SENTENZA N. 32
ANNO 2021
Commenti alla
decisione di
I. Antonio
Ruggeri, La PMA alla
Consulta e l’uso discrezionale della discrezionalità del legislatore (Nota
minima a Corte cost. nn. 32 e 33 del 2021), negli Studi e Contributi di
questa , 2021, 221
II. Federica
Mannella, Oltre
un serio avvertimento al legislatore? La Corte costituzionale e la nuova
categoria di "nati non riconoscibili”, per g.c. dell’Osservatorio sulla
Corte costituzionale di Nomos
III. Andrea Matteoni, Legittimità, tenuta logica e
valori in gioco nelle "decisioni di incostituzionalità prospettata”: verso un
giudizio costituzionale di ottemperanza?, in questa Rivista, Studi 2021/II,
348
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giancarlo CORAGGIO
Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,
Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO,
Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela
NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato
la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 8 e 9 della legge
19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente
assistita) e 250 del codice
civile, promosso dal Tribunale ordinario di Padova, nel procedimento
vertente tra V. B. e C. R., con ordinanza
del 9 dicembre 2019, iscritta al n. 79 del registro ordinanze 2020 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale,
dell’anno 2020.
Visti gli
atti di costituzione di V. B. e C. R., nonché l’atto di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica del 27 gennaio 2021 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
uditi gli
avvocati Vittorio Angiolini, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1)
del decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020, Sara Valaguzza e
Alexander Schuster per V. B., l’avvocato Massimo Rossetto per C. R. e
l’avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei
ministri, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del
Presidente della Corte del 30 ottobre 2020;
deliberato nella camera di consiglio del 28 gennaio 2021.
1.– Con ordinanza del 9 dicembre 2019, il Tribunale ordinario di Padova ha
sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8 e 9 della legge
19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente
assistita) e 250 del codice civile, in riferimento agli artt. 2, 3, 30 e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione agli artt. 2, 3, 4, 5, 7, 8 e 9 della Convenzione
sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e
resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e agli artt. 8 e 14 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto
1955, n. 848.
1.1.– Il Collegio premette di essere stato adito dalla madre intenzionale
di due gemelle, nate a seguito del ricorso a tecniche di procreazione
medicalmente assistita (PMA) – cui si è sottoposta l’allora partner della
stessa – per ottenere, in via principale, l’autorizzazione a dichiarare
all’ufficiale dello stato civile di essere genitore, ai sensi dell’art. 8 della
legge n. 40 del 2004, o di essere dichiarata tale dalla sentenza dello stesso
Tribunale per aver prestato il consenso alla fecondazione eterologa, ai sensi
dell’art. 6 della medesima legge.
Il rimettente precisa che la ricorrente ha anche chiesto, in via
subordinata, di essere autorizzata a riconoscere davanti all’ufficiale di stato
civile le minori quali proprie figlie ovvero di accertare tale riconoscimento,
pronunciando ai sensi dell’art. 250, quarto comma, cod. civ., una sentenza che
tenga luogo del consenso da lei stessa prestato e rifiutato dalla madre che ne
dichiarò la nascita e le riconobbe.
In via ulteriormente subordinata, è stato chiesto al Tribunale di Padova di
ordinare all’ufficiale dello stato civile la rettificazione degli atti di
nascita delle minori, sì che risulti che le stesse sono nate a seguito di
fecondazione eterologa, sulla base del consenso prestato dalla madre biologica
e dalla ricorrente, madre intenzionale.
Il Collegio premette che la ricorrente chiede anche di attribuire alle
minori, in forza dell’art. 250, quarto comma, ultimo periodo, cod. civ. e
dell’art. 262 cod. civ., il proprio cognome e che siano pronunciati gli
opportuni provvedimenti in relazione al loro affidamento e mantenimento, ai
sensi dell’art. 315-bis cod. civ.
Dalla discussione della causa in udienza pubblica, dai documenti prodotti e
dalle allegazioni non contestate, il Tribunale dichiara che è inequivocabile la
condivisione del progetto di PMA. Le parti hanno convissuto, pur senza
residenza anagrafica comune, anche dopo la nascita delle bambine per quasi
cinque anni, con coinvolgimento di entrambe nella cura, nell’educazione e nella
crescita delle stesse. La peculiarità della fattispecie in esame – prosegue il
rimettente – è costituita dalla circostanza che le minori sono nate in Italia,
ma non vi è stata alcuna dichiarazione congiunta davanti all’ufficiale di stato
civile in occasione della nascita. La relazione fra le due donne è cessata e
l’adozione in casi particolari, di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), della
legge 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei
minori) è risultata impraticabile, in quanto l’art. 46 della medesima legge
prescrive l’assenso del genitore legale dell’adottando, che, nella specie, è
stato negato.
Il Collegio osserva che, nonostante la partecipazione al progetto condiviso
di maternità, la convivenza durata cinque anni e una relazione genitoriale di
fatto intrattenuta con le bambine fino al 2017, queste ultime sono legalmente
figlie della sola madre biologica, che non consente né il riconoscimento, né
l’adozione e vieta ogni rapporto con la ricorrente madre intenzionale. Il Tribunale
di Padova segnala, inoltre, che anche il Tribunale per i minorenni è
intervenuto, ai sensi dell’art. 333 cod. civ., finora senza esito nel
ripristinare i rapporti con la ricorrente.
1.2.– Il Collegio rimettente ritiene pertanto che gli artt. 8 e 9 della
legge n. 40 del 2004 – che dispongono che i nati a seguito di PMA anche di tipo
eterologo hanno lo stato di figli «riconosciuti dalla coppia che ha espresso la
volontà di ricorrere alle tecniche» di PMA, stato che non può essere oggetto di
disconoscimento di paternità, né di impugnazione del riconoscimento per difetto
di veridicità – non possano essere interpretati se non nel senso di escludere
il riconoscimento dello stato di figli dei nati da PMA praticata da coppie
dello stesso sesso, in violazione dell’art. 5 della citata legge n. 40 del
2004.
Analogamente, anche l’art. 250, quarto comma, cod. civ. non consentirebbe
di autorizzare il riconoscimento dello stato di figli dei nati da PMA
eterologa, praticata da una coppia dello stesso sesso, da parte della madre
intenzionale, superando il dissenso della madre biologica. Il Tribunale di
Padova, pertanto, ritiene che – sulla base delle norme censurate – non sia
possibile accogliere le domande della ricorrente. Proprio per questo riscontra
un vuoto di tutela nel garantire l’interesse delle minori.
Le disposizioni richiamate, infatti, sistematicamente interpretate, non
consentirebbero al nato nell’ambito di un progetto di procreazione medicalmente
assistita eterologa, praticata da una coppia dello stesso sesso, l’attribuzione
dello status di figlio riconosciuto anche da parte della madre intenzionale,
che ha prestato il consenso alla pratica fecondativa, se non sia possibile
procedere all’adozione nei casi particolari, qualora sia accertato
giudizialmente l’interesse del minore.
Il rimettente segnala, inoltre, che nella specie non sarebbero neppure
utilizzabili gli strumenti individuati dalla giurisprudenza di legittimità in
casi simili per tutelare l’interesse dei minori, consistenti nella trascrizione
dell’atto di nascita formato all’estero, ove la nascita sia avvenuta in un
altro Paese la cui legislazione ammette l’omogenitorialità, e nell’adozione in
casi particolari, per il fatto che l’assenso della madre biologica e legale,
indispensabile ai sensi dell’art. 46 della legge n. 183 del 1984, è stato
negato.
Il denunciato vuoto di tutela si risolverebbe, quindi, nella lesione di
diritti costituzionalmente e convenzionalmente garantiti dagli artt. 2, 3, 30 e
117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, come
interpretati dalla Corte di Strasburgo, e agli artt. 2, 3, 4, 5, 7, 8 e 9 della
Convenzione sui diritti del fanciullo.
In particolare, gli artt. 8 e 9 della legge n. 40 del 2004 e 250 cod. civ.
lascerebbero privo di tutela il diritto inviolabile del minore all’identità
garantito dall’art. 2 Cost., da cui discende l’azionabilità dei suoi diritti
nei confronti di chi si è assunto la responsabilità di procreare nell’ambito di
una formazione sociale che, benché non riconducibile alla famiglia
tradizionale, sarebbe comunque meritevole di tutela. In tal modo sarebbe
violato il diritto di ciascun bambino ad avere due persone che si assumono la
responsabilità di provvedere al suo mantenimento, alla sua educazione e
istruzione, nei cui confronti poter vantare diritti successori, ma soprattutto
agire in caso di inadempimento e di crisi della coppia. Il contrasto
evidenziato è con gli artt. 2, 3, 30 e 117, primo comma, Cost., in relazione
all’art. 8 CEDU. Il Collegio rimettente ricorda che tale disposizione è al
centro di numerose pronunce della Corte EDU (sono richiamate le sentenze 26 giugno 2014,
Mennesson contro Francia, e Labassee contro Francia). Dell’art. 8 CEDU si
occupa anche il parere
reso il 10 aprile 2019 ai sensi del Protocollo n. 16 alla CEDU, per
affermare che l’assenza di riconoscimento di un legame tra il bambino e la
madre intenzionale pregiudica il bambino, lasciandolo in una situazione di
incertezza giuridica quanto alla sua identità nella società, e può ledere
gravemente il suo diritto alla vita privata.
Le norme censurate, inoltre, là dove non comprendono anche i nati da PMA
eterologa praticata da coppie dello stesso sesso, determinerebbero una
ingiustificata disparità di trattamento nei confronti di questi ultimi,
rispetto ai nati da PMA praticata da coppia eterosessuale e anche rispetto ai
nati da PMA praticata da coppie dello stesso sesso, nella situazione in cui la
madre biologica presta il suo assenso all’adozione in casi particolari.
I nati da PMA praticata da coppie dello stesso sesso, per i quali non si
possa ricorrere all’adozione in casi particolari, sarebbero destinati a un
perenne stato di figli con un solo genitore, non riconoscibili dall’altra
persona che ha contribuito al progetto procreativo. Essi si troverebbero in una
situazione giuridica diversa e deteriore rispetto a quella di tutti gli altri
nati (compresi i nati da rapporto incestuoso), senza che si possa rinvenire
altra giustificazione se non l’orientamento sessuale delle persone che hanno
partecipato al progetto procreativo, in violazione dell’art. 3 e dell’art. 117,
primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU. La nuova
categoria di nati "non riconoscibili” contrasterebbe anche con il principio di
unicità dello status giuridico dei figli, che ha connotato tutti gli interventi
legislativi più recenti in materia di filiazione (la legge 10 dicembre 2012, n.
219, recante «Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali», e
il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 recante «Revisione delle
disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della
legge 10 dicembre 2012, n. 219»).
Sarebbe, infine, violato l’impegno assunto dallo Stato italiano, in sede di
ratifica della Convenzione sui diritti del fanciullo (in specie agli artt. 2,
3, 4, 5, 7, 8 e 9) ad adottare «tutti i provvedimenti appropriati affinché il
fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione o di
sanzione motivate dalla condizione sociale, dalle attività, dalle opinioni
professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali e
dei suoi familiari» (art. 2), nonché a tenere in considerazione «l’interesse
prevalente del minore» in tutte le decisioni relative ai bambini (art. 3).
Pertanto, il Tribunale conclude dichiarando non manifestamente infondate le
questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti delle norme di
cui agli artt. 8 e 9 della legge n. 40 del 2004 e 250 cod. civ. là dove,
sistematicamente interpretate, non consentono al nato nell’ambito di un
progetto di procreazione medicalmente assistita eterologa, praticata da una
coppia di donne, l’attribuzione dello status di figlio riconosciuto anche della
donna che, insieme alla madre biologica, abbia prestato il consenso alla
pratica fecondativa, ove non vi siano le condizioni per procedere all’adozione
nei casi particolari e sia accertato giudizialmente l’interesse del minore.
Quanto alla rilevanza delle questioni, il Collegio rimettente osserva che
l’applicazione delle norme censurate è evidentemente ineliminabile nell’iter
logico-giuridico che si deve percorrere per la decisione. Solo l’accoglimento
delle questioni consentirebbe di accogliere le domande della ricorrente,
laddove, in caso opposto, l’attuale stato della normativa imporrebbe una
pronuncia di rigetto.
2.– Si è costituita in giudizio la ricorrente nel giudizio principale,
chiedendo che le questioni sollevate con l’ordinanza del Tribunale di Padova
siano accolte.
In via preliminare, la difesa della ricorrente sottolinea che il carattere
additivo della questione di legittimità costituzionale sollevata non ne
pregiudica l’ammissibilità, poiché l’addizione richiesta sarebbe a "rime
obbligate”.
Il vuoto di tutela potrebbe essere colmato solo nel modo indicato dal
rimettente, estendendo anche ai nati nell’ambito di un progetto di PMA,
praticata da una coppia di donne, quel che già le disposizioni censurate
garantiscono agli altri nati da fecondazione assistita, ossia l’attribuzione
dello status di figlio e il riconoscimento della responsabilità genitoriale di
ambedue i genitori, che siano tali per aver preso parte e aver consentito in
condivisione al progetto di procreazione, quando sia accertato l’interesse del
minore.
Ciò anche in considerazione dei limiti specifici derivanti dalla disciplina
dell’adozione in casi particolari, per cui è necessario l’assenso dei genitori
biologici dell’adottando, perché l’adottante – che abbia instaurato un rapporto
di coniugio o di convivenza con il genitore biologico – è soggetto terzo che
tipicamente subentra in una fase successiva al concepimento e alla nascita. Nel
caso di conflittualità, l’impossibilità di superare il dissenso del genitore
biologico, ai sensi dell’art. 46 della legge sull’adozione, rivelerebbe la
necessità di applicare direttamente la disciplina generale di costituzione del
rapporto di filiazione fuori dal matrimonio, unico strumento di tutela dell’interesse
del minore.
Nel merito, la difesa della ricorrente nel giudizio principale sottolinea
come non sia in discussione la legittimità del divieto di accesso alle tecniche
di procreazione medicalmente assistita da parte delle coppie formate da persone
dello stesso sesso, su cui la Corte si è di recente pronunciata con la sentenza n. 221
del 2019, ma esclusivamente l’irragionevole discriminazione operata nei
confronti dei nati e concepiti da PMA per effetto di un progetto genitoriale
avviato e condotto a termine da due persone dello stesso sesso. Le norme
censurate, infatti, là dove impediscono il riconoscimento del legame fra nato e
partner della coppia omosessuale femminile non legata dal punto di vista
biologico e genetico, non farebbero altro che impedire l’adempimento dei doveri
di cura da parte di entrambi i genitori, prescritto dall’art. 30 Cost.,
sottraendo al minore una figura che pure intende continuare ad assumersi i
compiti insiti nell’esercizio della responsabilità genitoriale. La declaratoria
di illegittimità costituzionale delle norme censurate mirerebbe a impedire che
le vicende personali che intercorrono nella coppia (eterosessuale o
omosessuale) possano compromettere la definizione dello status di figlio e
renderlo oggetto di contrattazione. La discrezionalità del legislatore e il
favor da quest’ultimo espresso per la famiglia tradizionale incontrerebbe,
comunque, il limite degli interessi dei minori e del divieto di scelte discriminatorie
per motivi di genere e orientamento sessuale. Tale limite sarebbe superato,
considerato, tra l’altro, che taluni orientamenti nazionali e internazionali
delle scienze psicologiche e cliniche evidenziano l’assenza di pregiudizi per
il benessere dei figli minori quando si instaura un legame con due figure
genitoriali dello stesso sesso.
3.– Si è costituita in giudizio anche la madre biologica, parte resistente nel
giudizio a quo, e ha chiesto che le questioni di legittimità costituzionale
sollevate dal Tribunale di Padova siano dichiarate inammissibili.
La difesa della parte resistente ritiene che il riconoscimento del minore
concepito mediante PMA di tipo eterologo, da parte di una donna legata
affettivamente, in quel momento, a quella che lo ha partorito, ma non avente
alcun legame biologico con lo stesso, si ponga in contrasto con l’art. 5 della
legge n. 40 del 2004, e con l’esclusione del ricorso a tali tecniche da parte
di coppie omosessuali, riconosciuto non illegittimo dalla sentenza di questa
Corte n. 221 del 2019, non essendo consentita, al di fuori dei casi
previsti dalla legge, la realizzazione di forme di genitorialità svincolate dal
rapporto biologico. Non sarebbe, quindi, possibile desumere dall’art. 9 della
legge n. 40 del 2004 un principio generale secondo cui, ai fini
dell’instaurazione del rapporto di filiazione, può considerarsi sufficiente il
mero dato volontaristico o intenzionale rappresentato dal consenso prestato
alla procreazione medicalmente assistita o comunque dall’adesione a un comune
progetto genitoriale.
L’intera disciplina del rapporto di filiazione, così come delineata dal
codice civile, sarebbe tuttora saldamente ancorata al rapporto biologico tra il
nato e i genitori, la cui esclusione richiederebbe, a pena di inevitabili
squilibri, radicali modifiche di sistema, non realizzabili attraverso un
intervento episodico del giudice. La stessa Corte costituzionale – prosegue la
difesa della resistente – pur avendo posto in risalto la libertà e la
volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori, ne ha riconosciuto
il necessario bilanciamento, da demandare al legislatore, con altri valori
costituzionalmente protetti.
La difesa della parte resistente nel giudizio principale esclude, inoltre,
che sia ravvisabile un contrasto, sul punto, con la giurisprudenza della Corte
EDU, che ha ritenuto non sussistente la violazione del diritto al rispetto
della vita familiare del minore a causa del mancato riconoscimento del rapporto
di filiazione, ove sia assicurata in concreto la possibilità di condurre
un’esistenza paragonabile a quella delle altre famiglie. Una simile violazione
non sarebbe configurabile nel caso di specie, in cui non è in discussione il
rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il
genitore d’intenzione, il cui mancato riconoscimento non precluderebbe al
minore l’inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale, né
l’accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo status filiationis,
pacificamente riconosciuto nei confronti dell’altro genitore.
Nessun contrasto si ravviserebbe con il riconoscimento dell’efficacia nel
nostro ordinamento dell’atto di nascita formato all’estero, da cui risulti che
il nato, concepito con il ricorso a tecniche di PMA, è figlio di due persone
dello stesso sesso, ancorché una di esse non abbia alcun rapporto biologico con
il minore. Il riconoscimento dell’atto di nascita straniero non farebbe venir
meno l’estraneità dello stesso all’ordinamento italiano, che si limiterebbe a
consentire la produzione dei relativi effetti, così come previsti e regolati
dall’ordinamento di provenienza, nei limiti del rispetto dell’ordine pubblico,
inteso quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato
momento storico.
4.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che chiede che le
questioni vengano dichiarate inammissibili.
Anzitutto, la difesa statale ritiene che il rimettente si limiti a
censurare l’inerzia del legislatore, in una materia in cui quest’ultimo dispone
di un ampio ambito di discrezionalità, mentre questa Corte non avrebbe gli
strumenti per imporre al legislatore di attivarsi.
L’addizione richiesta dal rimettente non sarebbe, pertanto,
costituzionalmente necessaria.
Inoltre, l’ostacolo all’interpretazione estensiva degli artt. 8 e 9 della
legge n. 40 del 2004, che consenta il riconoscimento dello status di figlio del
nato da PMA, praticata da coppie dello stesso sesso, sarebbe rinvenibile non
già nelle norme citate e censurate, quanto piuttosto negli artt. 4 e 5 della
medesima legge, non censurati.
Infine, tutte le argomentazioni svolte a sostegno delle questioni di
legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Padova sarebbero prive di
rilevanza, in quanto non sarebbe stato fatto valere in giudizio il diritto
delle minori a ottenere il riconoscimento da parte del secondo genitore, quanto
piuttosto il diritto della madre intenzionale a essere considerata genitore
legale delle minori, come emergerebbe dalla circostanza che le minori non
risultano essere parti del giudizio.
5.– Ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale sono state depositate tre opinioni scritte, a titolo
di amici curiae.
Con decreto presidenziale del 3 dicembre 2020, sono state ammesse – perché
conformi ai criteri previsti al citato art. 4-ter delle Norme integrative – le
opinioni scritte del "Centro Studi Rosario Livatino” e della "Avvocatura per i
diritti LGBTI – Associazione di promozione sociale”.
Il Centro Studi Rosario Livatino chiede che la Corte dichiari
manifestamente infondate le questioni sollevate dal Tribunale di Padova.
L’accoglimento delle questioni introdurrebbe una genitorialità omosessuale
fondata su uno status filiationis pieno anche nei confronti del genitore non
biologico, che priverebbe il minore di ogni diritto verso il genitore biologico
di sesso diverso dall’altro, rispetto al quale la filiazione resterebbe sempre
accertabile, eludendosi, inoltre, la necessità dell’assenso del genitore
biologico esercente la responsabilità.
L’Avvocatura per i diritti LGBTI auspica che questa Corte individui una
soluzione in linea con la giurisprudenza di Corti costituzionali straniere,
ampiamente illustrata nell’opinione scritta, al fine di offrire adeguata tutela
al nato, reputando applicabile l’art. 8 della legge n. 40 del 2004, o
accogliendo la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale
di Padova. Il consenso alla PMA – espresso all’estero da due donne in forme
equivalenti a quelle previste dall’art. 6 della medesima legge n. 40 del 2004 –
sarebbe idoneo e sufficiente all’assunzione della responsabilità genitoriale
rispetto al nato in Italia, dal momento che l’art. 8 della citata legge tutela
il nato a prescindere dalle concrete condotte di chi lo ha voluto.
6.– All’udienza pubblica le parti e la difesa statale hanno insistito per
l’accoglimento delle conclusioni formulate nelle memorie scritte.
1.– Il Tribunale ordinario di Padova dubita della legittimità
costituzionale degli artt. 8 e 9 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in
materia di procreazione medicalmente assistita) e 250 del codice civile, in
quanto, sistematicamente interpretati, non consentirebbero al nato nell’ambito
di un progetto di procreazione medicalmente assistita eterologa, praticata da
una coppia dello stesso sesso, l’attribuzione dello status di figlio
riconosciuto anche dalla madre intenzionale che abbia prestato il consenso alla
pratica fecondativa, ove non vi siano le condizioni per procedere all’adozione
nei casi particolari e sia accertato giudizialmente l’interesse del minore.
Secondo il rimettente, le citate disposizioni garantirebbero il
riconoscimento del legame di filiazione del nato, a seguito del ricorso a
tecniche di PMA eterologa, nei confronti di entrambi i soggetti che hanno
prestato il consenso e che si sono, conseguentemente, assunti la responsabilità
genitoriale, solo ove tali soggetti rientrino fra coloro che hanno potuto
accedere a una tale tecnica procreativa ai sensi dell’art. 5 della medesima
legge n. 40 del 2004 e cioè solo ove siano di sesso diverso.
Pertanto, esse lascerebbero privo di tutela l’interesse del minore, nato a
seguito di fecondazione assistita praticata da due donne, al riconoscimento del
rapporto di filiazione con la madre intenzionale, non essendovi nella
fattispecie in esame neppure le condizioni per procedere all’adozione in casi
particolari, di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio
1983, n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori), a causa
del mancato assenso del genitore biologico-legale, previsto quale condizione
insuperabile (art. 46).
Tale vuoto di tutela esorbiterebbe dal margine di discrezionalità riservata
in tale materia al legislatore e determinerebbe la violazione di una serie di
diritti e interessi costituzionalmente e convenzionalmente garantiti.
Anzitutto, sarebbe violato il diritto del nato a far valere, nei confronti
delle due persone, pur dello stesso sesso, che si sono comunque assunte la
responsabilità della procreazione, i propri diritti al mantenimento, all’educazione,
all’istruzione, ma anche i diritti successori, soprattutto in caso di
inadempimento e di crisi della coppia, in contrasto con gli artt. 2, 3, 30 e
117, primo comma, Cost., quest’ultimo, in specie, in relazione all’art. 8 CEDU.
Si profilerebbe – in linea con la giurisprudenza della Corte EDU – una grave
lesione del diritto alla vita privata del bambino, cui sia impedito il
riconoscimento del legame con la madre intenzionale, lasciandolo così esposto a
una situazione di incertezza giuridica nelle relazioni sociali, quanto alla sua
identità personale.
Si realizzerebbe, in tal modo, una ingiustificata disparità di trattamento
sia rispetto ai nati da PMA praticata da coppia eterosessuale, sia rispetto ai
nati da PMA praticata da coppie dello stesso sesso, che possano accedere
all’adozione in casi particolari, in virtù del consenso prestato dalla madre
biologica. In mancanza di tale assenso, i nati a seguito di PMA eterologa
praticata da coppie dello stesso sesso sarebbero destinati perennemente a uno
stato di figli con un solo genitore, non riconoscibili dall’altra persona che
ha intenzionalmente contribuito al progetto procreativo. Essi si troverebbero
in una situazione giuridica deteriore rispetto a quella di tutti gli altri nati
(compresi i nati da rapporto incestuoso), per il solo fatto dell’orientamento
sessuale delle persone che hanno condiviso la scelta di procreare con ricorso
alle tecniche citate, in violazione dell’art. 3 e dell’art. 117, primo comma,
Cost., in relazione all’art. 14 CEDU.
Un tale vuoto di tutela entrerebbe in contrasto con l’impegno assunto dallo
Stato italiano, in sede di ratifica della Convenzione sui diritti del
fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva
con legge 27 maggio 1991, n. 176 (in specie agli artt. 2, 3, 4, 5, 7, 8 e 9),
volto a considerare «l’interesse prevalente del minore» in tutte le decisioni
relative ai bambini (art. 3) e, comunque, ad adottare «tutti i provvedimenti
appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma
di discriminazione o di sanzione motivate dalla condizione sociale, dalle
attività, dalle opinioni professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi
rappresentanti legali o dei suoi familiari» (art. 2).
2.– In linea preliminare, occorre esaminare le eccezioni di inammissibilità
sollevate dalla difesa statale.
2.1.– L’Avvocatura generale dello Stato ritiene che le questioni sollevate
dal Tribunale di Padova siano prive di rilevanza. Nella specie, non sarebbe
fatto valere nel giudizio principale il diritto delle minori a essere
riconosciute quali figlie di entrambe le madri, ma la pretesa della ricorrente
di essere riconosciuta genitore legale. Ciò sarebbe dimostrato dalla
circostanza che la convenuta, madre biologica delle minori, non sarebbe stata
citata in giudizio come esercente la responsabilità genitoriale sulle minori e
il Tribunale non ha ritenuto di disporre l’integrazione del contraddittorio nei
confronti delle stesse. Non sarebbe, quindi, chiara la fattispecie sottoposta all’esame
del Tribunale, tanto da non consentire di comprendere l’individuazione delle
norme censurate, quali norme applicabili nel giudizio principale.
2.1.1.– L’eccezione è priva di fondamento.
Nell’ordinanza di rimessione emerge chiaramente che le domande, proposte
nel giudizio principale dalla ricorrente sulla base degli artt. 8 e 9 della
legge n. 40 del 2004, oltre che, in subordine, dell’art. 250 cod. civ., mirano
alla tutela delle minori, proprio perché volte a consentire l’esercizio della
responsabilità genitoriale nei confronti delle stesse anche da parte della
madre intenzionale, in virtù del riconoscimento formale dello status di figlie
dalla stessa auspicato. Il rimettente chiarisce che si tratta di una richiesta
orientata a garantire stabilità nel rapporto genitoriale, impostato in modo
continuativo fin dalla nascita delle bambine e tale da non arrecare pregiudizio
alle stesse. Si fa riferimento all’intervento, pur infruttuoso, del Tribunale
per i minorenni, a seguito della brusca interruzione di contatti regolari,
causata dalla madre biologica, con l’insorgere di una situazione conflittuale
all’interno della coppia, di ogni rapporto tra le medesime minori e la madre
intenzionale, nonostante il consolidato legame affettivo fra le stesse.
Il riconoscimento dello status di figlio, oggetto delle norme censurate,
corrisponde, secondo l’art. 30 Cost., al dovere di cura del genitore che è, al
contempo, garanzia del diritto del minore di essere curato. Tanto basta per
ritenere che gli argomenti del rimettente non siano implausibili
nell’individuare come oggetto del giudizio che lo occupa il diritto delle
minori a essere riconosciute figlie di entrambe le madri, in linea con
l’indirizzo costante di questa Corte, che, nel delibare l’ammissibilità della
questione, «effettua in ordine alla rilevanza solo un controllo "esterno”,
applicando un parametro di non implausibilità della relativa motivazione» (sentenza n. 267
del 2020; nello stesso senso, sentenze n. 224
e n. 32 del
2020).
2.2.– La difesa statale eccepisce, inoltre, l’inammissibilità delle
questioni per aberratio ictus.
L’ostacolo giuridico all’accoglimento della domanda della ricorrente nel
giudizio principale, volta al riconoscimento dello status di figlie nei
confronti delle bambine nate a seguito di PMA eterologa praticata da una coppia
di donne, risiederebbe non già nelle disposizioni censurate, ma nelle norme
della medesima legge n. 40 del 2004 che fissano i limiti all’accesso alla PMA
eterologa, contenute negli artt. 4 e 5 della legge n. 40 del 2004, non oggetto
di censure.
2.2.1.– Anche questa eccezione è priva di fondamento.
Il rimettente premette che la domanda proposta, in prima istanza, dalla
ricorrente è proprio quella di riconoscere lo status di figlie delle minori,
applicando estensivamente gli artt. 8 e 9 della legge n. 40 del 2004, muovendo
dal loro tenore letterale. L’art. 8, infatti, si limita a stabilire che i nati
a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente
assistita «hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti
dalla coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai
sensi dell’art. 6», il che vuol dire prestando il consenso informato. L’art. 9,
inoltre, sanciva il divieto del disconoscimento della paternità e di
impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità nel caso di
fecondazione eterologa, anche quando quest’ultima non era ancora consentita
(prima dell’intervento di questa Corte con la sentenza n. 162
del 2014).
Il Tribunale di Padova, tuttavia, afferma di non poter accogliere l’istanza
della ricorrente, ritenendo che l’ambito di applicazione delle citate
disposizioni, sulla base dell’interpretazione sistematica e logica delle stesse
e a seguito della sentenza n. 237
del 2019 di questa Corte, sia implicitamente limitato ai nati da PMA
eterologa praticata da coppie di sesso diverso, in base a quanto previsto
dall’art. 5 della medesima legge n. 40 del 2004.
Il rimettente, però, rileva che, sebbene la fecondazione eterologa fra
coppie dello stesso sesso non sia consentita in Italia per una scelta del
legislatore non costituzionalmente censurabile (sentenza n. 221
del 2019), essa è comunque praticata e praticabile in altri Paesi. I nati a
seguito del ricorso a queste tecniche sono, dunque, titolari di diritti,
indipendentemente dalle modalità del loro concepimento.
Il rimettente non contesta la legittimità costituzionale dei limiti posti
alle coppie omosessuali nell’accesso alla PMA. Denuncia, piuttosto,
l’illegittimità costituzionale della compressione dei diritti dei nati, su cui
si farebbe ricadere la responsabilità inerente all’illiceità delle tecniche
adottate nella procreazione.
Poiché «ricorre l’inammissibilità delle questioni per aberratio ictus solo
ove sia erroneamente individuata la norma in riferimento alla quale sono
formulate le censure di illegittimità costituzionale» (sentenza n. 224
del 2020), si deve ritenere che questo non accada nel caso qui esaminato.
Il Collegio rimettente correttamente censura gli artt. 8 e 9 della legge n.
40 del 2004, poiché da essi si desume l’impossibilità di riconoscere lo status
di figli ai nati da PMA eterologa, praticata da una coppia di donne, e da essi
si fa discendere il vuoto di tutela, quando si manifesta il dissenso della
madre biologica all’accesso della madre intenzionale all’adozione in casi
particolari, con conseguente pretesa lesione degli indicati parametri
costituzionali.
2.3.– Gli argomenti appena richiamati inducono a escludere un ulteriore
profilo – pur non eccepito – di inammissibilità, inerente alla mancata
sperimentazione dell’interpretazione costituzionalmente orientata delle
disposizioni censurate, auspicata dalla ricorrente nel giudizio principale.
2.3.1.– Come già sottolineato, il Collegio rimettente muove dalla verifica
della possibilità di un’interpretazione dei citati artt. 8 e 9 della legge n.
40 del 2004, che consenta di assicurare la tutela dei nati a seguito del
ricorso a tecniche di PMA eterologa da parte di due donne, effettuato
all’estero, riconoscendo loro lo status di figli di entrambe. La ritiene,
tuttavia, impraticabile muovendo da un’interpretazione sistematica e logica,
poiché «allo stato della legislazione, il requisito soggettivo della diversità
di sesso per accedere alla procreazione medicalmente assistita», prescritto
dall’art. 5 della legge n. 40 del 2004, ma anche «letto […] in relazione alle
norme del codice civile sulla filiazione, esclude l’opzione ermeneutica
proposta dalla ricorrente».
L’interpretazione accolta dal Collegio rimettente, peraltro, è stata
successivamente confermata dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di
cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 aprile 2020, n. 8029, e sentenza
3 aprile 2020, n. 7668). Alcune pronunce di merito l’hanno, invece, disattesa,
proprio in considerazione della preminente esigenza, costituzionalmente
garantita, «di tutelare la condizione giuridica del nato, conferendogli, da
principio, certezza e stabilità», tenendo distinta la questione relativa allo
stato del figlio da quella inerente alla liceità della tecnica prescelta per
farlo nascere (fra gli altri, Tribunale di Brescia, decreto 11 novembre 2020,
Tribunale di Cagliari, sentenza n. 1146 del 28 aprile 2020. In termini
analoghi, Corte d’appello di Roma, decreto 27 aprile 2020).
In ogni caso, l’interpretazione costituzionalmente orientata della
normativa denunciata è stata esplorata e consapevolmente scartata dal Collegio
rimettente, «il che basta ai fini dell’ammissibilità della questione (sentenza n. 189
del 2019)» (sentenza
n. 32 del 2020).
2.4.– La difesa statale eccepisce, infine, che le questioni sollevate dal
Tribunale di Padova siano inammissibili, poiché le integrazioni alla disciplina
vigente, richieste dal giudice a quo, sarebbero protese a colmare un vuoto di
tutela in una materia caratterizzata da ampia discrezionalità del legislatore.
2.4.1.– L’eccezione è fondata nei termini di seguito precisati.
2.4.1.1.– In epoca antecedente all’adozione della legge n. 40 del 2004, in
relazione a una questione inerente alla tutela dello status filiationis del
concepito tramite fecondazione eterologa, ancora non disciplinata, questa Corte
ha evidenziato «una situazione di carenza dell’attuale ordinamento, con
implicazioni costituzionali» (sentenza n. 347
del 1998). Senza addentrarsi nel valutare la legittimità di quella tecnica,
è stata in quell’occasione espressa l’urgenza di individuare idonei strumenti
di tutela del nato a seguito di fecondazione assistita, «non solo in relazione
ai diritti e ai doveri previsti per la sua formazione, in particolare dagli
artt. 30 e 31 della Costituzione, ma ancor prima – in base all’art. 2 della
Costituzione – ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente
impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità: diritti che è
compito del legislatore specificare» (sentenza n. 347
del 1998).
Gli artt. 8 e 9 della legge n. 40 del 2004 stanno a dimostrare che,
nell’ascoltare quel monito, il legislatore ha inteso definire lo status di
figlio del nato da PMA anche eterologa, ancor prima che fosse dichiarata
l’illegittimità costituzionale del relativo divieto (sentenza n. 162
del 2014). Nel fondare un progetto genitoriale comune, i soggetti
maggiorenni che, all’interno di coppie di sesso diverso, coniugate o
conviventi, avessero consensualmente fatto ricorso a PMA (art. 5 della legge n.
40 del 2004), divenivano, per ciò stesso, responsabili nei confronti dei nati,
destinatari naturali dei doveri di cura, pur in assenza di un legame biologico.
L’evoluzione dell’ordinamento, del resto, muovendo dalla nozione
tradizionale di famiglia, ha progressivamente riconosciuto – e questa Corte lo
ha evidenziato – rilievo giuridico alla genitorialità sociale, ove non
coincidente con quella biologica (sentenza n. 272
del 2017), tenuto conto che «il dato della provenienza genetica non
costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa» (sentenza n. 162
del 2014).
L’art. 9 della legge n. 40 del 2004, nel valorizzare, rispetto al favor
veritatis, il consenso alla genitorialità e l’assunzione della conseguente
responsabilità nell’ambito di una formazione sociale idonea ad accogliere il
minore – come questa Corte ha rimarcato – «dimostra la volontà di tutelare gli
interessi del figlio», garantendo «il consolidamento in capo al figlio di una
propria identità affettiva, relazionale, sociale, da cui deriva l’interesse a
mantenere il legame genitoriale acquisito, anche eventualmente in contrasto con
la verità biologica della procreazione» (sentenza n. 127
del 2020).
A questo intervento del legislatore hanno fatto seguito, in progressione
armonica, le modifiche successivamente apportate dal decreto legislativo 28
dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di
filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219) in
tema di filiazione. Al centro si pongono i diritti del minore: «crescere in
famiglia e […] mantenere rapporti significativi con i parenti» (art. 315-bis
cod. civ.); «mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei
genitori, […] ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da
entrambi» (art. 337-ter cod. civ.). Parallelamente, al posto dell’originario
istituto della potestà genitoriale si introduce la responsabilità genitoriale
(art. 316 cod. civ.), che recepisce l’indicazione dell’art. 30 Cost., nella
formula sintetica, già da tempo espressamente individuata da questa Corte,
volta a "tradurre” «gli obblighi di mantenimento ed educazione della prole,
derivanti dalla qualità di genitore» (sentenza n. 308
del 2008; nello stesso senso sentenza n. 394
del 2005). L’evoluzione dell’ordinamento segna dunque un’ancor più
accentuata consonanza con i diritti sanciti nella Costituzione.
Inoltre, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE),
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre
2007, all’art. 24, comma 2, si afferma che è "preminente” la considerazione
dell’interesse del minore in tutti gli atti che lo riguardano. In questa
direzione, proprio con riferimento a tale disposizione, si è orientata anche la
Corte di giustizia dell’Unione europea, che ha affermato il diritto dei figli
di mantenere relazioni regolari e contatti diretti con entrambi i genitori, se
questo corrisponde al loro interesse (sentenza
5 ottobre 2010, in causa C-400/10 PPU, J. McB.).
2.4.1.2.– Come questa Corte ha già ricordato (sentenza n. 102
del 2020), il principio posto a tutela del miglior interesse del minore si
afferma nell’ambito degli strumenti internazionali dei diritti umani, in specie
nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 1959
(principio 2), in cui si prevede che, nell’approvazione di leggi e
nell’adozione di tutti i provvedimenti che incidano sulla condizione del
minore, ai best interests of the child deve attribuirsi rilievo determinante
("paramount consideration”). Successivamente esso è ribadito nella Convenzione
sui diritti del fanciullo, in cui, all’art. 3, paragrafo 1, si fa menzione del
rilievo preminente ("primary consideration”) da riservare agli interessi del
minore.
Pur in assenza di una espressa base testuale riferita al minore, la Corte
europea dei diritti dell’uomo ha ricondotto all’art. 8, spesso in combinato
disposto con l’art. 14 CEDU, l’affermazione che i diritti alla vita privata e
familiare del fanciullo devono costituire un elemento determinante di
valutazione («the child’s rights must be the paramount consideration»: Corte EDU, sezione seconda,
sentenza 5 novembre 2002, Yousef contro Paesi Bassi; sezione prima, sentenza 28
giugno 2007, Wagner e J.M.W.L. contro Lussemburgo, paragrafo 133: «Bearing
in mind that the best interests of the child are paramount in such a case»; grande camera, sentenza del
26 novembre 2013, X contro Lettonia, paragrafo 95: «the best interests of
the child must be of primary consideration»).
Questa è la prospettiva prescelta dalla Corte EDU per riconoscere la
permanenza e la stabilità dei legami che si instaurano tra il bambino e la sua
famiglia e per salvaguardare il suo diritto a beneficiare di relazioni e
contatto continuativo con entrambi i genitori (Corte EDU, grande camera,
sentenza 10 settembre 2019, Strand Lobben e altri contro Norvegia,
paragrafo 202). A meno che un distacco si renda necessario nel suo superiore
interesse, di volta in volta rimesso alla valutazione del giudice, il minore
non deve essere separato dai genitori contro la sua volontà (Corte EDU, grande camera,
sentenza 10 settembre 2019, Strand Lobben e altri contro Norvegia,
paragrafo 207). Incombe, infatti, sugli Stati aderenti alla Convenzione di New
York (art. 9, paragrafo 1) l’obbligo di rendere effettivi tali diritti e di
garantire (art. 9, paragrafo 3) la stabilità dei legami e delle relazioni del
minore in riferimento a tutte le persone con cui quest’ultimo abbia instaurato
un rapporto personale stretto, pur in assenza di un legame biologico («persons
with whom the child has had strong personal relationships»: così il paragrafo
64 del General Comment No. 14 (2013) on the right of the child to have his or
her best interests taken as a primary consideration (art. 3, para. 1), adottato
dal Comitato sui diritti del fanciullo il 29 maggio 2013, CRC/C/GC/14; una
simile affermazione anche nel paragrafo 60 dello stesso documento) a meno che
ciò non sia contrario ai suoi superiori interessi.
La Corte EDU ha ripetutamente ricondotto all’art. 8 CEDU la garanzia di
legami affettivi stabili con chi, indipendentemente dal vincolo biologico,
abbia in concreto svolto una funzione genitoriale, prendendosi cura del minore
per un lasso di tempo sufficientemente ampio (Corte EDU, sezione prima,
sentenza del 16 luglio 2015, Nazarenko contro Russia, paragrafo 66). Ha
inoltre assimilato al rapporto di filiazione il legame esistente tra la madre
d’intenzione e la figlia nata per procreazione assistita, cui si era sottoposta
l’allora partner (legame che «tient donc, de facto, du lien parent-enfant»), coerentemente
con la nozione di "vita familiare” di cui al medesimo art. 8 CEDU (Corte EDU, sezione quinta,
sentenza 12 novembre 2020, Honner contro Francia, paragrafo 51).
La considerazione che la tutela del preminente interesse del minore
comprende la garanzia del suo diritto all’identità affettiva, relazionale,
sociale, fondato sulla stabilità dei rapporti familiari e di cura e sul loro
riconoscimento giuridico è, inoltre, al centro delle stesse pronunce "gemelle”
(Corte EDU, sezione quinta, sentenze 26 giugno 2014, Mennesson contro Francia
e Labassee contro Francia),
richiamate dall’odierno rimettente. In esse la Corte EDU ha ravvisato la
violazione del diritto alla vita privata del minore nel mancato riconoscimento
del legame di filiazione tra lo stesso, concepito all’estero ricorrendo alla
specifica tecnica della surrogazione di maternità, e i genitori intenzionali,
proprio in considerazione dell’incidenza del rapporto di filiazione sulla
costruzione dell’identità personale (Corte EDU, sezione quinta, sentenze 26
giugno 2014, Mennesson
contro Francia, paragrafo 96, e Labassee contro Francia,
paragrafo 75).
Tale indirizzo – confermato da successive pronunce (fra le altre, Corte EDU, sezione quinta,
sentenza 16 luglio 2020, D. contro Francia) che hanno richiamato il parere consultivo
reso, ai sensi del Protocollo n. 16, dalla Corte EDU, grande camera, il 10
aprile 2019, relativo al riconoscimento nel diritto interno di un rapporto
di filiazione tra un minore nato da una gestazione per altri effettuata
all’estero e la madre intenzionale, richiesto dalla Corte di cassazione
francese – fonda proprio nell’art. 8 CEDU l’obbligo degli Stati di prevedere il
riconoscimento legale del legame di filiazione tra il minore e i genitori
intenzionali. Pur lasciando agli stessi un margine di discrezionalità circa i
mezzi da adottare – fra cui anche l’adozione – per pervenire a tale
riconoscimento, li vincola alla condizione che essi siano idonei a garantire la
tutela dei diritti dei minori in maniera piena. Se il rapporto di filiazione è
già diventato una «realtà pratica», la procedura prevista per il riconoscimento
deve essere «attuata in modo tempestivo ed efficace».
L’identità del minore è dunque incisa quale componente della sua vita
pivata, identità che il legame di filiazione rafforza in modo significativo.
Tutte queste precisazioni aggiungono chiarezza al riscontro che la Corte
EDU opera di ogni elemento volto a rafforzare la tutela dei minori dentro un
perimetro di diritti concretamente azionabili, che si traducono in altrettanti
obblighi degli Stati a intervenire se la tutela non è effettiva.
2.4.1.3.– Le norme oggetto delle questioni di legittimità costituzionale
sollevate dal Tribunale di Padova riguardano, come si è detto, la condizione di
nati a seguito di PMA eterologa praticata in un altro paese, in conformità alla
legge dello stesso, da una donna, che aveva intenzionalmente condiviso il
progetto genitoriale con un’altra donna e, per un lasso di tempo
sufficientemente ampio, esercitato le funzioni genitoriali congiuntamente,
dando vita con le figlie minori a una comunità di affetti e di cure. La
circostanza che ha indotto la madre biologica a recidere un tale legame nei
confronti della madre intenzionale, coincidente con il manifestarsi di situazioni
conflittuali all’interno della coppia, ha reso affatto evidente un vuoto di
tutela. Pur in presenza di un rapporto di filiazione effettivo, consolidatosi
nella pratica della vita quotidiana con la medesima madre intenzionale, nessuno
strumento può essere utilmente adoprato per far valere i diritti delle minori:
il mantenimento, la cura, l’educazione, l’istruzione, la successione e, più
semplicemente, la continuità e il conforto di abitudini condivise.
L’elusione del limite stabilito dall’art. 5 della legge n. 40 del 2004,
come già detto, non evoca scenari di contrasto con principi e valori
costituzionali. Questa Corte ha già avuto occasione di affermare, in linea con
la giurisprudenza di legittimità in materia di accesso alla PMA, che, da un
lato, non è configurabile un divieto costituzionale, per le coppie omosessuali,
di accogliere figli, pur spettando alla discrezionalità del legislatore la
relativa disciplina; dall’altro, «non esistono neppure certezze scientifiche o
dati di esperienza in ordine al fatto che l’inserimento del figlio in una
famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul
piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore» (sentenza n. 221
del 2019).
Al contrario, la concomitanza degli eventi prima descritti, svela una
preoccupante lacuna dell’ordinamento nel garantire tutela ai minori e ai loro
migliori interessi, a fronte di quanto in forte sintonia affermato dalla
giurisprudenza delle due corti europee, oltre che dalla giurisprudenza
costituzionale, come necessaria permanenza dei legami affettivi e familiari,
anche se non biologici, e riconoscimento giuridico degli stessi, al fine di
conferire certezza nella costruzione dell’identità personale.
Nell’escludere l’esistenza di un diritto alla genitorialità delle coppie
dello stesso sesso, questa Corte (sentenza n. 230
del 2020) ha lasciato emergere un profilo speculare, direttamente inerente
alla tutela del miglior interesse del minore, nato a seguito di PMA praticata
da due donne. Pur richiamando gli approdi della giurisprudenza di legittimità,
che, al fine di evitare un vulnus, ha ritenuto applicabile l’adozione
cosiddetta non legittimante in base a un’interpretazione estensiva dell’art.
44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983, in favore del partner
dello stesso sesso del genitore biologico del minore, questa Corte ha
preannunciato l’urgenza di una «diversa tutela del miglior interesse del
minore, in direzione di più penetranti ed estesi contenuti giuridici del suo
rapporto con la "madre intenzionale”, che ne attenui il divario tra realtà
fattuale e realtà legale», invocando l’intervento del legislatore.
Le questioni sollevate dal Tribunale di Padova confermano, in modo ancor
più incisivo, l’impellenza di tale intervento. Esse rivelano in maniera
tangibile l’insufficienza del ricorso all’adozione in casi particolari, per
come attualmente regolato, tant’è che nello specifico caso è resa impraticabile
proprio nelle situazioni più delicate per il benessere del minore, quali sono,
indubitabilmente, la crisi della coppia e la negazione dell’assenso da parte
del genitore biologico/legale, reso necessario dall’art. 46 della medesima
legge n. 184 del 1983. La previsione di tale necessario assenso, d’altro canto,
si lega alle caratteristiche peculiari dell’adozione in casi particolari, che
opera in ipotesi tipiche e circoscritte, producendo effetti limitati, visto che
non conferisce al minore lo status di figlio legittimo dell’adottante, non
assicura la creazione di un rapporto di parentela tra l’adottato e la famiglia
dell’adottante (considerata l’incerta incidenza della modifica dell’art. 74
cod. civ. operata dall’art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219,
recante «Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali») e non
interrompe i rapporti con la famiglia d’origine.
Da quanto detto risulta evidente che i nati a seguito di PMA eterologa
praticata da due donne versano in una condizione deteriore rispetto a quella di
tutti gli altri nati, solo in ragione dell’orientamento sessuale delle persone
che hanno posto in essere il progetto procreativo. Essi, destinati a restare
incardinati nel rapporto con un solo genitore, proprio perché non riconoscibili
dall’altra persona che ha costruito il progetto procreativo, vedono gravemente
compromessa la tutela dei loro preminenti interessi.
La loro condizione rivela caratteri solo in parte assimilabili a un’altra
categoria di nati cui, per molti anni, è stato precluso il riconoscimento dello
status di figli (i cosiddetti figli incestuosi), destinatari di limitate forme
di tutela, a causa della condotta dei genitori. Ciò ha indotto questa Corte a
ravvisare una «capitis deminutio perpetua e irrimediabile», lesiva del diritto
al riconoscimento formale di un proprio status filiationis, che è «elemento
costitutivo dell’identità personale, protetta, oltre che dagli artt. 7 e 8
della citata Convenzione sui diritti del fanciullo, dall’art. 2 della
Costituzione», e in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza (sentenza n. 494
del 2002).
2.4.1.4.– Al riscontrato vuoto di tutela dell’interesse del minore, che ha
pieno riscontro nei richiamati principi costituzionali, questa Corte ritiene di
non poter ora porre rimedio. Serve, ancora una volta, attirare su questa
materia eticamente sensibile l’attenzione del legislatore, al fine di individuare,
come già auspicato in passato, un «ragionevole punto di equilibrio tra i
diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona
umana» (sentenza
n. 347 del 1998). Un intervento puntuale di questa Corte rischierebbe di
generare disarmonie nel sistema complessivamente considerato.
Il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, dovrà al più
presto colmare il denunciato vuoto di tutela, a fronte di incomprimibili
diritti dei minori. Si auspica una disciplina della materia che, in maniera
organica, individui le modalità più congrue di riconoscimento dei legami
affettivi stabili del minore, nato da PMA praticata da coppie dello stesso
sesso, nei confronti anche della madre intenzionale.
In via esemplificativa, può trattarsi di una riscrittura delle previsioni
in materia di riconoscimento, ovvero dell’introduzione di una nuova tipologia
di adozione, che attribuisca, con una procedura tempestiva ed efficace, la
pienezza dei diritti connessi alla filiazione. Solo un intervento del
legislatore, che disciplini in modo organico la condizione dei nati da PMA da
coppie dello stesso sesso, consentirebbe di ovviare alla frammentarietà e alla
scarsa idoneità degli strumenti normativi ora impiegati per tutelare il
"miglior interesse del minore”. Esso, inoltre, eviterebbe le "disarmonie” che
potrebbero prodursi per effetto di un intervento mirato solo a risolvere il
problema specificamente sottoposto all’attenzione di questa Corte. Come nel
caso in cui si preveda, per il nato da PMA praticata da coppie dello stesso
sesso, il riconoscimento dello status di figlio, in caso di crisi della coppia
e rifiuto dell’assenso all’adozione in casi particolari, laddove, invece, lo
status – meno pieno e garantito – di figlio adottivo, ai sensi dell’art. 44
della legge n. 184 del 1983, verrebbe a essere riconosciuto nel caso di accordo
e quindi di assenso della madre biologica alla adozione. Il terreno aperto
all’intervento del legislatore è dunque assai vasto e le misure necessarie a
colmare il vuoto di tutela dei minori sono differenziate e fra sé sinergiche.
Nel dichiarare l’inammissibilità della questione ora esaminata, per il
rispetto dovuto alla prioritaria valutazione del legislatore circa la congruità
dei mezzi adatti a raggiungere un fine costituzionalmente necessario, questa
Corte non può esimersi dall’affermare che non sarebbe più tollerabile il
protrarsi dell’inerzia legislativa, tanto è grave il vuoto di tutela del preminente
interesse del minore, riscontrato in questa pronuncia.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli
artt. 8 e 9 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di
procreazione medicalmente assistita) e 250 del codice civile, sollevate – in
riferimento agli artt. 2, 3, 30 e 117, primo comma, della Costituzione,
quest’ultimo in relazione agli artt. 2, 3, 4, 5, 7, 8 e 9 della Convenzione sui
diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e
resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e agli artt. 8 e 14 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva
con legge 4 agosto 1955, n. 848 – dal Tribunale ordinario di Padova, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 28 gennaio 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 9 marzo 2021.