SENTENZA N. 202
ANNO 2013
Commento alla decisione di
Valerio Picalarga
per g.c. dell’Osservatorio AIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario Rosario MORELLI "
- Giancarlo CORAGGIO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 5, comma 5, e 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286 (Disposizioni sull’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dal territorio dello Stato) promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, nel procedimento vertente tra S.B. e il Ministero dell’Interno ed altra, con ordinanza del 16 luglio 2012 iscritta al n. 223 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 22 maggio 2013 il Giudice relatore Marta Cartabia.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza emessa il 14 giugno 2012 e depositata il 16 luglio 2012 (iscritta al n. 223 del registro ordinanze 2012), il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 5, comma 5, e 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Disposizioni sull’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dal territorio dello Stato), in relazione agli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, nonché all’art.117, primo comma, Cost. con riferimento all’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convezione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), d’ora innanzi CEDU.
2.– Il Tribunale rimettente premette che la questione portata all’esame della Corte ha origine da un giudizio per l’annullamento del decreto emesso in data 2 aprile 2012 dal Questore di Venezia, con il quale è stata respinta l’istanza del ricorrente, cittadino di un Paese non appartenente all’Unione europea, volta ad ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo. Il provvedimento amministrativo di diniego è fondato su un giudizio di pericolosità sociale dell’istante desunto da una precedente espulsione disposta il 15 febbraio 1992, da un «deferimento» all’autorità giudiziaria per il reato di «appropriazione indebita», risalente all’anno 2006, e da una condanna in materia di stupefacenti, riportata in data 22 gennaio 2010 e relativa a fatti del 2002, per la quale pende ancora appello.
Il TAR ritiene che il giudizio di pericolosità sociale non possa ritenersi adeguatamente motivato, in considerazione della risalenza nel tempo dei fatti addebitati e dell’inerzia mantenuta in questi anni dalla pubblica amministrazione. Ciò nondimeno, l’automatismo ostativo al rinnovo del permesso di soggiorno – dovuto alla subìta condanna, anche se non definitiva, relativa a un reato in materia di stupefacenti – avrebbe ugualmente comportato, ai sensi degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998, la reiezione del ricorso.
Infatti, simile automatismo ostativo alla permanenza sul territorio nazionale sarebbe escluso solo per i soggetti che si trovano nelle condizioni previste dagli artt. 5, comma 5, e 9 del citato d.lgs. n. 286 del 1998, per i quali soltanto la decisione sull’allontanamento dal territorio nazionale è subordinata a una valutazione discrezionale della pubblica amministrazione, che deve tenere conto della durata del soggiorno, del grado di inserimento dello straniero e dei suoi legami familiari.
2.1.– Più precisamente, l’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 stabilisce che «Non è ammesso in Italia lo straniero che (…) risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall’articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite. Impedisce l’ingresso dello straniero in Italia anche la condanna, con sentenza irrevocabile, per uno dei reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezione II, della legge 22 aprile 1941, n. 633, relativi alla tutela del diritto di autore, e degli articoli 473 e 474 del codice penale. Lo straniero per il quale è richiesto il ricongiungimento familiare, ai sensi dell’articolo 29, non è ammesso in Italia quando rappresenti una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone».
L’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, stabilisce poi che «Il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato, quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l’ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 22, comma 9, e sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio e che non si tratti di irregolarità amministrative sanabili. Nell’adottare il provvedimento di rifiuto del rilascio, di revoca o di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, ai sensi dell’articolo 29, si tiene anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d’origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale».
L’art. 9 del medesimo decreto legislativo prevede, al comma 4, che «Il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo non può essere rilasciato agli stranieri pericolosi per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. Nel valutare la pericolosità si tiene conto anche dell’appartenenza dello straniero ad una delle categorie indicate nell’articolo 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come sostituito dall’articolo 2 della legge 3 agosto 1988, n. 327, o nell’articolo 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, come sostituito dall’articolo 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646, ovvero di eventuali condanne anche non definitive, per i reati previsti dall’articolo 380 del codice di procedura penale, nonché, limitatamente ai delitti non colposi, dall’articolo 381 del medesimo codice. Ai fini dell’adozione di un provvedimento di diniego di rilascio del permesso di soggiorno di cui al presente comma il questore tiene conto altresì della durata del soggiorno nel territorio nazionale e dell’inserimento sociale, familiare e lavorativo dello straniero». Il successivo comma 11 dello stesso art. 9 stabilisce, inoltre, che: «Ai fini dell’adozione del provvedimento di espulsione di cui al comma 10, si tiene conto anche dell’età dell’interessato, della durata del soggiorno sul territorio nazionale, delle conseguenze dell’espulsione per l’interessato e i suoi familiari, dell’esistenza di legami familiari e sociali nel territorio nazionale e dell’assenza di tali vincoli con il Paese di origine».
Secondo il Tribunale rimettente, il tenore formale delle citate disposizioni e la loro interpretazione sistematica, alla luce delle direttive europee di cui costituiscono recepimento – direttiva del Consiglio 22 settembre 2003, n. 2003/86/CE (Direttiva del Consiglio relativa al ricongiungimento familiare) e direttiva del Consiglio 25 novembre 2003, n. 2003/109/CE (Direttiva del Consiglio relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo) – non consentono di estendere simile tutela rafforzata contro l’allontanamento a favore di quei soggetti che, come il ricorrente, verserebbero nelle condizioni sostanziali per ottenerla, ma non hanno svolto, o non sono stati in grado di svolgere, gli adempimenti formali necessari.
In particolare, in ordine al possesso dei requisiti sostanziali per ottenere la tutela rafforzata contro l’espulsione, il TAR ha rimarcato che il ricorrente è presente sul territorio nazionale dal 1992, anno in cui ha contratto matrimonio con una cittadina italiana, dalla quale ha avuto un figlio, ancora minorenne al momento in cui la pubblica amministrazione si è pronunciata sull’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo. I coniugi si sono separati e hanno divorziato il 4 luglio 2007 e, nella sentenza di scioglimento del vincolo matrimoniale, è stato stabilito l’affidamento del minore alla madre e l’obbligo di mantenimento a carico del padre, con facoltà di visita. Successivamente, il ricorrente si è coniugato in Italia con una cittadina di un Paese non appartenente all’Unione europea, titolare di un permesso per soggiornanti di lungo periodo, dalla quale ha avuto due figli ancora minorenni.
2.2.– Il rimettente ha precisato, altresì, di non ignorare l’esistenza di alcune pronunce del Consiglio di Stato, che hanno applicato la tutela rafforzata contro l’allontanamento anche a soggetti privi dei requisiti formali, in forza di una interpretazione degli artt. 5 e 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, asseritamente “conforme” all’art. 8 della CEDU.
Tuttavia, il TAR ha ritenuto che il tenore letterale delle disposizioni di cui agli artt. 5 e 9 del d.lgs. n. 286 del 1998 e la loro lettura sistematica alla luce delle citate direttive europee, non consentono in alcun modo una interpretazione conforme, di tal che l’operazione compiuta dal Consiglio di Stato equivale ad una sostanziale disapplicazione delle norme interne, ciò che il rimettente considera precluso dalla giurisprudenza costituzionale interna in materia di rapporti con la CEDU.
Pertanto il TAR ritiene che debba essere sollevata questione di legittimità costituzionale delle citate disposizioni e, dopo aver dato atto di aver già accolto la domanda cautelare del ricorrente, ha sospeso il giudizio in attesa della decisione di questa Corte, cui ha trasmesso gli atti.
3.– Quanto alla non manifesta infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale, il rimettente osserva, anzitutto, che la mancata estensione della tutela rafforzata contro l’allontanamento, quale prevista dagli artt. 5 e 9 del citato decreto, a chi non abbia presentato un’istanza di ricongiungimento perché la famiglia si è formata in Italia, violerebbe i principi di uguaglianza e di proporzionalità di cui all’art. 3 Cost., perché discrimina tra situazioni identiche dal punto di vista sostanziale, ledendo i diritti fondamentali degli stranieri e dei loro familiari per una ragione di carattere meramente formale, consistente nella mancata presentazione di un’istanza amministrativa.
Inoltre, il TAR ritiene che l’ingerenza pubblica nella vita familiare, giustificata dal solo mancato espletamento di una formalità, violerebbe l’art. 8 della CEDU, nella interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo e, quindi, l’art. 117, primo comma, Cost.
Infine, irragionevole e sproporzionato ex art. 3 Cost. risulterebbe il sacrificio dei diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost., dei diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio ex art. 29 Cost., del diritto e dovere dei genitori di istruire ed educare i figli ex art. 30 Cost. e del principio di cui all’art. 31 Cost., che dispone che la Repubblica agevola la formazione delle famiglie proteggendo l’infanzia e la gioventù.
4.– Con atto depositato in data 6 novembre 2012, il Presidente del Consiglio dei ministri è intervenuto nel giudizio, chiedendo che la sollevata questione di legittimità costituzionale venga dichiarata manifestamente inammissibile o non fondata.
4.1.– In primo luogo, la difesa dello Stato eccepisce il difetto di rilevanza della questione nel giudizio a quo. Invero, secondo la difesa erariale, il caso di specie rientrerebbe nelle ipotesi di mantenimento del diritto di soggiorno da parte dei familiari in caso di divorzio e di annullamento del matrimonio, quale previsto dall’art. 12 del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), in vigore al momento dell’adozione del provvedimento amministrativo impugnato. Conseguentemente la disciplina applicabile al caso di specie sarebbe quella stabilita dall’art. 20 del d.lgs. n. 30 del 2007, che non richiede alcun «automatismo espulsivo» e implica, viceversa, una valutazione discrezionale dei comportamenti individuali.
In particolare l’art. 12 del d.lgs. citato prevede al comma 2 che «il divorzio e l’annullamento del matrimonio con il cittadino dell’Unione non comportano la perdita del diritto di soggiorno dei familiari del cittadino dell’Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro a condizione che essi abbiano acquisito il diritto al soggiorno permanente di cui all’articolo 14 o che si verifichi una delle seguenti condizioni: a) il matrimonio è durato almeno tre anni, di cui almeno un anno nel territorio nazionale, prima dell’inizio del procedimento di divorzio o annullamento; b) il coniuge non avente la cittadinanza di uno Stato membro ha ottenuto l’affidamento dei figli del cittadino dell’Unione in base ad accordo tra i coniugi o a decisione giudiziaria; c) l’interessato risulti parte offesa in procedimento penale, in corso o definito con sentenza di condanna, per reati contro la persona commessi nell’ambito familiare; d) il coniuge non avente la cittadinanza di uno Stato membro beneficia, in base ad un accordo tra i coniugi o a decisione giudiziaria, di un diritto di visita al figlio minore, a condizione che l’organo giurisdizionale ha ritenuto che le visite devono obbligatoriamente essere effettuate nel territorio nazionale, e fino a quando sono considerate necessarie».
Il successivo art. 20 stabilisce, poi, al comma 4 che: «I provvedimenti di allontanamento sono adottati nel rispetto del principio di proporzionalità e non possono essere motivati da ragioni di ordine economico, né da ragioni estranee ai comportamenti individuali dell’interessato che rappresentino una minaccia concreta, effettiva e sufficientemente grave all’ordine pubblico o alla pubblica sicurezza. L’esistenza di condanne penali non giustifica di per sé l’adozione di tali provvedimenti», mentre il comma 5 precisa altresì che: «Nell’adottare un provvedimento di allontanamento, si tiene conto della durata del soggiorno in Italia dell’interessato, della sua età, della sua situazione familiare e economica, del suo stato di salute, della sua integrazione sociale e culturale nel territorio nazionale e dell’importanza dei suoi legami con il Paese di origine».
4.2.– In ogni caso, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, la questione sarebbe infondata, non essendo condivisibile la ricostruzione del quadro normativo effettuata dal rimettente. Infatti, il testo unico consente il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari anche quando la famiglia si è costituita in Italia e, pertanto, in forza di una lettura sistematica dell’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, deve escludersi che la tutela rafforzata contro l’allontanamento si rivolga esclusivamente a chi ha espletato la procedura amministrativa per il ricongiungimento familiare. Al contrario, lo straniero che si trovi regolarmente sul territorio dello Stato e che sia nelle condizioni per ottenere un permesso di soggiorno per motivi familiari, potrà essere allontanato solo con provvedimento che motivi la prevalenza delle esigenze di pubblica sicurezza su quelle dell’unità familiare e senza alcun automatismo. Nessuna lesione, quindi, degli invocati diritti fondamentali potrebbe considerarsi determinata dalla disciplina in vigore.
Quanto poi ai soggiornanti di lungo periodo, le condizioni previste dalla legge implicano uno scrutinio della condotta dell’istante, che non consente di ravvisare a priori una uguaglianza sostanziale che giustifichi il beneficio di una tutela rafforzata contro l’allontanamento anche in capo a coloro che non hanno espletato il relativo procedimento amministrativo, di tal che nessuna ingiustificata disparità di trattamento potrebbe ravvisarsi nella specie.
Considerato in diritto
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2013.