ORDINANZA N. 263
ANNO 2002
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare RUPERTO, Presidente
- Massimo VARI
- Riccardo CHIEPPA
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
- Francesco AMIRANTE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 51, comma 3, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), promossi con ordinanze emesse il 7 maggio 2001 dal Tribunale di Parma e il 14 febbraio 2001 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, iscritte ai nn. 562 e 894 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 32 e 44, prima serie speciale, dell’anno 2001.
Visti gli atti di costituzione di I. C. ed altri e di Poste Italiane s.p.a. nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 23 aprile 2002 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti;
uditi l’avv. Roberto Pessi per Poste Italiane s.p.a. e l’Avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto che il Tribunale di Parma, in composizione monocratica ed in funzione di giudice del lavoro, ed il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione I, con due ordinanze in data 7 maggio 2001 (depositata l’8 maggio 2001) e 31 gennaio-14 febbraio 2001 (depositata il 27 giugno 2001), sollevano questione di legittimità costituzionale dell’art. 51, comma 3, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), rispettivamente, in riferimento agli artt. 3, 24, 35, secondo comma, 36, primo comma, 101, 102, 104 e 113 della Costituzione, nonchè agli artt. 3, 24, 97, 101, 102, 103, 104, 108 e 113 della Costituzione;
che, nel giudizio innanzi al Tribunale di Parma, la ricorrente ha chiesto la condanna di Poste Italiane s.p.a. a pagare le somme asseritamente dovutele a titolo di incremento della retribuzione individuale di anzianità (r.i.a.) ex art. 25, comma 4, del d.P.R. 4 agosto 1990, n. 335, per l’anzianità di servizio maturata successivamente al 31 dicembre 1990 e sino al 31 dicembre 1993;
che, nel processo davanti al Tar del Lazio, i dipendenti di differenti Ministeri hanno chiesto l’accertamento del diritto alle maggiorazioni della r.i.a. ai sensi dell’art. 9 del d.P.R. 17 gennaio 1990, n. 44, in riferimento all’anzianità maturata sino alla data del 31 dicembre 1993;
che, ad avviso di entrambi i rimettenti, l’art. 7 comma 1, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438, nella parte in cui dispone che "resta ferma sino al 31 dicembre 1993 la vigente disciplina emanata sulla base degli accordi di comparto di cui alla legge 29 marzo 1983, n. 93", e che "i nuovi accordi avranno effetto dal 1° gennaio 1994", così come interpretato dalla giurisprudenza, avrebbe stabilito l’ultrattività per il triennio 1991-1993, tra gli altri, degli accordi di comparto recepiti con il d.P.R. n. 335 del 1990 e con il d.P.R. n. 44 del 1990;
che, secondo i giudici a quibus, la norma censurata, nella parte in cui dispone che l'articolo 7, comma 1, del d.l. n. 384 del 1992, "si interpreta nel senso che la proroga al 31 dicembre 1993 della disciplina emanata sulla base degli accordi di comparto di cui alla legge 29 marzo 1983, n. 93, relativi al triennio 1º gennaio 1988-31 dicembre 1990, non modifica la data del 31 dicembre 1990, già stabilita per la maturazione delle anzianità di servizio prescritte ai fini delle maggiorazioni della retribuzione individuale di anzianità", avrebbe imposto un’interpretazione che vanificherebbe il diritto all’incremento stipendiale a titolo di retribuzione individuale di anzianità maturata successivamente al 1990, ponendosi così in contrasto con i principi di ragionevolezza, di eguaglianza e di tutela dell’affidamento;
che, secondo i rimettenti, la disposizione impugnata realizzerebbe "una interferenza di dubbia ammissibilità rispetto all’esplicazione della funzione giurisdizionale e al diritto di agire e difendersi in giudizio", influendo sull’esito dei processi in corso, in pregiudizio della funzione giurisdizionale, incidendo intenzionalmente su fattispecie sub iudice;
che, ad avviso del Tribunale di Parma, l’art. 51, comma 3, della legge n. 388 del 2000, nella parte in cui dispone che "é fatta salva l'esecuzione dei giudicati alla data di entrata in vigore della presente legge" realizzerebbe una ingiustificata disparità di trattamento in danno di coloro i quali, benchè abbiano proposto domanda giudiziale, non hanno ancora ottenuto una sentenza, violando, non ragionevolmente, il diritto alla tutela giurisdizionale (artt. 3 e 24 della Costituzione), sopprimendo altresì "il diritto dell’interessato, anche per il caso di fondatezza della domanda, a vedersi tenuto indenne dal pagamento delle spese" processuali;
che, secondo quest’ultimo giudice, la norma impugnata, vietando la corresponsione dell’aumento di stipendio riferito all’anzianità di servizio, violerebbe, infine, gli artt. 35, secondo comma, e 36, primo comma, della Costituzione, dal momento che influirebbe sulla proporzionalità della retribuzione rispetto alla qualità del lavoro svolto, impedendo "l’elevazione professionale" dei lavoratori;
che, in entrambi i giudizi, é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, nell’atto di intervento e nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, che la questione sia dichiarata infondata;
che, ad avviso della difesa erariale, la norma impugnata avrebbe carattere interpretativo, e comunque fisserebbe la regola astratta che il giudice é tenuto ad applicare e, quindi, non realizzerebbe una illegittima interferenza nell’esercizio della funzione giurisdizionale;
che, secondo l’Avvocatura, le censure riferite agli artt. 35, secondo comma, e 36, primo comma, della Costituzione sarebbero infondate, poichè il Tribunale di Parma ritiene erroneamente che la norma impugnata stabilisca una disciplina che disincentiva la professionalità, rendendo la retribuzione non proporzionata al lavoro svolto;
che, nel giudizio promosso dal Tribunale di Parma, si é costituita Poste Italiane s.p.a., chiedendo che la questione sia rigettata e deducendo, nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, che la norma impugnata avrebbe ragionevolmente posto rimedio ad un’erronea interpretazione da parte dei giudici dell’art. 7, comma 1, del d.l. n. 384 del 1992;
che, nel giudizio instaurato dall’ordinanza del Tar del Lazio, si sono costituiti, fuori termine, i ricorrenti, chiedendo che la questione sia accolta.
Considerato che i giudizi, avendo ad oggetto la stessa norma, in riferimento a parametri costituzionali in larga misura coincidenti e sotto profili sostanzialmente analoghi, vanno riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia;
che, in linea preliminare, deve essere dichiarata inammissibile per tardività la costituzione dei ricorrenti nel giudizio promosso dal Tar del Lazio, in quanto effettuata oltre il termine perentorio stabilito dall’art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87, computato secondo quanto previsto dall’art. 3 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (tra le molte, ordinanza n. 394 del 2001);
che non appare necessario accertare se la disposizione impugnata abbia carattere interpretativo o innovativo in quanto, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, il carattere retroattivo della norma, purchè non violi il disposto dell'art. 25 della Costituzione in materia penale e non si ponga in contrasto con il principio di ragionevolezza o con altri valori ed interessi costituzionali specificamente protetti, non costituisce, di per sè solo, un profilo di illegittimità della norma stessa (ex plurimis, sentenze n. 136 del 2001; n. 374 del 2000; n. 229 del 1999), neppure quando, come nel caso in esame, incida su diritti di natura economica connessi ad un rapporto di impiego (sentenze n. 374 del 2000, n. 432 del 1997);
che la norma impugnata, sotto il profilo della ragionevolezza, é giustificata dall’esigenza di assicurare la coerente attuazione della finalità dell’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 384 del 1992 di "cristallizzazione" del trattamento economico dei dipendenti pubblici per inderogabili esigenze di contenimento della spesa pubblica, realizzata da quest’ultima disposizione con modalità già giudicate da questa Corte non irrazionali ed arbitrarie (sentenze n. 496 del 1993; n. 296 del 1993), anche in considerazione della limitazione temporale del sacrificio imposto ai dipendenti (ordinanza n. 299 del 1999);
che l’art. 51, comma 3, della legge n. 388 del 2000 non viola la funzione giurisdizionale, in quanto con esso il legislatore ordinario non ha inciso sulla potestas iudicandi, ma si é mosso "sul piano generale ed astratto delle fonti", costruendo il modello normativo, cui la decisione giudiziale deve riferirsi (sentenza n. 432 del 1997; analogamente, sentenze n. 374 del 2000, n. 229 del 1999) e, proprio per questo, l’intervento legislativo non incide sul diritto alla tutela giurisdizionale (sentenza n. 29 del 2002; n. 419 del 2000), neppure in relazione al regime delle spese del giudizio;
che, peraltro, la diversità di condizione tra coloro i quali hanno ottenuto l’incremento stipendiale in virtù di sentenze definitive favorevoli e coloro che non possono ottenere l’identico beneficio, benchè abbiano proposto domanda giudiziale, non realizza una ingiustificata disparità di trattamento, dato che questo effetto deriva dalla necessità di rispettare il giudicato già formatosi in ordine a singoli rapporti (sentenza n. 229 del 1999; ordinanza n. 167 del 1996; sentenza n. 15 del 1995), per cui é anche da escludere che l’intervento legislativo realizzi una "correzione" concreta dell’attività giurisdizionale (sentenza n. 374 del 2000);
che, infine, il riferimento all’art. 35, secondo comma, della Costituzione é inconferente e non possono essere invocati gli artt. 36, primo comma, e 97 della Costituzione, in quanto la proporzionalità e sufficienza della retribuzione devono essere valutate considerando la retribuzione nel suo complesso, non in relazione ai singoli elementi che compongono il trattamento economico (ordinanza n. 368 del 1999; sentenza n. 15 del 1995), mentre il principio di buon andamento dell’amministrazione non può essere richiamato per conseguire miglioramenti retributivi (ordinanza n. 205 del 1998; sentenza n. 273 del 1997);
che pertanto la questione, in riferimento a tutti i parametri e sotto ogni profilo, deve essere dichiarata manifestamente infondata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 51, comma 3, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001) sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 35, secondo comma, 36, primo comma, 97, 101, 102, 103, 104, 108 e 113 della Costituzione, dal Tribunale di Parma e dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione I, con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, palazzo della Consulta, il 17 giugno 2002.
Cesare RUPERTO, Presidente
Piero Alberto CAPOTOSTI, Redattore
Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2002.