ORDINANZA N. 143
ANNO 2006
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 13, comma 3-quater, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), introdotto dall’articolo 12, comma 1, della legge 30 luglio 2002 n. 189 (Modifiche alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), promossi con tre ordinanze del 28 ottobre 2004 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Fermo, rispettivamente iscritte ai numeri 78, 79 e 95 del registro ordinanze 2005 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale numeri 9 e 10, prima serie speciale, dell’anno 2005.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 22 febbraio 2006 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che con le tre ordinanze indicate in epigrafe, di identico tenore, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Fermo ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dell’art. 12, comma 3-quater, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifiche alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), e dell’art. 13, comma 3-quater, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), recte: dell’art. 13, comma 3-quater, del d.lgs. n. 286 del 1998, introdotto dall’art. 12, comma 1, della legge n. 189 del 2002;
che il giudice a quo premette di essere chiamato a celebrare l’udienza preliminare nei confronti di cittadini extracomunitari imputati di delitti in materia di sostanze stupefacenti, i quali risultano già espulsi dal territorio dello Stato;
che il rimettente dovrebbe di conseguenza fare applicazione della norma denunciata, la quale prevede che, nei casi di rilascio del nulla osta all’espulsione amministrativa dello straniero sottoposto a procedimento penale, il giudice, acquisita la prova dell’avvenuta espulsione, se non è stato ancora emesso il provvedimento che dispone il giudizio, pronuncia sentenza di non luogo a procedere;
che tale previsione contrasterebbe, tuttavia, con il principio di ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost., in quanto le finalità di politica criminale e penitenziaria, che potrebbero giustificare la scelta legislativa, risulterebbero contraddette dall’applicabilità della norma censurata ai soli reati per i quali è prevista l’udienza preliminare, e non anche a quelli, assai più numerosi, per i quali si debba procedere con citazione diretta a giudizio: limitazione – quella ora indicata – inequivocabilmente desumibile dalla locuzione «pronuncia sentenza di non luogo a procedere»;
che da ciò discenderebbe l’ulteriore illogica conseguenza che lo Stato rinuncerebbe alla potestà punitiva (o la sospenderebbe) – per effetto dell’avvenuta esecuzione di un provvedimento amministrativo, adottato per ragioni del tutto indipendenti dall’esercizio della giurisdizione penale – unicamente in rapporto ai reati più gravi, quali sono quelli che richiedono la celebrazione dell’udienza preliminare;
che, per questo verso, risulterebbe dunque violato anche il principio di eguaglianza;
che un ulteriore profilo di irragionevolezza deriverebbe dal disposto del comma 3-quinquies dell’art. 13 del d.lgs. n. 286 del 1998, in forza del quale, «se lo straniero espulso rientra illegalmente nel territorio dello Stato prima del termine previsto dal comma 14 ovvero, se di durata superiore, prima del termine di prescrizione del reato più grave per il quale si era proceduto nei suoi confronti, si applica l’articolo 345 del codice di procedura penale» (ossia la disposizione che consente l’esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto e contro la stessa persona ove sopravvenga una condizione di procedibilità mancante, anche nel caso in cui sia stata emessa sentenza di non luogo a procedere);
che da tale previsione discenderebbe, infatti, a contrario, che ove lo straniero rientri in Italia legalmente – ad esempio, a seguito dell’accoglimento del ricorso proposto avverso il provvedimento di espulsione, ai sensi del comma 8 dell’art. 13 del d.lgs. n. 286 del 1998 – non sarebbe più possibile procedere nei suoi confronti per i reati commessi, neppure ai sensi del citato art. 345 cod. proc. pen.;
che, d’altra parte, il richiamo a quest’ultima disposizione non varrebbe comunque ad assicurare la «perseguibilità postuma» dell’imputato, non essendo previsto alcun meccanismo che permetta di collegare, «a livello giudiziario», lo specifico procedimento definito con sentenza di non luogo a procedere al fatto nuovo costituito dall’illegale reingresso dell’imputato nel territorio nazionale;
che sarebbe leso infine, sotto diverso versante, il diritto di difesa degli imputati dei reati più gravi, i quali vedrebbero pregiudicata la loro aspettativa di proscioglimento nel merito dalle imputazioni stesse, cui potrebbero aspirare già nell’udienza preliminare;
che in tutti i giudizi di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.
Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano identiche questioni, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica pronuncia;
che il giudice a quo dubita, sotto plurimi profili, della legittimità costituzionale della previsione dell’art. 13, comma 3-quater, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, in forza della quale, nel caso di avvenuta espulsione dello straniero sottoposto a procedimento penale – conseguente al rilascio del nulla osta previsto dai commi 3, 3-bis e 3-ter del medesimo articolo – il giudice, se non è stato ancora emesso il provvedimento che dispone il giudizio, pronuncia sentenza di non luogo a procedere;
che nella disposizione censurata il rimettente ravvisa, anzitutto, una violazione dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., a causa della supposta limitazione della declaratoria di improcedibilità ai soli procedimenti che contemplano l’udienza preliminare, con esclusione, dunque, di quelli che prevedono la citazione diretta: limitazione che egli reputa «inequivocabilmente desumibile» dalla formula letterale del dettato normativo, stante il riferimento, ivi contenuto, alla «sentenza di non luogo a procedere» (costituente uno degli epiloghi tipici dell’udienza preliminare, a mente dell’art. 425 cod. proc. pen.);
che, arrestandosi al mero elemento letterale, il giudice a quo omette tuttavia di verificare la praticabilità di una diversa interpretazione, conforme a Costituzione, in forza della quale – proprio ad evitare la paradossale conseguenza denunciata, per cui potrebbero beneficiare della pronuncia di improcedibilità dell’azione penale solo gli imputati dei reati più gravi (quali sono quelli che richiedono la celebrazione dell’udienza preliminare) – la norma impugnata deve ritenersi applicabile, in via estensiva, anche nei procedimenti in cui detta udienza non sia prevista, allorché l’espulsione sia eseguita prima che si pervenga alla fase del giudizio;
che l’illogico assetto dianzi indicato deve presumersi, infatti, non rispondente alla voluntas legis, avuto riguardo agli obiettivi di politica criminale che lo stesso rimettente evoca come astrattamente idonei a giustificare la previsione normativa denunciata;
che nell’istituto contemplato dall’art. 13, comma 3-quater, del d.lgs. n. 286 del 1998 può infatti scorgersi – al lume delle correnti ricostruzioni – una condizione di procedibilità atipica, che trova la sua ratio nel diminuito interesse dello Stato alla punizione di soggetti ormai estromessi dal proprio territorio, in un’ottica similare – anche se non identica – a quella sottesa alle previsioni degli artt. 9 e 10 cod. pen., non disgiunta, peraltro, da esigenze deflattive del carico penale;
che siffatte rationes, peraltro, non soltanto non depongono nel senso della limitazione dell’operatività dell’istituto ai soli episodi criminosi di maggiore gravità, ma militano, semmai, in direzione esattamente inversa;
che a favore dell’anzidetta interpretazione estensiva si è del resto già espressa in più occasioni la giurisprudenza di legittimità, escludendo che essa trovi ostacolo insormontabile nell’argomento di ordine letterale allegato dal rimettente: e ciò a prescindere dall’ulteriore rilievo che, quando pure l’incongruenza normativa censurata dal giudice a quo fosse realmente riscontrabile, egli non spiega perché il ripristino dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza dovrebbe avvenire a mezzo della radicale rimozione dell’istituto considerato, anziché tramite l’estensione dello stesso ai casi (in tesi) irrazionalmente esclusi dal suo ambito applicativo (che, peraltro, non vengono in rilievo nei giudizi a quibus);
che quanto, poi, alla ulteriore violazione del principio di ragionevolezza che il giudice a quo fa discendere dalle asserite manchevolezze ed aporie dei meccanismi di riattivazione dell’esercizio dell’azione penale, dopo la declaratoria di improcedibilità, nel caso di reingresso dello straniero espulso nel territorio nazionale, è del tutto evidente come tali manchevolezze ed aporie non dipendano dalla pronuncia della sentenza di non luogo a procedere prevista dalla norma impugnata, ma, semmai, dalla disciplina che sta “a valle” di essa, contenuta in una distinta disposizione, non coinvolta nello scrutinio di costituzionalità (il comma 3-quinquies dell’art. 13 del d.lgs. n. 286 del 1998);
che, in ogni caso, le censure in parola risultano del tutto inconferenti rispetto all’oggetto dei giudizi a quibus, nei quali la sentenza di non luogo a procedere non è stata ancora pronunciata e tanto meno, dunque, risulta che lo straniero sia rientrato in Italia dopo di essa;
che quanto, infine, alla pretesa violazione del diritto di difesa, correlata alla compromissione dell’aspettativa dell’imputato di proscioglimento nel merito, la declaratoria di improcedibilità per avvenuta espulsione è configurata dal legislatore come un “beneficio” per l’imputato, stante la rinuncia all’esercizio della potestà punitiva dello Stato (sub condicione del mancato illegale rientro) che ne consegue: e tale natura essa indubbiamente ha nella generalità dei casi, avuto riguardo al concreto apprezzamento dell’imputato (oltre che alle maggiori difficoltà che egli può incontrare nell’esercizio delle facoltà difensive, una volta allontanato dal territorio dello Stato);
che, in tale ottica – a prescindere da ogni altra possibile considerazione – è del tutto priva di fondamento la pretesa del rimettente di veder rimosso, sic et simpliciter ed in termini generali, il “beneficio” dell’improcedibilità, in nome di un ipotetico ed astratto interesse dell’imputato ad affrontare il processo al fine di conseguire un proscioglimento nel merito: interesse che l’imputato potrebbe bene non avere, e che comunque il giudice a quo non deduce essere stato evocato nel caso concreto;
che, pertanto, la questione va dichiarata manifestamente inammissibile riguardo all’asserita violazione dell’art. 3 Cost., e manifestamente infondata quanto alla dedotta violazione dell’art. 24 Cost.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 3-quater, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), introdotto dall’art. 12, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifiche alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Fermo con le ordinanze indicate in epigrafe;
dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 3-quater, del citato decreto legislativo n. 286 del 1998 sollevate, in riferimento all’art. 24 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Fermo con le medesime ordinanze.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 aprile 2006.
Franco BILE, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria il 7 aprile 2006.