SENTENZA N. 27
ANNO 2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giancarlo CORAGGIO;
Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, dell’art. 1, commi 471, 473 e 474, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», e dell’art. 13 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89, promosso dal Consiglio di Stato, sezione quinta, nel procedimento d’appello vertente tra S. S. e la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero dell’economia e delle finanze, il Consiglio di Stato nonché il Segretariato generale della giustizia amministrativa, con ordinanza del 5 maggio 2021, iscritta al n. 119 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2021.
Visti l’atto di costituzione di S. S. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 1° dicembre 2021 il Giudice relatore Maria Rosaria San Giorgio;
uditi gli avvocati Daniele Granara e Federico Tedeschini per S. S. e l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 1° dicembre 2021.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 5 maggio 2021, iscritta al n. 119 del registro ordinanze 2021, il Consiglio di Stato, sezione quinta, ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 10, 23, 36, 53 e 97 della Costituzione, in relazione – per l’art. 10 – all’art. 23, secondo comma, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, dell’art. 1, commi 471, 473 e 474, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», e dell’art. 13 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89.
1.1.– Il giudice rimettente espone che, con ricorso proposto davanti al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, S. S., magistrato amministrativo, ha impugnato il provvedimento del Segretariato generale della Giustizia amministrativa, con il quale veniva disposto – a decorrere dalla mensilità di gennaio 2020 e sino a quella di dicembre del medesimo anno – il recupero, nel rispetto del limite massimo retributivo vigente, dei maggiori compensi percepiti, pari ad euro 31.481,26, per le funzioni esercitate quale giudice tributario nel triennio 2015-2018.
Il ricorrente ha, pertanto, richiesto l’accertamento del diritto a percepire il trattamento economico spettante, senza le decurtazioni previste, e il conseguente annullamento – per violazione di legge ed eccesso di potere e, in subordine, per la paventata illegittimità costituzionale delle sottese disposizioni di legge – del provvedimento impugnato, con la condanna dell’amministrazione alla restituzione delle somme a suo dire illegittimamente trattenute, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.
Con sentenza 18 giugno 2020, n. 6668, il TAR ha respinto il ricorso e, avverso tale decisione, il ricorrente ha interposto appello davanti all’odierno rimettente.
1.2.– Il giudice a quo investito del gravame muove dalla premessa che – a prescindere dalle diverse letture dell’inciso «nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo» di cui all’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, al fine di individuare, in termini soggettivi, coloro cui si applica il “tetto retributivo” o piuttosto, in termini oggettivi, quali tra gli emolumenti corrisposti da una pubblica amministrazione concorrano a formare il “tetto” – «la formulazione onnicomprensiva della norma non consenta, almeno ictu oculi, di escludere dal relativo computo i compensi corrisposti ai membri delle Commissioni tributarie», pur non apparendo gli stessi qualificabili alla stregua di emolumenti derivanti da «rapporti di lavoro subordinato o autonomo», perché afferenti a funzioni la cui investitura è a titolo onorario.
1.3.– In punto di rilevanza, il Consiglio di Stato osserva che la preclusa corresponsione degli emolumenti superiori al “tetto” discende, in modo pressoché automatico, dall’applicazione delle censurate disposizioni di legge.
1.4.– Sul piano sistematico il Consiglio di Stato deduce che la disciplina del limite massimo alle retribuzioni pubbliche si iscrive in un contesto generale di risorse finanziarie pubbliche limitate, messo in relazione all’obiettivo politico-economico del contenimento della spesa pubblica.
Queste andrebbero ripartite in modo congruo, il che avverrebbe sganciandole del tutto, raggiunto un certo livello, dall’effettività del sinallagma contrattuale lavorativo del pubblico (ma non del privato) dipendente: dunque, gravando ex lege di gratuità, e al di fuori di quanto responsabilmente accettato e previsto dal lavoratore all’atto di costituzione del rapporto lavorativo, le prestazioni del lavoratore pubblico che abbia, nell’ambito dell’attività lavorativa pubblica – qualunque sia la quantità o qualità –, raggiunto complessivamente l’imprevisto “tetto” lordo, e sempre che non rientri tra le poche eccezioni nominatamente stabilite dalla legge.
Richiamando la sentenza di questa Corte n. 124 del 2017, il giudice rimettente specifica che si ricade in un regime restrittivo particolare, che concerne i soli lavoratori pubblici e che, pur a parità di condizioni, li distingue economicamente dai lavoratori privati: per i quali non si impone altrettanto sacrificio remunerativo da “taglio lineare”, per il fatto soggettivo che i loro rapporti di lavoro principali sono estranei alla spesa pubblica; e dunque evidenzia la difficile sostenibilità, a lungo termine, di un siffatto, comunque oggettivamente discriminatorio tra pari lavoratori, “taglio lineare”.
1.5.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice rimettente rileva che la riferita disparità di trattamento assumerebbe, nella specie, tratti nuovi e affatto particolari rispetto a quanto vagliato in passato, non dovendosi solo comparare genericamente diverse o simili prestazioni lavorative, e dunque svolgere una comparazione per categorie soggettive generali, ma dovendosi, invece, comparare specificamente, in concreto, la medesima, oggettiva, prestazione lavorativa, ossia quella di giudice tributario: la quale, malgrado siffatta identità oggettiva della prestazione, è diversamente remunerata dallo Stato secondo un criterio discretivo meramente soggettivo; cioè in base alla circostanza che sia prestata da un lavoratore privato ovvero da un lavoratore pubblico, che abbia una retribuzione principale pari o prossima al “tetto” indicato, il quale perciò, a differenza dell’altro, che pur svolge la medesima prestazione, di nulla, in pratica, verrebbe ad essere retribuito per quanto supera il “tetto”.
Si tratterebbe, conseguentemente, di un’evidente disparità di trattamento non di situazioni simili, ma della medesima situazione; e questo varrebbe per tutti i giudici tributari che siano pubblici dipendenti, purché toccati dal “tetto”, rispetto a tutti i giudici tributari che non siano pubblici dipendenti, anche se altrimenti sarebbero stati toccati dal “tetto” medesimo.
Questa conclusione non sarebbe “giustificata” da altro se non che il rapporto di lavoro “principale” è, da un lato, di lavoro privato, dall’altro, di lavoro pubblico.
Ma nulla muterebbe con riferimento alle energie e risorse personali e ai tempi messi a disposizione ed utilizzati dai due lavoratori nello svolgere quel pur medesimo lavoro.
1.5.1.– Inoltre, ad avviso del giudice rimettente, ancor meno una tale discriminazione troverebbe giustificazione con riguardo ai doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale di cui all’art. 2 Cost., posti a carico di tutti in relazione alle loro capacità – anche economiche ai sensi dell’art. 53 Cost. –, ma di cui nella fattispecie evidentemente si farebbe carico il solo dipendente pubblico, mentre il lavoratore privato ne sarebbe espressamente affrancato, anche se, quale cittadino, alla fine ne beneficia, quale che sia il suo livello di reddito.
La discriminazione e la disparità si aggraverebbero alla luce del fatto che nessun riguardo le norme sospettate di illegittimità costituzionale porrebbero alla complessiva capacità reddituale da lavoro dei soggetti così diversamente trattati.
1.5.2.– Il Consiglio di Stato ritiene, altresì, che l’applicazione delle norme denunciate interferirebbe non con una prestazione lavorativa secondaria a remunerazione “fissa”, ma con una prestazione la cui remunerazione è dalla legge prevista come variabile, in relazione alla quantità e al livello del lavoro effettuato, ai sensi dell’art. 13 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413).
L’incidenza del quadro normativo denunciato sul riconoscimento degli emolumenti per l’attività espletata di giudice tributario determinerebbe in sé una tendenziale, progressiva imposizione della gratuità della prestazione lavorativa effettuata in capo a chi è prossimo, o addirittura ha già raggiunto, il “tetto” retributivo suddetto.
Questa situazione genererebbe un’ulteriore disparità di trattamento, interna alla categoria dei dipendenti pubblici che svolgono un siffatto servizio ulteriore: a seconda che siano o non siano prossimi al (o abbiano raggiunto il) “tetto”.
Dalle indicate comparazioni risulterebbe, pertanto, una gratuità tendenziale, paradossalmente tanto maggiore quanto maggiore sia l’impegno lavorativo, complessivo e settoriale, realmente esplicato dal lavoratore a beneficio dell’amministrazione pubblica.
1.5.3.– In base a queste premesse, le norme censurate sarebbero lesive sia del principio di ragionevolezza, sia del principio di eguaglianza. Il rimettente lamenta anche il vulnus al principio generale della giusta e – a parità di condizioni – pari retribuzione del lavoro di cui all’art. 36 Cost.
Argomenta, sul punto, il Consiglio di Stato che si tratterebbe di principi oggi immanenti a ogni ordinamento civile, tanto da concretizzare – già sul piano internazionale – un riconosciuto diritto fondamentale dell’uomo.
Infatti, il «diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro» sarebbe espressamente considerato un diritto dell’uomo dall’art. 23, secondo comma, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Si ricadrebbe perciò nella violazione non solo dell’art. 36 Cost., ma anche – e prima – del diritto dell’uomo a tale parità di retribuzione, riconosciuto al massimo livello internazionale: del che occorrerebbe tener conto alla luce dell’art. 10, primo comma, Cost., anche in combinato disposto con l’art. 2 Cost.
1.5.4.– Inoltre, una tale discriminatoria privazione della proporzionata retribuzione del lavoro andrebbe ponderata anche nel tempo, essendo ormai passati cinque anni dall’avvio del “taglio”.
Secondo il giudice a quo, la distinzione, specie se considerata in un così lungo lasso temporale, parrebbe superare il parametro di sostenibilità dell’eccezione e appalesarsi per quello che è, ossia un’effettiva discriminazione: il che sembrerebbe oltrepassare la soglia stabilita dalla sentenza n. 124 del 2017, che – riferendosi alla congiuntura economica – ha richiamato una «tutela sistemica, non frazionata, dei valori costituzionali», tale per cui «[i]l principio di proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro svolto deve essere valutato […] in un contesto peculiare».
Il riferimento al «contesto particolare» indurrebbe a prospettare che il lungo tempo ormai trascorso sarebbe un indice del superamento di un tale limite.
In forza di queste considerazioni, le norme denunciate violerebbero anche l’art. 36, primo comma, Cost., parametro che applica al lavoro il principio di proporzionalità, di generale imperatività e riferibile a tutti i rapporti di lavoro subordinato.
Il principio prescinderebbe dalle preesistenti condizioni economiche soggettive del lavoratore e sarebbe ancorato all’oggettivo valore economico proprio del singolo lavoro prestato – nella specie, nel quantum stabilito dalle norme di legge sulla proporzionale remunerazione dei giudici tributari, quale che sia il loro rapporto di lavoro “principale”, pubblico o privato, dipendente o autonomo.
Sarebbe, dunque, collegato al mero fatto dell’effettiva prestazione personale mediante l’utilizzazione delle energie lavorative; e non soffrirebbe limitazioni o restrizioni – e soprattutto discriminazioni – per la circostanza dell’afferire a un secondo, volontario, lavoro, qual è il lavoro di giudice tributario.
1.5.5.– Ad avviso del giudice a quo, non rispetterebbe la comune logica assumere che la percezione del “tetto massimo” varrebbe ad assicurare l’adeguata retribuzione di tutte le attività lavorative effettivamente svolte, per quanto considerate e confuse in un coacervo contabile.
Ove si aderisse a questa impostazione, non si darebbe rilievo alcuno al pur esistente dispendio aggiuntivo di energie per il lavoro ulteriore svolto: e si assumerebbe – con una poco ragionevole fictio iuris – che l’attività di giudice tributario non direttamente retribuita verrebbe, di fatto, a non comportare questo dispendio di energie e a non generare il diritto alla retribuzione.
Anche da quest’angolazione il Consiglio di Stato trae un’ulteriore ragione di contrasto con l’art. 3 Cost., in punto di disparità di trattamento e di violazione del canone generale di ragionevolezza.
Aspetto decisivo della sospettata illegittimità costituzionale sarebbe, pertanto, la circostanza che – lungi dal prevedere un limite massimo di retribuzione per l’attività lavorativa svolta nell’interesse dell’amministrazione, qual è l’intento dichiarato del legislatore – l’applicazione dell’istituto del “tetto retributivo” anche ai compensi dei giudici tributari, che ordinariamente svolgano attività lavorativa subordinata presso una pubblica amministrazione, in realtà finirebbe per tradursi nell’imposizione unilaterale, da parte dell’amministrazione beneficiaria dei relativi servizi, della progressiva gratuità delle relative prestazioni, man mano che la qualità e quantità delle stesse vada aumentando.
Siffatto approdo, oltre a contrastare, nella sua assolutezza, con il già richiamato principio di cui all’art. 36 Cost., contraddirebbe, altresì, il principio di buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost., valutato tenendo conto dei suoi effetti sul buon andamento della pubblica amministrazione complessivamente intesa, non già di singole sue componenti, isolatamente considerate.
Nella specie, la certezza della decurtazione automatica, in tutto o in parte, del trattamento economico riferito all’attività svolta quale giudice tributario non potrebbe che recare effetti disincentivanti: dunque, dissuadere, in prospettiva, proprio i funzionari pubblici di maggiore esperienza e competenza nel settore giurisdizionale.
Ne deriverebbe, infatti, come naturale conseguenza, il fatale progressivo ritiro dalla giustizia tributaria delle più alte professionalità e l’abbassamento generale della qualità e dei tempi di quella risposta di giustizia.
1.5.6.– In questi termini, prosegue il giudice rimettente, l’aver fatto il legislatore ricorso ad un parametro meramente quantitativo con cui modulare il corrispettivo economico del servizio prestato tra le diverse categorie di soggetti chiamati a svolgere le funzioni di giudice tributario significherebbe, nella sostanza, essersi avvalsi di un parametro che non tiene conto della rilevanza delle professionalità acquisite.
Sarebbe così leso il principio di responsabilità personale e lo stesso «principio lavorista» che l’art. 1 Cost. pone a fondamento della Repubblica.
Negare la «giusta mercede» varrebbe, dunque, a negare il valore stesso del merito acquisito dall’individuo mediante l’operosità attivamente riversata nel lavoro.
1.5.7.– Le circostanze evidenziate inducono, infine, il giudice a quo a dubitare della compatibilità del regime economico e retributivo dei giudici tributari con il principio della pari capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.
Sarebbe invero difficile non cogliere in una tale sottrazione della «giusta mercede» un prelievo di natura tributaria o comunque a questo assimilabile, attesa la pari natura pecuniaria e la pari affluenza del prelievo al bilancio pubblico, quindi alle entrate (o mancate spese) e così alla fiscalità generale.
A questo riguardo, secondo il giudice rimettente, si dovrebbe comunque riconoscere che l’eventuale «temporaneità dell’imposizione non costituisce un argomento sufficiente a fornire giustificazione a un’imposta, che potrebbe comunque risultare disarticolata dai principi costituzionali», di talché, a maggior ragione, si dovrebbe considerare che la definitività del prelievo fiscale ne rimarcherebbe l’illegittimità costituzionale, ove disancorata dai predetti principi ex artt. 3, 23 e 53 Cost. (è citata la sentenza di questa Corte n. 288 del 2019).
In aggiunta, la forma occulta di siffatto prelievo contraddirebbe il principio per cui «[n]essuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge», di cui all’art. 23 Cost.
2.– Con memoria depositata il 17 settembre 2021 si è costituito in giudizio S. S., che ha chiesto di verificare la non applicabilità del divieto di cumulo stabilito dalle norme censurate al caso di specie o, in subordine, di accogliere la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Consiglio di Stato.
A tal proposito, la parte contesta la legittimità della decurtazione, che lo ha interessato in ragione del principio di onnicomprensività della retribuzione del trattamento economico dei pubblici dipendenti e del sistema rafforzativo e complementare di tale principio, introdotto dalle disposizioni censurate dall’ordinanza di rimessione e riassunto nella fissazione di un limite massimo retributivo, valevole non soltanto per i pubblici dipendenti, ma per chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni.
Ad avviso della parte, in base al dato testuale delle disposizioni censurate, l’applicazione del “tetto” massimo non si potrebbe estendere al diverso caso di un rapporto di servizio onorario, quale quello di giudice tributario.
La circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri ‒ Dipartimento della funzione pubblica 3 agosto 2012, n. 8, sui limiti retributivi, confermerebbe tale lettura.
Rileva, ancora, il ricorrente nel giudizio principale che, nel caso in esame, il cumulo contestato riguarda lo stipendio di magistrato in servizio e altra retribuzione per un incarico che non rientra tra quelli di lavoro autonomo o dipendente oggetto del divieto, che oltretutto potrebbe beneficiare della deroga di cui all’ultima parte del comma 489 della legge n. 147 del 2013, secondo cui sono fatti salvi i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza, prevista negli stessi.
La parte, in ultimo, evidenzia che la stessa sentenza di questa Corte n. 124 del 2017 avrebbe ritenuto non implausibile la tesi interpretativa del giudice rimettente, che aveva individuato l’ambito dei rapporti esclusi dal regime di cumulo facendo leva esclusivamente sulla loro natura temporanea.
3.– Con atto depositato il 21 settembre 2021 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate.
La difesa statale sostiene, anzitutto, che la normativa censurata si inquadrerebbe nell’ambito delle misure di contenimento dei trattamenti economici nel settore pubblico, già avviate con l’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011 e applicabili in via generale a tutto il settore pubblico.
Questa misura costituirebbe esercizio ragionevole della discrezionalità legislativa, come già affermato dalla sentenza n. 124 del 2017.
Una volta ammesso che al legislatore è consentito introdurre un “tetto” massimo agli emolumenti che un soggetto può ricevere dalla pubblica amministrazione, sarebbe precluso ipotizzare qualsiasi disparità di trattamento tra giudici tributari di provenienza pubblica e quelli provenienti dal settore privato.
Essendo la ratio delle disposizioni censurate quella di contenimento e complessiva razionalizzazione della spesa pubblica, in una prospettiva di garanzia degli altri interessi generali coinvolti, in presenza di risorse limitate, ne conseguirebbe che la disciplina non può logicamente riguardare gli oneri che sono a carico dei privati.
Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, le riferite considerazioni lasciano emergere la non fondatezza delle questioni anche in riferimento alla dedotta violazione degli artt. 2 e 10, primo comma, Cost.
La difesa erariale puntualizza, poi, che le norme censurate non disciplinano specificamente i compensi dei giudici tributari, mentre i suoi possibili effetti indiretti sul buon andamento della pubblica amministrazione sono stati già dichiarati compatibili da questa Corte, con la sentenza n. 124 del 2017, in relazione all’analoga vicenda dei consiglieri del Consiglio di Stato e della Corte dei conti di nomina governativa.
Con riferimento al parametro di cui all’art. 53 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato riferisce che le norme che fissano il “tetto” non introducono un prelievo tributario eccessivo, selettivo ovvero comunque non connesso ad un’effettiva capacità contributiva, ma più semplicemente si limitano ad imporre un limite massimo ai compensi a carico della pubblica amministrazione.
Con l’effetto che vi sarebbe una finalità (e una natura) non tributaria, ma esclusivamente “retributiva” della norma, giustificata da oggettive esigenze finanziarie dello Stato ed estesa a tutti coloro che percepiscono somme dalla pubblica amministrazione.
Dall’assenza di natura tributaria deriverebbe anche la non fondatezza della questione sotto il profilo dell’art. 23 Cost.
Infine, secondo la difesa dello Stato, non assumerebbe rilievo la circostanza che il “tetto” sia in vigore già da alcuni anni, poiché la sentenza n. 124 del 2017 avrebbe già chiarito che, nell’esercizio della sua discrezionalità, il legislatore ben potrebbe, secondo un ragionevole contemperamento dei contrapposti interessi, modificare nel tempo il parametro prescelto, in modo da garantirne la perdurante adeguatezza alla luce del complessivo andamento della spesa pubblica e dell’economia.
4.– All’udienza pubblica la parte e il Presidente del Consiglio dei ministri hanno chiesto l’accoglimento delle conclusioni rispettivamente formulate nella memoria di costituzione e nell’atto di intervento.
Considerato in diritto
1.– Il Consiglio di Stato, sezione quinta, dubita, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 10, 23, 36, 53 e 97 della Costituzione, in relazione ‒ per l’art. 10 ‒ all’art. 23, secondo comma, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, della legittimità costituzionale dell’art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, dell’art. 1, commi 471, 473 e 474, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», e dell’art. 13 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89, nella parte in cui prevedono un limite massimo delle retribuzioni e degli emolumenti per i lavoratori pubblici.
Il combinato disposto delle norme evocate definisce il trattamento economico annuo onnicomprensivo di chiunque riceva, a carico delle finanze pubbliche, retribuzioni o emolumenti comunque denominati nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali, ivi incluso il personale in regime di diritto pubblico (cosiddetto personale non contrattualizzato), stabilendo come parametro massimo di riferimento il trattamento economico spettante al primo presidente della Corte di cassazione, pari all’attualità ad euro 240.000,00 annui al lordo dei contributi previdenziali ed assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente.
A tale scopo devono essere computate in modo cumulativo le somme comunque erogate all’interessato a carico del medesimo o di più organismi, anche nel caso di pluralità di incarichi conferiti da uno stesso organismo nel corso dell’anno.
Le risorse rivenienti dall’applicazione di dette misure di contenimento della spesa pubblica sono annualmente versate al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato.
1.1.– Ai fini della completa ricostruzione del quadro normativo, occorre rilevare che, nelle more del presente giudizio, il parametro cui ragguagliare la soglia del trattamento economico complessivo è parzialmente mutato, con decorrenza dall’anno 2022. Infatti, l’art. 1, comma 68, della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre 2021, n. 310, ed entrata in vigore il 1° gennaio 2022, testualmente stabilisce: «A decorrere dall’anno 2022, per il personale di cui all’articolo 1, comma 471, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, il limite retributivo di cui all’articolo 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n,. 89, è rideterminato sulla base della percentuale stabilita ai sensi dell’articolo 24, comma 2, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, in relazione agli incrementi medi conseguiti nell’anno precedente dalle categorie di pubblici dipendenti contrattualizzati, come calcolati dall’ISTAT ai sensi del comma 1 del medesimo articolo 24».
Il richiamato art. 24 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), ai commi 1 e 2, testualmente prevede: «1. A decorrere dal 1 gennaio 1998 gli stipendi, l’indennità integrativa speciale e gli assegni fissi e continuativi dei docenti e dei ricercatori universitari, del personale dirigente della Polizia di Stato e gradi di qualifiche corrispondenti, dei Corpi di polizia civili e militari, dei colonnelli e generali delle Forze armate, del personale dirigente della carriera prefettizia, nonché del personale della carriera diplomatica, sono adeguati di diritto annualmente in ragione degli incrementi medi, calcolati dall’ISTAT, conseguiti nell’anno precedente dalle categorie di pubblici dipendenti contrattualizzati sulle voci retributive, ivi compresa l’indennità integrativa speciale, utilizzate dal medesimo Istituto per l’elaborazione degli indici delle retribuzioni contrattuali. [...] 2. La percentuale dell’adeguamento annuale prevista dal comma 1 è determinata entro il 30 aprile di ciascun anno con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta dei Ministri per la funzione pubblica e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica. A tal fine, entro il mese di marzo, l’ISTAT comunica la variazione percentuale di cui al comma 1. Qualora i dati necessari non siano disponibili entro i termini previsti, l’adeguamento è effettuato nella stessa misura percentuale dell’anno precedente, salvo successivo conguaglio».
1.2.– La portata dello ius superveniens richiamato non determina la necessità di disporre la restituzione degli atti al giudice a quo affinché sia rinnovato l’esame della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, la quale persiste in quanto la nuova disposizione non esclude l’applicazione, medio tempore, della normativa censurata (ex plurimis, sentenze n. 213 del 2021 e n. 257 del 2017).
2.– Secondo il rimettente, le norme censurate, nella parte in cui stabiliscono il limite massimo del trattamento economico-retributivo spettante al personale pubblico, vigente anche con riferimento allo svolgimento delle funzioni di giudice tributario, violerebbero l’art. 3 Cost., in ragione dell’ingiustificata disparità di trattamento che si determinerebbe tra giudici tributari che siano pubblici dipendenti, interessati dal “tetto” retributivo, e giudici tributari che non lo siano.
Le censure si appuntano anche sull’ingiustificata e ulteriore disparità di trattamento – interna alla categoria dei dipendenti pubblici che svolgano altresì il servizio di giudici tributari – tra dipendenti pubblici che siano prossimi al (o abbiano raggiunto il) “tetto” retributivo e dipendenti pubblici che non rientrino in tale limite, con una tendenziale gratuità paradossalmente tanto maggiore quanto maggiore sia l’impegno lavorativo, complessivo e settoriale, realmente profuso dal lavoratore a beneficio dell’amministrazione pubblica.
Il plesso normativo censurato recherebbe vulnus, altresì, agli artt. 2 e 53 Cost., per effetto dell’indebita discriminazione che si creerebbe tra lavoro pubblico e lavoro privato, con conseguente violazione dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale e senza tenere adeguatamente conto della complessiva capacità reddituale da lavoro di soggetti così diversamente trattati.
Una disciplina così congegnata lederebbe ancora gli artt. 3 e 36 Cost., in quanto la riferita sostanziale gratuità delle mansioni di giudice tributario, allorché la remunerazione spettante per il rapporto di pubblico impiego raggiunga la soglia massima consentita, sarebbe intrinsecamente irragionevole e comunque antitetica rispetto al principio generale della giusta e – a identità di condizioni – pari retribuzione del lavoro.
La normativa così delineata violerebbe pure l’art. 97 Cost., per il pregiudizio arrecato al principio di buon andamento della pubblica amministrazione, in quanto la certezza della decurtazione automatica, in tutto o in parte, del trattamento economico riferito all’attività svolta quale giudice tributario implicherebbe effetti disincentivanti, ossia dissuaderebbe dallo svolgimento di detta funzione giudiziaria, in prospettiva, proprio i funzionari pubblici di maggiore esperienza e competenza nel settore giurisdizionale.
Il giudice rimettente denuncia, quindi, la violazione dell’art. 10, primo comma, Cost., in relazione all’art. 23, secondo comma, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, poiché il mancato riconoscimento di una retribuzione corrispondente alla qualità e quantità del lavoro prestato comporterebbe l’incisione del diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro, espressamente considerato un diritto dell’uomo sul piano internazionale.
Un meccanismo di tal fatta si risolverebbe poi in una lesione dell’art. 1 Cost., poiché il ricorso ad un parametro meramente quantitativo con il quale modulare il corrispettivo economico del servizio prestato tra le diverse categorie di soggetti chiamati a svolgere le funzioni di giudice tributario sacrificherebbe la rilevanza delle professionalità acquisite, così ledendo il principio del lavoro posto a fondamento della Repubblica, per la negazione del valore stesso del merito acquisito dall’individuo mediante l’operosità attivamente riversata nel lavoro.
Sarebbe violato, altresì, l’art. 53 Cost., poiché la sottrazione della “giusta mercede” integrerebbe un prelievo di natura tributaria – o comunque ad esso assimilabile – eccessivo, selettivo o comunque non connesso ad un’effettiva capacità contributiva.
E conseguentemente sarebbe inciso l’art. 23 Cost., in quanto la definitività del prelievo fiscale così operato, per di più in forma occulta, contraddirebbe il principio per cui nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.
Per l’effetto, il giudice a quo sollecita la caducazione del limite al cumulo tra retribuzioni a carico delle finanze pubbliche previsto dalle disposizioni denunciate (sentenze n. 124 e n. 16 del 2017).
3.– In via preliminare, le questioni di legittimità costituzionale sollevate non incorrono nei profili di inammissibilità segnalati dal ricorrente nel procedimento a quo, costituitosi nel presente giudizio.
3.1.– Quest’ultimo eccepisce, in primis, che la previsione del “tetto” non si estenderebbe ai compensi ricevuti nell’espletamento del servizio di giudice tributario, prestato a titolo onorario e come tale non rientrante nei rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali, cui si riferiscono le disposizioni censurate.
L’assunto non può essere condiviso.
L’esclusione dal perimetro applicativo della disciplina sul trattamento economico onnicomprensivo dei servizi prestati a titolo onorario attiene al profilo della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale: se operasse il regime restrittivo invocato dalla parte, infatti, non verrebbe in rilievo la disciplina sul cumulo delle retribuzioni o emolumenti e la questione di legittimità costituzionale sarebbe irrilevante.
Trattandosi di detto requisito preliminare, questa Corte non è chiamata a sindacare la fondatezza delle diverse interpretazioni delle disposizioni censurate che si contendono il campo, ma è tenuta solo a vagliare la plausibilità della premessa ermeneutica da cui muove l’ordinanza di rimessione per avvalorare la pertinenza al caso esaminato del dubbio di legittimità costituzionale espresso (ex plurimis, sentenze n. 207, n. 183, n. 181, n. 59, n. 32, n. 22 e n. 15 del 2021).
Sul punto, il giudice rimettente osserva che la formulazione onnicomprensiva della norma non consentirebbe, almeno ictu oculi, di escludere dal relativo computo i compensi corrisposti ai membri delle Commissioni tributarie, pur non apparendo gli stessi qualificabili alla stregua di emolumenti derivanti da «rapporti di lavoro subordinato o autonomo», perché afferenti a funzioni ad investitura onoraria.
Questa conclusione prescinderebbe dalle diverse letture dell’inciso «nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo» di cui all’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, al fine di individuare, in termini soggettivi, coloro cui si applica il “tetto retributivo” o piuttosto, in termini oggettivi, quali tra gli emolumenti corrisposti da una pubblica amministrazione concorrano a formare il “tetto”.
Il percorso ricostruttivo compiuto dal giudice a quo è plausibile.
3.1.1.– Anzitutto, è ampiamente condiviso che le funzioni esercitate dai giudici tributari sono di natura onoraria, poiché il servizio da essi prestato non ricade nell’ambito di un’attività professionale svolta in via esclusiva.
Questa Corte ha affermato che i compensi dei componenti delle commissioni tributarie non sono assimilabili alla vera e propria retribuzione, ma consistono in semplici emolumenti, la cui disciplina esula dalla previsione dell’art. 108 Cost., e la loro misura è inidonea ad incidere sull’indipendenza del giudice (ordinanza n. 272 del 1999).
Nella pronuncia innanzi richiamata questa Corte ha, quindi, precisato che le posizioni dei magistrati che svolgono professionalmente e in via esclusiva funzioni giurisdizionali e quelle dei componenti delle commissioni tributarie, che esercitano funzioni onorarie, non sono fra loro raffrontabili ai fini della valutazione del rispetto del principio di eguaglianza.
Infatti, il compenso per i secondi è previsto per un’attività che essi non esercitano professionalmente, bensì, di massima, in aggiunta ad altre attività svolte in via primaria e, quindi, non si impone che agli stessi venga riconosciuto il medesimo trattamento economico di cui beneficiano i primi.
Medesime conclusioni sono state prospettate dalla Corte regolatrice, che ha espressamente qualificato il giudice tributario quale giudice onorario (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 21 marzo 2005, n. 6107; sezione tributaria, sentenza 8 luglio 2004, n. 12598; sezione lavoro, sentenza 14 maggio 2004, n. 9251). Nell’ambito di tale inquadramento, la Corte di legittimità ha puntualizzato, per un verso, che la natura onoraria dell’incarico non è assimilabile al rapporto di pubblico impiego (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 4 settembre 2015, n. 17591) e, per altro verso, che il compenso, fisso e aggiuntivo, spettante ai componenti delle commissioni tributarie per l’attività svolta, ricade nella categoria degli emolumenti di natura indennitaria (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 20 settembre 2013, n. 21592).
Anche la giurisprudenza amministrativa ha evidenziato che i magistrati competenti in materia tributaria sono giudici onorari che continuano a svolgere le originarie professioni, contrariamente a quelli in materia ordinaria, amministrativa e contabile, la cui attività si coniuga con l’esercizio pieno della giurisdizione e non con una carica onoraria (Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 8 marzo 2019, n. 1600).
3.1.2.– In conseguenza, è del tutto ragionevole la lettura dell’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, resa dal Consiglio di Stato, secondo il quale il campo applicativo del limite retributivo massimo sembra riferito a tutti gli emolumenti posti a carico delle finanze pubbliche («chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni»), allorché si tratti di soggetti vincolati da un rapporto di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali («nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali, di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale in regime di diritto pubblico di cui all’articolo 3 del medesimo decreto legislativo, e successive modificazioni»).
Non è, invece, necessario che tutte le prestazioni ricevute siano riconducibili ad un rapporto di lavoro dipendente o autonomo, sicché – una volta instauratosi un siffatto rapporto di lavoro – concorre ad incidere sulla soglia indicata qualunque ulteriore retribuzione o emolumento percepiti, che siano a carico dello Stato, benché essi non siano inquadrabili in altro rapporto di lavoro dipendente o autonomo.
La componente oggettiva (rapporto di lavoro dipendente o autonomo con amministrazioni statali) si combina con quella soggettiva (emolumenti a carico delle finanze pubbliche), nel senso che, ove sia integrato il requisito oggettivo, sul piano soggettivo qualsiasi prestazione a carico dello Stato incide sulla definizione del trattamento economico annuo onnicomprensivo.
Tale scelta interpretativa è corroborata, quanto alla individuazione dei redditi che cadono in questo “paniere”, contribuendo ad alimentare, fino al “tetto”, il “trattamento economico omnicomprensivo”, dalla previsione di cui all’art. 23-ter, comma 1, ultimo periodo, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, secondo cui «[a]i fini dell’applicazione della disciplina di cui al presente comma devono essere computate in modo cumulativo le somme comunque erogate all’interessato a carico del medesimo o di più organismi, anche nel caso di pluralità di incarichi conferiti da uno stesso organismo nel corso dell’anno».
Cosicché, come è stato esposto nella sentenza impugnata davanti al giudice rimettente, «cadono nel paniere de quo tutte le somme “comunque erogate” dalla stessa amministrazione cui il soggetto “inciso” è legato da rapporto di lavoro autonomo/dipendente ovvero da altre amministrazioni, anche in forza dell’esecuzione di meri “incarichi” – dunque anche quegli incarichi che, eventualmente, determinano un mero rapporto di servizio onorario – purché, ovviamente, comportino un esborso a carico della finanza pubblica» (Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda quater, sentenza 18 giugno 2020, n. 6668).
3.2.– Attiene al profilo della rilevanza anche l’ulteriore eccezione formulata dalla parte.
Il ricorrente nel giudizio principale prospetta che la limitazione del trattamento economico non opererebbe per gli incarichi di natura temporanea, alla stregua dell’applicazione analogica dell’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, secondo cui «[s]ono fatti salvi i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi».
Sicché, ad avviso della parte, l’esclusione degli incarichi a tempo dal divieto di erogazione di trattamenti economici onnicomprensivi che, sommati al trattamento pensionistico erogato da gestioni previdenziali pubbliche, eccedano il tetto massimo di cui al citato art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, si estenderebbe anche al cumulo tra retribuzioni.
Neppure questa eccezione è fondata.
Contrariamente all’assunto della parte, non può trovare applicazione, nel caso in esame, l’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, norma che esonera dal divieto di cumulo i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza.
Per un verso, il divieto di cumulo in questione non è certamente applicabile al di fuori del rigido perimetro applicativo che la contraddistingue, ossia al cumulo tra trattamenti pensionistici a carico dell’erario e trattamenti economici omnicomprensivi.
Ed invero, le norme di cui all’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013 e all’art. 23-ter, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, pur avendo una matrice “unitaria”, presentano una «particolarità che le contraddistingue» (sentenza n. 124 del 2017) e che le rende insuscettibili di applicazione estensiva ovvero analogica alla fattispecie in esame.
Per altro verso, deve escludersi che la nomina a giudice tributario possa essere equiparata all’attribuzione di un incarico di natura temporanea, posto che l’art. 11, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), prevede che «[i] componenti delle commissioni tributarie provinciali e regionali, indipendentemente dalle funzioni svolte, cessano dall’incarico, in ogni caso, al compimento del settantacinquesimo anno di età».
Ne discende che l’esenzione sancita per i contratti e gli incarichi in corso ha una precisa portata precettiva, circoscritta ai rapporti intrinsecamente temporanei, con l’effetto che la clausola non deve trovare applicazione a un rapporto di ufficio, tendenzialmente stabile e svincolato da un termine di durata precostituito.
Tale opzione ermeneutica è suffragata dalla puntuale accezione tecnica della locuzione «contratti e incarichi in corso», che vale a differenziarli rispetto al rapporto d’ufficio, assistito da particolari garanzie di stabilità.
In questa prospettiva, «il concetto di incarico, significativamente accostato al vocabolo “contratto”, evocherebbe, anche secondo il significato proprio delle parole (art. 12 delle preleggi), una prospettiva di temporaneità. La scadenza dell’incarico, indicata nell’incarico stesso, differisce dalla durata massima legale di un rapporto di ufficio, determinata in ragione dei limiti d’età di volta in volta stabiliti dalla legge» (sentenza n. 124 del 2017).
4.– Nel merito, lo scrutinio delle censure sollevate dal giudice rimettente non può trascurare i rilievi già sviluppati da questa Corte con riferimento alle medesime norme oggi sospettate di illegittimità costituzionale.
4.1.– Infatti, la citata sentenza n. 124 del 2017, nel respingere le censure rivolte, tra l’altro, all’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, e all’art. 13 del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, ha evidenziato che «[l]a disciplina del limite massimo, sia alle retribuzioni nel settore pubblico sia al cumulo tra retribuzioni e pensioni, si iscrive in un contesto di risorse limitate, che devono essere ripartite in maniera congrua e trasparente».
Ne ha desunto che «[i]l limite delle risorse disponibili, immanente al settore pubblico, vincola il legislatore a scelte coerenti, preordinate a bilanciare molteplici valori di rango costituzionale, come la parità di trattamento (art. 3 Cost.), il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e comunque idonea a garantire un’esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma, Cost.), il diritto a un’adeguata tutela previdenziale (art. 38, secondo comma, Cost.), il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.)».
Questa Corte ha, dunque, già valutato il bilanciamento tra i richiamati valori confliggenti effettuato dal legislatore, escludendo che il limite massimo alle retribuzioni, dettato nel settore pubblico sulla base di criteri non uniformi a quelli relativi al settore privato, ispirati alle leggi di mercato, sia manifestamente irragionevole (si veda anche, con riguardo alla riduzione delle tariffe professionali riguardanti incarichi di natura pubblicistica rispetto a quelle relative ad attività libero-professionali, sentenze n. 89 del 2020, n. 178 del 2017 e n. 192 del 2015).
Non senza considerare che la previsione di un tetto alle retribuzioni dei pubblici dipendenti ha, poi, un particolare significato che evidenzia come l’attività delle alte cariche dello Stato vada al di là di un profilo di mera proporzionalità del trattamento retributivo.
Ha inoltre ritenuto che il sacrificio economico imposto dalla previsione di un limite massimo alle retribuzioni e al cumulo tra retribuzioni e pensioni sia «tale da non sacrificare in misura arbitraria e sproporzionata il diritto al lavoro […] libero di esplicarsi nelle forme più convenienti» (sentenza n.124 del 2017).
Del resto, la soglia retributiva fissata, commisurata alla retribuzione, e, quindi, alle funzioni di una carica di rilievo e prestigio indiscussi, qual è il primo presidente della Corte di cassazione, è da considerare adeguata (vedi, ancora, sentenza n. 124 del 2017).
5.‒ Le suesposte argomentazioni danno anzitutto conto della non fondatezza della prima delle questioni sollevate dal Consiglio di Stato, che assume il contrasto delle disposizioni censurate con l’art. 3 Cost. nella parte in cui esse determinerebbero un’ingiustificata disparità di trattamento tra giudici tributari che siano pubblici dipendenti, interessati dal “tetto” retributivo, e giudici tributari che non lo siano.
5.1.– Secondo l’ordinanza di rimessione, poi, l’introduzione del trattamento economico onnicomprensivo determinerebbe un’ingiustificata e ulteriore disparità di trattamento, interna alla categoria dei dipendenti pubblici che svolgano altresì il servizio di giudici tributari, tra coloro che siano prossimi al (o abbiano raggiunto il) “tetto” retributivo massimo e coloro che non rientrino in tale limite, con una gratuità tendenziale paradossalmente tanto maggiore quanto maggiore sia l’impegno lavorativo, complessivo e settoriale, realmente profuso dal lavoratore a beneficio dell’amministrazione pubblica.
La questione non è fondata.
La comparazione tra categorie di dipendenti pubblici, alla stregua della misura della loro retribuzione, non è pertinente rispetto alla ratio dell’intervento normativo denunciato, che ha lo scopo di porre un limite ai soli redditi più elevati salvaguardando comunque l’adeguatezza professionale e retributiva della soglia contemplata, che utilizza, quale cifra di riferimento, un elevato livello stipendiale, relativo, come già segnalato, ad una figura di indubbio prestigio.
Non ricorre, dunque, nei confronti dei pubblici dipendenti che non raggiungono il “tetto”, una discriminazione irragionevole, essendo coerente sul piano sistematico che il “tetto” colpisca le categorie professionali che godono dei trattamenti economici più elevati.
Tanto più che l’introduzione di tale “tetto” vale anche a porre rimedio alle differenziazioni fra i trattamenti retributivi delle figure di vertice dell’amministrazione e concorre agli obiettivi di più ampio spettro volti a rendere trasparente la gestione delle risorse pubbliche (ancora una volta, sentenza n. 124 del 2017).
5.2.– Il giudice a quo lamenta, poi, che la indebita discriminazione operata tra lavoro pubblico e lavoro privato recherebbe vulnus agli artt. 2 e 53 Cost.
In particolare, sarebbero violati i doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale, posti a carico di tutti in relazione alle rispettive capacità, anche economiche, non tenendosi, tra l’altro, adeguatamente conto della «complessiva capacità reddituale da lavoro dei soggetti così diversamente trattati».
Neanche tale questione è fondata.
Premesso che la previsione di un “tetto” retributivo mira a realizzare anche un fine di mutualità intergenerazionale, consentendo un più ampio accesso al pubblico impiego, è sufficiente, al riguardo, considerare che nel caso di specie non si tratta di un prelievo di natura tributaria.
Anzitutto, dal ruolo assunto dallo Stato nella vicenda di cui si tratta – come risulta dalla rubrica legis sia dell’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito (Disposizioni in materia di trattamenti economici), sia dell’art. 13 del d.l. n. 66 del 2014, come convertito (Limite al trattamento economico del personale pubblico e delle società partecipate), nonché dall’inserimento organico di tali previsioni nei capi delle misure concernenti le riduzioni di spesa e, segnatamente, rispettivamente nel Capo III «Riduzioni di spesa. Costi degli apparati» e nel Capo II «Amministrazione sobria» (e non già nei capi relativi al reperimento di nuove entrate) – si ricava, prima facie, che l’autorità statale, legiferando, è intervenuta in veste di “datore di lavoro” dei dipendenti pubblici interessati dalla statuizione del “tetto” e non come “ente impositore”.
Ed ancora, secondo l’articolata trama normativa su cui si innestano le norme censurate, la fissazione di una soglia retributiva non importa una decurtazione o un prelievo a carico del dipendente pubblico, né un’acquisizione di risorse al bilancio dello Stato e, pertanto, è priva degli elementi che connotano indefettibilmente la prestazione tributaria (sentenza n. 234 del 2020).
Secondo il costante orientamento di questa Corte, tali elementi sono individuabili in una disciplina legale diretta, in via prevalente, a determinare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo, che non integri una modifica di un rapporto sinallagmatico, e nella destinazione delle risorse, connesse a un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, a sovvenire a pubbliche spese.
Si deve comunque trattare di un prelievo coattivo, finalizzato al concorso alle pubbliche spese e posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva. Tale indice, inoltre, deve esprimere l’idoneità di ciascun soggetto all’obbligazione tributaria (sentenze n. 263 del 2020, n. 240 del 2019, n. 89 del 2018, n. 269 e n. 236 del 2017, n. 70 del 2015, n. 219 del 2014, n. 154 del 2014, n. 102 del 2008, n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965 e n. 45 del 1964).
Invece, le caratteristiche delle misure impugnate divergono dagli elementi distintivi del prelievo tributario.
Il limite al cumulo disposto dalle norme censurate non implica una decurtazione patrimoniale definitiva del trattamento retributivo, con acquisizione al bilancio statale del relativo ammontare, essendo stabilito l’accantonamento in appositi fondi.
Si ricade, dunque, nella specie, in una regola conformativa delle medesime retribuzioni (sentenza n. 200 del 2018).
In questa prospettiva, si deve considerare il vincolo di destinazione che il legislatore imprime alle risorse derivanti dall’applicazione delle norme censurate, stabilendo che siano destinate annualmente al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato (art. 23-ter, comma 4, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, e art. 1, comma 474, della legge n. 147 del 2013), appartenente a una contabilità speciale di tesoreria.
5.3.– Il Consiglio di Stato dubita, ancora, della compatibilità delle disposizioni censurate con l’art. 36 Cost., in quanto la riferita sostanziale gratuità delle mansioni di giudice tributario allorché la remunerazione spettante per il rapporto di pubblico impiego raggiunga la soglia massima consentita lederebbe il principio generale della giusta retribuzione del lavoro, anche per effetto del procrastinarsi nel tempo di tale limitazione, idonea a superare la giustificazione, in un contesto peculiare, della deroga al principio di proporzionalità della retribuzione alla quantità e qualità del lavoro svolto.
La questione non è fondata.
Va premesso che, allo scopo di verificare la legittimità costituzionale delle norme in tema di trattamento economico dei dipendenti, deve farsi riferimento, non già alle singole componenti di quel trattamento, ma alla retribuzione nel suo complesso, avuto riguardo – in sede di giudizio di non conformità della retribuzione ai requisiti costituzionali di proporzionalità e sufficienza – al principio di onnicomprensività della retribuzione medesima (sentenze n. 90 del 2019, n. 13 del 2016, n. 178 del 2015, n. 154 del 2014, n. 310 e n. 304 del 2013).
In questa prospettiva, il parametro evocato, anche in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., non risulta violato, non incidendo le disposizioni in esame sulla struttura della retribuzione del personale del pubblico impiego nel suo complesso, ma introducendo un limite massimo del tutto congruo, ancorato ad un riferimento quantitativo ragguardevole, come tale non idoneo a ledere i livelli essenziali dei diritti.
La commisurazione del “tetto” alla retribuzione (e dunque alle funzioni) del primo presidente della Corte di cassazione non risulta, come ripetutamente rilevato, inadeguata e tale da violare il diritto al lavoro o svilire l’apporto professionale delle figure più qualificate, garantendo, invece, che il nesso tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro svolto sia salvaguardato anche con riguardo alle prestazioni più elevate (sentenza n. 124 del 2017; nello stesso senso sentenza n. 153 del 2015, sulla estensibilità del limite retributivo alle autonomie territoriali; sentenze n. 178 del 2015 e n. 310 del 2013, sulle misure aventi valenza generale; sentenze n. 223 del 2012 e n. 1 del 1978, sul rapporto fra trattamento retributivo e autonomia e indipendenza dei magistrati).
Quanto alla circostanza che si sarebbe comunque in presenza di una prestazione lavorativa non retribuita, è dirimente il fatto che si tratta pur sempre di una prestazione frutto di una scelta volontaria.
Il censurato temporaneo “blocco” della retribuzione risponde al principio di gradualità nell’attuazione dei diritti, di modo che è comunque compatibile con la Costituzione una normativa che cerchi di dare progressiva esecuzione alle disposizioni sui diritti, sulla base delle risorse in concreto disponibili.
5.4.– Il giudice rimettente sostiene altresì che il plesso normativo in esame arrecherebbe un vulnus al diritto al lavoro, che impone che ad eguale lavoro corrisponda eguale retribuzione, espressamente considerato un diritto dell’uomo sul piano internazionale.
Per le ragioni già esposte la questione non è fondata.
Deve essere, in merito, ribadito che la soglia individuata attua un contemperamento non irragionevole dei principi costituzionali – dei quali il legislatore è chiamato a garantire una tutela sistemica, non frazionata – e non sacrifica in maniera indebita il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, né compromette in misura arbitraria e sproporzionata il diritto al lavoro del dipendente pubblico, libero di esplicarsi nelle forme più convenienti (sentenza n. 124 del 2017).
5.5.– La ragionevolezza delle misure contestate, già dimostrata in base alle argomentazioni svolte nei paragrafi che precedono, dà conto altresì della infondatezza della censura secondo la quale la previsione di un limite massimo nelle retribuzioni del settore pubblico sarebbe intrinsecamente irragionevole, poiché l’applicazione dell’istituto del “tetto retributivo” anche ai compensi dei giudici tributari, che ordinariamente svolgano attività lavorativa subordinata presso una pubblica amministrazione, finirebbe per tradursi nell’imposizione unilaterale, da parte dell’amministrazione beneficiaria dei relativi servizi, della progressiva gratuità delle relative prestazioni, via via che la qualità e quantità delle stesse progredisca.
Non è, invero, precluso al legislatore dettare un limite massimo alle retribuzioni, a condizione che la scelta, volta a bilanciare i diversi valori coinvolti, non sia manifestamente irragionevole e rispetti requisiti rigorosi che salvaguardino l’idoneità del limite fissato a garantire un adeguato e proporzionato contemperamento degli interessi contrapposti, atteso che il fine prioritario della razionalizzazione della spesa deve tener conto delle risorse concretamente disponibili senza svilire il lavoro prestato da chi esprime professionalità elevate (sentenze n. 124 del 2017 e n. 241 del 2016).
5.6.– Il giudice rimettente rileva, inoltre, che la previsione sul limite retributivo massimo recherebbe pregiudizio al principio di buon andamento della pubblica amministrazione.
La certezza della decurtazione automatica, in tutto o in parte, del trattamento economico riferito all’attività svolta quale giudice tributario implicherebbe effetti disincentivanti proprio per i funzionari pubblici di maggiore esperienza e competenza nel settore giurisdizionale.
La questione non è fondata.
Il principio del buon andamento della pubblica amministrazione non può essere associato alle politiche di incrementi retributivi, i quali non sono legati da un vincolo funzionale all’efficiente organizzazione dell’amministrazione (sentenze n. 96 del 2016, n. 154 del 2014, n. 304 del 2013, n. 273 del 1997; ordinanze n. 263 del 2002, n. 368 del 1999 e n. 205 del 1998).
Non sussiste, infatti, un rapporto diretto di causa ed effetto tra la previsione della limitazione retributiva e la dissuasione dall’espletamento di attività, la cui retribuzione comporterebbe il superamento del “tetto” massimo.
E quand’anche tale effetto dissuasivo si producesse, esso non è automaticamente di pregiudizio al buon andamento della pubblica amministrazione, posto che l’efficienza della macchina amministrativa non è di per sé scalfita dal fatto che determinate funzioni siano esercitate da personale che non gode del livello retributivo massimo consentito ma dispone comunque di adeguata competenza e professionalità.
La previsione si giustifica, d’altronde, in ragione del contemperamento di interessi in conflitto e persegue altresì, come già chiarito, l’obiettivo di promuovere il ricambio generazionale nel lavoro pubblico.
5.7.– Secondo il rimettente, la previsione in esame, con la sottrazione della «giusta mercede», integrerebbe un prelievo di natura tributaria non connesso alla capacità contributiva e imporrebbe una prestazione patrimoniale definitiva e occulta.
Neanche tali questioni sono fondate.
Al riguardo è sufficiente rinviare alle argomentazioni già svolte al punto 5.2.
6.– Deve, in conclusione, essere dichiarata la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23-ter, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, dell’art. 1, commi, 473 e 474, della legge n. 147 del 2013 e dell’art. 13 del d.l. n. 66 del 2014, come convertito.
Resta fermo che il legislatore, in un quadro di politiche economiche e sociali in perenne evoluzione, può prefigurare soluzioni diverse e modulare in senso più duttile il cumulo tra retribuzioni, anche in rapporto alle mutevoli esigenze di riassetto complessivo della spesa, tenuto conto altresì del mutamento del costo della vita, con una valutazione ponderata degli effetti di lungo periodo della disciplina restrittiva oggi sottoposta allo scrutinio di questa Corte (sentenza n. 124 del 2017), come avvenuto, da ultimo, con l’art. 1, comma 68, della legge n. 234 del 2021.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, dell’art. 1, commi 471, 473 e 474, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», e dell’art. 13 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89, sollevate, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 10, 23, 36, 53 e 97 della Costituzione, in relazione ‒ per l’art. 10 ‒ all’art. 23, secondo comma, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, dal Consiglio di Stato, sezione quinta, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1° dicembre 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Maria Rosaria SAN GIORGIO, Redattore
Depositata in Cancelleria il 28 gennaio 2022.