Sentenza n. 288 del 2019

CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 288

ANNO 2019

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Aldo CAROSI;

Giudici: Giudici : Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, del decreto-legge 30 novembre 2013, n. 133 (Disposizioni urgenti concernenti l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia), convertito, con modificazioni, nella legge 29 gennaio 2014, n. 5, promossi con ordinanze del 5 luglio 2018 e del 12 marzo 2019 dalla Commissione tributaria regionale per il Piemonte e dalla Commissione tributaria di secondo grado di Trento, rispettivamente iscritte ai nn. 7 e 123 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 6 e 36, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visti gli atti di costituzione della Online SIM spa e della ITAS VITA spa, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 20 novembre 2019 il Giudice relatore Luca Antonini;

uditi gli avvocati Gabriele Escalar per la Online SIM spa, Massimo Basilavecchia per la ITAS VITA spa e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri. 

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 5 luglio 2018, la Commissione tributaria regionale (CTR) del Piemonte ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 53 e 77, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, del decreto-legge 30 novembre 2013, n. 133 (Disposizioni urgenti concernenti l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia), convertito, con modificazioni, nella legge 29 gennaio 2014, n. 5.

La norma è censurata nella parte in cui dispone che, «[i]n deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, per il periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2013, per gli enti creditizi e finanziari di cui al decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 87, per la Banca d’Italia e per le società e gli enti che esercitano attività assicurativa, l’aliquota di cui all’articolo 77 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, è applicata con una addizionale di 8,5 punti percentuali».

1.1.– Le questioni sono sorte nell’ambito di un giudizio che trae origine dal ricorso proposto dalla società finanziaria denominata Online SIM spa avverso il silenzio-rifiuto formatosi sulla istanza di rimborso dei tributi da essa versati, ai sensi del citato art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013, a titolo di «addizionale» all’imposta sui redditi delle società (IRES) dovuta per il 2013.

Nei confronti della sentenza di rigetto pronunciata in primo grado, la società ricorrente ha interposto appello, ribadendo i motivi posti a fondamento della domanda di rimborso, compendiati nei dubbi di legittimità costituzionale della disposizione denunciata prospettati in riferimento agli artt. 3, 53 e 77, secondo comma, Cost.

1.2.– La CTR del Piemonte, diversamente dal giudice di prime cure, ritiene che tali dubbi siano non manifestamente infondati.

Il giudice a quo anzitutto rileva che il gettito dell’«addizionale» introdotta dalla norma censurata è stato destinato alla copertura delle minori entrate derivanti dall’abolizione, prevista dall’art. 1, comma 1, dello stesso d.l. n. 133 del 2013, della seconda rata dell’imposta municipale propria (IMU) per l’anno 2013 su una «molteplicità di immobili».

Quindi evidenzia, da un lato, che di tale abolizione avrebbero beneficiato tutti i proprietari, a prescindere dal reddito da essi posseduto. Dall’altro, che le imprese creditizie, finanziarie e assicurative tenute al versamento dell’«addizionale» non sarebbero state, nel corso del 2013, «economicamente più forti» degli altri soggetti passivi dell’imposta in parola.

1.2.1.– Sulla scorta di queste premesse, il Collegio rimettente prende le mosse dalla dedotta violazione degli artt. 3 e 53 Cost., che sarebbero lesi in quanto l’art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013 – nel circoscrivere l’applicabilità dell’«addizionale» da esso istituita a coloro che operano nei settori creditizio, finanziario e assicurativo – avrebbe determinato una irragionevole discriminazione qualitativa dei redditi.

Al riguardo, la CTR piemontese osserva, innanzitutto, che il presupposto impositivo dell’IRES è rappresentato dal solo reddito complessivo netto prodotto, assumendo pertanto rilievo, perché sorga l’obbligazione tributaria, esclusivamente l’aspetto quantitativo e non invece il settore produttivo nell’ambito del quale opera il soggetto passivo dell’imposta.

Nello specifico, la norma censurata violerebbe il principio di eguaglianza tributaria di cui agli artt. 3 e 53 Cost. in quanto la circostanza che le imprese creditizie, finanziarie e assicurative siano sottoposte «a stretta vigilanza pubblica» non comporterebbe «necessariamente» che esse versino in una situazione di fatto diversa da quella in cui si trovano gli altri soggetti obbligati al versamento dell’IRES e idonea a giustificare la sperequazione tra le due categorie.

La soggezione alla vigilanza pubblica non sarebbe difatti sintomatica di una particolare «ricchezza» degli unici soggetti passivi incisi dalla censurata «addizionale» e, dunque, di una capacità contributiva maggiore – del resto nemmeno suffragata da «analisi […] empiriche» – di quella espressa, a parità di reddito, dagli altri soggetti passivi dell’IRES.

Il trattamento differenziato riservato dalla norma denunciata solo ad alcuni soggetti sarebbe irragionevole, a parere della Commissione rimettente, anche sotto un altro profilo.

La considerazione che le imprese gravate dall’«addizionale» non sarebbero soggetti «economicamente più forti degli altri», valutata unitamente alla sopra evidenziata circostanza per cui dell’abolizione della seconda rata dell’IMU avrebbero beneficiato «tutti i proprietari» di «una molteplicità di beni immobili», a prescindere dal reddito da essi posseduto, non consentirebbe, infatti, neppure di ritenere che la disposizione oggetto dell’odierno scrutinio sia volta al perseguimento di una finalità solidaristica e redistributiva.

Di qui il lamentato vulnus agli artt. 3 e 53 Cost., che non potrebbe d’altronde essere escluso soltanto in forza del carattere transitorio della misura impositiva oggetto della censura.

L’art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013 si porrebbe in contrasto anche con l’art. 77, secondo comma, Cost., per difetto dei requisiti di necessità e urgenza.

In proposito, la CTR piemontese osserva che le situazioni straordinarie che legittimano il ricorso alla decretazione d’urgenza dovrebbero preesistere all’esercizio del potere legislativo.

Nel caso di specie, invece, l’«addizionale» sarebbe funzionale a soddisfare un’esigenza – segnatamente consistente nella necessaria copertura finanziaria del minor gettito derivante dall’IMU – che non preesisteva all’adozione del d.l. n. 133 del 2013: essa è stata, infatti, determinata contestualmente dallo stesso Governo, il quale, per realizzare una propria «scelta politica», con il precedente art. 1, comma 1, del medesimo d.l. ha, appunto, abolito la seconda rata dell’IMU per determinati immobili, fabbricati e terreni.

1.3.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, manifestamente infondate.

 1.3.1.– L’eccezione d’inammissibilità è basata sull’asserito difetto di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza della questione sollevata in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost.

 Sarebbe, in particolare, lacunosa l’argomentazione inerente alla natura temporanea del prelievo oggetto del presente incidente di legittimità costituzionale: il giudice rimettente, difatti, avrebbe sostenuto, in maniera apodittica, senza in alcun modo motivare sul punto, che tale natura non sarebbe idonea a «sanare» la dedotta disparità, laddove, invece, la transitorietà dell’«addizionale» concorrerebbe a «circoscrivere l’aggravio di imposta ad una cerchia specifica di contribuenti».

1.3.2.– Nel merito, le questioni sarebbero, in ogni caso, non fondate.

L’Avvocatura ritiene anzitutto insussistente la violazione degli artt. 3 e 53 Cost.

La irragionevole disparità di trattamento di cui si duole la CTR del Piemonte non sarebbe ravvisabile, dal momento che, per un verso, i redditi prodotti dai soggetti passivi incisi dalla norma censurata esprimerebbero una differenziata capacità contributiva e per altro verso, l’aggravio d’imposta derivante dall’art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013 sarebbe transitorio e giustificato anche da una finalità solidaristica e redistributiva.

Sotto il primo aspetto, la difesa statale – dopo aver richiamato la sentenza n. 21 del 2005, in cui questa Corte, con riferimento alle «aliquote differenziate previste, in materia di Irap, per i settori bancario e assicurativo», ha, tra l’altro, affermato che una previsione siffatta «rientra […] pienamente nella discrezionalità del legislatore, se sorretta da non irragionevoli motivi di politica economica e redistributiva» – sostiene che diversi sarebbero, nella specie, gli indici dai quali evincere la maggiore capacità contributiva delle imprese creditizie, finanziarie e assicurative.

Tali indici sintomatici sarebbero, nello specifico, desumibili dal fatto che l’esercizio dell’attività da parte di tali imprese presuppone il rilascio di specifiche autorizzazioni: queste difatti, da un lato, implicherebbero l’accertamento della stabilità patrimoniale e finanziaria dei soggetti interessati, i quali, pertanto, disporrebbero di una «comprovata forza economica»; dall’altro, comporterebbero una riduzione della concorrenza, determinando di fatto una limitazione dell’accesso ai mercati di riferimento. Mercati peraltro caratterizzati dalla prestazione di servizi pressoché necessitati e conseguentemente meno esposti, rispetto ad altri, al rischio della perdita di clientela anche a fronte della eventuale traslazione su di essa dei maggiori costi fiscali sopportati.

Sotto il secondo aspetto, afferente alla natura temporanea e alla finalità solidaristica e redistributiva dell’«addizionale» censurata, la difesa statale rimarca che tale prelievo è stato circoscritto all’anno d’imposta 2013 ed è strettamente correlato all’abolizione della seconda rata dell’IMU, con la quale condividerebbe pertanto lo scopo di sostenere il mercato immobiliare e di alleviare il carico fiscale di «ampie fasce di contribuenti» in un periodo di congiuntura economica critica.

In questa prospettiva, d’altro canto, l’Avvocatura ritiene che sia privo di pregio l’assunto del giudice a quo secondo cui l’abolizione appena detta avrebbe avvantaggiato tutti i contribuenti a prescindere dal loro reddito: da essa sono stati, infatti, esclusi – secondo il disposto dell’art. 1, comma 1, del d.l. n. 133 del 2013 – gli «immobili espressivi di elevata capacità contributiva da parte dei loro possessori», sicché la platea dei beneficiari dello sgravio fiscale sarebbe stata, in realtà, circoscritta, in base a un criterio oggettivo coerente con la natura di imposta reale propria dell’IMU.

Anche la questione sollevata in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost. sarebbe, a parere della difesa dello Stato, destituita di fondamento.

La norma denunciata andrebbe difatti letta alla luce della «complessiva operazione» realizzata con il d.l. n. 133 del 2013 e, segnatamente, della ratio dell’abolizione della seconda rata dell’IMU.

La situazione straordinaria idonea a legittimare il ricorso alla decretazione d’urgenza non andrebbe pertanto ravvisata solo nell’esigenza di copertura del minor gettito conseguito a tale abolizione, ma anche nella crisi economica del Paese e nella necessità di alleggerire temporaneamente il peso del prelievo fiscale derivante dalla citata imposta reale.

1.4.– Si è costituita la Online SIM spa, ricorrente nel processo principale, la quale ha chiesto che le questioni siano accolte sulla scorta di argomentazioni sostanzialmente riproduttive di quelle addotte dal giudice rimettente.

1.4.1.– La parte privata premette che le questioni sarebbero rilevanti ai fini della decisione da assumere nel processo principale, giacché esse in sostanza coincidono con le doglianze mosse nei confronti del silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso, tanto che l’accoglimento della domanda giudiziale dipenderebbe esclusivamente dall’auspicata declaratoria d’illegittimità costituzionale.

1.4.2.– Nel merito, muovendo dalla dedotta violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., essa in primo luogo evidenzia che l’«addizionale» oggetto dell’odierno scrutinio sarebbe stata introdotta al solo fine – reso esplicito dal preambolo del d.l. n. 133 del 2013 e dai lavori preparatori del disegno di legge di conversione del d.l. stesso – di realizzare la «decisione politica» concernente l’abolizione della seconda rata dell’IMU e di porre rimedio alla conseguente necessità di reperire la relativa copertura finanziaria attraverso l’individuazione, «in un lasso di tempo estremamente breve», di risorse «la cui entità non fosse soggetta a incertezza».

Da tanto emergerebbe chiaramente l’insussistenza dei requisiti di necessità e d’urgenza.

 La necessità di provvedere sarebbe stata difatti determinata contestualmente dallo stesso Governo allo scopo di attuare il proprio programma politico, sicché essa non preesisteva all’adozione della norma denunciata e non potrebbe, quindi, ritenersi che sia sorta in maniera imprevedibile. D’altro canto, la detta abolizione, essendo frutto di una «mera scelta politica» dell’esecutivo, non presenterebbe alcun connotato d’urgenza.

 Né l’«addizionale» posta dall’art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013 concorrerebbe al perseguimento di una finalità solidaristica e redistributiva, poiché l’abolizione della seconda rata dell’IMU avrebbe avvantaggiato anche i contribuenti che godono di un reddito elevato e non solo quelli meno abbienti, in tal modo provocando, malgrado l’esclusione degli immobili "di lusso”, un effetto regressivo.

 Infine, la parte costituita sostiene che l’«abuso commesso dal Governo» sarebbe ancor più evidente alla luce dell’iter di approvazione del disegno di legge di conversione del d.l. n. 133 del 2013: l’esecutivo, infatti, dopo aver fatto illegittimamente ricorso alla decretazione d’urgenza, nel porre la questione di fiducia avrebbe altresì impedito alla minoranza «di esprimere la propria opinione» o di formulare eventuali emendamenti, così «imponendo a tutto il Parlamento […] la propria scelta politica […]».

 Anche la questione sollevata in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost. sarebbe, secondo la ricorrente nel giudizio a quo, fondata, dal momento che l’applicabilità dell’«addizionale», introdotta dall’art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013, esclusivamente alle imprese creditizie, finanziarie e assicurative avrebbe determinato una irragionevole disparità di trattamento impositivo, non essendo sorretta da alcuna adeguata giustificazione. Non sarebbe difatti sufficiente, a tal fine, la sola circostanza che le imprese appena menzionate operino in determinati settori produttivi.

 Né potrebbe sostenersi che l’«addizionale» sia funzionale ad attuare una redistribuzione della ricchezza in un’ottica solidaristica. Ciò, non solo sulla scorta di quanto dianzi detto in merito agli effetti regressivi dell’abolizione dell’IMU, ma anche in considerazione del fatto che le suddette imprese attraversavano, nel 2013, una fase di recessione economica, attestata, tra l’altro, sia dalla Banca d’Italia sia dalla Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB).

 In forza di tale ultimo rilievo, dovrebbe, pertanto, del pari escludersi che, nel corso del 2013, i soggetti incisi dal prelievo censurato abbiano manifestato una «eccezionale capacità contributiva» o disponessero di «maggiore liquidità» rispetto ad altri contribuenti. Aspetti, questi, che in ogni caso sarebbero stati soltanto presunti dal Governo, il quale non avrebbe svolto alcuna «indagin[e] empiric[a]» al riguardo.

 Sotto altro profilo, la parte privata ritiene, inoltre, che la struttura dell’«addizionale» denunciata sia incoerente con il suo stesso presupposto, giacché si applica sull’intero reddito prodotto e non limitatamente a quella parte di esso ascrivibile alla ipotizzata maggiore capacità contributiva.

 Anche secondo la ricorrente nel processo principale, infine, la transitorietà dell’«addizionale» non sarebbe, da sola, sufficiente a escludere la dedotta illegittimità costituzionale, essendo comunque necessario, affinché la disparità di trattamento impositivo non si ponga in contrasto con i precetti di cui agli artt. 3 e 53 Cost., che essa sia altresì sorretta da «un’adeguata giustificazione obiettiva».

 1.5.– In prossimità dell’udienza, l’Avvocatura generale ha tempestivamente depositato una memoria illustrativa, insistendo nelle conclusioni già rassegnate.

 Con riferimento al vulnus all’art. 77, secondo comma, Cost., la difesa statale, per un verso, osserva che l’imprevedibilità della situazione straordinaria di necessità e d’urgenza posta a fondamento della decretazione d’urgenza non sarebbe richiesta dall’evocato parametro costituzionale. Per altro verso, sostiene che del tutto legittimamente il Governo avrebbe fatto ricorso al decreto-legge per disporre, in relazione al periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2013, l’abolizione della seconda rata dell’IMU – e conseguentemente reperire le risorse necessarie a garantire, nel rispetto dell’art. 81 Cost., la relativa copertura finanziaria – in considerazione del «contesto di urgenza economica» in cui ciò è avvenuto.

 In merito, invece, alla denunciata violazione degli artt. 3 e 53 Cost., l’Avvocatura rimarca come da tali precetti non deriverebbe «un principio di necessaria parità di aliquota a parità di reddito», ben potendo il legislatore differenziare le aliquote in relazione ai diversi comparti produttivi, fermo restando il sindacato di questa Corte in ordine alla non manifesta irragionevolezza delle scelte adottate. Del resto, anche la limitazione della misura impositiva a un solo anno deporrebbe a sostegno del maggior «grado di attualità» della capacità contributiva dei soggetti operanti nei settori economici incisi, che sarebbero connotati da «elevata liquidità "a breve”».

 1.6.– Anche la Online SIM spa ha depositato una memoria, sviluppando gli argomenti spesi nell’atto di costituzione e replicando alle deduzioni svolte dall’Avvocatura generale nell’atto d’intervento.

 1.6.1.– Quanto alla lesione degli artt. 3 e 53 Cost., la parte contesta che dalle caratteristiche dei settori creditizio, finanziario e assicurativo possano essere desunti «fatti economici sintomatici di una peculiare ed effettiva capacità contributiva»: tali caratteristiche contraddistinguerebbero, infatti, anche altri settori produttivi – come quelli della distribuzione dell’energia elettrica e del gas nonché del trasporto ferroviario e aereo – che, tuttavia, non sono stati colpiti dall’«addizionale».

 Quanto, invece, alla violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., la parte costituita in primo luogo ribadisce l’assenza dei requisiti di legittimità della decretazione d’urgenza, rimarcando che la necessità di reperire risorse finanziarie per attuare una scelta politica non costituirebbe, a tale fine, un idoneo presupposto. In secondo luogo, deduce che la carenza dei presupposti di necessità e d’urgenza non potrebbe essere esclusa quand’anche si ritenesse che la norma censurata abbia introdotto l’«addizionale» per far fronte alla crisi economica del Paese, dal momento che tale circostanza, da un canto, non emergerebbe né dal preambolo del decreto-legge né dai lavori preparatori; dall’altro, non potrebbe comunque giustificare l’intervento normativo del Governo, giacché la crisi era «scoppiata» nel 2008, con la conseguenza che allorché è stato adottato il d.l. essa era ormai divenuta «ordinaria».

 Infine, rileva che l’impatto di una eventuale decisione di accoglimento sul bilancio dello Stato sarebbe limitato, poiché il rimborso dell’«addizionale», istituita per il solo anno 2013, spetterebbe unicamente a coloro i quali abbiano già presentato – prima della scadenza del termine previsto dalla legge, ovvero entro il 16 giugno 2018 – la relativa istanza.

 2.– Con successiva ordinanza dell’11 marzo 2019, anche la Commissione tributaria di secondo grado di Trento ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013, convertito, con modificazioni, nella legge n. 5 del 2014.

 2.1.– La questione è sorta nell’ambito di un giudizio promosso dalla società assicuratrice denominata ITAS VITA spa a seguito del silenzio-rifiuto formatosi sulla istanza di rimborso dell’«addizionale» all’IRES da essa versata per l’anno d’imposta 2013.

 2.2.– La Commissione rimettente premette, in punto di rilevanza, che la disposizione censurata osta all’accoglimento del ricorso della contribuente.

2.2.1.– In ordine alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo – disattese le eccezioni di illegittimità costituzionale sollevate dalla parte privata in riferimento agli artt. 41, 42, 77 e 97 Cost. – ritiene invece, sulla scorta di un iter argomentativo sostanzialmente analogo a quello percorso dalla CTR piemontese, che la norma denunciata violi gli art. 3 e 53 Cost.

Con essa sarebbe stato, infatti, introdotto un aggravio fiscale a carico di una circoscritta platea di soggetti passivi sul presupposto che questi avrebbero corrisposto «con sicuro margine di certezza il tributo richiesto, in quanto […] economicamente "forti”», mentre in realtà si tratterebbe di soggetti privi di una capacità contributiva maggiore di quella manifestata, a parità di reddito, dalle altre imprese tenute al pagamento dell’IRES.

Questo erroneo presupposto economico, d’altro canto, comporterebbe una disparità di trattamento non giustificabile in forza della temporaneità dell’«addizionale» introdotta dall’art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013, né, sotto altro aspetto, in virtù della esclusione, dalla base imponibile dell’«addizionale» medesima, delle variazioni in aumento derivanti dall’applicazione dell’art. 106, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi).

 2.3.– Anche in questo giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata.

 2.3.1.– La difesa dello Stato riproduce testualmente le argomentazioni addotte nell’atto di intervento spiegato nel primo giudizio, in punto sia di inammissibilità, sia di infondatezza della questione.

 Al profilo di inammissibilità già dedotto nel primo giudizio, l’Avvocatura ne aggiunge uno, incentrato sulla contraddittorietà tra il dedotto vulnus agli artt. 3 e 53 Cost. e le ragioni in base alle quali la Commissione trentina ha, invece, ritenuto manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla parte privata in riferimento agli artt. 41, 42 e 77 Cost.: la crisi economica che ha mosso il legislatore ad abolire la seconda rata dell’IMU e l’obiettivo di reperire risorse finanziarie per coprire il conseguente minore gettito, se sono apparse al giudice a quo sufficienti a escludere la carenza del requisito di necessità e d’urgenza e la compromissione del principio della libertà d’iniziativa economica, dovrebbero parimenti valere a escludere la violazione degli artt. 3 e 53 Cost.

 2.4.– Si è costituita in giudizio la ITAS VITA spa, sostenendo le argomentazioni del giudice rimettente.

 

Premessa la rilevanza della questione – giacché il suo accoglimento rappresenta il presupposto indispensabile per il riconoscimento, nell’ambito del giudizio a quo, del diritto al rimborso dell’IRES da essa versata – anche la parte costituita ritiene, nel merito, che l’art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013 si ponga in contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost.

La lesione degli evocati parametri costituzionali discenderebbe, in particolare, dalla discriminazione – irragionevole perché del tutto ingiustificata – determinata dalla norma censurata.

Non sarebbe, infatti, riscontrabile in capo alle imprese gravate dall’«addizionale», peraltro «notoriamente in difficoltà» nel periodo d’imposta rilevante, alcun «elemento differenziale» significativo di una loro maggiore capacità contributiva, non essendo a tal fine sufficiente la sola appartenenza ai settori creditizio, finanziario o assicurativo. Né tali settori sarebbero caratterizzati da una «fiorente situazione economica», la quale sarebbe stata, in tesi, idonea a giustificare un’«addizionale» che avrebbe potuto coerentemente riguardare solo l’«extraprofitto»: ciò alla luce del principio, desumibile dalla sentenza n. 10 del 2015 di questa Corte, secondo cui la discrezionalità di cui gode il legislatore nella diversa modulazione delle imposte incontra il limite derivante dalla necessità di «applicare il trattamento [tributario] deteriore a quella sola parte della base imponibile che manifesta un tratto differenziale rispetto alla restante».

Infine, la parte privata evidenzia che la temporaneità dell’«addizionale» introdotta dalla norma denunciata non sarebbe sufficiente, da sola, a rendere ragionevole la censurata discriminazione, essendo a tal fine pur sempre necessario l’accertamento di effettivi indici rivelatori di una maggiore capacità contributiva.

 2.5.– L’Avvocatura generale ha tempestivamente depositato una memoria illustrativa, riprendendo le deduzioni svolte a conforto della infondatezza della questione sollevata in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost. nella memoria depositata nel giudizio promosso dalla CTR piemontese.

 2.6.– Anche la ITAS VITA spa ha depositato una memoria, replicando all’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e insistendo nella fondatezza delle questioni sollevate.

 Tale parte anzitutto precisa di non contestare la legittimità in astratto della discriminazione qualitativa tra redditi, incentrando, piuttosto, la propria argomentazione sulla mancanza di ogni «elemento rappresentativo di una ulteriore attitudine alla contribuzione»: da questo punto di vista, la sentenza n. 21 del 2005 di questa Corte costituirebbe «la migliore riprova, a contrario, della illegittimità della disposizione qui denunziata», perché l’esigenza redistributiva nasceva in quel caso «da elementi strutturali interni allo stesso tributo».

 Quindi, ritiene che non sia condivisibile la tesi della difesa dello Stato circa «i presunti vantaggi strutturali dei settori colpiti […]», i quali sarebbero in realtà insussistenti e, in ogni caso, potrebbero essere eventualmente considerati nell’ambito di revisioni di sistema o di «un prelievo aggiuntivo [commisurato] al solo indice di capacità contributiva» da essi desumibile.

 Quanto poi al carattere transitorio dell’«addizionale», la difesa della società ribadisce la sua inidoneità a escludere il sindacato di questa Corte sulle scelte adottate dal legislatore e sottolinea, sotto altro aspetto, che proprio esso riduce l’impatto sul bilancio dello Stato della eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale.

Considerato in diritto

1.– La Commissione tributaria regionale (CTR) del Piemonte dubita, in riferimento agli artt. 3, 53 e 77, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, del decreto-legge 30 novembre 2013, n. 133 (Disposizioni urgenti concernenti l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia), convertito, con modificazioni, nella legge 29 gennaio 2014, n. 5.

La norma è censurata nella parte in cui prevede che, «[i]n deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, per il periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2013, per gli enti creditizi e finanziari di cui al decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 87, per la Banca d’Italia e per le società e gli enti che esercitano attività assicurativa, l’aliquota di cui all’articolo 77 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, è applicata con una addizionale di 8,5 punti percentuali».

Ad avviso del giudice a quo, tale disposizione si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost., sotto un primo profilo, in quanto discriminerebbe qualitativamente i redditi in maniera irragionevole, dal momento che non sarebbe ravvisabile, in capo alle imprese creditizie, finanziarie e assicurative gravate dall’«addizionale» da essa introdotta, una capacità contributiva maggiore di quella propria degli altri soggetti passivi dell’imposta sui redditi delle società (IRES). Sotto un altro profilo, perché non perseguirebbe una finalità solidaristica e redistributiva.

 Né tali profili d’illegittimità potrebbero essere esclusi in forza della sola natura transitoria della misura impositiva oggetto di doglianza.

 Risulterebbe, inoltre, violato l’art. 77, secondo comma, Cost., per difetto dei requisiti di necessità e d’urgenza.

 La norma denunciata sarebbe, infatti, funzionale alla copertura finanziaria del minore gettito fiscale derivante dall’abolizione della seconda rata dell’imposta municipale propria (IMU) per il 2013, che è stata, tuttavia, disposta dall’art. 1, comma 1, del medesimo d.l. n. 133 del 2013 al fine di attuare una scelta politica del Governo: l’«addizionale» risponderebbe, pertanto, a una necessità che non preesisteva alla decretazione d’urgenza, essendo stata determinata contestualmente dal Governo stesso.

 2.– Anche la Commissione tributaria di secondo grado di Trento solleva, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013.

 Secondo il giudice rimettente – le cui argomentazioni sono in larga misura analoghe a quelle addotte dalla CTR piemontese – la disposizione censurata recherebbe un vulnus agli evocati parametri costituzionali perché avrebbe introdotto una misura impositiva a carico di una circoscritta platea di imprese prive, tuttavia, di una capacità contributiva maggiore di quella manifestata, a parità di reddito, dalle altre imprese tenute al pagamento dell’IRES.

 

3.– Le due ordinanze di rimessione sollevano questioni parzialmente coincidenti e aventi ad oggetto la stessa norma, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

4.– In entrambi i giudizi, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito preliminarmente l’inammissibilità delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost. per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza.

L’eccezione – basata sull’apoditticità dell’argomento secondo cui la natura transitoria dell’«addizionale» non sarebbe da sola idonea a «sanare» la dedotta violazione dei parametri costituzionali sopra menzionati – non è fondata.

I giudici a quibus si sono soffermati criticamente sulla discriminazione derivante dalla disciplina posta dall’art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013, sostenendo che essa sarebbe irragionevole, in primo luogo, perché le imprese incise dall’«addizionale» non avrebbero una capacità contributiva maggiore di quella propria delle altre imprese soggette all’IRES. Le imprese destinatarie dall’aggravio fiscale non sarebbero, difatti, «economicamente più forti» di quelle che operano in diversi settori produttivi, non potendosi ritenere a tal fine sufficiente la circostanza che le prime siano sottoposte a vigilanza pubblica.

L’irragionevolezza del differente trattamento impositivo censurato sarebbe peraltro apprezzabile, secondo la CTR del Piemonte, anche sotto un altro profilo: il rilievo che precede, valutato unitamente alla considerazione per cui dell’abolizione della seconda rata dell’imposta municipale propria (IMU) avrebbero beneficiato «tutti i proprietari» di «determinati immobili», a prescindere dunque dal reddito da essi prodotto, non consentirebbe di ritenere che la disposizione denunciata realizzi finalità solidaristiche e redistributive.

Alla luce delle argomentazioni appena illustrate, le questioni sollevate superano il vaglio di ammissibilità, dal momento che il giudizio negativo espresso dai giudici a quibus circa la compatibilità tra l’art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013 e gli artt. 3 e 53 Cost. è stato motivato in maniera compiuta e idonea a sorreggere autonomamente le censure prospettate.

Deve, pertanto, essere riservato al merito il vaglio in ordine alla eventuale idoneità della natura temporanea dell’«addizionale» oggetto dell’odierno scrutinio a escludere la dedotta compromissione dei testé citati parametri costituzionali.

4.1.– È del pari non fondata l’ulteriore eccezione di inammissibilità, formulata con specifico riferimento alla questione sollevata dalla Commissione trentina, alla quale l’Avvocatura generale addebita la contraddittorietà della motivazione in punto di non manifesta infondatezza.

Secondo la difesa statale, le ragioni – in sostanza ravvisate nella crisi economica che ha mosso il legislatore ad abolire la seconda rata dell’IMU e nello scopo di reperire risorse finanziarie per coprire il conseguente minore gettito – che hanno condotto il giudice rimettente a ritenere manifestamente infondate le questioni sollevate dalla parte ricorrente nel giudizio a quo in riferimento agli artt. 41, 42 e 77 Cost. sarebbero altresì idonee a escludere la violazione degli artt. 3 e 53 Cost.

A siffatto rilievo è tuttavia agevole replicare che la finalità di fronteggiare la congiuntura economica negativa in cui versava il Paese e la connessa esigenza di copertura finanziaria evidentemente non sono di per sé sufficienti a dar conto, in particolare, della maggiore capacità contributiva delle imprese alle quali è applicabile la norma denunciata, sulla cui assenza si incentra invece il primo profilo della censura inerente alla lesione degli artt. 3 e 53 Cost.

Non sussiste, pertanto, l’eccepita contraddittorietà.

5.– Nel merito, occorre prendere le mosse dalla questione sollevata dalla CTR piemontese in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost.

Essa ha, infatti, carattere pregiudiziale, giacché investe lo stesso corretto esercizio della funzione normativa primaria, con la conseguenza che la sua eventuale fondatezza rimuoverebbe il contenuto precettivo della norma e comporterebbe l’assorbimento delle censure formulate in riferimento agli ulteriori parametri costituzionali evocati (ex plurimis, sentenze n. 16 del 2017, n. 186 e n. 154 del 2015).

5.1.– La questione non è fondata.

5.2.– Come dianzi detto, il vulnus recato all’art. 77, secondo comma, Cost. si apprezzerebbe, segnatamente, sotto il profilo del difetto dei requisiti della necessità e dell’urgenza, che sarebbero nella specie insussistenti in quanto la situazione straordinaria cui fare fronte mediante la norma denunciata non preesisteva alla decretazione d’urgenza, essendo stata contestualmente provocata dal legislatore stesso al fine di realizzare una propria scelta politica.

 La tesi del giudice a quo si basa, più in particolare, sulla considerazione per cui la necessità che ha mosso il Governo a introdurre, con l’art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013, l’«addizionale» censurata è rappresentata dall’esigenza di copertura finanziaria della diminuzione del gettito derivante dall’esenzione – disposta dal precedente art. 1, comma 1, del medesimo decreto-legge in relazione a una pluralità di immobili – dal pagamento della seconda rata dell’IMU per il 2013. La medesima decretazione di urgenza sarebbe stata quindi l’origine dei propri presupposti di straordinaria necessità e urgenza più che la tempestiva risposta ad essi.

 5.3.– Così delineati i confini entro cui si muove, con riguardo al parametro in esame, l’odierno scrutinio di legittimità costituzionale, occorre osservare che non erra la Commissione rimettente nel rilevare che la disposizione sospettata mira a soddisfare il fabbisogno finanziario generato dalla disciplina dettata dal citato art. 1, comma 1, del d.l. n. 133 del 2013.

 Tanto emerge chiaramente da quanto disposto dal successivo art. 8 del d.l. n. 133 del 2013, rubricato per l’appunto «[c]opertura finanziaria», a mente del quale «[a]gli oneri derivanti dagli articoli 1 e 2 […] si provvede mediante utilizzo delle maggiori entrate derivanti dal medesimo articolo 2».

 5.4.– Benché sia corretta la premessa da cui muove la CTR piemontese, non è altrettanto condivisibile la conseguenza che essa ne trae in ordine alla dedotta violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. La finalità della norma sospettata, infatti, conduce, al contrario, a escludere che nella fattispecie ricorra un’ipotesi di evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza, cui la costante giurisprudenza di questa Corte circoscrive il proprio sindacato sulla legittimità dell’adozione, da parte del Governo, di un decreto-legge (ex plurimis, sentenza n. 97 del 2019).

 Al riguardo, va anzitutto osservato che è pur vero che la giurisprudenza costituzionale ha in diverse occasioni affermato che la preesistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza di provvedere costituisce un requisito di validità dell’adozione del decreto-legge.

 Tuttavia, il riferimento alla preesistenza – sulla cui carenza si incentra la doglianza del giudice a quo – del caso straordinario di necessità e d’urgenza è frutto della evidente constatazione che questo rappresenta un presupposto della decretazione d’urgenza, di talché, sul piano logico, non può, di norma, succederle. Da tale considerazione non si può, però, inferire, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, un generale corollario per cui la situazione posta a fondamento del decreto-legge dovrebbe indefettibilmente precedere l’intervento normativo urgente.

 È paradigmatica, in tal senso, la fattispecie oggetto del presente incidente di legittimità costituzionale.

 L’esigenza che il censurato art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013 mira a soddisfare è difatti preordinata, come poc’anzi chiarito, al rispetto del principio di copertura finanziaria posto dall’art. 81, terzo comma, Cost.

 È pertanto palese – benché detta esigenza non preesistesse alla decretazione d’urgenza – la necessità di inserire la norma nel decreto-legge in parola unitamente alle disposizioni che, abolendo la seconda rata dell’IMU, hanno determinato minori entrate e nuove spese a carico del bilancio dello Stato: il legislatore, altrimenti, sarebbe venuto meno all’obbligo di indicare la relativa fonte di copertura.

 Nell’ottica del giudice a quo, paradossalmente, si dovrebbe giungere a ritenere che non sia mai consentito, in sede di decretazione d’urgenza, adottare norme che comportino nuove spese e/o minori entrate, poiché il Governo non potrebbe mai rispettare il dettato costituzionale provvedendo contestualmente a reperirne la relativa copertura finanziaria. Ma una siffatta conclusione si pone in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte, che ha, al contrario, precisato che l’obbligo, imposto dall’art. 81 Cost., di darsi carico delle conseguenze finanziarie delle leggi – se di regola grava sul Parlamento, istituzionalmente preposto all’esercizio della funzione legislativa – «grava invece sul Governo, allorché, ricorrendo i presupposti di cui all’art. 77 Cost., si faccia esso stesso legislatore, sostituendosi in via di urgenza alle Camere nella forma del decreto-legge» (sentenza n. 226 del 1976).

 5.5.– In questa prospettiva, l’attenzione va dunque rivolta, tenuto conto della lumeggiata interdipendenza funzionale tra la disposizione censurata e quella di cui all’art. 1, comma 1, del d.l. n. 133 del 2013, anche alle finalità da quest’ultima perseguite.

 A tal proposito, giova innanzitutto osservare, in linea generale, che il suddetto art. 1, comma 1, nell’abolire la seconda rata dell’IMU per il 2013, è coerente con il titolo del decreto-legge n. 133 del 2013, il quale reca «[d]isposizioni urgenti concernenti l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia», e con il successivo preambolo, che fa riferimento, tra l’altro, alla «straordinaria necessità ed urgenza di provvedere in materia di pagamento dell’imposta municipale propria […]».

 Tanto premesso, va rilevato che l’abolizione disposta dalla norma in parola risponde anche all’intento – che, diversamente da quanto dedotto dalla contribuente nella memoria illustrativa, emerge dai lavori preparatori al disegno di conversione in legge del d.l. (e in particolare dall’audizione del Ministro dell’economia e delle finanze nella seduta del 13 dicembre 2013 dinanzi alla Commissione finanze e tesoro del Senato della Repubblica) – di affrontare la «difficile fase congiunturale» apprestando un rimedio funzionale soprattutto a sostenere i soggetti ritenuti in maggiore difficoltà.

 La scelta adottata dal legislatore si pone dunque in armonia con i presupposti e le finalità del decreto-legge in esame, ove si rifletta sul fatto che essa si è tradotta nella eliminazione di un obbligo tributario posto a carico di una diffusa platea di contribuenti e il cui adempimento avrebbe acuito le difficoltà derivanti da una situazione di crisi economica a carattere sistemico. Milita in tal senso anche l’ulteriore considerazione per cui, allorché è stato adottato il decreto-legge in discorso, la scadenza per il pagamento della seconda rata dell’IMU era ormai imminente e si rendeva, pertanto, pressante l’esigenza di intervenire prontamente.

 Lo specifico contesto in cui la disposizione è stata dettata consente quindi di escludere, alla stregua del consolidato orientamento di questa Corte, che nella specie possa ritenersi con evidenza insussistente il presupposto della straordinaria necessità e urgenza di provvedere (ex plurimis, sentenze n. 33 del 2019, n. 137 del 2018 e n. 236 del 2017).

Né tali conclusioni possono essere contraddette dalla circostanza – sottolineata dalla ricorrente nel giudizio a quo – per cui l’inizio della congiuntura economica negativa risalirebbe al 2008, sicché nel 2013 essa sarebbe ormai divenuta «ordinaria»: proprio la persistenza di tale congiuntura sfavorevole (di cui peraltro ha dato sostanzialmente conto anche la stessa parte privata nelle sue difese) concorre difatti a integrare i presupposti fattuali del provvedimento normativo d’urgenza.

 Mette conto, infine, evidenziare che non contrasta con quanto affermato la dedotta riconducibilità dell’abolizione dell’IMU a una «scelta politica» rientrante nel programma di Governo. Va, infatti, precisato, da un lato, che l’abrogazione dell’IMU sull’abitazione principale è stata disposta, a regime, con un altro provvedimento normativo, ovvero con la legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», e che, con il decreto-legge n. 133 del 2013 è stato eliminato soltanto l’obbligo di versamento della seconda rata per il 2013; dall’altro, che, ricorrendone i presupposti, il programma di Governo ben può essere attuato anche mediante la decretazione d’urgenza.

 5.6.– In forza delle ragioni sopra illustrate, si deve escludere che si sia al cospetto di una evidente carenza dei requisiti di necessità e d’urgenza; ciò consente di superare, in relazione al parametro evocato, anche il rilievo, addotto dalla parte privata al fine di sottolineare la gravità delle conseguenze della prospettata violazione, sulla compressione del dibattito dovuta alla questione di fiducia posta dal Governo in sede di conversione in legge del d.l. (sentenza n. 251 del 2014).

 6.– I giudici a quibus ritengono che la norma denunciata violi anche gli artt. 3 e 53 Cost., innanzitutto perché riserverebbe un diverso trattamento impositivo a situazioni che manifestano la medesima capacità contributiva: le imprese incise dall’«addizionale» non sarebbero, infatti, dotate di una ricchezza maggiore delle altre imprese egualmente soggette all’IRES ma escluse dal pesante aggravio fiscale. Essi evidenziano, al riguardo, che non solo il Governo non avrebbe effettuato «analisi […] empiriche» dalle quali dedurre che i soggetti colpiti dall’«addizionale» siano «economicamente più forti» degli altri, ma anche che la sottoposizione a vigilanza pubblica non potrebbe essere ritenuta, in sé stessa, sintomatica di una maggiore capacità contributiva. La norma impugnata, pertanto, determinerebbe una irragionevole discriminazione qualitativa dei redditi rispetto alla generalità degli altri soggetti passivi dell’IRES.

 I rimettenti contestano poi che la disposizione censurata sia ascrivibile a una finalità solidaristica e redistributiva perché dell’abolizione generalizzata della seconda rata dell’IMU avrebbero beneficiato tutti i contribuenti interessati a prescindere dal reddito da essi posseduto.

 

6.1.– Le questioni non sono fondate.

6.2.– Le censure formulate dai giudici rimettenti rendono tuttavia opportuno precisare preliminarmente la cornice costituzionale nell’ambito della quale si inserisce l’oggetto del presente giudizio.

Al riguardo, occorre osservare che nella Costituzione il dovere tributario, inteso come concorso alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva, è qualificabile come dovere inderogabile di solidarietà non solo perché il prelievo fiscale è essenziale – come ritenevano risalenti concezioni che lo esaurivano nel paradigma dei doveri di soggezione – alla vita dello Stato, ma soprattutto in quanto esso è preordinato al finanziamento del sistema dei diritti costituzionali, i quali richiedono ingenti quantità di risorse per divenire effettivi: sia quelli sociali – come, ad esempio, la tutela della salute, che peraltro deve essere assicurata gratuitamente agli indigenti (art. 32, primo comma, Cost.) ­– sia gran parte di quelli civili (si pensi alla spesa necessaria per l’amministrazione della giustizia, che è funzionale a garantire anche tali diritti).

È infatti da tale legame, anche in forza della funzione redistributiva dell’imposizione fiscale e del nesso funzionale con l’art. 3, secondo comma, Cost., che discende la riconducibilità del dovere tributario al crisma dell’inderogabilità di cui all’art. 2 Cost., che rende, oltretutto, di immediata evidenza come il disattenderlo rechi pregiudizio non a risalenti paradigmi ma in particolare al suddetto sistema dei diritti.

Tale qualifica, tuttavia, dato il contesto sistematico in cui si colloca, si giustifica solo nella misura in cui il sistema tributario rimanga saldamente ancorato al complesso dei principi e dei relativi bilanciamenti che la Costituzione prevede e consente, tra cui, appunto, il rispetto del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.).

Sicché quando il legislatore disattende tali condizioni, si allontana dalle altissime ragioni di civiltà giuridica che fondano il dovere tributario: in queste ipotesi si determina un’alterazione del rapporto tributario, con gravi conseguenze in termini di disorientamento non solo dello stesso sviluppo dell’ordinamento, ma anche del relativo contesto sociale.

6.3.– Occorre, quindi, considerare che le censure dei rimettenti si inquadrano nell’ambito delle cosiddette discriminazioni qualitative dei redditi, uno dei temi più sensibili del diritto costituzionale tributario: infatti, sebbene il legislatore goda, in astratto, di ampia discrezionalità, pur con il limite della non arbitrarietà, nell’identificare gli indici di capacità contributiva, questa discrezionalità si riduce laddove sul piano comparativo vengano in evidenza, in concreto, altre situazioni in cui lo stesso legislatore, in difetto di coerenza nell’esercizio della stessa, ha effettuato scelte impositive differenziate a parità di presupposti.

In questi casi, infatti, viene in causa il principio dell’eguaglianza tributaria, desumibile dal combinato disposto degli artt. 3 e 53 Cost., che nella giurisprudenza di questa Corte è stato all’origine di alcune tra le più significative pronunce di incostituzionalità in materia tributaria, tra le quali la sentenza n. 10 del 2015, secondo cui «ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione» (sostanzialmente nello stesso senso, sentenze n. 104 del 1985, relativa agli emolumenti arretrati per lavoro dipendente, e n. 42 del 1980, in tema di imposta locale sui redditi).

6.4.– Tale impostazione va qui ribadita e pertanto questa Corte è chiamata a verificare se esistano adeguate giustificazioni a fondamento dell’imposta introdotta con l’art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013, che, in via straordinaria e temporanea, ha incrementato il prelievo fiscale a carico di un’unica, ristretta, cerchia di soggetti.

6.5.– La risposta a tale interrogativo, alla luce delle considerazioni che seguono, è positiva, con la conseguente infondatezza delle censure prospettate dai giudici rimettenti in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost.

 6.5.1.– Innanzitutto, è opportuno precisare che, nonostante sia stata espressamente qualificata dal legislatore come «addizionale», la suddetta imposta appare, più correttamente, riconducibile al novero delle "sovraimposte”: a fronte dell’identità del parametro (il reddito) con il tributo principale IRES, il prelievo è a carico solo di determinati soggetti passivi e su una base imponibile in parte differenziata da quella dell’IRES stessa.

 Infatti, il censurato art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013, se dispone, al primo periodo, che «l’aliquota di cui all’articolo 77 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, è applicata con una addizionale» di 8,5 punti percentuali», tuttavia, al secondo periodo precisa che «[l]’addizionale non è dovuta sulle variazioni in aumento derivanti dall’applicazione dell’articolo 106, comma 3, del suddetto testo unico».

 Viene così disattivata, ai fini del calcolo della base imponibile della nuova imposta, la "variazione in aumento” derivante dall’applicazione dell’art. 106, comma 3, del citato decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, recante «Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi» (TUIR). Norma, questa, che detta, al fine della determinazione dell’imponibile IRES, una disciplina speciale per gli enti creditizi e finanziari di cui al decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 87 (Attuazione della direttiva n. 86/635/CEE relativa ai conti annuali ed ai conti consolidati delle banche e degli altri istituti finanziari, e della direttiva n. 89/117/CEE relativa agli obblighi in materia di pubblicità dei documenti contabili delle succursali, stabilite in uno Stato membro, di enti creditizi ed istituti finanziari con sede sociale fuori di tale Stato membro), in seguito estesa, in virtù del rinvio contenuto nell’art. 16, comma 9, del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 173 (Attuazione della direttiva 91/674/CEE in materia di conti annuali e consolidati delle imprese di assicurazione), anche alle imprese di assicurazione.

 Tale disciplina speciale prevede in sostanza che le perdite e le svalutazioni dei crediti verso la clientela, benché in astratto interamente deducibili alla sola condizione della loro iscrizione in bilancio a tale titolo, in concreto lo divengano in una misura estremamente diluita per singolo periodo d’imposta, determinando pertanto una (spesso) significativa variazione in aumento del risultato del bilancio civilistico e, quindi, del reddito imponibile ai fini dell’IRES.

 In conseguenza della disattivazione di tale clausola, la nuova imposta è stata dunque originariamente introdotta su una base imponibile notevolmente ridotta rispetto a quella ordinaria dell’IRES: da questo punto di vista, non è corretto l’assunto dei giudici a quibus secondo cui l’aliquota dell’IRES sarebbe stata necessariamente elevata al 36 per cento, per l’effetto congiunto dell’imposizione ordinaria (nella misura del 27,5 per cento) e di quella straordinaria (nella misura dell’8,5 per cento).

 6.5.2.– La descritta regola di determinazione della base imponibile non è, tuttavia, idonea, di per sé, a giustificare l’imposta censurata; essa, piuttosto, assume rilevanza in una diversa ottica, all’interno della quale viene in causa il complessivo intervento fiscale disposto dal legislatore, considerato anche nel suo precipuo contesto temporale, che è quello di una pesante crisi che ha colpito tutti i settori economici.

 A questo riguardo, non appare in sé censurabile, rimanendo nei limiti che si preciseranno di seguito, che il legislatore abbia assunto come presupposto dell’imposizione l’appartenenza dei soggetti passivi della nuova imposta al mercato finanziario (cui questi sono evidentemente riconducibili), ravvisandovi uno specifico indice di capacità contributiva.

 In proposito, l’Avvocatura generale dello Stato ha osservato che in tale mercato: a) «sussistono "barriere all’entrata”, nel senso che le relative imprese possono essere esercitate solo dopo aver ottenuto specifiche autorizzazioni dalle autorità di vigilanza, basate sull’accertamento della stabilità patrimoniale e finanziaria delle imprese interessate»; b) di conseguenza, si determina «una concorrenza che, per quanto ampia, è limitata ai soli operatori parimenti autorizzati»; c) «il carattere pressoché necessitato [dei] servizi bancari, assicurativi, finanziari» favorisce il determinarsi di domanda sostanzialmente «anelastica rispetto alla curva dei prezzi».

 Sarebbe questo – sempre secondo l’Avvocatura – il significato da attribuire al «riferimento alla soggezione alla vigilanza pubblica dei settori bancario, finanziario, assicurativo che si rinviene nei lavori preparatori del decreto-legge».

 In effetti è difficilmente dubitabile che il mercato finanziario presenti caratteristiche peculiari rispetto a quello industriale. Si tratta, infatti, di un mercato che, in forza delle descritte barriere strutturali, assume connotati di tipo oligopolistico, con la conseguenza che le imprese in esso operanti dispongono di un significativo potere di mercato, derivante anche da un certo grado (variabile in relazione ai servizi e ai settori) di anelasticità della domanda.

 Non è pertanto implausibile che il legislatore, nell’ambito di un periodo di crisi e nella comparazione con il mercato industriale, abbia desunto dall’appartenenza al mercato finanziario uno specifico e autonomo indice di capacità contributiva, rilevante ai fini di un temporaneo intervento anticongiunturale.

 D’altra parte, su un piano più generale, questa Corte già in altre occasioni ha giudicato infondate, in presenza di oggettive giustificazioni, censure riferite a tributi istituiti solo per alcuni soggetti passivi all’interno di una determinata categoria: nella sentenza n. 201 del 2014 ha ritenuto, infatti, che non fosse ingiustificata la limitazione al solo «settore finanziario» della platea dei soggetti passivi sottoposti al prelievo «addizionale» sulle remunerazioni in forma di bonus e stock options; in senso analogo, nella sentenza n. 269 del 2017 si è affermato che «non è irragionevole che le spese di funzionamento dell’autorità preposta al corretto funzionamento del mercato [AGCM] gravino sulle imprese caratterizzate da una presenza significativa nei mercati di riferimento [con fatturato superiore a 50 milioni di euro] e dotate di considerevole capacità di incidenza sui movimenti delle relative attività economiche».

 Nei termini appena illustrati l’imposta censurata supera quindi il vaglio della connessione razionale: del resto in un contesto complesso come quello contemporaneo, dove si sviluppano nuove e multiformi creazioni di valore, il concetto di capacità contributiva non necessariamente deve rimanere legato solo a indici tradizionali come il patrimonio e il reddito, potendo rilevare anche altre e più evolute forme di capacità, che ben possono denotare una forza o una potenzialità economica.

 6.5.3.– Tanto chiarito, occorre, tuttavia, ulteriormente precisare che il legislatore, quando assume un determinato presupposto, economicamente valutabile, quale indice di una nuova capacità contributiva in riferimento solo a determinati soggetti, rimane sottoposto al vincolo della non arbitrarietà con riguardo alla misura della imposizione, che deve risultare proporzionata al presupposto stesso. Ciò vale soprattutto quando, come nel caso di specie, non si può certo ritenere che lo stesso mercato finanziario, nonostante le sue caratteristiche strutturali, non sia stato, a sua volta, colpito dalla crisi, come del resto documentato dalle parti private.

 Al riguardo, non può peraltro essere condivisa la giustificazione, adombrata dalla difesa dello Stato, per cui nel mercato finanziario è possibile «traslare» sulla clientela i costi fiscali dei relativi servizi: la traslazione delle imposte dirette, infatti, finisce per colpire una capacità contributiva diversa da quella del soggetto passivo dell’imposta, rendendo del tutto aleatoria la verifica dell’idoneità alla contribuzione dei soggetti terzi che subiscono la traslazione. Spesso, peraltro, soprattutto in presenza di servizi necessitati, proprio per effetto della traslazione si determina anche un effetto regressivo dell’imposizione diretta, la cui compatibilità con l’art. 53 Cost. potrebbe essere tutt’altro che scontata.

 È un altro, quindi, il piano sul quale deve svilupparsi il sindacato di costituzionalità.

 Da tale punto di vista, è utile ricordare che nella sentenza n. 21 del 2005 questa Corte, se da un lato ha affermato che la previsione di aliquote differenziate per settori produttivi rientra nella discrezionalità del legislatore (sempre che sia sostenuta da non irragionevoli motivi di politica redistributiva), ha poi però chiaramente precisato, dall’altro, che «[l]’aumento provvisorio e calibrato delle aliquote [IRAP] per i settori bancario, finanziario e assicurativo» risultava giustificato dalla specifica esigenza di neutralizzare il minore impatto dell’allora nuovo tributo proprio sui suddetti settori: è pertanto all’interno della considerazione di una revisione di sistema che si è sviluppata la verifica della non arbitrarietà della misura dell’imposizione.

 6.5.4.– Anche nel presente giudizio è quindi necessario considerare l’insieme degli interventi legislativi che hanno complessivamente accompagnato quello censurato, il quale deve essere collocato nel contesto di una riforma (anch’essa, per certi versi, di carattere sistemico) che ha prodotto significativi effetti compensativi in riferimento ai soggetti passivi della nuova imposta.

 In proposito, va rilevato non solo che l’art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013 ha, come si è visto, disattivato, ai fini del calcolo della base imponibile della nuova imposta, la variazione in aumento di cui all’art. 106, comma 3, del TUIR, ma anche che l’art. 1, comma 160, lettera c), numero 1, della legge n. 147 del 2013, approvata prima della conversione del suddetto decreto-legge, è intervenuto sulla medesima disposizione appena citata, in relazione però all’imposizione ordinaria IRES, modificandola nei seguenti termini: «[p]er gli enti creditizi e finanziari di cui al decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 87, le svalutazioni e le perdite su crediti verso la clientela iscritti in bilancio a tale titolo, diverse da quelle realizzate mediante cessione a titolo oneroso, sono deducibili in quote costanti nell’esercizio in cui sono contabilizzate e nei quattro successivi. Le perdite su crediti realizzate mediante cessione a titolo oneroso sono deducibili integralmente nell’esercizio in cui sono rilevate in bilancio. Ai fini del presente comma le svalutazioni e le perdite deducibili in quinti si assumono al netto delle rivalutazioni dei crediti risultanti in bilancio». Analoga deducibilità è stata introdotta, inoltre, ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP).

 Si tratta di modifiche che, con effetto già a far data dello stesso anno d’imposta 2013 (ferma l’applicazione delle previgenti disposizioni fiscali alle rettifiche di valore iscritte in bilancio nei periodi d’imposta precedenti), hanno pertanto: a) considerevolmente attenuato l’impatto della variazione in aumento; b) ridotto la prociclicità del sistema fiscale, consentendo la deduzione di importi maggiori in fasi congiunturali avverse; c) generalmente alleviato l’entità della tassazione sui soggetti del mercato finanziario, in periodi di perdite elevate (anche se queste ultime hanno normalmente una incidenza maggiore per il settore bancario rispetto a quello assicurativo).

 In tal modo, il legislatore ha dimostrato di venire incontro a una puntuale esigenza degli specifici settori finanziario, creditizio e assicurativo, in conseguenza della crisi economica.

 6.5.5.– Proprio la indicata specificità del regime normativo dei suddetti settori produttivi rende evidente che questi non possono essere confrontati con altri settori, con i quali abbiano in comune solo la caratteristica, di per sé ininfluente, di collocarsi in un mercato vigilato. Vanno perciò disattese le osservazioni della Online SIM spa che – nel denunciare l’ingiustificata disparità di trattamento tra i soggetti passivi della censurata "addizionale” rispetto a quelli dell’IRES appartenenti ai settori della distribuzione dell’energia elettrica e del gas, nonché del trasporto ferroviario o aereo – pone a raffronto termini eterogenei.

 6.5.6.− Così individuato il presupposto della denunciata «addizionale», occorre conseguentemente escludere, da un lato, che detto prelievo abbia natura di imposta sugli extra-profitti (ipotesi prospettata, sia pure per negarla, negli scritti difensivi delle parti); dall’altro, che esso intenda colpire (come invece erroneamente adombrato dall’Avvocatura generale) la «elevata liquidità "a breve”» di cui disporrebbero i soggetti operanti nei settori creditizi, finanziari e assicurativi.

 Sotto il primo aspetto, è qui sufficiente rilevare che la nuova imposta si applica sull’intero reddito – determinato nei termini già illustrati – e non solo sulla parte ascrivibile a ipotetiche forme di extra-profitto. Del resto, non solo manca qualsiasi indice normativo a sostegno della tesi in oggetto, ma né il legislatore storico (come si evince dai lavori parlamentari preparatori), né i rimettenti, né l’Avvocatura hanno mai affermato che l’«addizionale» ha natura di imposta sugli extra-profitti.

 Sotto il secondo aspetto, occorre anche qui osservare che l’«addizionale» non è commisurata alle riserve di liquidità, le quali, tra l’altro, sono legislativamente richieste dalla normativa di settore e sottoposte a vigilanza e quindi ben difficilmente esse potrebbero essere considerate, ai fini dell’IRES, un idoneo, nuovo, indice di capacità contributiva.

 6.5.7.– È solo dopo la premessa di tali considerazioni che può venire in rilievo, all’interno della complessiva valutazione del contesto in cui si inserisce la nuova imposta, anche il carattere della sua transitorietà.

 Di per sé, infatti, la temporaneità dell’imposizione non costituisce un argomento sufficiente a fornire giustificazione a un’imposta, che potrebbe comunque risultare disarticolata dai principi costituzionali, con le gravi conseguenze sopra prefigurate in chiusura del punto 6.2.

 Tuttavia, essa assume, nel caso oggetto del presente giudizio, un senso come argomento aggiuntivo rispetto alla valutazione sistematica appena svolta, dal momento che dimostra come a fronte di una attenuazione dell’imposizione ordinaria IRES e IRAP, solo per l’anno 2013 è stato disposto, attraverso il nuovo tributo, un aggravio del prelievo.

 6.5.8.– In virtù di questi elementi – che contestualizzano, ridimensionandone l’impatto, l’intervento fiscale censurato – si può quindi concludere che il legislatore non ha travalicato il limite dell’arbitrarietà dell’imposizione.

 7.– L’introduzione dell’imposta censurata, del resto, è stata finalizzata a fornire copertura, per l’anno 2013, a una operazione redistributiva diretta ad alleggerire contingentemente, in un periodo di difficile e critica congiuntura economica, il carico fiscale incombente soprattutto sui residenti per effetto dell’obbligo di pagamento della seconda rata dell’IMU, ovvero di una imposta di tipo patrimoniale gravante principalmente sull’abitazione principale, destinata quindi a essere assolta con una liquidità normalmente non ricavabile dal cespite colpito dall’imposizione.

 A prescindere da ogni considerazione sulla significativa destrutturazione del livello di finanza autonoma cui ha poi condotto la definitiva abolizione dell’IMU sull’abitazione principale, si può dunque concludere che il bilanciamento operato dal legislatore possa essere considerato, da questo punto di vista, non irragionevole.

 Non contraddice tale conclusione l’argomento addotto dai giudici rimettenti e rimarcato dalle parti costituite, secondo cui dovrebbe escludersi ogni connotazione solidaristica dall’intervento fiscale censurato poiché dall’abolizione della seconda rata dell’IMU avrebbero tratto beneficio, malgrado l’esclusione degli immobili "di lusso”, anche contribuenti con un reddito elevato.

 In ogni caso, infatti, il suddetto intervento del legislatore ha comportato uno spostamento della fiscalità dall’imposizione immobiliare sulle persone fisiche a quella reddituale su determinate persone giuridiche, avvantaggiando comunque anche le famiglie meno abbienti colpite dalla difficile fase congiunturale, con un innegabile, per quanto parziale, effetto redistributivo e solidaristico.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, del decreto-legge 30 novembre 2013, n. 133 (Disposizioni urgenti concernenti l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia), convertito, con modificazioni, nella legge 29 gennaio 2014, n. 5, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 53 e 77, secondo comma, della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale del Piemonte con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., dalla Commissione tributaria di secondo grado di Trento con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 novembre 2019.

F.to:

Aldo CAROSI, Presidente

Luca ANTONINI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 dicembre 2019.