SENTENZA
N. 33
ANNO
2019
Commenti alla decisione di
I. Marco Galdi, L’obbligatorietà di forme associative per gli
enti locali fra tentativi di attuazione e ristabilimento dello status quo, per g.c. di Diritti fondamentali
II.
Alessandro Morelli, Obbligatorietà
delle forme associative dei comuni e visione congiunturale delle autonomie
locali, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
III.
Daniela Mone, L’associazionismo
comunale tra autonomia, buon andamento e garanzia dei diritti fondamentali.
Nota a sentenza Corte Cost. n. 33 del 4 marzo 2019, per g.c. di Diritti
fondamentali
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME
DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario
Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de
PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio
PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.
14, commi 26, 27, 28, 28-bis, 29, 30 e 31, del decreto-legge 31 maggio 2010, n.
78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività
economica), convertito,
con modificazioni, in legge 30 luglio 2010, n. 122, anche come modificato
dall’art.
19, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per
la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini
nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario),
convertito,
con modificazioni, in legge 7 agosto 2012, n. 135, e dell’art.
1, commi 110 e 111, della legge della Regione Campania 7 agosto 2014, n. 16,
recante «Interventi di rilancio e sviluppo dell’economia regionale nonché di
carattere ordinamentale e organizzativo (collegato alla legge di stabilità
regionale 2014)», promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il
Lazio, sezione prima ter, nel procedimento vertente tra il Comune di Liveri e
altri e il Ministero dell’interno e altri, con ordinanza
del 20 gennaio 2017, iscritta al n. 65 del registro ordinanze 2017 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale,
dell’anno 2017.
Visti l’atto di costituzione del Comune di
Liveri e altri, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica dell’8 gennaio 2019
il Giudice relatore Luca Antonini;
uditi l’avvocato Aldo Sandulli
per il Comune di Liveri e l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto
in fatto
1.– Con ordinanza del 20 gennaio 2017 (r.o. n. 65 del 2017), il Tribunale amministrativo regionale
per il Lazio, sezione prima ter, ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 14, commi da 26 a 31, del decreto-legge 31 maggio
2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di
competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio
2010, n. 122, anche come modificato dall’art. 19, comma 1, del decreto-legge 6
luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica
con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento
patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con
modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 135, e dell’art. 1, commi 110 e
111, della legge della Regione Campania 7 agosto 2014, n. 16, recante
«Interventi di rilancio e sviluppo dell’economia regionale nonché di carattere
ordinamentale e organizzativo (collegato alla legge di stabilità regionale
2014)».
Ad avviso del giudice rimettente, la normativa
statale si porrebbe in contrasto, nel complesso, con gli artt. 3, 5, 77, secondo comma, 95, 97, 114, 117, primo comma –
in relazione all’art. 3 della Carta
europea dell’autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985,
ratificata e resa esecutiva con legge 30 dicembre 1989, n. 439 – e sesto comma, 118, 119 e 133, secondo comma della
Costituzione.
La normativa regionale contrasterebbe con gli artt. 3, 5, 95, 97, 114, 117, primo comma –
in relazione all’art. 3 della Carta
europea dell’autonomia locale – e sesto comma, e 118 Cost., per aver
pretermesso il necessario coinvolgimento degli enti locali nella individuazione
degli ambiti ottimali per l’esercizio associato delle funzioni fondamentali.
La normativa statale, in sintesi, stabilisce le
funzioni fondamentali dei Comuni e prevede l’obbligo per i più piccoli di tali
enti (quelli con popolazione fino a 5.000 abitanti o a 3.000, se montani) di
esercitare le predette funzioni in forma associata; la normativa regionale, in
attuazione di una delle impugnate disposizioni statali, individua la dimensione
territoriale ottimale e omogenea funzionale all’esercizio associato, nonché le
scadenze temporali per l’avvio di tale modalità di gestione.
2.– Il TAR rimettente è chiamato a decidere un
ricorso introdotto congiuntamente da cinque Comuni campani e dalla Associazione
per la Sussidiarietà e la Modernizzazione degli Enti Locali – ASMEL,
associazione esponenziale degli enti locali: questi hanno impugnato la
circolare del Ministero dell’interno del 12 gennaio 2015 n. 323, con la quale
ai prefetti sono state impartite indicazioni operative per procedere alla
ricognizione dello stato di attuazione della normativa e per diffidare i Comuni
inadempienti; i ricorrenti hanno altresì chiesto di accertare di non essere
obbligati a quanto previsto dalle disposizioni di legge censurate. A sostegno
del ricorso, i Comuni e l’associazione hanno dedotto che il provvedimento
ministeriale sarebbe affetto da illegittimità derivata a causa della
illegittimità costituzionale della disciplina legislativa sulla cui base è
stato adottato.
2.1.– In punto di rilevanza, l’ordinanza ritiene
la decisione del ricorso strettamente dipendente dall’esito del giudizio di
costituzionalità e ravvisa nel giudizio principale un petitum
separato e distinto dalla questione di legittimità costituzionale.
L’ordinanza riconosce anche l’attualità
dell’interesse a ricorrere, che permane «nonostante le intervenute proroghe del
termine fissato dalla legge per l’attuazione dell’obbligo legale gravante sugli
enti locali ricorrenti». Per un verso, il differimento del termine non
inciderebbe sull’attualità della lesione, rimanendo comunque certo il momento
in cui la stessa si realizzerà; per altro verso, la circolare impugnata
imporrebbe precise attività prodromiche all’attuazione dell’obbligo
legislativamente imposto, costituenti obblighi attuali sia al momento della
proposizione del ricorso che dell’ordinanza di rimessione.
2.2.– In punto di non manifesta infondatezza,
l’ordinanza ripercorre gli interventi normativi che hanno interessato la
materia in esame e illustra partitamente le censure.
In particolare, il giudice rimettente sostiene
la «carenza dei presupposti di necessità e di urgenza per l’adozione del
decreto-legge», richiesti dall’art. 77, secondo comma,
Cost.: richiamando la sentenza n. 220 del
2013, evidenzia che le norme di cui all’art. 14, commi da 26 a 31, del d.l.
n. 78 del 2010 introdurrebbero una riforma ordinamentale giungendo a «delineare
in via definitiva l’elenco delle funzioni fondamentali dei Comuni», ai sensi
dell’art. 117,
secondo comma, lett. p), Cost. e a «incidere sull’assetto organizzativo dei
Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti prevedendo, in via
definitiva, l’obbligo di esercizio in forma associata delle funzioni
fondamentali stesse». Pertanto, in parte qua, il d.l. n. 78 del 2010 non
trarrebbe la propria legittimazione dalla necessità di disciplinare casi
straordinari, bensì detterebbe «un’ordinaria disciplina ordinamentale degli
enti locali, senza peraltro contenere misure di immediata applicazione»; tale
profilo risulterebbe anche dalla previsione, contenuta nel comma 31-ter
dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, di una «attuazione dilazionata nel
tempo», confermata dalle ulteriori proroghe disposte. Infine, l’ordinanza
ritiene che le medesime disposizioni non sarebbero «adeguatamente giustificate
nemmeno sotto il profilo dei risparmi di spesa che si sarebbero potuti ottenere
in virtù dell’intervento riformatore, risparmi che, nella specie, non risultano
essere stati mai quantificati» (sono richiamati al riguardo dei passaggi della
relazione tecnica presentata dal Governo alle Camere, riferiti rispettivamente
al testo originario dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010 e al testo novellato
dall’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, come convertito).
2.3.– Un distinto gruppo di questioni di
legittimità costituzionale delle norme di cui all’art. 14, commi da 26 a 31,
del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, è sollevato per contrasto con gli artt. 3, 5, 95 e 97, 117, sesto comma, 114, 118 Cost., con
riferimento ai principi di buon andamento, differenziazione e tutela delle
autonomie locali; nonché per contrasto con l’art. 117, primo comma,
Cost., in relazione all’art. 3 della Carta
europea dell’autonomia locale.
Gli argomenti a sostegno delle censure si
incentrano sulla obbligatorietà e sulla rigidità del nuovo assetto
dell’esercizio associato delle funzioni comunali, a fronte della diversa
caratterizzazione che i relativi istituti avevano prima della introduzione
della disciplina in questione, quando era prevista «la volontarietà nell’an e
la flessibilità nel quomodo della scelta delle forme
associative alle quali aderire».
Da ciò conseguirebbero, secondo il giudice
rimettente, «delle rilevanti conseguenze sul normale funzionamento del circuito
democratico», in quanto gli organi gestionali non sarebbero più sottoposti
all’indirizzo politico di quelli rappresentativi, con conseguente accentramento
delle funzioni di indirizzo e vulnus del principio di responsabilità politica
degli organi democraticamente eletti, espresso dagli artt. 95 e 97 Cost., nonché
dell’autonomia degli enti locali coinvolti (viene richiamata la sentenza n. 52 del
1969). Inoltre, la disciplina introdotta non assicurerebbe il rispetto
dell’art. 3 della Carta europea dell’autonomia locale; ai sensi di tale
disposizione «[p]er autonomia locale, s’intende il
diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare
ed amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a
favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici», precisando
che «[t]ale diritto è esercitato da consigli e
assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario,
diretto ed universale, in grado di disporre di organi esecutivi responsabili
nei loro confronti».
Uno specifico profilo di censura della
disciplina dell’esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni
fondamentali viene ravvisato nella compressione della potestà regolamentare dei
Comuni riconosciuta, dall’art. 117, sesto comma,
Cost. in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento
delle funzioni loro attribuite. A tale riguardo, l’ordinanza richiama la
giurisprudenza costituzionale sulle condizioni affinché il legislatore, statale
e regionale, possa coordinare l’esercizio delle funzioni locali (sentenze n. 229 del
2001 e n.
129 del 2016, le quali richiedono il coinvolgimento e la partecipazione
degli enti locali interessati).
2.4.– Con riferimento alle questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 110 e 111 della legge reg.
Campania n. 16 del 2014, l’ordinanza ravvisa la non manifesta infondatezza «[p]er le medesime ragioni e per contrasto con gli stessi
parametri costituzionali di cui al punto precedente» (supra, punto 2.3.),
aggiungendo che nell’individuare gli ambiti ottimali per l’esercizio delle
funzioni fondamentali la legge avrebbe fatto generico riferimento ai cosiddetti
sistemi territoriali di sviluppo, previsti a loro volta in ambito urbanistico
dalla legge della Regione Campania 13 ottobre 2008, n. 13 (Piano Territoriale
Regionale), «senza in merito svolgere adeguata istruttoria attraverso il
necessario coinvolgimento degli enti locali interessati».
2.5.– Infine, l’ordinanza ritiene non
manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale delle norme
dell’art. 14, commi da 26 a 31, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, per
violazione degli artt.
133, secondo comma, Cost., in relazione all’istituzione di nuovi Comuni, e
degli artt. 114 e
119 Cost.,
riguardo all’autonomia organizzativa e finanziaria degli enti locali. Ciò in
quanto, sebbene attraverso l’esercizio associato di quasi tutte le funzioni
fondamentali, imposto per legge, «gli enti interessati non risultino
formalmente estinti», residuerebbe loro un livello di autonomia insufficiente,
per potestà regolamentare, titolarità di funzioni e autonomia finanziaria di
entrata e di spesa.
Pertanto, poiché le norme censurate hanno
disposto «la traslazione di tutte queste funzioni ad un soggetto nuovo o
diverso, spogliandone il precedente titolare», ai fini dell’art. 133, secondo comma,
Cost. tale situazione non sarebbe «distinguibile dall’estinzione dell’ente
locale per fusione o incorporazione», oltre ad essere mancata la «previsione
del coinvolgimento delle popolazioni interessate» richiesta dall’art. 133, secondo comma,
Cost.
3.– Con atto depositato il 30 maggio 2017, è
intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le
questioni di legittimità costituzionale vengano dichiarate manifestamente
inammissibili e comunque infondate.
3.1.– L’interveniente ritiene che le questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 110 e 111, della legge reg.
Campania n. 16 del 2014 siano inammissibili, prima ancora che infondate,
essendo state solo enunciate nell’ordinanza di rimessione e in alcun modo
sviluppate e motivate.
3.2.– L’Avvocatura generale prende posizione
sulla rilevanza delle questioni relative alle norme dell’art. 14 del d.l. n. 78
del 2010, ritenendo che la conclusione positiva, come motivata dal giudice
rimettente, parrebbe giustificata dal fatto che i ricorrenti agiscano anche per
l’accertamento negativo dell’obbligo di stipulare una convenzione per
l’esercizio in forma associata o tramite unione delle proprie funzioni
fondamentali.
3.3.– Nel merito, sul ritenuto contrasto con l’art. 77, secondo comma,
Cost., la difesa dell’interveniente lo ritiene escluso poiché le
disposizioni di cui ai commi da 26 a 31 del citato art. 14 «sono dirette ad
assicurare il coordinamento della finanza pubblica e il contenimento delle
spese per l’esercizio delle funzioni fondamentali dei Comuni» e pertanto la
mancanza dei presupposti di necessità e urgenza non sarebbe evidente, come
invece richiesto dalla giurisprudenza costituzionale (si richiamano le sentenze n. 287
e 133 del 2016).
L’interveniente afferma poi che il d.l. n. 78
del 2010 non avrebbe «introdotto (ex novo) una "riforma ordinamentale” degli
enti locali», ricordando le disposizioni che già nel vigore della legge 8
giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali) – poi trasfuse nel
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali) – disciplinavano le gestioni associate di
funzioni e servizi «anche in forma obbligatoria».
In ogni caso, secondo l’Avvocatura, sarebbe
necessario «valutare il testo delle disposizioni del decreto in esame nella
loro versione originaria e non in quella (diversa) attuale, frutto di successivi
interventi normativi, come tali privi di rilevanza ex art. 77, comma 2 Cost.».
Seguendo tale criterio, sarebbe insussistente la censura al Governo di avere
delineato le funzioni fondamentali dei Comuni, in quanto queste sarebbero
piuttosto state definite per relationem richiamando
un preesistente testo legislativo, l’art. 21, comma 3, della legge 5 maggio
2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione
dell’articolo 119 della Costituzione) che, per i Comuni, individuava
provvisoriamente un minor numero di funzioni fondamentali e relativi servizi.
Inoltre, quanto alla «ritenuta assenza di "misure di immediata applicazione”»
si fa rilevare che il comma 31 dell’art. 14 censurato, nella sua prima
versione, «prevedeva una tempistica di attuazione accelerata» e che «[s]olo successivamente si è ritenuto di procrastinare il dies ad quem».
Con riferimento agli ulteriori parametri di
costituzionalità dei quali l’ordinanza ravvisa la violazione, l’interveniente
ribadisce che ipotesi di gestione associata obbligatoria di funzioni e servizi
erano state già contemplate dal legislatore e afferma che la previsione di tale
obbligo a carico degli enti locali di modeste dimensioni non lederebbe il
principio di buon andamento, ma sarebbe ad esso funzionale, oltre che idoneo a
garantire una gestione più efficace, efficiente ed economica mediante gli
strumenti dell’unione di Comuni o della convenzione, rientrando così «tra i poteri
che la Costituzione riserva allo Stato in punto di coordinamento della finanza
pubblica».
Inoltre, non sarebbero fondate neppure le
ulteriori doglianze in merito alla perdita di autonomia e potestà regolamentare
in capo agli enti locali soggetti all’obbligo di gestione associata, tenuto
conto dei caratteri propri degli strumenti che, alternativamente, gli stessi
possono utilizzare (convenzione e unione di Comuni). Anche laddove imposta, la
gestione associata di funzioni proprie dei Comuni non potrebbe essere
considerata, di per sé, illegittima, secondo quanto affermato dalla sentenza n.
160 del 2016.
L’ultima censura prospettata dall’ordinanza di
rimessione, relativa alla denunciata violazione degli artt. 133, 114 e 119 Cost., viene,
infine, confutata richiamando la sentenza n. 50 del
2015 e ritenendo che la normativa censurata non farebbe perdere agli enti
locali la propria identità, ma comporterebbe l’esercizio congiunto di una parte
delle loro funzioni, «contribuendo alla realizzazione dell’obiettivo del
contenimento complessivo delle spese e all’ottimizzazione della gestione delle
predette funzioni».
4.– Il Presidente della Giunta regionale non è
intervenuto in giudizio.
5.– Con un’unica memoria depositata il 30 maggio
2017, si sono costituiti nel giudizio tre dei cinque Comuni ricorrenti innanzi
al TAR Lazio (e precisamente i Comuni di Baia e Latina, Liveri e Teora) nonché
l’Associazione per la Sussidiarietà e la Modernizzazione degli Enti Locali –
ASMEL, del pari ricorrente nel giudizio amministrativo, chiedendo che le
questioni sollevate con l’ordinanza introduttiva del giudizio vengano
dichiarate fondate.
5.1.– Le parti argomentano sulla rilevanza delle
questioni con riferimento sia all’azione di accertamento negativo che
all’azione volta all’annullamento della circolare ministeriale del 12 gennaio
2015.
5.2.– Nel merito, con riferimento al primo
ordine di censure, si sostiene la violazione dell’art. 77 Cost. per
incompetenza della fonte a riformare organicamente l’ordinamento delle
autonomie locali e per carenza del requisito dell’urgenza, dimostrata dal
differimento nel tempo degli effetti delle disposizioni.
Infatti, in contrasto con la giurisprudenza
costituzionale, l’art. 14 censurato non si sarebbe limitato a disciplinare
«singole funzioni», ma conterrebbe e definirebbe «per intero l’elenco stesso
delle funzioni fondamentali»; inoltre, il medesimo articolo non avrebbe
regolato uno «specifico profilo» della funzione, ma la titolarità soggettiva
della stessa, con significative ripercussioni sul ruolo degli organi di governo
dell’ente e delle normali dinamiche istituzionali della grande maggioranza dei
Comuni italiani.
Quanto alla carenza del requisito dell’urgenza,
questa risulterebbe, oltre che dal differimento della completa attuazione,
anche dalla presenza di effetti finanziari non quantificabili e valutabili; in
ogni caso, le norme contenute nel d.l. n. 78 del 2010 non potevano dirsi di
«immediata applicazione».
Nel trattare il secondo gruppo di censure di
costituzionalità, la memoria di parte richiama la generale disciplina
dell’esercizio associato delle funzioni comunali, in base alla quale era
rimesso agli enti valutare, caso per caso, l’utilità della gestione associata,
nel pieno rispetto dell’autonomia degli enti e del buon andamento
dell’organizzazione amministrativa; il d.l. n. 78 del 2010 avrebbe invece
ribaltato questo assetto «che da volontario diviene obbligatorio; da
flessibile, rigido; da settoriale, generale».
Si evidenzia, inoltre, che per ognuna delle
funzioni fondamentali potrebbero ipotizzarsi ambiti territoriali ottimali di
gestione differenti e che dalla unificazione degli uffici deriverebbero l’interruzione
del normale funzionamento del circuito democratico, nonché l’imposizione di un
modello organizzativo rigido, che sacrificherebbe «l’interesse alla migliore
organizzazione della funzione e del servizio pubblico, ad esigenze orizzontali
di contenimento della spesa».
Il ruolo dei consigli e delle giunte dei singoli
Comuni verrebbe, altresì, svalutato in quanto sia il potere di indirizzo
politico-amministrativo che quello di attribuzione degli incarichi di funzione
sarebbero affidati «ad organi di nuova istituzione, quali le conferenze dei
sindaci o altri luoghi di rappresentanza condivisa dei Comuni associati»; ciò
porterebbe peraltro a «un sistema di governo acefalo», che non garantirebbe
all’azione amministrativa di perseguire gli obiettivi e le priorità fissati
dalle maggioranze consiliari.
Quanto alla imposizione del modello
organizzativo rigido, si argomenta che le norme censurate violerebbero le
garanzie sostanziali e procedurali fissate dalla Costituzione a tutela
dell’autonomia regolamentare e organizzativa comunale. Infatti, il potere
regolamentare dei piccoli Comuni verrebbe «compresso orizzontalmente per tutte
le funzioni assegnate, indipendentemente da ogni valutazione in merito
all’ambito territoriale più idoneo alla loro gestione»; inoltre, la
«presunzione iuris et de iure di inidoneità» dei
piccoli Comuni a svolgere autonomamente le funzioni fondamentali, posta «per
ragioni di "coordinamento della finanza pubblica”» non sarebbe autorizzata
dalla Costituzione, costituendo una «gerarchizzazione dell’interesse
organizzativo all’interesse finanziario» e «impedendo ogni diverso
bilanciamento che non si risolva nella necessaria soccombenza del primo al
secondo», peraltro con un «preteso esercizio di competenze statali trasversali
(quale il coordinamento finanziario), che invadono competenze materiali
regionali (l’ordinamento locale)».
Vi sarebbe poi l’irragionevolezza e
contraddittorietà delle norme censurate, in quanto sarebbe non dimostrata la
inefficienza e diseconomicità della gestione amministrativa dei piccoli Comuni,
così come sarebbe non corretta la presunzione di risparmio legata alla gestione
delle funzioni su scala sovra-comunale, effetto che, invece, potrebbe valere
per l’erogazione di alcuni pubblici servizi, mentre tale «approccio non può
essere esteso alle funzioni in senso proprio né, tantomeno, a tutte le funzioni
fondamentali» senza, quantomeno, una verifica casistica.
Con specifico riferimento alle questioni di
costituzionalità dell’art. 1, commi 110 e 111, della legge reg. Campania n. 16
del 2014, la memoria sottolinea che tali norme «sono state adottate senza la
ben che minima istruttoria e programmazione, all’interno di una legge omnibus,
e senza alcun coinvolgimento degli enti locali interessati». Oltre ai
cosiddetti sistemi territoriali di sviluppo, individuati come ambiti ottimali
per l’esercizio delle funzioni fondamentali, resterebbero salvi i diversi
ambiti definiti in applicazione delle normative regionali in materia di
gestione del servizio idrico integrato, di smaltimento dei rifiuti e dei
servizi sociali per l’esercizio delle relative funzioni, ma tali differenti
ambiti non sarebbero tra loro coincidenti.
Si sostiene poi la irragionevolezza del criterio
prescelto, per essere i cosiddetti sistemi territoriali di sviluppo delle
aggregazioni amplissime, con una popolazione media molto superiore ai centomila
abitanti, e si segnalano le difficoltà per i piccoli Comuni, che potrebbero
essere «fagocitati» dai Comuni grandi o grandissimi presenti nei propri ambiti,
o che potrebbero non confinare con altri Comuni minori «essendo magari
contermini con Comuni di diverso ambito».
Infine, i predetti sistemi territoriali di
sviluppo sarebbero inadatti a soddisfare gli obiettivi di efficienza ed
economicità richiesti dal d.l. n. 78 del 2010, in quanto concepiti come ambiti
di programmazione di interventi essenzialmente in materia urbanistica.
Quanto al terzo gruppo di censure, riferite agli
artt. 133, 114 e 119 Cost., la
memoria sviluppa gli argomenti del giudice rimettente, evidenziando che
all’esito del percorso associativo obbligatorio non permarrebbe in capo al
Comune il «"nucleo minimo” di attribuzioni tali da consentire la sua
qualificazione costituzionale in termini di "ente autonomo”», per cui si
sarebbe disposta la traslazione delle funzioni fondamentali «ad un soggetto
nuovo o diverso, spogliandone il precedente titolare»: ai fini dell’art. 133 Cost., tale
condizione non sarebbe quindi «distinguibile dall’estinzione dell’ente locale
per fusione o incorporazione».
6.– In prossimità dell’udienza sono state
depositate tempestive memorie.
6.1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri,
con riferimento alla questione relativa all’art. 77 Cost.,
evidenzia che la sentenza
n. 220 del 2013 richiamata dal rimettente riguardava «una fattispecie di
portata ben più ampia di quella oggetto dell’odierno giudizio», mentre il d.l.
n. 78 del 2010 non avrebbe «introdotto alcuna riforma "ordinamentale”,
limitandosi a prevedere, ai fini del contenimento della spesa pubblica» e di
maggiore efficienza, «alcuni specifici obblighi per l’esercizio delle funzioni
[…] a carico dei piccoli Comuni». Rientrerebbe, inoltre, nella competenza dello
Stato sia determinare le funzioni fondamentali dei Comuni sia anche
individuarne, a fini di contenimento della spesa, le modalità di esercizio.
Sono richiamati i contenuti della indagine
conoscitiva della Commissione affari costituzionali della Camera, svolta sulla
materia in questione e conclusa nel novembre del 2016, per dimostrare la
infondatezza della censura riferita al «presunto danno al "funzionamento del
circuito democratico”».
6.2.– Le parti costituite ribadiscono la «natura
"ordinamentale” e di "sistema” delle norme introdotte» che, unitamente al
differimento degli effetti, attesterebbe la violazione dell’art. 77 Cost.;
replicando all’Avvocatura dello Stato, ritengono poi che correttamente
l’ordinanza abbia censurato le disposizioni del d.l. n. 78 del 2010 come
modificate dal d.l. n. 95 del 2012; quest’ultimo decreto costituirebbe quindi
«il thema decidendum dell’odierno incidente di costituzionalità».
Quanto alle censure riferite «alla compressione
dell’autonomia locale», la memoria ritiene che le sentenze n. 160 del
2016 e n. 50
del 2015, evocate dalla Avvocatura dello Stato, offrano in realtà una
indiretta conferma della fondatezza delle questioni.
Dalla prima sentenza,
infatti, discenderebbe una legittimazione della gestione obbligatoria in forza
del buon andamento e della migliore organizzazione di un dato servizio, anziché
in vista di meri risparmi di spesa; dalla seconda sentenza,
invece, non si potrebbero trarre argomenti per l’infondatezza, atteso che le
norme in quella sede scrutinate «non imponevano affatto ai Comuni la gestione
associata di funzioni amministrative».
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per il
Lazio, sezione prima ter, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 14, commi 26, 27, 28, 28-bis, 29, 30 e 31, del decreto-legge 31
maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e
di competitività economica), convertito, con modificazioni, in legge 30 luglio
2010, n. 122, anche come modificato dall’art. 19, comma 1, del decreto-legge 6
luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica
con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento
patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con
modificazioni, in legge 7 agosto 2012, n. 135, e dell’art. 1, commi 110 e 111,
della legge della Regione Campania 7 agosto 2014, n. 16, recante «Interventi di
rilancio e sviluppo dell’economia regionale nonché di carattere ordinamentale e
organizzativo (collegato alla legge di stabilità regionale 2014)». Ad avviso
del giudice rimettente, la normativa statale si porrebbe in contrasto, nel
complesso, con gli artt. 3, 5, 77, secondo comma, 95, 97, 114, 117, primo comma
– in relazione all’art. 3 della Carta europea dell’autonomia locale, firmata a
Strasburgo il 15 ottobre 1985, ratificata e resa esecutiva con legge 30
dicembre 1989, n. 439– e sesto comma, 118, 119 e 133, secondo comma, della
Costituzione.
La normativa regionale contrasterebbe con gli
artt. 3, 5, 95, 97, 114, 117, primo comma – in relazione all’art. 3 della Carta
europea dell’autonomia locale – e sesto comma, e 118 Cost., per aver
pretermesso il necessario coinvolgimento degli enti locali nella individuazione
degli ambiti ottimali per l’esercizio associato delle funzioni fondamentali.
Le disposizioni statali denunciate, in sintesi,
stabiliscono l’obbligo per i Comuni di esercitare le funzioni fondamentali di
cui sono titolari (comma 26), elencano le funzioni fondamentali medesime (comma
27), pongono l’obbligo, per i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti (o a
3.000, se montani), di esercitarle in forma associata mediante unione di Comuni
o convenzione (comma 28), disciplinano l’unione rinviando all’art. 32 del
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 recante «Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali» (comma 28-bis), vietano di svolgerle
singolarmente o mediante più di una forma associativa (comma 29), demandano
alle Regioni, nelle materie di cui all’articolo 117, terzo e quarto comma,
Cost., l’individuazione della dimensione territoriale ottimale per il predetto
esercizio associato (comma 30) e definiscono il limite demografico minimo che
le forme associate devono raggiungere (comma 31).
La normativa regionale denunciata, in attuazione
del citato comma 30, individua la dimensione territoriale ottimale e omogenea
funzionale all’esercizio associato e le scadenze temporali per l’avvio di tale
modalità di gestione.
Il termine entro cui i Comuni interessati devono
assicurare l’attuazione delle disposizioni di cui all’art. 14 del d.l. n. 78
del 2010 è stato più volte differito e, attualmente, è fissato al 30 giugno
2019, ai sensi dell’art. 1, comma 2-bis, del decreto-legge 25 luglio 2018, n.
91 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative), convertito, con
modificazioni, nella legge 21 settembre 2018, n. 108.
2.– Il TAR rimettente si trova a decidere su un
ricorso presentato da cinque Comuni campani, aventi popolazione inferiore a
5.000 abitanti, e da un’associazione esponenziale di enti locali. I ricorrenti
hanno impugnato la circolare del Ministero dell’interno del 12 gennaio 2015 n.
323, con la quale ai prefetti sono state impartite indicazioni operative per
procedere alla ricognizione dello stato di attuazione della normativa e per
diffidare i Comuni inadempienti; i ricorrenti hanno altresì chiesto di
accertare di non essere obbligati a quanto previsto dalle disposizioni di legge
censurate. A sostegno del ricorso, i Comuni e l’associazione hanno dedotto che
il provvedimento ministeriale sarebbe affetto da illegittimità derivata a causa
della illegittimità costituzionale della disciplina legislativa sulla cui base è
stato adottato.
3.– In punto di rilevanza, il TAR rimettente
evidenzia che il petitum oggetto del ricorso
presentato sarebbe «costituito dalla pronuncia di accertamento negativo della
sussistenza dell’obbligo, per i Comuni ricorrenti, di associarsi in via
convenzionale, e dalla correlata pronuncia di annullamento della circolare
ministeriale». Ciò consentirebbe di ritenere che, come affermato dalla
giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 1 del
2014), «la circostanza che la dedotta incostituzionalità di una o più norme
legislative costituisca l’unico motivo di ricorso innanzi al giudice a quo non
impedisce di considerare sussistente il requisito della rilevanza, ogni
qualvolta sia individuabile nel giudizio principale un petitum
separato e distinto dalla questione (o dalle questioni) di legittimità
costituzionale, sul quale il giudice rimettente sia chiamato a pronunciarsi».
D’altro canto, la circolare impugnata avrebbe un
contenuto complesso in quanto, accanto a una parte di carattere meramente
ricognitivo della normativa in materia, ve ne sarebbe un’altra con «indubbia
portata precettiva», ordinando ai prefetti, alla scadenza del termine di legge,
l’adozione di un formale atto di diffida nei confronti degli enti locali
rimasti inadempienti. Ciò qualificherebbe la circolare stessa come atto
immediatamente lesivo per i Comuni ricorrenti e, perciò, autonomamente
impugnabile.
L’ordinanza riconosce anche l’attualità
dell’interesse a ricorrere, che permarrebbe «nonostante le intervenute proroghe
del termine fissato dalla legge per l’attuazione dell’obbligo legale gravante
sugli enti locali ricorrenti». Per un verso, il differimento del termine non
inciderebbe sull’attualità della lesione, rimanendo comunque certo il momento
in cui la stessa si realizzerà; per altro verso, la circolare impugnata
imporrebbe precise attività prodromiche all’attuazione dell’obbligo
legislativamente prescritto, costituenti obblighi attuali sia al momento della
proposizione del ricorso che dell’ordinanza di rimessione.
Il TAR ritiene, quindi, che le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 14, commi da 26 a 31, del d.l. n. 78 del
2010, come convertito, siano pregiudiziali rispetto alla decisione definitiva del
ricorso, «risultando quest’ultima strettamente dipendente dall’esito del
giudizio di costituzionalità».
4.– Ai fini della valutazione dell’ammissibilità
delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, occorre
preliminarmente osservare che alcune delle disposizioni impugnate definiscono
in via generale le funzioni fondamentali di tutti i Comuni italiani (art. 14,
comma 27, del d.l. n. 78 del 2010), il cui esercizio è reso obbligatorio per
ciascuno di tali enti (art. 14, comma 26, del d.l. n. 78 del 2010), mentre
altre (i successivi commi, da 28 a 31) hanno quali specifici destinatari i
Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti (categoria alla quale appartengono
gli enti ricorrenti nel giudizio a quo). Solo per questi viene stabilito che le
suddette funzioni fondamentali devono essere obbligatoriamente esercitate in
forma associata, con modalità organizzative e temporali espressamente
disciplinate sia dalle stesse disposizioni di fonte statale che da quelle di
fonte regionale.
Ciò premesso, le argomentazioni svolte dal TAR
del Lazio in punto di rilevanza non si riferiscono in maniera analitica a
ognuna delle disposizioni oggetto delle questioni sollevate, ma sono illustrate
con riferimento alla normativa, contenuta nei commi da 26 a 31 del citato art.
14, considerata nel suo insieme.
In tale contesto, l’esposizione del giudice
rimettente è comunque chiaramente incentrata sul profilo della immediata
lesività della circolare impugnata, nella parte in cui ha prescritto ai
prefetti di verificare lo stato di attuazione della normativa introdotta dal
d.l. n. 78 del 2010 e di diffidare ad adempiere i Comuni che, in violazione
dell’obbligo di gestione in forma associata delle funzioni fondamentali, non vi
abbiano provveduto nelle modalità e nei termini previsti.
L’ordinanza, invece, non chiarisce per quali
motivi la individuazione delle funzioni fondamentali, ossia lo specifico
oggetto di una o più di esse, rileverebbe nella risoluzione della controversia
sottoposta al rimettente.
Il rapporto di pregiudizialità che il giudice
rimettente ravvisa tra le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14,
commi da 26 a 31, del d.l. n. 78 del 2010 e la decisione definitiva del
ricorso, deve, invero, essere propriamente riferito solo ai commi 28, 28-bis, 29,
30 e 31 nonché all’art. 1, commi 110 e 111, della legge reg. Campania n. 16 del
2014.
Tali, infatti, sono le uniche disposizioni che
impongono ai Comuni di minori dimensioni di gestire le funzioni fondamentali obbligatoriamente
in forma associata, disciplinandone modalità e termini, con la conseguenza che
solo la loro eventuale illegittimità incide sul procedimento principale, come
richiesto dall’art. 23 della legge 11 marzo 1957, n. 87 (Norme sulla costituzione
e sul funzionamento della Corte costituzionale) e costantemente confermato
dalla giurisprudenza di questa Corte (ex multis, sentenze n. 67 del
2014, n. 91
del 2013, n.
236 e n. 224
del 2012).
Non altrettanto può ritenersi con riferimento
alle questioni che involgono i commi 26 e 27 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del
2010. Ai fini della risoluzione della controversia sottoposta al giudice
rimettente, ovvero dello scrutinio della legittimità della circolare impugnata,
l’applicazione dei citati commi 26 e 27 non si pone, infatti, quale passaggio
pregiudiziale, non essendo rilevante il numero e il contenuto delle funzioni
fondamentali così come determinate, quanto piuttosto l’imposizione
generalizzata per i Comuni di minori dimensioni di un obbligo di gestione in
forma associata delle funzioni medesime, obbligo che costituisce l’oggetto
precipuo solo delle altre disposizioni censurate.
D’altro canto, l’interesse alla tutela azionata
dai ricorrenti è scaturito non in relazione all’individuazione, in quanto tale,
delle funzioni fondamentali, quanto piuttosto dalla preclusione a gestirle da
parte di ciascun Comune autonomamente, effetto questo riconducibile solo alle
disposizioni contenute nei commi 28, 28-bis, 29, 30 e 31 dell’art. 14 del d.l. n.
78 del 2010, nonché nell’art. 1, commi 110 e 111, della legge reg. Campania n.
16 del 2014.
In conclusione, solo nei termini ora esposti va
riconosciuta la rilevanza delle questioni sollevate, in quanto il rimettente è
chiamato a pronunciarsi su un petitum consistente
nell’annullamento del provvedimento impugnato, mentre le questioni sollevate
nei confronti dell’art. 14, commi 26 e 27, del d.l. n. 78 del 2010 devono
essere dichiarate inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza, a
causa della mancata indicazione delle ragioni che depongano per l’applicabilità
delle disposizioni e per la pregiudizialità delle questioni stesse (ex multis sentenze n. 224 del
2018, n. 209
e n. 119 del
2017).
5.– Sempre in via preliminare, ad avviso del
giudice rimettente uno specifico profilo di censura della disciplina
dell’esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali
consisterebbe nella compressione della potestà regolamentare dei Comuni
riconosciuta dall’art. 117, sesto comma, Cost. in ordine alla disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.
Con riferimento a tale censura, l’ordinanza,
tuttavia, non fornisce una motivazione adeguata ai fini della sua
ammissibilità.
A fronte della pur evocata compressione della
potestà regolamentare riconosciuta dalla disposizione costituzionale, gli
argomenti a sostegno si risolvono, infatti, nel mero richiamo testuale ad
alcuni passaggi delle sentenze n. 229 del
2001 e n.
129 del 2016.
Secondo il rimettente, la prima chiarirebbe «i
limiti che incontra il legislatore nazionale e regionale nell’esercizio dei
poteri di coordinamento dell’esercizio delle funzioni locali». Il precedente
richiamato non appare però in alcun modo riferibile alla censura esposta sulla
potestà regolamentare dei Comuni, sia perché relativo alle «determinazioni
regionali di "ordinamento”», sia perché, peraltro, alla data di tale pronuncia,
nemmeno era vigente il sesto comma dell’art. 117 Cost.
La seconda sentenza
viene, invece, evocata dall’ordinanza quale riconoscimento della «necessità
dell’effettiva partecipazione degli enti locali nell’esercizio dei poteri
legislativi statali e regionali in materia di ordinamento degli enti locali»;
anche in questo caso, tuttavia, non risulta in alcun modo adeguatamente
motivato il nesso tra i riportati passaggi testuali della sentenza e la censura
attinente alla potestà regolamentare garantita dall’art. 117, sesto comma,
Cost., atteso, oltretutto, che nel giudizio deciso con la citata sentenza i
parametri presi in considerazione erano completamente diversi (artt. 3, 97 e
119, primo e terzo comma, Cost.).
La questione si rivela, quindi, «priva di
un’adeguata ed autonoma illustrazione delle ragioni per le quali la normativa
censurata integrerebbe una violazione del parametro costituzionale evocato (ex
plurimis: sentenze
n. 219 del 2016, n. 120 del 2015
e n. 236 del
2011)» (sentenza
n. 240 del 2017).
Va pertanto dichiarata l’inammissibilità, per
carenza di motivazione sulla non manifesta infondatezza, della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 28, 28-bis, 29, 30 e 31, del
d.l. n. 78 del 2010, come convertito, sollevata con riferimento all’art. 117,
sesto comma, Cost.
6.– Passando all’esame del merito, con la prima
censura, il TAR rimettente ravvisa la carenza dei presupposti di necessità e di
urgenza per l’adozione del decreto-legge censurato, richiesti dall’art. 77,
secondo comma, Cost.
6.1.– Il contrasto con il parametro evocato
consisterebbe nell’avere il decreto-legge dettato «un’ordinaria disciplina
ordinamentale degli enti locali, senza peraltro contenere misure di immediata
applicazione»; tale profilo risulterebbe anche dalla previsione, contenuta nel
comma 31-ter dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, di una «attuazione
dilazionata nel tempo», confermata dalle ulteriori proroghe disposte.
Infine, l’ordinanza ritiene che le disposizioni
censurate non sarebbero «adeguatamente giustificate nemmeno sotto il profilo
dei risparmi di spesa che si sarebbero potuti ottenere in virtù dell’intervento
riformatore» e richiama al riguardo le relazioni tecniche presentate dal
Governo con il d.l. n. 78 del 2010 e con il d.l. n. 95 del 2012, prive di
quantificazione.
6.2.– È necessario, preliminarmente, individuare
puntualmente l’oggetto del giudizio riferito alle disposizioni statali.
Infatti, da un lato, il dispositivo
dell’ordinanza di rimessione fa riferimento all’articolo 14, commi da 26 a 31,
del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, senza richiamare esplicitamente le
successive modificazioni che alcune delle predette disposizioni hanno subito.
Dall’altro, il contenuto dell’ordinanza,
riportando il testo delle disposizioni censurate, fa invece riferimento a
quelle risultanti dalle modifiche e sostituzioni apportate dall’art. 19, comma
1, del d.l. n. 95 del 2012, come convertito.
Poiché «[l]’oggetto del giudizio costituzionale
deve essere individuato interpretando il dispositivo dell’ordinanza di
rimessione con la sua motivazione» (sentenza n. 203 del
2016), si può ritenere che il giudice rimettente abbia preso in
considerazione il contenuto normativo delle disposizioni censurate come
effettivamente applicabili alla fattispecie sottoposta al suo esame e sulla cui
base è stata adottata la circolare impugnata, essendo ormai cessato il vigore
delle diverse disposizioni inizialmente introdotte dal d.l. n. 78 del 2010.
Le norme dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010
rilevanti nel presente giudizio rinvengono, quindi, la loro fonte sia nel d.l.
n. 78 del 2010 (il comma 29, non più modificato) che nel d.l. n. 95 del 2012
(che ha sostituito i commi 28, 28-bis, 30 e 31, del d.l. n. 78 del 2010).
È pertanto su tali norme che verte il presente
giudizio di costituzionalità.
Non è quindi pienamente corretta
l’interpretazione prospettata dall’Avvocatura dello Stato, volta a concentrare
l’oggetto del giudizio sul contenuto originario del solo d.l. n. 78 del 2010.
6.3.– La questione non è fondata.
6.3.1.– Una volta ribadito che l’unica questione
rilevante nel presente giudizio è quella attinente alle norme che hanno
disciplinato l’obbligo di gestione associata, va, innanzitutto, considerato che
anche recentemente la giurisprudenza di questa Corte ha riaffermato che il
sindacato sui presupposti di necessità e urgenza di cui all’art. 77 Cost.
rimane circoscritto alla «evidente mancanza di tali presupposti» (sentenza n. 5 del
2018) o alla «manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della relativa
valutazione» (sentenza
n. 170 del 2017), sulla base di una pluralità di indici intrinseci ed
estrinseci.
In continuità con tali coordinate
interpretative, può rilevarsi che per entrambi i decreti-legge all’esame (il
d.l. n. 78 del 2010 e il d.l. n. 95 del 2012), in relazione alle norme
censurate, non sussiste tale «evidente mancanza» dei presupposti alla luce del
titolo dei provvedimenti, dei rispettivi preamboli e del contenuto complessivo
delle disposizioni introdotte.
In particolare, con riferimento alla finalità
perseguita dalle norme introdotte dai commi da 28 a 31 denunciati, si può
preliminarmente richiamare l’enunciato del comma 25, a mente del quale le
disposizioni dei commi da 26 a 31 «sono dirette ad assicurare il coordinamento
della finanza pubblica e il contenimento delle spese per l’esercizio delle
funzioni fondamentali dei comuni».
Tale finalità è stata già oggetto di
valorizzazione da parte di questa Corte con la sentenza n. 22 del
2014, la quale ha riconosciuto, nelle norme in quella occasione denunciate
da diverse Regioni (quelle contenute nell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, di
modifica dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010), l’orientamento «a un
contenimento della spesa pubblica, creando un sistema tendenzialmente virtuoso
di gestione associata di funzioni (e, soprattutto, quelle fondamentali) tra
Comuni, che mira ad un risparmio di spesa».
A tale riguardo, non appare decisiva la
circostanza, richiamata dall’ordinanza di rimessione, che le relazioni tecniche
di accompagnamento ai due decreti-legge non contenessero una quantificazione
dei risparmi attesi dalle norme introdotte: ciò, infatti, da un lato appare
giustificabile in forza della estrema difficoltà di operare, a priori, precise
quantificazioni derivanti da un fenomeno organizzativo dal carattere complesso
e, dall’altro, non smentisce la probabilità che, in astratto, dalla gestione
associata di funzioni derivi plausibilmente una maggiore efficienza dell’azione
degli enti locali interessati.
Pertanto, nel contesto della situazione
economico-finanziaria degli anni 2010-2012, non pare potersi affermare
l’evidente insussistenza di una situazione di fatto comportante l’urgenza di
introdurre norme volte a razionalizzare l’esercizio di funzioni da parte di un
gran numero di enti: alla fine del 2010 i Comuni fino a 5.000 abitanti erano,
infatti, 5.683 su 8.092, pari a circa il 70 per cento del totale dei Comuni
italiani.
6.3.2.– Analogamente, gli argomenti di censura
incentrati sui tempi di attuazione delle disposizioni introdotte dai suddetti
decreti-legge possono essere confutati dalla considerazione che sia il d.l. n.
78 del 2010 che il d.l. n. 95 del 2012 hanno comunque previsto obblighi
immediatamente efficaci nei confronti degli enti coinvolti (nonché delle
Regioni, per l’esercizio dei poteri loro affidati), apparendo fisiologico e non
incompatibile con i presupposti della necessità e urgenza che il decreto-legge
articoli alcuni passaggi procedurali e preveda per determinati aspetti un
risultato differito (sentenze n. 5 del
2018, n. 170
del 2017 e n.
160 del 2016).
I successivi e continuati differimenti del
termine di cui al comma 31-ter del d.l. n. 78 del 2010, non costituiscono di
per sé, nella fattispecie in esame, un elemento dimostrativo – come invece
ritiene l’ordinanza – della evidente assenza, ab origine, dei requisiti di
necessità e urgenza, potendo invece rilevare sotto un altro profilo, come si
vedrà al punto 7.5. del Considerato in diritto.
6.3.3.– Una considerazione specifica merita,
infine, la censura riferita alla natura ordinamentale delle disposizioni
introdotte dai decreti-legge, che, come detto, vanno anch’esse limitate alle
modalità di gestione delle funzioni medesime, senza che possano venire in
considerazione, in questa sede e per i motivi indicati, quelle relative
all’individuazione delle funzioni fondamentali.
Al riguardo, se, da un lato, va senz’altro
ribadito che «la trasformazione per decreto-legge dell’intera disciplina
ordinamentale di un ente locale territoriale, previsto e garantito dalla
Costituzione, è incompatibile, sul piano logico e giuridico, con il dettato
costituzionale» (sentenza
n. 220 del 2013), dall’altro va rilevato che le norme censurate hanno
introdotto riforme dalla portata innovativa solo parziale, atteso che – come
rilevato dall’Avvocatura dello Stato, che ha richiamato gli artt. 24, 25 e 26
della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali) e i
corrispondenti artt. 30, 31 e 32 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267
(Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) – sia la
convenzione che l’unione di Comuni erano forme istituzionali già da tempo
previste e disciplinate dall’ordinamento, che, sebbene in limitate ipotesi e
solo in relazione a specifiche funzioni, prefigurava anche la possibilità di
una loro costituzione obbligatoria (con riguardo alle convenzioni e ai
consorzi: art. 24, comma 3, e art. 25, comma 7, della legge n. 142 del 1990).
Le considerazioni svolte dalla Corte nella sentenza n. 220 del
2013 per giungere alla censura dell’utilizzo del decreto-legge quale fonte
idonea a trasformare l’intera disciplina ordinamentale di un ente locale
territoriale, pur richiamate dall’ordinanza di rimessione, non appaiono quindi
pianamente riconducibili agli interventi normativi censurati, che hanno
strutturato, sebbene in modo certamente più stringente, una disciplina della
gestione associata che però era presente da prima nell’ordinamento degli enti
locali.
Peraltro, ad analoghe conclusioni questa Corte è
già pervenuta nella sentenza n. 44 del
2014, a proposito della disciplina – parallela a quella qui in esame –
dell’obbligo di gestione associata di tutte le funzioni per i Comuni fino a
1.000 abitanti. A fronte della censura delle Regioni, di violazione dell’art.
77 Cost., la sentenza, infatti, non ha condiviso «l’assunto secondo cui
l’intero art. 16 introdurrebbe norme ordinamentali dirette ad incidere
profondamente sullo status istituzionale dei Comuni», precisando che «le
disposizioni censurate non alterano il tessuto strutturale e il sistema delle
autonomie locali, ma sono dirette a realizzare, per i Comuni con popolazione
fino a 1.000 abitanti, l’esercizio in forma associata delle funzioni amministrative
e dei servizi pubblici, mediante unioni di Comuni, secondo un modello peraltro
già presente nell’ordinamento, sia pure con talune differenze di disciplina
(art. 32 del TUEL)».
6.3.4.– In conclusione, tanto premesso, il
legislatore non può ritenersi censurabile per aver fatto ricorso, nelle
ricordate circostanze di necessità e urgenza, allo strumento del decreto-legge
per incidere, con l’obiettivo di svilupparne una maggiore efficienza,
sull’assetto organizzativo dei Comuni di minori dimensioni attraverso la
previsione dell’obbligo dell’esercizio in forma associata di gran parte delle
funzioni fondamentali.
7.– Ulteriori e articolate questioni di
legittimità costituzionale delle norme di cui all’art. 14, commi da 28 a 31,
del d.l. n. 78 del 2010, come convertito e poi modificato dal d.l. n. 95 del
2012, sono sollevate dal giudice rimettente per contrasto con gli artt. 3, 5,
95 e 97, 117, sesto comma, 114, 118 Cost., con riferimento ai principi di buon
andamento, differenziazione e tutela delle autonomie locali; nonché per
contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 della
Carta europea dell’autonomia locale.
7.1.– Premesso, come anticipato, che deve
ritenersi inammissibile la censura sulla violazione dell’art. 117, sesto comma,
Cost., gli argomenti a sostegno delle censure si incentrano sull’obbligatorietà
e sulla rigidità del nuovo assetto dell’esercizio associato delle funzioni
comunali, a fronte della diversa caratterizzazione che i relativi istituti
avevano prima della introduzione della disciplina in questione, quando era
prevista «la volontarietà nell’an e la flessibilità nel quomodo
della scelta delle forme associative alle quali aderire».
La normativa censurata, invece, avrebbe
ribaltato tale assetto, che «da volontario diviene obbligatorio; da flessibile
diviene rigido», sicché per i Comuni di minori dimensioni tutte le funzioni
fondamentali, salvo limitate eccezioni, «devono essere svolte in forma
associata, con conseguente obbligo di aggregazione della relativa
organizzazione burocratica».
Da ciò conseguirebbero, secondo il giudice
rimettente, «rilevanti conseguenze sul normale funzionamento del circuito
democratico», in quanto gli organi gestionali non sarebbero più sottoposti
all’indirizzo politico di quelli rappresentativi, con conseguente vulnus del
principio di responsabilità politica degli organi democraticamente eletti,
espresso dagli artt. 95 e 97 Cost., nonché dell’autonomia degli enti locali
coinvolti (viene richiamata la sentenza n. 52 del
1969).
Inoltre, la disciplina introdotta non
assicurerebbe il rispetto dell’art. 3 della Carta europea dell’autonomia
locale; ai sensi di tale disposizione, «[p]er
autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le
collettività locali, di regolamentare ed amministrare nell’ambito della legge,
sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte
importante di affari pubblici»; precisando poi che «[t]ale
diritto è esercitato da consigli e assemblee costituiti da membri eletti a
suffragio libero, segreto, paritario, diretto ed universale, in grado di
disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti».
7.2.– Le prime questioni, aventi ad oggetto
l’art. 14, commi 28, 28-bis, 29, 30 e 31 del d.l. n. 78 del 2010, sono per un
verso infondate, e per l’altro parzialmente fondate solo riguardo al comma 28
del citato art. 14, nei termini di seguito indicati, in relazione all’art. 3,
nel combinato disposto con gli artt. 5, 97 e 118 Cost.
7.3.– Quanto all’infondatezza, peraltro, il
riferimento al parametro di cui all’art. 95 Cost., appare non conferente,
attesa la sua riferibilità solo all’indirizzo politico del Governo.
In ogni caso, se da un lato è indubbio che «[p]er quel che riguarda in particolare gli enti locali
territoriali è un dato definitivamente acquisito come la loro autonomia vada in
primo luogo intesa quale potere di indirizzo politico-amministrativo» (sentenza n. 77 del
1987), tuttavia, dall’altro, nell’ordinamento, come ricordato, già da tempo
sono previsti gli istituti della unione e della convenzione, che stabiliscono
modalità di attuazione delle scelte di indirizzo politico di ciascun ente
tramite la mediazione di specifiche strutture comuni.
Se quindi esistesse, come sembra ritenere
l’ordinanza ed espressamente afferma la difesa dei ricorrenti, un vincolo
costituzionale per cui in un unico soggetto istituzionale debbono sempre coincidere
la funzione di indirizzo politico e quella dell’indirizzo amministrativo, la
sua violazione discenderebbe direttamente dalla previsione della forma
associativa in sé stessa, a prescindere dal fatto che questa risulti
obbligatoriamente imposta.
Sarebbe, infatti, la stessa forma associativa,
costituendo – secondo la metafora proposta dalla difesa dei ricorrenti – un
«sistema di governo locale acefalo», a risultare lesiva, nel contesto
dell’autonomia comunale, dell’archetipo del principio rappresentativo e delle
sue necessarie implicazioni: l’essere cioè in grado di ricevere dalla comunità
locale un proprio indirizzo politico e di tradurlo in scelte di politica
amministrativa.
Tale conclusione appare palesemente
insostenibile, posto che le forme associative risultano pur sempre una
proiezione degli enti stessi, come affermato da questa Corte in più occasioni (sentenze n. 456
e n. 244 del
2005 e n.
229 del 2001).
Anche nella più stringente delle stesse,
l’unione di Comuni, che è provvista di propri organi, il meccanismo della
rappresentanza di secondo grado appare compatibile con la garanzia del
principio autonomistico, dal momento che, anche in questo caso, non può essere
negato che venga «preservato uno specifico ruolo agli enti locali titolari di
autonomia costituzionalmente garantita, nella forma della partecipazione agli
organismi titolari dei poteri decisionali, o ai relativi processi deliberativi,
in vista del raggiungimento di fini unitari nello spazio territoriale reputato
ottimale» (sentenza
n. 160 del 2016).
L’art. 32 del t.u. enti locali prevede, infatti,
che il consiglio dell’unione sia «composto da un numero di consiglieri definito
nello statuto, eletti dai singoli consigli dei comuni associati tra i propri
componenti», nonché che sia assicurata «la rappresentanza di ogni comune» e
«garantita la rappresentanza delle minoranze». Tanto basta a renderlo
rappresentativo degli enti che vi partecipano, che rimangono capaci di tradurre
il proprio indirizzo politico in una reale azione di influenza sull’esercizio
in forma associata delle funzioni.
Da ultimo, va rilevato che non è pertinente il
richiamo alla sentenza
n. 52 del 1969, dove l’affermazione per cui «la sfera di autonomia sarebbe
compromessa se agli enti ai quali essa è riconosciuta e garantita fosse
sottratta del tutto la disponibilità degli strumenti necessari alla sua
esplicazione», avveniva in realtà in un giudizio relativo alla disciplina
legislativa – in ogni caso non censurata dalla pronuncia – che demandava
all’autorità statale la selezione per concorso e la nomina dei segretari
generali della Provincia.
7.4.– Tanto chiarito, le questioni vertono
essenzialmente, più che sulle forme associative in sé considerate – della cui
legittimità costituzionale, come si è visto, non è possibile dubitare –,
sull’obbligo che di queste viene imposto.
Rispetto a questo più limitato profilo, tuttavia,
occorre considerare che la disciplina censurata (in particolare, il comma 28
dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010) lascia all’autonomia degli enti locali
interessati l’alternativa tra due istituti (convenzione e unione), i cui
caratteri costitutivi e funzionali consentono agli enti stessi di modulare il
rispetto della norma con valutazioni proprie dell’indirizzo politico.
Infatti, questi possono optare tra la modalità
convenzionale (a sua volta declinabile in varie alternative di organizzazione delle
competenze e degli uffici) e quella dell’unione, comportante una più stretta
integrazione quale conseguenza del conferimento delle funzioni e delle connesse
risorse finanziarie.
È pur vero che l’ente che abbia individuato il
modello convenzionale potrebbe però successivamente perdere la facoltà di
proseguire in tale forma associativa ove non ne dimostri la efficacia, venendo
così obbligato a utilizzare il modello dell’unione (comma 31-bis dell’art.14
del d.l. n. 78 del 2010).
In tal caso, tuttavia, la minore concessione
all’autonomia comunale trova fondamento nella finalità della disciplina, che è
diretta a porre rimedio ai problemi strutturali di efficienza – e in
particolare a quello della mancanza di economie di scala – dei piccoli Comuni.
In quest’ottica il titolo che fonda un tale
intervento statale è già stato ravvisato, come detto, da questa Corte, nella
«potestà statale concorrente in materia di coordinamento della finanza
pubblica» (sentenze
n. 44 e n.
22 del 2014).
Ciò è avvenuto con riguardo alle competenze
regionali, ma nella medesima prospettiva esso è riferibile alla esposta
limitazione dell’autonomia comunale e tanto comporta, fra l’altro, che, salvo
quanto si preciserà in relazione al comma 28 del citato art. 14 del d.l. n. 78
del 2010, debbano dichiararsi infondate le censure relative ai successivi commi
28-bis, 29, 30 e 31 del medesimo articolo.
7.5.– Tuttavia, rimane pur vero che, secondo la
giurisprudenza costituzionale, gli interventi statali in materia di
coordinamento della finanza pubblica che incidono sull’autonomia degli enti
territoriali devono svolgersi secondo i canoni di proporzionalità e
ragionevolezza dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo prefissato (ex
plurimis sentenza
n. 22 del 2014).
Da questo verso le censure del giudice
rimettente sono parzialmente fondate, ma solo relativamente al comma 28
dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, in riferimento all’art. 3 Cost., nel
combinato disposto con gli artt. 5, 97 e 118 Cost., rispetto ai principi
autonomistico, di buon andamento, di differenziazione e adeguatezza, con
assorbimento di ogni altro profilo di censura.
La previsione generalizzata dell’obbligo di
gestione associata per tutte le funzioni fondamentali (ad esclusione della
lett. l del comma 27) sconta, infatti, in ogni caso un’eccessiva rigidità, al
punto che non consente di considerare tutte quelle situazioni in cui, a motivo
della collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali,
la convenzione o l’unione di Comuni non sono idonee a realizzare, mantenendo un
adeguato livello di servizi alla popolazione, quei risparmi di spesa che la
norma richiama come finalità dell’intera disciplina.
La norma del comma 28 dell’art. 14 del d.l. n.
78 del 2010, infatti, pretende di avere applicazione anche in tutti quei casi
in cui: a) non esistono Comuni confinanti parimenti obbligati; b) esiste solo
un Comune confinante obbligato, ma il raggiungimento del limite demografico
minimo comporta la necessità del coinvolgimento di altri Comuni non posti in
una situazione di prossimità; c) la collocazione geografica dei confini dei
Comuni non consente, per esempio in quanto montani e caratterizzati da
particolari «fattori antropici», «dispersione territoriale» e «isolamento» (sentenza n. 17 del
2018), di raggiungere gli obiettivi cui eppure la norma è rivolta.
Si tratta di situazioni dalla più varia
complessità che però meritano attenzione, perché in tutti questi casi, solo
esemplificativamente indicati, in cui l’ingegneria legislativa non combacia con
la geografia funzionale, il sacrificio imposto all’autonomia comunale non è in
grado di raggiungere l’obiettivo cui è diretta la normativa stessa; questa
finisce così per imporre un sacrificio non necessario, non superando quindi il
test di proporzionalità (ex plurimis sentenze n. 137 del
2018, n. 10
del 2016, n.
272 e n. 156
del 2015).
Va peraltro rilevato che un ulteriore sintomo
delle criticità della normativa risulta dall’estenuante numero dei rinvii dei
termini originariamente previsti, che, come evidenziato dal giudice rimettente,
coprendo un arco temporale di quasi un decennio, dimostrano l’esistenza di
situazioni oggettive che, in non pochi casi, rendono di fatto inapplicabile la
norma.
Il menzionato comma 28 è pertanto illegittimo
nella parte in cui non prevede la possibilità, in un contesto di Comuni
obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere l’esonero dall’obbligo, che
a causa della particolare collocazione geografica e dei caratteri demografici e
socio ambientali, del Comune obbligato, non sono realizzabili, con le forme
associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in termini di
efficacia ed efficienza, nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di
riferimento.
Si tratta di un’attenzione a particolari
situazioni differenziate che già ha trovato nella normativa censurata una
parziale, ma non sufficiente, considerazione, che si rinviene laddove la stessa
riconosce due casi meritevoli di totale esonero dall’obbligo – le isole monocomune e il Comune di Campione d’Italia – in base a una
ratio univocamente ricollegabile alla inesigibilità dell’obbligo per le
peculiari connotazioni anche geografiche di tali enti locali. Inoltre, lo
stesso meccanismo disciplinato al comma 31-bis del citato art. 14, prevede,
come ricordato, ove l’ente abbia valutato di optare per l’attuazione
dell’obbligo associativo mediante convenzione, una successiva verifica della
sua effettiva efficacia, mediante una fase di interlocuzione procedimentale
dell’ente locale con il Ministero dell’interno; solo all’esito negativo di tale
interlocuzione, cioè allorquando il Comune non ha comprovato il conseguimento
di «significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione», scatta
l’obbligo della unione.
Tali esoneri dall’obbligo e la necessaria
interlocuzione con gli enti locali, già prefigurati dalla normativa impugnata,
sono quindi da estendere come qui indicato, in modo da evitare che la rigidità
della disciplina possa condurre, irragionevolmente, a effetti contrari alle
finalità che la giustificano.
Peraltro, va precisato che la portata della
decisione non coinvolge tutte quelle diverse situazioni in cui le normative
impongono obblighi di gestione associata di funzioni e/o servizi alla
generalità dei Comuni, e quindi sono riferibili a tutti gli enti locali
appartenenti a un determinato ambito territoriale, senza che si distingua tra
Comuni obbligati e non.
Spetterà, da un lato, ai giudici comuni trarre
dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli
strumenti ermeneutici a loro disposizione, e, dall’altro, al legislatore
provvedere a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che
richiedono apposita regolamentazione (sentenze n. 88 del
2018 e n.
113 del 2011).
7.6.– Tale conclusione induce peraltro a
richiamare l’attenzione sui gravi limiti che, rispetto al disegno
costituzionale, segnano l’assetto organizzativo dell’autonomia comunale
italiana, dove le funzioni fondamentali risultano ancora oggi contingentemente
definite con un decreto-legge che tradisce la prevalenza delle ragioni
economico finanziarie su quelle ordinamentali. Un aspetto essenziale
dell’autonomia municipale è quindi risultato relegato a mero effetto riflesso
di altri obiettivi: infatti, nella legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al
Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119
della Costituzione), l’individuazione (provvisoria) delle funzioni fondamentali
(art. 21, comma 3) è stata meramente funzionale a permettere la disciplina del
cosiddetto federalismo fiscale; nel d.l. n. 78 del 2010 (in via ancora
provvisoria), e nel d.l. n. 95 del 2012 (in via non più provvisoria), essa è
stata strumentale a vincolare, per motivi di spending
review, i piccoli Comuni all’esercizio associato
delle funzioni stesse.
A seguito dell’infelice esito dei vari
tentativi, pur esperiti nell’ultimo quindicennio, di approvazione della
cosiddetta Carta delle autonomie locali, il problema della dotazione funzionale
tipica, caratterizzante e indefettibile, dell’autonomia comunale non è, quindi,
stato mai stato risolto ex professo dal legislatore statale, come invece avrebbe
richiesto l’impianto costituzionale risultante dalla riforma del Titolo V della
Costituzione. Una «fisiologica dialettica», improntata a una «doverosa
cooperazione» (sentenza
n. 169 del 2017), da parte del sistema degli attori istituzionali, nelle
varie sedi direttamente o indirettamente coinvolti, dovrebbe invece assicurare
il raggiungimento del pur difficile obiettivo di una equilibrata, stabile e
organica definizione dell’assetto fondamentale delle funzioni ascrivibili
all’autonomia locale.
Sarebbe questo, peraltro, l’ambito naturale dove
anche considerare i limiti – da tempo rilevati – dell’ordinamento base
dell’autonomia locale, per cui le stesse funzioni fondamentali – nonostante i
principi di differenziazione, adeguatezza e sussidiarietà di cui all’art. 118,
Cost. – risultano assegnate al più piccolo Comune italiano, con una popolazione
di poche decine di abitanti, come alle più grandi città del nostro ordinamento,
con il risultato paradossale di non riuscire, proprio per effetto
dell’uniformità, a garantire l’eguale godimento dei servizi, che non è certo il
medesimo tra chi risiede nei primi e chi nei secondi.
Non appare inutile, al riguardo, ricordare che
riusciti interventi strutturali in risposta al problema della polverizzazione
dei Comuni sono stati realizzati in altri ordinamenti, spesso attuando la
differenziazione non solo sul piano organizzativo ma anche su quello
funzionale. Ciò è avvenuto, ad esempio, in quello francese, dove il problema è
stato risolto sia con la promozione di innovative modalità di associazione
intercomunale, sia attraverso formule di accompagnamento alle fusioni; in forme
diverse, ma sempre con interventi di tipo organico, risposte sono state fornite
anche in Germania, nel Regno Unito e in molti altri Stati europei (basti
ricordare Svezia, Danimarca, Belgio, Olanda).
7.7.– La seconda censura, relativa alla
violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 della
Carta europea dell’autonomia locale, deve ritenersi assorbita nella
dichiarazione di fondatezza del comma 28 dell’art.14 del d.l. n. 78 del 2010 di
cui al precedente punto 7.5 e infondata per le medesime ragioni di cui al
precedente punto 7.4 in relazione ai restanti commi dello stesso articolo.
8.– Infine, il TAR rimettente pone sulle norme
censurate anche le questioni di legittimità costituzionale per violazione degli
artt. 133, secondo comma, Cost., in relazione all’istituzione di nuovi Comuni,
e degli artt. 114 e 119 Cost., con riferimento all’autonomia organizzativa e
finanziaria degli enti locali. Secondo il giudice a quo, infatti, sebbene
attraverso l’esercizio associato di quasi tutte le funzioni fondamentali,
imposto per legge, «gli enti interessati non risultino formalmente estinti»,
non permarrebbe, in ogni caso, in capo al Comune quel «"nucleo minimo” di
attribuzioni» tale da consentire la sua qualificazione costituzionale in
termini di ente autonomo. Per le funzioni fondamentali opererebbe quindi «una
riserva costituzionale di esercizio individuale».
Pertanto, poiché le norme censurate hanno
disposto «la traslazione di tutte queste funzioni ad un soggetto nuovo o
diverso, spogliandone il precedente titolare», ai fini dell’art. 133, secondo
comma, Cost., tale situazione non sarebbe «distinguibile dall’estinzione
dell’ente locale per fusione o incorporazione», oltre ad essere mancata la
«previsione del coinvolgimento delle popolazioni interessate» richiesta dalla
medesima norma costituzionale.
8.1.– Le questioni sono infondate.
Innanzitutto, anche in forza di quanto già
rilevato nel punto 7.3, si deve escludere l’esistenza di una «riserva
costituzionale di esercizio individuale» delle funzioni fondamentali, che renderebbe
illegittimi gli stessi istituti associativi degli enti locali a prescindere
dalla loro obbligatorietà.
La prospettazione è quindi palesemente
insostenibile e non rimane che ribadire le conclusioni della sentenza n. 44 del
2014, avente ad oggetto disposizioni relative all’esercizio in forma
associata di tutte le funzioni da parte dei Comuni con popolazione fino a 1.000
abitanti, mediante la costituzione di una unione di Comuni. L’intervento del
legislatore statale, infatti, riguarda le modalità di esercizio delle funzioni
fondamentali, per cui «non presenta alcuna attinenza con la disciplina che
regola l’istituzione di nuovi Comuni o la modifica delle loro circoscrizioni»,
e «non prevede la fusione dei piccoli Comuni, con conseguente modifica delle
circoscrizioni territoriali» (sentenza n. 44 del
2014).
9.– Il TAR rimettente solleva, da ultimo,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 110 e 111, della
legge reg. Campania n. 16 del 2014, motivando la non manifesta infondatezza
«[p]er le medesime ragioni e per contrasto con gli
stessi parametri costituzionali di cui al punto precedente» (indicati al punto
2.3. del Ritenuto in fatto), aggiungendo che nell’individuare gli ambiti
ottimali per l’esercizio delle funzioni fondamentali la legge avrebbe fatto
generico riferimento ai cosiddetti sistemi territoriali di sviluppo, previsti a
loro volta in ambito urbanistico dalla legge della Regione Campania 13 ottobre
2008, n. 13 (Piano Territoriale Regionale), «senza in merito svolgere adeguata
istruttoria attraverso il necessario coinvolgimento degli enti locali
interessati».
9.1.– L’Avvocatura generale dello Stato ha
formulato un’espressa eccezione di inammissibilità con riferimento a tali
questioni, perché solo enunciate nell’ordinanza e in alcun modo sviluppate e
motivate.
9.2.– L’eccezione non è fondata: l’ordinanza
ravvisa il dubbio di legittimità costituzionale richiamando le «medesime
ragioni» e gli «stessi parametri costituzionali di cui al punto precedente»,
relativo alle censure all’art. 14, commi da 26 a 31, del d.l. n. 78 del 2010,
per contrasto con gli artt. 3, 5, 95, 97, 114, 117, primo comma – in relazione
all’art. 3 della Carta europea dell’autonomia locale – e sesto comma, e 118
Cost.
Come affermato da questa Corte, «[l]a
motivazione tramite rinvio "interno” è ammissibile (sentenze n. 68 del
2011 e n.
438 del 2008), purché sia chiara la portata della questione» (sentenza n. 83 del
2016) ed è ciò che ricorre nel caso di specie, atteso che le ragioni di non
manifesta infondatezza alle quali si fa riferimento sono sufficientemente
illustrate e che le disposizioni regionali costituiscono attuazione di quelle
statali parimenti censurate (in particolare, dell’art. 14, comma 30, del d.l.
n. 78 del 2010, come convertito).
Oltre agli argomenti richiamati mediante il
suddetto rinvio, l’ordinanza aggiunge una specifica motivazione che, sia pur
sintetica, è comunque univocamente riferita alle norme della legge regionale.
9.3.– La questione è fondata in relazione agli
artt. 5, 114 e 97 Cost.
Ai fini della individuazione da parte delle
Regioni della dimensione territoriale ottimale e omogenea per lo svolgimento in
forma obbligatoriamente associata delle funzioni fondamentali, il comma 30
dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, come sostituito dall’art. 19 del d.l. n.
95 del 2012, non impone alle Regioni stesse l’adozione della fonte legislativa
ma, in ogni caso, prescrive la «previa concertazione con i comuni interessati
nell’ambito del Consiglio delle autonomie locali».
Di tale concertazione non vi è traccia alcuna né
nella legge, né nei lavori preparatori. Dagli stessi, invece, è possibile
rilevare che nel disegno di legge di iniziativa della Giunta regionale, Reg.
Gen. 505 bis, non erano presenti disposizioni aventi ad oggetto l’attuazione
dell’art. 14, comma 30, del d.l. n. 78 del 2010. Solo nel corso dell’esame
della II Commissione permanente è stato approvato l’art. 37-bis, il cui
contenuto è poi stato trasfuso nel maxi emendamento (commi 110 e 111 dell’art.
1, sostitutivo degli articoli da 1 a 52 del disegno di legge) sul quale è stata
posta la fiducia. Dai resoconti sommari dei lavori della II Commissione non
risultano elementi che facciano emergere una concertazione con i Comuni
interessati nell’ambito del Consiglio delle autonomie locali (che peraltro in
Campania non è ancora stato costituito) o con altre modalità.
Né la legge regionale censurata ha previsto un
procedimento bifasico, in cui la fonte primaria indicasse criteri generali,
demandando poi la concreta individuazione dell’ambito territoriale a un atto
amministrativo adottato all’esito della concertazione con i Comuni interessati,
secondo una tecnica normativa che è stata adottata da altre Regioni: per
esempio, legge della Regione Veneto, 27 aprile 2012, n. 18 (Disciplina
dell’esercizio associato di funzioni e servizi comunali) e legge della Regione
Emilia-Romagna, 21 dicembre 2012, n. 21 (Misure per assicurare il Governo
territoriale delle funzioni amministrative secondo i principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza).
L’art. 1, commi 110 e 111, della legge reg.
Campania n. 16 del 2014 è quindi in contrasto con gli artt. 5 e 114 Cost., nel
combinato disposto con l’art. 97 Cost., non risultando dimostrato che
l’individuazione ivi contenuta della dimensione territoriale ottimale e
omogenea per lo svolgimento delle funzioni fondamentali, di cui al comma 28
dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, sia stata preceduta dalla concertazione
con i Comuni interessati.
Il contenuto precettivo del richiamato comma 30
dell’art. 14 del d.l. 78 del 2010, infatti, nell’imporre la concertazione con
gli enti locali, integra il principio, affermato da questa Corte nella sentenza n. 229 del
2001, del necessario coinvolgimento, «per le conseguenze concrete che ne
derivano sul modo di organizzarsi e sul modo di esercitarsi dell’autonomia
comunale», degli enti locali infraregionali nelle
determinazioni regionali che investono l’allocazione di funzioni tra i diversi
livelli di governo, «anche di natura associativa».
Ne deriva, in caso di mancata concertazione con
gli enti locali, una lesione dell’autonomia comunale riconosciuta e garantita
dagli artt. 5 e 114 Cost.
Inoltre, appare del tutto evidente che la
costituzione di un sistema locale efficacemente strutturato, al punto da
conseguire risparmi di spesa, costituisce un obiettivo non conseguibile una
volta pretermessa la voce dei Comuni, circostanza che configura un
ingiustificato difetto di istruttoria, anche in considerazione dell’art. 97
Cost.
Restano assorbite le ulteriori censure.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 28, del decreto-legge 31
maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e
di competitività economica), convertito, con modificazioni, in legge 30 luglio
2010, n. 122, come modificato dall’art. 19, comma 1, del decreto-legge 6 luglio
2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con
invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale
delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, in legge 7
agosto 2012, n. 135, nella parte in cui non prevede la possibilità, in un
contesto di Comuni obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere
l’esonero dall’obbligo, che a causa della particolare collocazione geografica e
dei caratteri demografici e socio ambientali, del Comune obbligato, non sono
realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o
miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell’erogazione dei beni
pubblici alle popolazioni di riferimento;
2) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, commi 110 e 111, della legge
della Regione Campania 7 agosto 2014, n. 16 recante «Interventi di rilancio e
sviluppo dell’economia regionale nonché di carattere ordinamentale e
organizzativo (collegato alla legge di stabilità regionale 2014)»;
3) dichiara
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 26
e 27, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito e successivamente modificato
dall’art. 19, comma 1, del d.l. n. 95 del 2012, come convertito, sollevate, in
riferimento agli artt. 3, 5, 77, secondo comma, 95, 97, 114, 117, primo comma –
in relazione all’art. 3 della Carta europea dell’autonomia locale, firmata a
Strasburgo il 15 ottobre 1985, ratificata e resa esecutiva con legge 30
dicembre 1989, n. 439 – e sesto comma, 118, 119 e 133, secondo comma, della
Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con
l’ordinanza indicata in epigrafe;
4) dichiara
inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 28,
28-bis, 29, 30 e 31, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito e successivamente
modificato dall’art. 19, comma 1, del d.l. n. 95 del 2012, come convertito,
sollevata, in riferimento all’art. 117, sesto comma, Cost., dal TAR Lazio, con
l’ordinanza indicata in epigrafe;
5) dichiara
non fondate le altre questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14,
commi 28, 28-bis, 29, 30 e 31, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito e
successivamente modificato dall’art. 19, comma 1, del d.l. n. 95 del 2012, come
convertito, sollevate, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., e in
riferimento all’art. 95 Cost., dal TAR Lazio, con l’ordinanza indicata in
epigrafe;
6) dichiara
non fondate le ulteriori questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14,
commi 28-bis, 29, 30 e 31, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito e
successivamente modificato dall’art. 19, comma 1, del d.l. n. 95 del 2012, come
convertito, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 114, 117, primo
comma – in relazione all’art. 3 della Carta europea dell’autonomia locale – e
118 Cost., dal TAR Lazio, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
7) dichiara
non fondate le residue questioni di legittimità costituzionale dell’art.
14, commi 28, 28-bis, 29, 30 e 31, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito e
successivamente modificato dall’art. 19, comma 1, del d.l. n. 95 del 2012, come
convertito, sollevate, in riferimento agli artt. 114, 119 e 133, secondo comma,
Cost., dal TAR Lazio, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 gennaio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Luca ANTONINI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 4 marzo 2019.