità
pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica
nazionale in materia di immigrazione» (sentenze n. 148 del 2008,
n. 206 del 2006
e n. 62 del 1994):
vincoli e politica che, a loro volta, rappresentano il frutto di valutazioni
afferenti alla "sostenibilità” socio-economica del fenomeno.
Il controllo giuridico
dell’immigrazione – che allo Stato, dunque, indubbiamente compete (sentenza n. 5 del
2004), a presidio di valori di rango costituzionale e per l’adempimento di
obblighi internazionali – comporta, d’altro canto, necessariamente la
configurazione come fatto illecito della violazione delle regole in cui quel
controllo si esprime. Determinare quale sia la risposta sanzionatoria più
adeguata a tale illecito, e segnatamente stabilire se esso debba assumere una
connotazione penale, anziché meramente amministrativa (com’era anteriormente
all’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009), rientra nell’ambito delle
scelte discrezionali del legislatore, il quale ben può modulare diversamente
nel tempo – in rapporto alle mutevoli caratteristiche e dimensioni del fenomeno
migratorio e alla differente pregnanza delle esigenze ad esso connesse – la
qualità e il livello dell’intervento repressivo in materia.
6.4. – In questa
prospettiva, risulta altresì priva di fondamento la tesi del giudice a quo,
stando alla quale l’incriminazione introdurrebbe, nella sostanza, una
presunzione assoluta di pericolosità sociale dell’immigrato irregolare, non
rispondente all’id quod plerumque accidit e perciò stesso
arbitraria.
Al pari di quanto avviene
per il reato di inosservanza dell’ordine di allontanamento, di cui all’art. 14,
comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 – che, come già rilevato da questa
Corte, «prescinde da una accertata o presunta pericolosità dei soggetti
responsabili» (sentenza
n. 22 del 2007) – la norma impugnata non sancisce alcuna presunzione di tal
fatta, ma si limita – similmente alla generalità delle norme incriminatrici – a
reprimere la commissione di un fatto oggettivamente (e comunque) antigiuridico,
offensivo di un interesse reputato meritevole di tutela: violazione
riscontrabile – come nota anche l’Avvocatura generale dello Stato –
indipendentemente dalla personalità dell’autore, la quale potrà rilevare,
semmai, solo sul piano della commisurazione della pena da parte del giudice,
secondo i criteri dettati dall’art. 133, secondo comma, cod. pen.
Non può essere, dunque,
utilmente richiamata, ai presenti fini, l’affermazione di questa Corte, in
forza della quale la condizione soggettiva connessa al «mancato possesso di un
titolo abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato […], di per sé,
non è univocamente sintomatica […] di una particolare pericolosità sociale» (sentenza n. 78 del
2007). Si tratta, infatti, di affermazione resa in un contesto ben diverso
da quello che qui rileva, e, cioè, a sostegno della declaratoria di
illegittimità costituzionale di alcune norme dell’ordinamento penitenziario
(artt. 47, 48 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354), ove interpretate nel
senso che all’immigrato irregolare sia in ogni caso precluso l’accesso alle
misure alternative alla detenzione da esse previste. Tali misure si connettono,
infatti, all’esigenza di individualizzazione della pena in fase esecutiva, in
rapporto alla quale la valutazione di pericolosità sociale del condannato – da
condursi caso per caso, e non sulla base di arbitrarie presunzioni assolute –
viene, per converso, in primario rilievo.
6.5. – Quale notazione
conclusiva sul punto, si deve, d’altro canto, rilevare come la scelta operata
dal legislatore italiano con la novella del 2009 sia tutt’altro che isolata nel
panorama internazionale.
L’analisi comparatistica
rivela, difatti, come norme incriminatrici dell’immigrazione irregolare di
ispirazione similare, talora accompagnate dalla comminatoria di pene anche
significativamente più severe di quella prevista dalla norma scrutinata, siano
presenti nelle legislazioni di diversi Paesi dell’Unione europea: e ciò tanto
nell’ambito dei Paesi più vicini al nostro per tradizioni giuridiche (quali
7. – Nelle considerazioni che
precedono è già insita l’insussistenza della violazione del principio di
eguaglianza (art. 3 Cost.), denunciata dallo stesso Giudice di pace di Torino
sul rilievo che, punendo indiscriminatamente lo straniero che sia entrato o si
sia trattenuto illegalmente nel territorio dello Stato, il nuovo art. 10-bis
del d.lgs. n. 286 del 1998 equiparerebbe fattispecie marcatamente eterogenee e
soggetti di differente pericolosità sociale (quali lo straniero che ha varcato
clandestinamente i confini nazionali e che vive dei proventi del delitto e il
migrante trattenutosi irregolarmente dopo un ingresso legittimo, ma ben
integrato nella comunità sociale e che svolge un’attività lavorativa).
Per un verso, infatti, si
ribadisce che la norma incriminatrice in esame non è diretta a sanzionare la
"condotta di vita” e i propositi del migrante irregolare (i quali, ove assumano
connotazioni criminose, troveranno eventualmente risposta punitiva in altre
norme), quanto piuttosto (e soltanto) l’inosservanza delle norme sull’ingresso
e il soggiorno dello straniero nel territorio dello Stato.
La diversa gravità
dell’inosservanza potrà essere, per altro verso, apprezzata e valorizzata dal
giudice in sede di determinazione della pena in concreto nell’ambito della
forbice edittale, sufficientemente ampia a tal fine, sia pure nell’ambito di
una configurazione dell’illecito quale contravvenzione punita con la sola pena
pecuniaria (ammenda da
Con particolare riguardo,
d’altro canto, alle ipotesi a carattere "marginale” – che il giudice a quo
evoca con il riferimento alla situazione dello straniero che si trattenga in
Italia oltre il termine del visto di ingresso per ragioni puramente contingenti
(quali l’aver perso l’aereo o il non aver ricevuto tempestivamente dai parenti
all’estero il denaro per l’acquisto del biglietto di viaggio) – occorre tener
conto anche della circostanza che l’attribuzione della competenza per il reato
in esame al giudice di pace è atta a rendere operante l’istituto
dell’esclusione della procedibilità per «particolare tenuità del fatto»,
previsto dall’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000, un istituto che, in presenza
delle condizioni stabilite da tale articolo, potrà valere a sottrarre a pena le
irregolarità di più ridotto significato.
8. – In relazione, poi, alla
ulteriore censura, formulata sempre dal Giudice di pace di Torino, di lesione
dei diritti inviolabili dell’uomo e del principio di solidarietà (art. 2
Cost.), non ha fondamento l’eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura dello
Stato, basata sulla considerazione che, alla stregua di quanto riferito
nell’ordinanza di rimessione, l’imputato nel giudizio a quo non versa in
condizioni di indigenza, svolgendo un’attività lavorativa.
L’eccezione sovrappone,
infatti, i piani della rilevanza e della non manifesta infondatezza. L’idoneità
a colpire persone che versano in «stato di estrema indigenza» è evocata,
infatti, dal rimettente come tratto generale caratteristico della norma
incriminatrice, atto a porla in asserito contrasto con il parametro
costituzionale considerato: il che non comporta, tuttavia, che – ai fini
dell’ammissibilità della questione – esso debba risultare riscontrabile anche
nella fattispecie concreta che dà adito all’incidente di costituzionalità,
rimanendo la questione comunque rilevante a fronte della già rimarcata
incidenza dell’ablazione della norma impugnata sugli esiti del processo
principale.
Nel merito, la violazione
dedotta non è comunque ravvisabile.
Al riguardo, giova preliminarmente
rilevare che, ove la tesi del rimettente fosse valida, la ragione
dell’illegittimità costituzionale non risiederebbe nella scelta di configurare
come reato l’inosservanza delle disposizioni sull’ingresso e il soggiorno dello
straniero nel territorio dello Stato – vale a dire nella sanzione – ma, più a
monte, nello stesso precetto: e, cioè, nelle regole – collocate fuori della
norma oggi sottoposta a scrutinio – che precludono o limitano l’ingresso o la
permanenza degli stranieri (o, quantomeno, degli stranieri "indigenti”) nel
territorio dello Stato, a prescindere dal fatto che la violazione venga punita
con la sanzione penale o con semplice sanzione amministrativa.
Al di là di ciò, va poi
osservato che, mentre il contrasto con i diritti inviolabili dell’uomo è
allegato dal rimettente in termini puramente apodittici, per quanto attiene al
principio di solidarietà, è giurisprudenza costante di questa Corte – chiamata
ad occuparsi del tema segnatamente in rapporto alla disciplina dei divieti di espulsione
e di respingimento e del ricongiungimento familiare (artt. 19 e 29 del d.lgs.
n. 286 del 1998) – che, in materia di immigrazione, «le ragioni della
solidarietà umana non possono essere affermate al di fuori di un corretto
bilanciamento dei valori in gioco» (sentenza n. 353 del
1997). In particolare, «le ragioni della solidarietà umana non sono di per
sé in contrasto con le regole in materia di immigrazione previste in funzione
di un ordinato flusso migratorio e di un’adeguata accoglienza ed integrazione
degli stranieri» (ordinanze n. 192 e n. 44 del 2006,
n. 217 del 2001):
e ciò nella cornice di un «quadro normativo […] che vede regolati in modo
diverso – anche a livello costituzionale (art. 10, terzo comma, Cost.) – l’ingresso
e la permanenza degli stranieri nel Paese, a seconda che si tratti di
richiedenti il diritto di asilo o rifugiati, ovvero di c.d. "migranti
economici”» (sentenza
n. 5 del 2004; ordinanze n. 302 e n. 80 del 2004).
In materia il legislatore fruisce, dunque, di ampia discrezionalità nel porre
limiti all’accesso degli stranieri nel territorio dello Stato, all’esito di un
bilanciamento dei valori che vengono in rilievo: discrezionalità il cui
esercizio è sindacabile da questa Corte solo nel caso in cui le scelte operate
si palesino manifestamente irragionevoli (ex plurimis,
sentenze n. 148
del 2008, n.
361 del 2007, n.
224 e n. 206
del 2006) e che si estende, secondo quanto in precedenza osservato, anche
al versante della selezione degli strumenti repressivi degli illeciti perpetrati.
Le ragioni della solidarietà
trovano, in questo senso, espressione – oltre che nella ricordata disciplina
dei divieti di espulsione e di respingimento e del ricongiungimento familiare –
nell’applicabilità, allo straniero irregolare, della normativa sul soccorso al
rifugiato e la protezione internazionale, di cui al d.lgs. 19 novembre 2007, n.
251 (Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime
sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del
rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale,
nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta), fatta
espressamente salva dal comma 6 dello stesso art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del
1998, che prevede la sospensione del procedimento penale per il reato in esame
nel caso di presentazione della relativa domanda e, nell’ipotesi di suo
accoglimento, la pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere (analoga
pronuncia è prevista, altresì, nel caso di rilascio del permesso di soggiorno nelle
ipotesi di cui all’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, e cioè quando,
pur in presenza delle condizioni ostative ivi indicate, ricorrano «seri motivi
[…] di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o
internazionali dello Stato italiano»).
9. – Va esclusa, del pari,
la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., prospettata dal Giudice di
pace di Lecco per asserita contrarietà della norma impugnata alla direttiva
2008/115/CE, segnatamente nella parte in cui quest’ultima prefigura come
modalità ordinaria di esecuzione delle «decisioni di rimpatrio» dei cittadini
di paesi terzi, il cui soggiorno è irregolare, la fissazione di un termine per
la «partenza volontaria» (art. 7).
Non occorre verificare, in
questa sede, la reale validità dell’argomento su cui poggia la censura e
consistente, in sostanza, nell’assunto per cui la facoltà degli Stati membri di
non applicare la citata direttiva ai «cittadini di paesi terzi […] sottoposti a
rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale» (art.
2, paragrafo 2, lettera b) dovrebbe ritenersi riferita, per non svuotare di
senso la direttiva stessa, esclusivamente alle fattispecie penali diverse
dall’ingresso o dal soggiorno irregolare.
È sufficiente osservare che
il termine di adeguamento dell’ordinamento nazionale alla direttiva non è
ancora scaduto, risultando fissato al 24 dicembre 2010 (art. 20): circostanza
che rende, allo stato, comunque non significativo, ai fini della
configurabilità della lesione costituzionale denunciata, l’ipotizzato contrasto
con la disciplina comunitaria.
Peraltro, detto contrasto
non deriverebbe comunque dall’introduzione del reato oggetto di scrutinio,
quanto piuttosto – in ipotesi – dal mantenimento delle norme interne
preesistenti che individuano nell’accompagnamento coattivo alla frontiera la
modalità normale di esecuzione dei provvedimenti espulsivi (in particolare,
art. 13, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998): norme diverse, dunque, da quella
impugnata.
10. – Infondata è pure la
censura di violazione dei principi di ragionevolezza e di buon andamento dei
pubblici uffici (artt. 3 e 97 Cost.), formulata dal Giudice di pace di Torino
sulla scorta della considerazione che la norma censurata perseguirebbe, nel suo
complesso, un obiettivo (allontanare lo straniero illegalmente presente nel
territorio dello Stato) realizzabile negli stessi termini tramite l’istituto
dell’espulsione amministrativa, col risultato di dare luogo ad una inutile
duplicazione di procedimenti aventi il medesimo scopo.
Per quanto attiene al primo
dei due parametri invocati (il principio di ragionevolezza), è ben vero, in
effetti, che le condotte che integrano il reato di cui si discute, costituendo
nel contempo violazioni della disciplina sull’ingresso e il soggiorno dello
straniero nello Stato, erano e restano sanzionate, in via amministrativa, con
l’espulsione disposta dal prefetto ai sensi dell’art. 13, comma 2, del d.lgs.
n. 286 del 1998: onde si riscontra una sovrapposizione – tendenzialmente
completa – della disciplina penale a quella amministrativa.
È altrettanto vero che, alla
luce della complessiva configurazione della norma in esame, il legislatore
mostra di considerare l’applicazione della sanzione penale come un esito
"subordinato” rispetto alla materiale estromissione dal territorio nazionale
dello straniero ivi illegalmente presente. Lo attestano univocamente le
circostanze – poste in rilievo dal giudice a quo – che, in deroga al generale
disposto dell’art. 13, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, lo straniero
sottoposto a procedimento penale per il reato in questione possa essere espulso
in via amministrativa senza il nulla osta dell’autorità giudiziaria; che, una
volta avuta notizia dell’esecuzione dell’espulsione o del respingimento ai
sensi dell’art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, il giudice debba
pronunciare sentenza di non luogo a procedere (e ciò indipendentemente dallo
stadio raggiunto dal procedimento penale, a differenza di quanto previsto
dall’art. 13, comma 3-quater, del d.lgs. n. 286 del 1998); che, nel caso di
condanna, la pena dell’ammenda – espressamente sottratta all’oblazione (art.
10-bis, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 286 del 1998) – possa essere
sostituita dal giudice con la misura dell’espulsione per un periodo non
inferiore a cinque anni (artt. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 e 62-bis
del d.lgs. n. 274 del 2000).
Tale assetto normativo – che
trova la sua ratio precipuamente «nel diminuito interesse dello Stato alla
punizione di soggetti ormai estromessi dal proprio territorio» (con riferimento
alla previsione dell’art. 13, comma 3-quater, del d.lgs. n. 286 del 1998,
ordinanze n. 143
e n. 142 del
2006), tanto più avvertibile quando il fatto penalmente rilevante si
sostanzi nella mera violazione della disciplina sull’ingresso e la permanenza
nel territorio stesso – non comporta ancora, tuttavia, che il procedimento
penale per il reato in esame sia destinato, a priori, a rappresentare un mero
"duplicato” del procedimento amministrativo di espulsione (di norma, per
giunta, più celere): e ciò, a tacer d’altro, per la ragione che – come
l’esperienza attesta – in un largo numero di casi non è possibile, per la
pubblica amministrazione, dare corso all’esecuzione dei provvedimenti
espulsivi. La stessa sostituzione della pena pecuniaria con la misura
dell’espulsione da parte del giudice – configurata, peraltro, dall’art. 16,
comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 come soltanto discrezionale («può») – resta
espressamente subordinata alla condizione che non ricorrano le situazioni che,
ai sensi dell’art. 14, comma 1, del medesimo decreto legislativo, impediscono
l’esecuzione immediata dell’espulsione con accompagnamento alla frontiera a
mezzo della forza pubblica (necessità di procedere al soccorso dello straniero,
ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità,
all’acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero indisponibilità di vettore
o di altro mezzo di trasporto idoneo).
È pure difficilmente
contestabile, per altro verso, che – come da più parti criticamente rimarcato –
la pena dell’ammenda, applicabile nei casi di mancata esecuzione (o
eseguibilità immediata) dell’espulsione, presenti una ridotta capacità
dissuasiva: e ciò, a fronte della condizione di insolvibilità in cui assai
spesso (ma, comunque, non indefettibilmente) versa il
migrante irregolare e della difficoltà di convertire la pena rimasta ineseguita
in lavoro sostitutivo o in obbligo di permanenza domiciliare (art. 55 del
d.lgs. n. 274 del 2000), stante la problematica compatibilità di tali misure
con la situazione personale del condannato, spesso privo di fissa dimora e che,
comunque, non può risiedere legalmente in Italia.
Simili valutazioni – al pari
di quella attinente, più in generale, al rapporto fra "costi e benefici”
connessi all’introduzione della nuova figura criminosa, rapporto secondo molti
largamente deficitario (tanto più in un sistema che già prevede, in caso di
mancata esecuzione immediata dell’espulsione, l’ordine di allontanamento del
questore, che innesca la più energica tutela penale predisposta dall’art. 14,
comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998) – attengono, tuttavia, all’opportunità
della scelta legislativa su un piano di politica criminale e giudiziaria: piano
di per sé estraneo al sindacato di costituzionalità. Come già ad altro fine
rimarcato, difatti, «non spetta a questa Corte esprimere valutazioni
sull’efficacia della risposta repressiva penale rispetto a comportamenti
antigiuridici che si manifestino nell’ambito del fenomeno imponente dei flussi
migratori dell’epoca presente, che pone gravi problemi di natura sociale,
umanitaria e di sicurezza» (sentenza n. 236 del
2008).
Non è superfluo comunque
aggiungere che l’assoggettamento a sanzioni pecuniarie dei fatti di
immigrazione irregolare è anch’esso tutt’altro che ignoto all’esperienza
comparatistica (pene pecuniarie, alternative o congiunte alla pena detentiva,
sono previste, ad esempio, dalle legislazioni tedesca, francese e del Regno
Unito; mentre la legge spagnola contempla, per il soggiorno irregolare, la sola
sanzione amministrativa pecuniaria).
Inconferente è l’altro
parametro invocato dal giudice rimettente: ossia il principio di buon andamento
dei pubblici uffici. Per consolidata giurisprudenza di questa Corte, infatti,
detto principio è riferibile all’amministrazione della giustizia solo per quanto
attiene all’organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari, e non
all’attività giurisdizionale in senso stretto (ex plurimis,
sentenze n. 64
del 2009 e n.
272 del 2008; ordinanze n. 408 del 2008
e n. 27 del 2007).
11. – Passando, con ciò,
all’esame del secondo gruppo di questioni, che investono specifici segmenti
della disciplina del reato di cui si discute, viene in considerazione,
anzitutto, quella afferente alla mancata reiterazione, in rapporto alla
condotta dell’illegale trattenimento, della clausola «senza giustificato
motivo», presente nella norma incriminatrice "finitima” di cui all’art. 14,
comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998: norma che pure reprime – e in modo più
severo – una forma speciale di indebita permanenza dello straniero nello Stato,
cioè quella conseguente all’inottemperanza all’ordine del questore di lasciare
entro cinque giorni il territorio nazionale, impartito ai sensi del comma 5-bis
dello stesso articolo.
11.1. – La questione non è
fondata.
Questa Corte ha avuto modo
di pronunciarsi sulla valenza della formula «senza giustificato motivo», che
compare nella norma evocata come tertium comparationis, in rapporto a questioni di legittimità
costituzionale volte segnatamente a denunciare il difetto di determinatezza di
detta clausola e, di riflesso, della fattispecie penale in cui essa si colloca.
Nel disattendere la censura, si è rilevato che il significato della locuzione
è, in realtà, ricostruibile – mediante una operazione interpretativa non esorbitante
dall’ordinario compito ermeneutico affidato al giudice – alla luce della
specifica finalità dell’incriminazione (rimuovere, rendendo «effettivo il
provvedimento di espulsione», «situazioni di illiceità o di pericolo correlate
alla presenza dello straniero nel territorio dello Stato») e del quadro
normativo su cui l’incriminazione stessa si innesta: quadro normativo che, come
già ricordato ad altro fine, vede diversamente regolato l’ingresso e il
soggiorno degli stranieri nello Stato, a seconda che si tratti di richiedenti
il diritto di asilo o di rifugiati, ovvero di «migranti economici». In simile
prospettiva, «la clausola in questione, se pure non può essere ritenuta
evocativa delle sole cause di giustificazione in senso tecnico – lettura che la
renderebbe pleonastica, posto che le scriminanti opererebbero comunque, in
quanto istituti di ordine generale – ha tuttavia riguardo a situazioni ostative
di particolare pregnanza, che incidano sulla stessa possibilità, soggettiva od
oggettiva, di adempiere all’intimazione, escludendola ovvero rendendola
difficoltosa o pericolosa; non anche ad esigenze che riflettano la condizione
tipica del "migrante economico”, sebbene espressive di istanze in sé pienamente
legittime, sempre che – come è ovvio – non ricorrano situazioni riconducibili
alle scriminanti previste dall’ordinamento» (sentenza n. 5 del
2004; ordinanze n. 386 del 2006,
n. 302 e n. 80 del 2004).
Alla luce di tale
conclusione, si è quindi esclusa la fondatezza di ulteriori censure di
costituzionalità, alla stregua delle quali la norma incriminatrice di cui
all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 avrebbe delineato, in
contrasto con l’art. 27 Cost., una ipotesi di responsabilità oggettiva,
assoggettando a pena anche lo straniero che si trovi nella pratica
impossibilità di munirsi di documenti e di biglietto di viaggio nel ristretto
termine di cinque giorni: ciò, ad esempio, per la sua «condizione di assoluta impossidenza […], che non gli consenta di recarsi nel
termine alla frontiera (in particolare aerea o marittima) e di acquistare»
detto biglietto; ovvero in conseguenza del «mancato rilascio, da parte della
competente autorità diplomatica o consolare, dei documenti necessari, pure
sollecitamente e diligentemente richiesti». In tali ipotesi, si deve, infatti,
senz’altro ravvisare un «giustificato motivo» di inottemperanza all’ordine di
allontanamento, con conseguente esclusione della configurabilità del reato (sentenza n. 5 del
2004; ordinanze n. 386 del 2006
e n. 302 del
2004).
11.2. – Dalle affermazioni di
questa Corte ora ricordate non è lecito peraltro desumere – come mostra invece
di ritenere il Giudice di pace di Lecco – che l’inserimento nella formula
descrittiva dell’illecito della clausola «senza giustificato motivo» sia
indispensabile al fine di assicurare la conformità al principio di colpevolezza
di ogni reato in materia di immigrazione, e particolarmente di quello oggetto
dell’odierno scrutinio.
Se è vero, infatti, che,
come già rimarcato, la portata di detta clausola va oltre il mero richiamo alle
esimenti di carattere generale, è altrettanto certo, tuttavia, che la mancanza
della clausola non impedisce che le esimenti generali trovino comunque
applicazione: il che è sufficiente, in ogni caso, a garantire il rispetto del
principio costituzionale invocato (diversamente opinando, la clausola stessa
dovrebbe rinvenirsi in qualunque norma incriminatrice).
Fuori discussione, così, è
l’applicabilità anche al reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello
Stato delle scriminanti comuni – e, in particolare, di quella dello stato di
necessità (art. 54 cod. pen.) – come pure delle cause
di esclusione della colpevolezza, ivi compresa l’ignoranza inevitabile della
legge penale (art. 5 cod. pen., quale risultante a
seguito della sentenza
n. 364 del 1988 di questa Corte), cui fa specifico riferimento il
rimettente allorché evoca, in chiave critica, le situazioni dello straniero che
non comprenda la lingua italiana o che entri in contatto per la prima volta con
l’ordinamento giuridico nazionale.
Con particolare riguardo,
poi, alla figura dell’illecito trattenimento – cui è circoscritto il quesito di
costituzionalità – rimane, altresì, operante il basilare principio ad impossibilia nemo tenetur, valevole per la
generalità delle fattispecie omissive proprie. In rapporto a tali fattispecie,
difatti, l’impossibilità (materiale o giuridica) di compimento dell’azione
richiesta esclude – secondo una diffusa opinione – la configurabilità del
reato, prima ancora che sul piano della colpevolezza, già su quello della
tipicità, trattandosi di un limite logico alla stessa configurabilità
dell’omissione. Ne consegue che, per questo verso, un insieme di situazioni,
rilevanti come «giustificato motivo» in rapporto al reato di inottemperanza
all’ordine di allontanamento, ben possono venire in considerazione anche ai
fini di escludere la configurabilità della contravvenzione di cui all’art.
10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 (si pensi, ad esempio, alla indisponibilità,
da parte dello straniero, per cause indipendenti dalla sua volontà, dei
documenti necessari al fine di lasciare legalmente il territorio nazionale).
11.3. – Residua pur sempre –
è ben vero – una diversità di regime rispetto all’ipotesi criminosa di cui al
citato art. 14, comma 5-ter, connessa alla rilevata maggiore ampiezza delle
situazioni riconducibili al paradigma del «giustificato motivo» rispetto alle
cause generali di non punibilità. Tale diversità non determina, tuttavia, la
violazione dell’art. 3 Cost. denunciata da entrambi i giudici rimettenti: e ciò
alla luce sia della differente connotazione delle fattispecie poste a confronto
che dell’esistenza di una differente disciplina.
Come già in altra occasione
osservato da questa Corte, infatti, «la scelta del legislatore di riconoscere
efficacia giustificativa, per il reato di inottemperanza all’ordine di
allontanamento impartito dal questore, a situazioni ostative diverse dalle
esimenti di carattere generale, trova fondamento nella peculiarità di tale
forma di espulsione, la cui esecuzione è affidata allo straniero medesimo, e la
cui adozione è consentita solo quando non sia possibile l’accompagnamento alla
frontiera, eventualmente preceduto dal trattenimento dell’interessato in un
centro di identificazione e di espulsione» (ordinanza n. 41 del
2009, che ha conseguentemente escluso la configurabilità di una esigenza
costituzionale di estensione della clausola «senza giustificato motivo» alla
figura criminosa, a carattere commissivo, delineata dal comma 5-quater dello
stesso art. 14, che configura come delitto la condotta dello straniero che
venga trovato nel territorio nazionale dopo esserne stato espulso ai sensi del
precedente comma 5-ter).
I presupposti che, nel sistema della
legge (art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998), autorizzano
l’amministrazione ad avvalersi dello strumento dell’ordine di allontanamento,
in deroga al principio di esecuzione immediata dell’espulsione in forma
coattiva, richiamano, in effetti, esigenze cui frequentemente corrispondono
situazioni di rilevante difficoltà di tempestivo adempimento da parte
dell’intimato (sentenza
n. 5 del 2004, ordinanza n. 386
del 2006). Prospettiva nella quale l’impiego della clausola in questione
rappresenta, dunque, un elemento che contribuisce a rendere costituzionalmente
"tollerabile” il rigore sanzionatorio che caratterizza la figura criminosa (sentenza n. 22 del
2007).
Non equiparabile, sotto questo profilo,
è la contravvenzione di cui al censurato art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del
1998, che reprime con semplice pena pecuniaria la generica inosservanza delle
disposizioni in tema di soggiorno (oltre che di ingresso) dello straniero nel
territorio dello Stato: e ciò indipendentemente dall’intervento di un ordine
amministrativo individualizzato, caratterizzato da un ristretto termine di
adempimento e atto ad innescare un netto "salto di qualità” della risposta
punitiva.
Rispetto alla contravvenzione in
questione è, d’altra parte, rinvenibile un diverso strumento di "moderazione”
dell’intervento sanzionatorio, non operante in rapporto alla fattispecie
criminosa posta a confronto. Si tratta, in specie, del già ricordato istituto
della improcedibilità per particolare tenuità del fatto (art. 34 del d.lgs. n.
274 del 2000), reso applicabile dall’attribuzione della competenza per il reato
in esame al giudice di pace: istituto la cui disciplina – nel suo riferimento
alle condizioni dell’esiguità dell’offesa all’interesse tutelato,
dell’occasionalità della violazione, del ridotto grado di colpevolezza e del
pregiudizio recato dal procedimento penale alle esigenze di lavoro, di studio,
di famiglia o di salute dell’imputato – può valere a "controbilanciare” la
mancata attribuzione di rilievo alle fattispecie di «giustificato motivo» che
esulino dal novero delle cause generali di non punibilità.
12. – Manifestamente inammissibile è,
per converso, la questione, sollevata dal Giudice di pace di Torino in
riferimento all’art. 3 Cost., concernente la facoltà del giudice di sostituire,
nel caso di condanna, la pena pecuniaria comminata per il reato di cui all’art.
10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 con la misura dell’espulsione.
A prescindere da ogni considerazione di
merito, la lesione costituzionale denunciata non deriva, infatti, dalla
disposizione impugnata, ma da norme distinte, non coinvolte nello scrutinio di
costituzionalità: in specie, dall’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998,
nella parte in cui – a seguito della modifica operata dalla legge n. 94 del
2009 – estende l’applicabilità dell’espulsione come sanzione sostitutiva alla
contravvenzione di cui all’art. 10-bis del medesimo decreto legislativo; nonché
dalla disposizione correlata dell’art. 62-bis del d.lgs. n. 274 del 2000, in
forza della quale – diversamente da quanto stabilito dal precedente art. 62 con
riferimento alle sanzioni sostitutive previste dalla legge 24 novembre 1981, n.
689 (Modifiche al sistema penale) – «nei casi stabiliti dalla legge, il giudice
di pace applica la misura sostitutiva di cui all’art. 16 del testo unico di cui
al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286».
Tale profilo di manifesta
inammissibilità assorbe quello dedotto dall’Avvocatura dello Stato, relativo al
carattere, in assunto, solo ipotetico dell’applicabilità della misura
sostitutiva nel caso di specie.
13. – Nel denunciare la contrarietà a
Costituzione del trattamento sanzionatorio complessivo del reato di cui
all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, il Giudice di pace di Torino
prospetta anche una violazione dell’art. 3 Cost., correlata al divieto di
concessione della sospensione condizionale della pena.
Anche tale questione è manifestamente
inammissibile.
La preclusione della sospensione
condizionale non scaturisce, infatti, neppure essa dall’art. 10-bis del d.lgs.
n. 286 del 1998, quanto piuttosto dalla nuova lettera s-bis) dell’art. 4, comma
2, del d.lgs. n. 274 del 2000, che attribuisce la competenza per il reato in
esame al giudice di pace, rendendo così operante il disposto dell’art. 60 del
medesimo decreto legislativo: norme non sottoposte a scrutinio.
In ogni caso, manca ogni motivazione sia
in ordine alla rilevanza della questione (non si afferma che, nel caso di
specie, l’imputato potrebbe fruire della sospensione condizionale alla luce
delle generali regole codicistiche), che alla sua non manifesta infondatezza
(la lesione dell’art. 3 Cost. è prospettata in modo puramente assiomatico).
14. – Analoga conclusione si impone in
rapporto alla questione avente ad oggetto la disposizione del comma 5 dell’art.
10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, in forza della quale il giudice pronuncia
sentenza di non luogo a procedere allorché abbia notizia dell’avvenuta
esecuzione dell’espulsione amministrativa dell’autore del fatto o del suo
respingimento ai sensi dell’art. 10, comma 2, del testo unico: previsione che,
secondo il Giudice di pace di Lecco, contrasterebbe con gli artt. 3 e 27 Cost.,
in quanto farebbe dipendere l’applicazione o meno della pena per il reato in
esame dall’operato dell’autorità amministrativa.
Non è fondata, al riguardo, l’eccezione
di inammissibilità proposta dalla difesa dello Stato. Il riferimento del
giudice a quo alla circostanza che, nel caso di impossibilità di esecuzione
dell’espulsione da parte dell’autorità amministrativa, lo straniero diviene
destinatario dell’ordine di lasciare il territorio dello Stato – trovandosi
così esposto, in caso di inottemperanza, alla più severa pena comminata
dall’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 – non è infatti
sufficiente ad avvalorare la tesi dell’Avvocatura dello Stato, secondo la quale
il rimettente censurerebbe, in realtà, esclusivamente quest’ultima norma, che
non viene in rilievo nel giudizio principale.
La questione risulta priva di rilevanza,
nondimeno, per la diversa ragione che dall’ordinanza di rimessione non consta
che l’imputato nel giudizio a quo sia stato effettivamente espulso o respinto,
con conseguente carenza del presupposto di applicabilità della previsione
normativa censurata (per analoga declaratoria di manifesta inammissibilità, in
rapporto a questione di costituzionalità attinente alla disposizione generale
in tema di non luogo a procedere per avvenuta espulsione di cui all’art. 13,
comma 3-quater, del d.lgs. n. 286 del 1998, ordinanza n. 142
del 2006).
15. – È manifestamente inammissibile
anche la questione, sollevata dal Giudice di pace di Torino in riferimento
all’art. 24, secondo comma, Cost., volta a censurare la mancata previsione di
una disciplina transitoria che salvaguardi gli stranieri illegalmente presenti
nel territorio dello Stato al momento dell’entrata in vigore della legge n. 94
del 2009.
La questione si risolve, infatti, nella
richiesta di una pronuncia additiva dai contenuti indefiniti e non
costituzionalmente obbligati. Non potrebbe essere, in effetti, questa Corte a
stabilire «un termine e una modalità operativa» per consentire a detti
stranieri di allontanarsi spontaneamente dall’Italia senza incorrere in
responsabilità penale, trattandosi di operazione che implica scelte
discrezionali di esclusiva spettanza del legislatore.
16. – Manifestamente inammissibile è
pure la censura di violazione dell’art. 24, secondo comma, Cost., formulata dal
medesimo giudice rimettente a fronte dell’asserita introduzione di un obbligo
di autodenuncia nei confronti del migrante irregolare responsabile
dell’adempimento dell’obbligo scolastico previsto dall’art. 38 del d.lgs. n.
286 del 1998.
La lesione costituzionale denunciata non
deriverebbe, infatti, una volta ancora, dalla norma incriminatrice recata
dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, ma, semmai, secondo la
prospettazione del rimettente, dal difettoso coordinamento di talune
disposizioni "collaterali” (artt. 6, 35 e 38 del d.lgs. n. 286 del 1998): più
in particolare, dalla mancata previsione, nel citato art. 38, di una esenzione
dall’obbligo di segnalazione all’autorità del migrante irregolare da parte del
personale scolastico, analoga a quella sancita dall’art. 35, comma 5, del
d.lgs. n. 286 del 1998 con riferimento al personale sanitario.
Dette disposizioni "collaterali” non
risultano peraltro coinvolte nell’impugnativa e, comunque, non vengono in
rilievo nel giudizio a quo.
17. – È manifestamente inammissibile per
difetto di rilevanza, infine, anche la questione, sollevata dal Giudice di pace
di Torino in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., attinente
alla mancata previsione di garanzie a favore dello straniero che presenti
istanza di permanenza in Italia per gravi motivi connessi alla tutela di
familiari minori, ai sensi dell’art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998.
Ciò, in quanto dall’ordinanza di
rimessione non consta che l’imputato nel giudizio a quo abbia presentato una simile
istanza.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara non fondate le
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero),
aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94
(Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), di cui ai punti 6, 7, 8, 9, 10
e 11 del Considerato in diritto, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 25,
secondo comma, 27, 97, primo comma, e 117 della Costituzione, dal Giudice di
pace di Lecco, sezione distaccata di Missaglia, e dal Giudice di pace di Torino
con le ordinanze indicate in epigrafe;
2) dichiara la manifesta
inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale del citato art.
10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, di cui ai punti 12, 13,
14, 15, 16 e 17 del Considerato in diritto, sollevate, in riferimento agli artt.
3, 24, secondo comma, e 27 della Costituzione, dal Giudice di pace di Lecco,
sezione distaccata di Missaglia, e dal Giudice di pace di Torino con le
medesime ordinanze.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'8 luglio
2010.