CONSULTA ONLINE
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de
PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 9 del decreto-legge
24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza
amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con
modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, promossi dal Tribunale
regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige, sede di Trento,
con ordinanza del 10 marzo 2016, dal Tribunale amministrativo regionale della
Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, con ordinanza del 16 giugno
2016, dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia con ordinanza del 29
luglio 2016, dal Tribunale amministrativo regionale del Molise con ordinanza
del 25 marzo 2016 e dal Tribunale amministrativo regionale della Campania con
ordinanza del 5 dicembre 2016, rispettivamente iscritte ai nn. 82, 246 e 259 del
registro ordinanze 2016 e ai nn. 26 e 60 del
registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica nn. 17, 49 e 52, prima serie speciale,
dell’anno 2016 e nn. 10 e 18, prima serie speciale,
dell’anno 2017.
Visti gli atti di
costituzione di G. D. e altro, di C.A.E.R. Q. e altri,
di L. F., di G. A. e altri e di A.C. C. e altri, nonché gli atti di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella
udienza pubblica del 10 ottobre 2017 il Giudice relatore Augusto Antonio
Barbera;
uditi gli
avvocati Massimo Luciani per G. D. e S. P., per C.A.E.R. Q. e per G. A. e
altri, Costantino Ventura per L. F., Orazio Abbamonte per A.C. C. e altri e
l’avvocato dello Stato Ruggero Di Martino per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza
depositata il 10 marzo 2016 (r.o.
n. 82 del 2016) il Tribunale regionale di giustizia amministrativa del
Trentino-Alto Adige, sede di Trento, dubita della legittimità costituzionale
dell’art. 9 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la
semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici
giudiziari), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114,
in riferimento all’art.
77, secondo comma, della Costituzione.
2.– Premette il rimettente
che nel giudizio principale i ricorrenti, avvocati dello Stato attualmente in servizio presso l’Avvocatura distrettuale
dello Stato di Trento, hanno agito per l’accertamento del diritto alla
corresponsione dei compensi professionali loro dovuti senza le decurtazioni e
le limitazioni apportate dalla norma censurata alla previgente disciplina
inerente il relativo trattamento economico; trattamento regolato dal regio
decreto 30 ottobre 1933, n. 1611 (Approvazione del T.U. delle leggi e delle
norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento
dell’Avvocatura dello Stato) nonché dalla legge 2 aprile 1979, n. 97 (Norme
sullo stato giuridico dei magistrati e sul trattamento economico dei magistrati
ordinari e amministrativi, dei magistrati della giustizia militare e degli
avvocati dello Stato) e dalla legge 3 aprile 1979, n. 103 (Modifiche
dell’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato).
3.– Evidenzia il giudice a
quo che, secondo quanto prospettato dai ricorrenti, alla data del loro ingresso
nel ruolo dell’Avvocatura, questi avrebbero maturato, in forza della disciplina
poi modificata dall’art. 9 oggetto di censura, il
diritto ad un trattamento economico che prevedeva sia una quota fissa,
commisurata a ruolo, titolo e grado del personale dell’Avvocatura ed
equiparata, per il quantum, al trattamento dei magistrati dell’ordine
giudiziario, sia una quota variabile, in funzione dell’esito delle controversie
patrocinate quando la pubblica amministrazione non risultava soccombente. Avuto
riguardo a tale quota variabile, i compensi maturati dai ricorrenti nel
giudizio principale erano diversificati a seconda
della presenza o meno della condanna della controparte alla refusione delle
spese in favore dell’amministrazione patrocinata: nel primo caso, curata
l’esazione delle stesse da parte della medesima Avvocatura dello Stato, le
relative somme venivano poi ripartite per sette decimi tra gli avvocati di
ciascun ufficio, in base a norme regolamentari, e per tre decimi in misura
uguale fra tutti gli avvocati dello Stato; nella seconda ipotesi, legata ai
casi di spese compensate o di transazione senza spese a carico della
controparte, l’erario corrispondeva all’Avvocatura la metà delle competenze che
sarebbero state liquidate.
Regime, questo, segnala il
rimettente, parzialmente modificato dall’art. 1, comma 457, della legge 27
dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità
2014)», con una temporanea riduzione (nella misura del 75 per cento per il
triennio 2014-2016) dei compensi liquidati a seguito di sentenza che
riconosceva la Pubblica amministrazione non soccombente.
4.– Adduce, ancora, il
rimettente che, con l’art. 9 oggetto di censura, la
misura nonché, in parte, la stessa previsione di tali compensi, avuto riguardo
alle relative componenti variabili, è stata oggetto di radicale trasformazione.
Con le disposizioni contenute nell’articolo in questione
si prevede che: tutti i compensi professionali sono computati ai fini del tetto
massimo degli emolumenti di cui all’art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre
2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge
22 dicembre 2011, n. 214; nell’ipotesi di sentenza favorevole con condanna
della controparte alle spese, solo il 50 per cento delle somme recuperate è
ripartito tra gli avvocati dello Stato secondo le previsioni regolamentari
dell’Avvocatura dello Stato, mentre il residuo 50 per cento è
destinato per metà a borse di studio per lo svolgimento della pratica forense
presso l’Avvocatura dello Stato e per la residua parte al fondo per la
riduzione della pressione fiscale di cui all’art. 1, comma 431, della legge n.
147 del 2013; nei casi di integrale compensazione
delle spese, ai dipendenti della pubblica amministrazione, ad esclusione del
personale dell’Avvocatura dello Stato, sono corrisposti compensi professionali
in base alle norme regolamentari o contrattuali vigenti e nei limiti dello
stanziamento già previsto; ai regolamenti dell’Avvocatura dello Stato è
demandata la indicazione dei criteri per il riparto delle somme recuperate, in
base al rendimento individuale e secondo criteri oggettivamente misurabili che
tengano conto della puntualità negli adempimenti processuali. Precisa, inoltre,
il Tribunale rimettente che il comma 2 dell’art. 9 ha
poi espressamente abrogato l’art. 1, comma 457, della richiamata legge n. 147
del 2013 e l’art. 21, comma 3, del r. d. n. 1611 del
1933, norma, quest’ultima, che prevedeva la misura degli onorari da
corrispondere agli avvocati dello Stato nel caso di compensazione delle spese.
Di qui la richiesta di
accertamento del dovuto secondo la previgente
disciplina con il conseguente petitum condannatorio
rivolto in danno delle amministrazioni resistenti (Presidenza del Consiglio dei
ministri, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Avvocatura dello Stato).
5.– Ciò premesso, si
evidenzia nell’ordinanza che: l’accoglimento dei petita
articolati nel giudizio principale passa imprescindibilmente dalla declaratoria
di illegittimità costituzionale dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, prospettata dai ricorrenti in riferimento agli artt. 3, 4, 23, 35, 36, 42, 53, 77, 97 e
117 Cost., quest’ultimo in relazione sia agli artt. 3
e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 sia all’art. 1 del Protocollo
addizionale alla CEDU, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, e ratificato con la
stessa legge n. 848 del 1955; che le amministrazioni intimate si sono
costituite in quel giudizio argomentando diffusamente per l’infondatezza delle
censure, chiedendo, in coerenza, la reiezione del ricorso nel merito.
6.– Ad avviso del rimettente,
delle diverse questioni prospettate dai ricorrenti, solo quella legata al
parametro di cui all’art. 77, secondo comma, Cost.
non può ritenersi manifestamente infondata, atteso che il legislatore avrebbe
introdotto una vera e propria riforma strutturale del trattamento economico
spettante agli avvocati dello Stato con lo strumento del decreto-legge in
assenza dei necessari presupposti della necessità e
urgenza.
6.1.– In punto di
rilevanza, il giudice a quo assegna un rilievo decisivo alla circostanza in
forza della quale alcune delle norme di cui all’art. 9
del d.l. n. 90 del 2014 sono
di immediata cogenza così da incidere, in termini di decisività, sull’interesse
sotteso all’azione giudiziale dei ricorrenti.
6.2.– In punto di non
manifesta infondatezza, il Tribunale argomenta muovendo dal tenore letterale
dell’epigrafe del d.l. n. 90 del 2014, recante
«Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per
l’efficienza degli uffici giudiziari»; del relativo preambolo (che, nella parte
di immediata rilevanza, relativa al primo capoverso,
profila la straordinaria «necessità e urgenza di emanare disposizioni volte a
favorire la più razionale utilizzazione dei dipendenti pubblici, a realizzare
interventi di semplificazione dell’organizzazione amministrativa dello Stato e
degli enti pubblici e ad introdurre ulteriori misure di semplificazione per
l’accesso dei cittadini e delle imprese ai servizi della pubblica
amministrazione»); del Titolo I (rubricato «Misure urgenti per l’efficienza
della p.a. e per il sostegno dell’occupazione») e del Capo I del citato Titolo
(rubricato «Misure urgenti in materia di lavoro pubblico») che contengono
l’articolo oggetto di censura. Si evidenzia altresì che gli articoli del Capo
in questione contengono misure in tema di ricambio generazionale nelle
pubbliche amministrazioni, semplificazione e flessibilità nel turnover,
mobilità obbligatoria e volontaria, assegnazione di nuove mansioni, divieto di incarichi dirigenziali a soggetti in quiescenza, prerogative
sindacali, incarichi negli uffici di diretta collaborazione.
6.3.– Ciò premesso, il
rimettente ricorda che, ai sensi dell’art. 15, comma 1,
della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e
ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), i decreti-legge
sono presentati per l’emanazione «con l’indicazione, nel preambolo, delle
circostanze straordinarie di necessità e di urgenza che ne giustificano
l’adozione», mentre il comma 3 dello stesso articolo sancisce che «i decreti
devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve
essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo».
6.3.1.– Nel caso in esame,
secondo il giudice a quo, nessun collegamento sarebbe ravvisabile tra le
riportate premesse e le previsioni normative di cui si prospetta
l’illegittimità costituzionale.
Il preambolo, nella parte di immediato interesse (dettata dal paragrafo 1), fa infatti
riferimento a interventi organizzativi e semplificatori nella e della pubblica
amministrazione: ad ambiti, dunque, che con le disposizioni di cui si discute
– volte a riformare la struttura degli onorari degli avvocati dello Stato
e degli altri enti pubblici nell’ottica del contenimento della spesa pubblica
– non avrebbero momenti di contatto, così da svelare l’assenza di
correlazioni tra la norma censurata e l’elemento funzionale-finalistico ivi
proclamato.
Né, del resto, nel preambolo si
dà conto delle ragioni di necessità e di urgenza che imponevano l’adozione
– a mezzo di decreto-legge – delle
disposizioni di riforma strutturale degli onorari all’Avvocatura dello Stato di
cui al richiamato art. 9.
L’immissione delle disposizioni
in disamina, recanti una riforma strutturale degli onorari degli avvocati dello
Stato, nel corpo di un decreto-legge volto, dichiaratamente, alla «[…] più
razionale utilizzazione dei dipendenti pubblici, a realizzare interventi di
semplificazione dell’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti
pubblici e a introdurre ulteriori misure di
semplificazione per l’accesso dei cittadini e delle imprese ai servizi della
pubblica amministrazione», ad avviso del rimettente, non vale a trasmettere
alle misure stesse il carattere di urgenza proprio delle altre disposizioni,
legate invece tra loro dalla comunanza di oggetto o di finalità.
6.3.2.– Per altro profilo,
osserva il rimettente che l’art. 9 oggetto di
scrutinio contiene anche misure che non sono di immediata applicazione, come
richiesto, invece, dall’art. 15, comma 3, della legge
n. 400 del 1988. Sebbene sia previsto che la nuova disciplina si applichi alle
sentenze pubblicate dopo l’entrata in vigore del d.l.
n. 90 del 2014, l’art. 9, comma 8, stabilisce però che
il nuovo regime dei compensi in caso di soccombenza della controparte, può
trovare applicazione solo a decorrere dall’introduzione, nei regolamenti
dell’Avvocatura dello Stato, di regole che prevedano criteri di riparto delle
somme «in base al rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente
misurabili che tengano conto, tra l’altro, della puntualità negli adempimenti
processuali». E ciò pone ancor più in dubbio la concreta sussistenza degli
estremi tipici della decretazione di urgenza.
7.– Nel giudizio di
costituzionalità si sono costituite le parti ricorrenti nel giudizio a quo,
adducendo l’insussistenza di pregiudiziali ragioni di inammissibilità
della questione e ribadendo, nel merito, i profili argomentativi a sostegno
della illegittimità costituzionale della disposizione censurata prospettati
innanzi al rimettente e da questo veicolati alla Corte. La relativa difesa ha
anche sottolineato, ad ulteriore supporto delle
relative conclusioni, che nel caso occorre dare il giusto rilievo all’assenza
di effettiva incidenza delle disposizioni in questione sulla finanza pubblica,
tali da non apportare un rilevante risparmio di spesa, rendendo ulteriormente
ingiustificata l’adozione di un provvedimento provvisorio avente forza di
legge.
8.– È intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per
la infondatezza della questione.
8.1.– Ad avviso
dell’interveniente, il contenuto dell’art. 9 del d.l.
n. 90 del 2014, peraltro radicalmente innovato in sede di conversione, non
sarebbe eccentrico rispetto al primo paragrafo del relativo preambolo giacché
concorre a realizzare una più razionale utilizzazione del personale pubblico e
una più efficiente organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti
pubblici.
La rideterminazione dei criteri
di attribuzione degli onorari degli avvocati dello Stato sarebbe, infatti, finalizzata per un verso alla valorizzazione del rendimento
individuale degli stessi e, per altro verso, in un’ottica perequativa, ad un
risparmio di risorse economiche, funzionale anche a garantire una più razionale
utilizzazione dei dipendenti pubblici attraverso una migliore distribuzione
delle disponibilità finanziarie.
8.2.– Quanto poi alla non
immediata applicabilità di alcune disposizioni dettate dall’art. 9 censurato in
virtù di quanto previsto dal comma 8, evidenzia la
difesa erariale che tale ultima disposizione impone anche l’immediata precettività dell’obbligo di provvedere al detto
adeguamento regolamentare, da realizzare entro tre mesi dalla data di entrata
in vigore della legge di conversione del decreto perché, in mancanza, tanto
avrebbe impedito la futura corresponsione dei compensi professionali alle
categorie interessate; termine che è stato puntualmente rispettato, avendo
l’Avvocatura emanato l’apposito regolamento già nell’ottobre del 2014, a
conferma della immediata cogenza delle disposizioni censurate in ogni loro
parte.
9.– Prima dell’udienza
fissata per la trattazione del giudizio, la difesa delle parti private ha
depositato alcune tabelle riepilogative contenenti il raffronto tra le
competenze maturate nel 2014, sotto la vigenza della pregressa
normativa, e quanto maturato nel 2015 alla luce della novella censurata. La
stessa difesa ha poi depositato memorie ex art. 10 delle Norme integrative per
i giudizi davanti alla Corte costituzionale, con le quali
ha sottolineato l’indifferenza, rispetto alla questione prospettata, del
diverso contenuto assunto dall’art. 9 oggetto di
censure all’esito della conversione in legge; ancora, ha confutato, con
indicazioni in fatto e diritto, gli argomenti evidenziati dall’interveniente a
sostegno della reiezione della questione.
Anche la difesa
dell’interveniente ha depositato una memoria, ulteriormente ribadendo
l’infondatezza dei dubbi di costituzionalità prospettati dal rimettente alla
luce delle indicazioni difensive delle parti private.
10.– Con ordinanza
depositata il 25 marzo 2016 (r.o.
n. 26 del 2017) il Tribunale amministrativo regionale per il Molise dubita
della legittimità costituzionale del citato art. 9 del d.l.
n. 90 del 2014 in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., nonché, con riguardo ai soli commi 3, 4 e 6
dello stesso articolo, in relazione all’art. 3 Cost.
11.– Nel giudizio
principale, i ricorrenti sono avvocati dello Stato, attualmente
in servizio presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Campobasso;
l’azione è volta all’accertamento del diritto alla corresponsione dei compensi
professionali loro spettanti senza le decurtazioni e le limitazioni apportate
dalla norma censurata, con conseguente richiesta di condanna delle
amministrazioni resistenti (Presidenza del Consiglio, Ministero dell’economia e
delle finanze, Avvocatura dello Stato) al pagamento delle somme dovute, le
medesime attinte nel giudizio incardinato innanzi al TAR Trento; i ricorrenti
hanno sollevato dubbi di costituzionalità dell’art. 9 del d.l.
n. 90 del 2014 avuto riguardo a svariati parametri.
12.– Le argomentazioni
esposte dal TAR Molise ricalcano pedissequamente quelle esposte dal TRGA di
Trento, in punto di rilevanza delle questioni, nonché
in ordine alla non manifesta infondatezza della questione dell’intero art. 9
del d.l. n. 90 del 2014 in
riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost.
13.– Il giudice a quo
ritiene, inoltre, non manifestamente infondata anche la questione, prospettata
dai ricorrenti, relativa ai commi 3, 4 e 6 del citato
art. 9 in riferimento all’art. 3 Cost.
13.1.– Ad avviso del
rimettente, le disposizioni censurate violano il principio di uguaglianza per la irragionevole discriminazione tra avvocati dello Stato ed
avvocati dipendenti di altre amministrazioni pubbliche, avuto riguardo alla
prevista decurtazione degli onorari: mentre agli avvocati delle amministrazioni
pubbliche non statali è accordata la possibilità di acquisire le somme
liquidate in favore dell’amministrazione patrocinata, anche in misura integrale
secondo quanto previsto nei regolamenti dei rispettivi enti, per gli avvocati
dello Stato una tale possibilità è limitata al 50 per cento del liquidato,
mentre è del tutto esclusa con riguardo ai casi di sentenza favorevole con
compensazione delle spese, ove, invece, gli avvocati delle altre
amministrazioni incontrano il solo limite dello stanziamento di bilancio per
l’anno 2013.
13.2.– L’art. 9 in
disamina, evidenzia il rimettente, è finalizzato alla riforma della
retribuzione della parte variabile dei compensi non
solo dell’Avvocatura dello Stato ma di tutte le avvocature pubbliche. La
coerenza e la ragionevolezza dell’intervento normativo, dunque, non potrebbero
che essere lette nel contesto in cui l’intervento è
posto in essere, con la conseguenza che ogni differenziazione del trattamento,
quale è quello deteriore riservato all’Avvocatura dello Stato, dovrebbe
fondarsi su circostanze obiettive che, nel caso, il rimettente non ritiene ravvisabili.
13.3.– Una tale
differenziazione, del resto, non potrebbe trovare giustificazione nel livello
della componente fissa della retribuzione degli
avvocati dello Stato, assertivamente superiore, in media, a quella degli
avvocati delle altre amministrazioni pubbliche. Piuttosto, ad avviso del
giudice a quo, dovrebbe considerarsi per un verso che i difensori, soprattutto
quelli posti in posizione apicale, di altre pubbliche amministrazioni, godono di un trattamento economico che, nella parte fissa, è
superiore a quello degli avvocati dello Stato; per altro verso, che gli
avvocati delle amministrazioni pubbliche diverse dallo Stato hanno statuti e
inquadramenti che mutano da un ente all’altro, senza possibilità di individuare
una disciplina giuridico-economica unitaria, di modo che l’assegnazione ai soli
avvocati dello Stato di un trattamento economico variabile peggiorativo
rispetto agli altri potrebbe assumere il carattere di una penalizzazione
discriminante, soprattutto se il trattamento deteriore consegue alla semplice
appartenenza alle fila dell’Avvocatura e non sia agganciata ad una soglia
stipendiale specifica.
13.4.– Sotto quest’ultimo
profilo, il rimettente rimarca che solo limitando il riconoscimento delle
competenze variabili nei confronti degli avvocati di
enti pubblici al superamento di una quota retributiva uguale per tutti,
l’azione di risanamento della finanza pubblica, sottesa alla novella censurata,
sarebbe realizzata nel rispetto del fondamentale principio di ragionevolezza,
attingendo tutto il comparto del pubblico impiego interessato, sia pure
valorizzando le distinzioni statutarie esistenti.
Né, infine, farebbe gioco il
particolare statuto che regola l’attività degli avvocati dello Stato, i quali,
a differenza degli avvocati delle altre amministrazioni pubbliche, appartengono
ad un plesso organizzativo distinto rispetto a quello
dell’ente (lo Stato) che essi sono chiamati a difendere in sede giudiziale. Il
rimettente, infatti, ritiene che tale circostanza rilevi al fine di garantire
una posizione di maggiore indipendenza, ma non valga a giustificare un
trattamento economico deteriore rispetto a quello goduto dalle altre avvocature
pubbliche.
14.– Nel giudizio
incidentale si sono costituite le parti ricorrenti nel giudizio a quo, ribadendo le indicazioni difensive già prospettate dalle
relative parti private nel giudizio principale pendente innanzi al TRGA di
Trento.
Con riguardo alla questione
prospettata in riferimento all’art. 3 Cost., la difesa delle parti private evidenzia che il tertium comparationis, nel caso,
è offerto dall’insieme delle stesse disposizioni censurate che, all’interno
della categoria degli avvocati pubblici, individuano la sottocategoria degli avvocati dello Stato, distinguendola ingiustificatamente,
sul piano dei compensi variabili percepiti, a parità di prestazioni e natura
pubblicistica della parte patrocinata.
La distinzione derivata dalla
norma contestata, si sottolinea ulteriormente, attiene
ai soli onorari professionali variabili, corrisposti a titolo di ulteriore
incentivo e limitati alle sole ipotesi di integrale vittoria della parte
pubblica, e aventi, dunque, carattere remunerativo della prestazione
professionale resa con la rappresentanza in giudizio, ma natura e funzione
diverse dalla retribuzione: la disparità di trattamento tra le due categorie
prese in considerazione dalla norma censurata non potrebbe in coerenza che
essere esaminata guardando esclusivamente alle discipline specifiche degli
onorari e tanto renderebbe ancora più evidente la irragionevole disparità di
trattamento tra avvocati dello Stato e avvocati di altre amministrazioni
pubbliche.
15.– È intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura Generale dello Stato, concludendo per
la inammissibilità o comunque per la infondatezza della questione.
Ribaditi i profili argomentativi già spesi nel giudizio di
costituzionalità promosso dal TRGA di Trento, avuto riguardo alla prima delle
due questioni, la difesa dello Stato, in ordine al dubbio di legittimità
costituzionale prospettato in relazione all’art. 3 Cost.,
ha evidenziato, sul piano generale, che la riduzione dei compensi è coerente
con le misure di contenimento delle retribuzioni introdotte in chiave
solidaristica, a far tempo dal 2010, e involgenti
l’intero comparto del pubblico impiego, non esclusi gli avvocati delle
amministrazioni diverse dallo Stato, per le quali a tanto provvede la stessa
norma censurata. Sotto altro versante ha rimarcato l’inadeguatezza del tertium comparationis posto a
fondamento del prospettato giudizio di diseguaglianza. Ciò perché il rapporto
di lavoro degli avvocati e procuratori dello Stato è assoggettato, ai sensi
dell’art. 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165
(Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche), al regime di diritto pubblico; quello degli
avvocati dipendenti delle altre amministrazioni pubbliche alla disciplina del
rapporto di lavoro contrattualizzato. Sarebbero in coerenza
diverse le discipline inerenti ai rispettivi trattamenti economici, così
da rendere evidente la disomogeneità delle situazioni comparate.
16.– La difesa delle parti
private ha depositato alcune tabelle riepilogative delle differenze inerenti ai
compensi maturati negli anni 2014 e 2015 a seconda della
diversa disciplina vigente.
La stessa difesa ha anche
depositato memoria contenente argomentazioni analoghe a quelle tracciate dalle
parti private costituite nel giudizio incidentale descritto in precedenza,
avuto riguardo alla questione prospettata in
riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost.; per
altro verso, con la medesima memoria, la detta difesa ha replicato alle
deduzioni dell’interveniente.
La difesa dell’interveniente, a
sua volta, ha depositato memoria con la quale ha ribadito
le conclusioni spiegate al momento della costituzione.
17.– Con ordinanza
depositata il 16 giugno 2016 (r.o.
n. 246 del 2016) il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione
staccata di Reggio Calabria, dubita della legittimità costituzionale dei commi
3, 4 e 6 dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, più
volte citato, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost.
Nel corpo dell’ordinanza, a
differenza di quanto espressamente indicato nel dispositivo, le argomentazioni
del giudice a quo involgono anche altri parametri costituzionali (segnatamente
gli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost.)
nonché altre disposizioni del censurato art. 9 (in particolare, il comma 1).
17.1.– Il giudizio
principale vede quali ricorrenti alcuni avvocati dello Stato, in servizio
presso l’Avvocatura distrettuale di Reggio Calabria. I petita
hanno un contenuto non diverso da quello dei giudizi principali cui si è già
fatto cenno e le amministrazioni resistenti sono le stesse coinvolte in essi.
Anche in questo caso i
ricorrenti hanno sollevato dubbi di costituzionalità dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014 in riferimento
a diversi parametri; e le amministrazioni resistenti si sono costituite in
giudizio, contestando la fondatezza di tali dubbi.
17.2.– Le argomentazioni
esposte dal TAR rimettente ripropongono quelle esposte
dal TRGA di Trento con l’ordinanza del 10 marzo 2016, in ordine alla non
manifesta infondatezza della questione avente ad oggetto l’intero art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost.
17.3.– Il giudice a quo
ritiene, inoltre, non manifestamente infondata anche la questione, prospettata
dai ricorrenti, relativa ai commi 3, 4 e 6 dell’art. 9
in oggetto, in riferimento all’art. 3 Cost. In proposito, il rimettente richiama e ribadisce le linee argomentative già tracciate
dall’ordinanza del 25 marzo 2016 del TAR Molise nel rimarcare l’irragionevole
discriminazione, derivata dalle disposizioni censurate, tra avvocati dello
Stato e avvocati dipendenti di altre amministrazioni pubbliche.
Il TAR Calabria supporta
ulteriormente i dubbi di legittimità costituzionale delle citate disposizioni,
procedendo ad un confronto critico con quanto
ritenuto, in senso opposto, da altro Tribunale amministrativo regionale
(segnatamente il TAR Puglia, sezione staccata di Lecce, con la sentenza n. 170
del 20 gennaio 2016), le cui valutazioni non sono condivise dal Collegio
rimettente perché escludono i profili di diseguaglianza facendo leva su
argomentazioni inconferenti che non giustificano il trattamento peggiorativo
riservato solo alla categoria dei ricorrenti e non tengono in considerazione le
peculiarità, ordinamentali e organizzative, che assistono la configurazione
istituzionale dell’Avvocatura dello Stato rispetto alle avvocature di altri
enti e amministrazioni pubbliche.
17.4.– Secondo il giudice
a quo le disposizioni censurate, dando corpo ad un
intervento avente natura tributaria, sarebbero altresì in contrasto con gli
artt. 3, 23 e 53 Cost.
17.4.1.– Muovendo da
quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 223 del
2012, il giudice a quo ritiene presenti gli elementi indefettibili propri
della fattispecie tributaria. La relativa disciplina sarebbe
infatti diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione
patrimoniale a carico del soggetto passivo senza modificare il rapporto
sinallagmatico posto alla base delle situazioni remunerative incise dalla
novella; il tutto perseguendo finalità di risanamento della finanza pubblica,
rese evidenti da quanto esplicitato dal comma 4 del censurato art. 9 (laddove
si prevede – per i casi di condanna alle spese posta a carico della
controparte – che una quota pari al 25 per cento del relativo ammontare venga destinata «[…] al Fondo per la riduzione della pressione
fiscale, di cui all’art. 1, comma 431, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, e
successive modificazioni»).
17.4.2.–
Posta, dunque, la natura tributaria della decurtazione disposta dalla novella
in disamina, osserva il rimettente che l’imposizione introdotta dalle
disposizioni censurate incide su una particolare voce remunerativa che è parte
di un reddito lavorativo complessivo già sottoposto a prelievo tributario in
condizioni di parità con tutti gli altri percettori di reddito di lavoro;
introduce, quindi, senza alcuna giustificazione, un elemento di discriminazione
soltanto in danno della particolare categoria di dipendenti statali non
contrattualizzati che beneficia della titolarità dei compensi professionali in
discorso. La previsione di siffatto tributo
speciale comporterebbe inoltre una ingiustificata
disparità di trattamento con riguardo alle indennità percepite dagli altri
dipendenti statali, non assoggettate, negli stessi periodi d’imposta, ad alcun
prelievo tributario aggiuntivo. Né, prosegue il rimettente, potrebbe sostenersi
che l’intervento in questione abbia finalità «perequativa», trattandosi di una
disciplina che, in quanto rivolta ad un’unica
categoria di percettori di reddito, viene a vulnerare esclusivamente questi
ultimi e con esclusivo riferimento ai compensi di cui trattasi. Per altro verso
ancora, la disciplina oggetto di censura, proprio in ragione del carattere di
prelievo, appare di dubbia costituzionalità in quanto
non temporanea, bensì strutturalmente connotata quale modificazione sine die.
17.5.– Il rimettente
dubita anche della legittimità costituzionale del comma 1
dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014. In forza di tale
disposizione, i compensi in questione vanno ricompresi tra quelli per i quali
devono ritenersi operativi i vigenti limiti dettati per i trattamenti economici
corrisposti ai dipendenti pubblici, ai titolari di cariche elettive e ai
titolari di incarichi con emolumenti a carico della
finanza pubblica, ai sensi dell’art. 23-ter del d.l.
n. 201 del 2011, convertito in legge n. 214 del 2011 e successivamente
modificato.
17.5.1.– Secondo il
rimettente, le decurtazioni previste dalle disposizioni censurate hanno
l’effetto di deprimere le previgenti disposizioni premiali senza favorire il
miglior conseguimento della finalità pubblica di efficienza
dell’amministrazione, con indubbi riflessi di finanza pubblica: assoggettando
(anche) il riconoscimento dei compensi professionali spettanti ad avvocati e
procuratori dello Stato al «tetto retributivo» di che trattasi, si induce un effetto «disincentivante» ai fini
dell’immissione nei ruoli dell’Avvocatura dello Stato delle più elevate e
qualificate risorse professionali. Si vulnera, così,
non solo l’art. 97, ma anche l’art. 3 Cost., atteso che la pur omogenea applicazione di siffatto «limite»
a tutti i legali dipendenti da pubbliche amministrazioni assume accentuato
rilievo «penalizzante» per gli avvocati e procuratori dello Stato in ragione
della maggiormente limitata partecipazione alla ripartizione dei compensi che
differenzia, in peius, il trattamento ora riservato
ai primi rispetto ai secondi.
18.– Nel giudizio
incidentale si sono costituite le parti ricorrenti nel giudizio a quo, ribadendo la fondatezza dei dubbi di legittimità
costituzionale sollevati con l’ordinanza di rimessione.
19.– È anche intervenuto
il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato.
Sulle prime due questioni,
l’Avvocatura ha reiterato le argomentazioni già esposte nel trattare le
precedenti ordinanze di rimessione.
Avuto riguardo alla censura
prospettata in riferimento agli artt. 3, 23 e 53 Cost., l’interveniente ha negato la natura tributaria delle
decurtazioni imposte dalle disposizioni censurate, dirette a realizzare non una
acquisizione di risorse per la copertura di pubbliche spese ma solo un
definitivo risparmio degli esborsi gravanti sulla collettività.
In ordine, infine, alle
questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., ha eccepito la inammissibilità della questione, per
genericità e contraddittorietà della prospettazione.
20.– Anche in questo
giudizio incidentale la difesa delle parti private ha prodotto tabelle
riepilogative contenenti il raffronto tra le competenze maturate nel 2014 e nel
2015. Ancora, ha depositato memoria con la quale ha ribadito
le argomentazioni a sostegno della fondatezza delle questioni secondo deduzioni
non diverse da quelle descritte nel riportare gli elementi caratterizzanti i
precedenti giudizi di costituzionalità.
La difesa dell’interveniente ha
a sua volta controdedotto con memoria alle deduzioni
difensive delle parti private.
21.– Con ordinanza del 29
luglio 2016 (r.o. n. 259 del
2016) il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, dubita della
legittimità costituzionale del più volte richiamato art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, in relazione agli artt. 3, 25, 77 e 117 Cost.,
quest’ultimo in riferimento all’art.
6, della CEDU.
22.– Il giudice a quo
premette in fatto che la ricorrente del giudizio principale, già magistrato
ordinario, è procuratore dello Stato in servizio presso l’Avvocatura
distrettuale di Bari a far tempo dal 29 gennaio 2014.
In ragione di tanto, la stessa avrebbe maturato un diritto ai compensi
professionali coerente con le previsioni normative di riferimento vigenti alla detta
data, modificate, con limitazioni e decurtazioni,
dalle disposizioni censurate. Di qui il petitum
condannatorio nei confronti delle amministrazioni resistenti, in linea con
quelli prospettati negli altri giudizi in precedenza descritti. Anche in
tale giudizio, inoltre, l’accoglimento dei petita
passa indefettibilmente dalla verifica di costituzionalità della novella
apportata dalla norma in questione, posta in dubbio dalla ricorrente con
riferimento a diversi parametri, secondo prospettazioni, tutte contrastate
dalle amministrazioni resistenti costituite nel relativo giudizio, solo
parzialmente condivise dal TAR rimettente.
23.– Avuto riguardo ai
dubbi prospettati dal giudice a quo, gli stessi, con riferimento all’art. 77,
secondo comma, Cost., seguono
la traccia argomentativa esposta dalla ordinanza del TRGA di Trento. In ordine alla ritenuta violazione del primo comma dell’art.
3 Cost., per la ritenuta diseguaglianza rispetto alla
disciplina dettata per gli avvocati dipendenti delle pubbliche amministrazioni
diverse da quelle dello Stato, l’ordinanza in disamina ripercorre le linee
segnate dal TAR Molise. Inoltre, in punto di non manifesta infondatezza della
questione in riferimento agli artt. 3, 23 e 53 Cost., si ribadiscono, senza fare un esplicito riferimento
alla stessa, i profili deduttivi evidenziati dalla ordinanza del TAR Calabria.
24.– In aggiunta ai temi
di scrutinio costituzionale offerti dalle altre ordinanze, il TAR Puglia dubita
della legittimità costituzionale dell’art. 9 anche sotto il versante della
tutela del principio di affidamento garantito, dall’ordinamento interno, dagli artt. 3 e 25 Cost.,
nonché dal combinato disposto di cui agli artt. 117, primo comma, Cost., e 6
della CEDU.
24.1.– Evidenzia il
rimettente che la ricorrente nel giudizio principale, una volta superato il
concorso da procuratore dello Stato, ha espressamente optato
per l’Avvocatura dello Stato, con conseguente cancellazione dal ruolo
dell’organico della magistratura ordinaria, ragionevolmente indotta dalla
previsione contenuta nello stesso bando di concorso, di corresponsione dello
stipendio annuo lordo, oltre agli emolumenti di cui agli artt. 27 della legge
n. 103 del 1979 e 2 della legge 6 agosto 1984, n. 425 (Disposizioni relative al
trattamento economico dei magistrati), emolumenti cancellati però dalla
disposizione censurata.
24.2.– Vero è che,
eccezion fatta per la materia penale, ove vige il principio di
irretroattività della legge di cui all’art. 25 Cost.,
non può ritenersi interdetto al legislatore di intervenire in peius su diritti soggettivi perfetti relativi a rapporti di
durata. Rimarca, tuttavia, il giudice a quo che la legittimità di tale modifica
presuppone che la stessa sia in ogni caso giustificata da esigenze eccezionali
e idonee ad imporre «sacrifici […] eccezionali, transeunti, non arbitrari e
consentanei allo scopo prefisso», così come chiarito da questa Corte (è citata
la sentenza n.
223 del 2012).
24.3.– Ad avviso del TAR
rimettente, l’art. 9 in disamina è invece intervenuto in via definitiva,
introducendo una modifica, tutt’altro che transeunte, di disposizioni che
disciplinano, da oltre un secolo, il trattamento economico dell’Avvocatura
erariale, imponendo un sacrificio arbitrario, in quanto
richiesto ai soli avvocati e procuratori dello Stato e non già agli altri
avvocati dipendenti delle amministrazioni pubbliche. E la lesione del legittimo
affidamento comporta inoltre la violazione dell’art. 117,
primo comma, Cost., in riferimento all’art. 6
CEDU: come chiarito dalla Corte europea dei diritto
dell’uomo, la preminenza del diritto e lo stesso concetto di processo equo
della CEDU di cui all’art. 6, ostano ad un intervento
legislativo retroattivo, a meno che esso non sia giustificato da un motivo
imperativo di interesse generale, che non può però ravvisarsi nell’ottenimento
di un beneficio finanziario per lo Stato. E nel caso, la disposizione
censurata, secondo il rimettente, comporta, con effetti retroattivi,
un’irragionevole ingerenza nei diritti già assicurati dalla legge, all’unico
scopo di ottenere un beneficio finanziario.
25.– Si è costituita la
parte ricorrente nel giudizio a quo, ribadendo e
ulteriormente supportando le ragioni di fondatezza della denunziata
illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate, già prospettate in
occasione del ricorso introduttivo del giudizio principale e fatte proprie dal
rimettente.
26.– È inoltre intervenuto
il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato.
26.1.– Sulle questioni
diverse da quella prospettata in riferimento alla
affermata lesione degli artt. 3, 25, nonché 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, la difesa
erariale ripercorre gli stessi temi argomentativi già addotti in occasione
degli altri giudizi di costituzionalità, descritti in precedenza.
26.2.– Quanto alla residua
questione prospettata dal TAR rimettente, l’interveniente rimarca che la
novella contestata si inserisce in una più ampia ottica volta al contenimento
della spesa, realizzata con diversi interventi, a far tempo
dal 2010, tesi ad incidere, riducendone il portato, sulla spesa afferente ai
trattamenti economici del personale dipendente della pubblica amministrazione.
Operando per tutto il settore del pubblico impiego, ad avviso dell’interveniente,
se ne deve escludere l’irragionevolezza. Né può dirsi violato il principio
dell’affidamento: una volta esclusa l’irragionevolezza della disciplina
censurata, non viola la Costituzione l’intervento
normativo retroattivo che incida sui diritti di natura economica connessi a
rapporti di durata.
26.3.– Non meno infondata,
ad avviso della interveniente, deve ritenersi la
prospettata violazione dell’art. 6 della CEDU. La stessa Corte EDU, avrebbe infatti ritenuto coerenti con la Convenzione le limitazioni
al diritto al godimento dei propri beni se sorrette, come nella specie, dal
perseguimento della utilità pubblica, nel caso rintracciabile nelle eccezionali
contingenze economiche che stanno alla base dei diversi provvedimenti
legislativi di contenimento della spesa.
27.– Con memoria
depositata il 13 settembre 2017, la difesa della parte privata ha replicato
alle argomentazioni difensive della interveniente con
riguardo a tutte le questioni prospettate dal TAR rimettente.
A tale memoria, con atto
depositato il 19 settembre 2017, ha replicato la difesa dell’interveniente, ribadendo e ulteriormente supportando le difese già spiegate
al momento della costituzione.
28.– Con ordinanza del 5
dicembre del 2016 (r.o. n. 60 del 2017) il Tribunale
amministrativo regionale per la Campania, dubita della costituzionalità dei
commi 3, 4 e 6 del d.l. n. 90 del 2014 in riferimento
agli artt. 2, 3, 23, 35, 36, 42, 53, 77 e 97 Cost.,
nonché in relazione all’art.
1 del Protocollo addizionale alla CEDU. Nel corpo dell’ordinanza, il
giudice a quo, inoltre, a differenza di quanto esplicitato nel dispositivo,
lega i dubbi di incostituzionalità anche all’ulteriore parametro interposto
offerto dall’art.
6 della CEDU.
29.– Anche in questo
giudizio principale, per quanto evidenziato dal giudice a quo, il tema del
contendere e i petita addotti dai ricorrenti mirano
alla condanna delle amministrazioni resistenti al pagamento del dovuto secondo
quanto dettato dalla normativa previgente passando dalla declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni
censurate. Si sono costituite le amministrazioni resistenti, adducendo la
manifesta infondatezza dei dubbi di illegittimità
costituzionale sollevati dai ricorrenti e insistendo per la reiezione dei
ricorsi.
30.– Il TAR rimettente
descrive analiticamente il contenuto dei commi 2, 4 e
8 del citato art. 9 del d.l. n. 90 del 2014. E, in
linea con le indicazioni dei ricorrenti, ritiene non manifestamente infondati i
dubbi di illegittimità costituzionale riferiti alle
citate disposizioni, in primo luogo in riferimento agli artt. 3, 35 e 97, Cost., nonché dell’art. 6 della CEDU per contrasto con i
principi di ragionevolezza e per violazione del legittimo affidamento e del
divieto di irretroattività della legge.
30.1.– Ad avviso del
rimettente, la retroattività che connota le disposizioni censurate, destinate ad incidere su diritti patrimoniali legati a rapporti di
durata, per resistere alla verifica di legittimità costituzionale non può che
trovare adeguata giustificazione, come affermato da questa Corte, nella
esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che
costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale. Indicazioni
interpretative che si sommano a quelle, di segno analogo, offerte dalla Corte
di Strasburgo, laddove, nel valutare la compatibilità delle disposizioni
retroattive con i principi imposti dall’art. 6 della CEDU ha avuto modo di
affermare che le norme destinate ad incidere
retroattivamente su posizioni giuridiche soggettive consolidate devono trovare
la loro ragion d’essere in un motivo imperativo di interesse generale e devono
altresì garantire un ragionevole rapporto di proporzionalità tra il contenuto
delle disposizioni ablative e lo scopo perseguito. Giustificazione che, nel
caso, non potrebbe legittimamente rinvenirsi nelle esigenze straordinarie di
contenimento della spesa pubblica che hanno motivato l’intervento contestato.
L’esigenza di garantire il
legittimo affidamento dei cittadini nella certezza dei rapporti giuridici e
nella stabilità delle situazioni soggettive e, per altro verso, l’interesse
alla tutela di altri valori costituzionali coinvolti, costituiscono,
secondo il giudice a quo, limiti invalicabili all’attività legislativa. La nuova
legge, dunque, non può essere applicata, non solo ai rapporti giuridici che
hanno esaurito i loro effetti prima della sua entrata in vigore, ma anche a
quelli originati anteriormente e ancora in corso.
Da qui l’illegittimità
costituzionale delle disposizioni censurate, laddove viene
sancita la propria applicabilità anche alle ragioni di compenso maturate
relativamente a controversie instaurate prima della entrata in vigore della
legge contestata, qualora vengano decise successivamente.
Non va trascurato, inoltre, che
il trattamento di minor favore determinato dalla censurata novella, non
transeunte ma frutto di una riforma destinata ad
operare strutturalmente sulle prospettive di retribuzione dei dipendenti in
oggetto, non dà luogo ad un diretto risparmio per la spesa pubblica perché
incide, piuttosto, su esborsi che non gravavano sullo Stato: e ciò rende ancora
più evidente la sproporzione tra il pregiudizio arrecato e il vantaggio
perseguito con le norme censurate.
31.– Ad avviso del TAR
rimettente, risultano violati anche gli artt. 3, 23 e
53 Cost., perché con le disposizioni censurate si
realizza un prelievo tributario realizzato in forma occulta, limitato solo ad
una categoria di contribuenti e non temporaneo. Il tutto secondo le medesime
linee argomentative tracciate dalla ordinanza resa dal
TAR Calabria in data 16 giugno 2016 (r.o. n. 246 del
2016), espressamente richiamata.
32.– Il giudice a quo
ritiene altresì non manifestamente infondati i dubbi prospettati dai ricorrenti
avuto riguardo all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU. La Corte di
Strasburgo, infatti, avrebbe valorizzato la protezione delle legittime aspettative dei cittadini nei confronti di interventi
legislativi ablativi dei loro diritti, anche legati a rapporti di credito. L’intervento
legislativo ablativo deve ritenersi conforme alla Convenzione solo se motivato
da un imperativo interesse generale e sempre se proporzionato nel confronto tra
pregiudizio arrecato e scopo perseguito. E, nel caso, la non temporaneità
dell’intervento peggiorativo e l’incidenza dello stesso su una quota di rilievo
del relativo trattamento remunerativo rendono palese
l’assenza di proporzionalità.
33.– Il TAR Campania,
ancora, ribadisce, pressoché pedissequamente, i dubbi
di costituzionalità prospettati in riferimento all’art. 3 Cost.,
primo comma, dal TAR Molise (r.o.
n. 26 del 2017) in ragione della discriminazione provocata dalla novella avuto
riguardo al trattamento economico degli avvocati dello Stato, se comparato con
quello degli avvocati dipendenti di altri enti o amministrazioni pubbliche, in
relazione alla misura dei compensi variabili.
34.– Ritiene, ancora, il
rimettente che la normativa denunciata presenti profili di contrasto anche con
l’art. 36 Cost. Ad avviso del giudice a quo, ogni modificazione
legale del trattamento retributivo postula (per la sua compatibilità
costituzionale) la verifica della conservazione del proporzionato equilibrio
tra prestazione e stipendio imposto dal precetto costituzionale evocato. Una
riduzione significativa dello stipendio, a fronte del
mantenimento della stessa quantità e qualità della prestazione dovuta, potrebbe
risolversi in una rottura del sinallagma e, quindi, in una lesione del
principio della proporzionalità della retribuzione. E, nel caso, il vizio di incostituzionalità deriva, ad avviso del TAR rimettente,
dalla circostanza che la misura della decurtazione si rivela idonea ad
inficiare, squilibrandolo, il vincolo di corrispettività tra lavoro e
retribuzione, elemento ravvisabile in ragione della complessità e quantità
delle attribuzioni dell’Avvocatura dello Stato.
35.– Infine, ad avviso del
giudice a quo, il censurato art. 9 sarebbe in
contrasto anche con il disposto dell’art. 77, secondo comma, Cost., secondo una prospettazione che ribadisce
integralmente le indicazioni argomentative esplicitate sul tema dalla ordinanza
del TRGA di Trento (r.o. n. 82 del 2016).
36.– Si sono costituiti i
ricorrenti del giudizio principale, ribadendo,
questione per questione, le argomentazioni già spese nel ricorso proposto
innanzi al TAR rimettente a sostegno dei dubbi di legittimità costituzionale
prospettati con l’ordinanza di rimessione.
37.– Anche in questo
giudizio incidentale è intervenuto, con la rappresentanza e la difesa
dell’Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri.
Le linee difensive tracciate
dall’interveniente ricalcano pedissequamente quelle già espresse in occasione
degli altri giudizi di costituzionalità descritti in precedenza.
Merita un cenno particolare,
avuto riguardo alla prospettata illegittimità costituzionale con riferimento
agli artt. 3, 35 e 97 Cost.,
l’affermazione difensiva in forza della quale, nel caso di specie, la
disciplina introdotta dalle disposizioni censurate non avrebbe efficacia
retroattiva.
Il diritto alla percezione delle
competenze variabili non maturerebbe alla data di instaurazione
della relativa controversia né a quella di esecuzione della relativa
prestazione. Vero è, piuttosto, che la disciplina relativa al
riparto tra gli avvocati dello Stato degli onorari maturati nel corso di un
giudizio muove imprescindibilmente dal passaggio in giudicato della decisione;
si lega alla presenza in servizio del professionista interessato; fa
riferimento al rendimento individuale nel quadrimestre relativo al momento in
cui le somme vengono concretamente acquisite.
Ne consegue che il riferimento
alla data di deposito delle sentenze quale spartiacque di
efficacia tra la normativa previgente e quella introdotta dalla novella non
incide su posizioni giuridiche soggettive consolidate.
38.– In data 19 settembre
2017, la difesa dell’interveniente ha depositato memoria tramite la quale ha
ulteriormente evidenziato l’infondatezza dei dubbi di costituzionalità
prospettati dal TAR rimettente.
Considerato in diritto
1.– Con cinque distinte
ordinanze, il Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto
Adige, sede di Trento (r.o.
n. 82 del 2016), il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione
staccata di Reggio Calabria, (r.o. n. 246 del 2016),
il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia (r.o.
n. 259 del 2016), il Tribunale amministrativo regionale per il Molise (r.o. n. 26 del 2017) e il Tribunale amministrativo
regionale per la Campania (r.o. n. 60 del 2017)
dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 9 del
decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la
trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari),
convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114.
2.– In particolare, detto art. 9 è censurato, nella sua interezza, da tutte le
ordinanze, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione.
I rimettenti, fatta eccezione
per il TRGA di Trento, dubitano anche della legittimità costituzionale dei
commi 2, 3, 4 e 6 del citato art. 9, in relazione all’art. 3, primo comma,
Cost.
Dette disposizioni si porrebbero
altresì in contrasto, secondo il TAR Calabria, con gli artt. 3,
23 e 53 Cost.; secondo il Tar Puglia, con gli artt. 3
e 53 Cost.; e, secondo il Tar Campania, con gli artt.
2, 3, 23, 36 e 53 Cost.
Il TAR Campania deduce, ancora,
che i commi 2, 4 e 8 del suindicato art. 9 violerebbero gli artt. 3, 35, 42 e 97 Cost.
Il TAR Puglia censura le medesime disposizioni in
riferimento agli artt. 3, 25 nonché all’art. 117, primo comma,
Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848; anche il TAR
Campania evoca l’art. 6 della CEDU e fa, inoltre, riferimento all’art. 1 del
Protocollo addizionale alla richiamata Convenzione, firmato a Parigi il 20
marzo 1952 e ratificato con la stessa legge n. 848 del 1955.
Infine, il TAR Calabria dubita
della legittimità costituzionale del comma 1 del
richiamato art. 9, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost.
3.– La parziale comunanza
delle disposizioni censurate e dei parametri costituzionali invocati nonché il contenuto analogo delle argomentazioni a sostegno
delle censure comportano che i giudizi vengano riuniti e decisi congiuntamente.
4.– Le norme censurate
hanno modificato la disciplina dei compensi variabili del personale
dell’Avvocatura dello Stato, nonché degli altri
avvocati dipendenti delle pubbliche amministrazioni, per le prestazioni
professionali rese nel difendere in giudizio le amministrazioni di riferimento.
Giova ricordare, dunque, in via
di premessa che il trattamento economico degli avvocati e procuratori dello
Stato si compone, essenzialmente, di due diverse voci.
Una prima voce è quella
retributiva fissa, costituita dallo stipendio tabellare, rapportato a quello
goduto dai magistrati (art. 12 della legge 24 maggio
1951, n. 392, intitolato «Distinzione dei magistrati secondo
le funzioni. Trattamento economico della magistratura nonché
dei magistrati del Consiglio di Stato, della Corte dei conti, della Giustizia
militare e degli avvocati e procuratori dello Stato»; nonché art. 9 della legge
2 aprile 1979, n. 97, recante «Norme sullo stato giuridico dei magistrati e sul
trattamento economico dei magistrati ordinari e amministrativi, dei magistrati
della giustizia militare e degli avvocati dello Stato»).
Un’altra componente
di detto trattamento è quella modificata dal censurato art. 9, e attiene ai
compensi maturati in ragione dell’attività difensiva svolta in giudizio, di
natura variabile perché dipendenti dalla sorte del contenzioso.
4.1.– La disciplina
normativa di riferimento, modificata e in parte abrogata dalle disposizioni
contenute nel citato art. 9,
è stabilita dall’art. 21 del regio decreto 30 ottobre 1933,
n. 1611 (Approvazione del T.U. delle leggi e delle norme giuridiche sulla
rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento
dell’Avvocatura dello Stato).
Sul piano regolamentare, assume
rilievo, altresì, il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 29
febbraio 1972 (Regolamento per la riscossione, da parte dell’Avvocatura dello
Stato, degli onorari e delle competenze di spettanza e per la relativa
ripartizione), recentemente integrato dalla disciplina introdotta dal decreto
dell’Avvocatura generale dello Stato del 28 ottobre 2014 (Regolamento relativo ai criteri di determinazione del rendimento
individuale ai sensi dell’art. 9 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90,
convertito dalla legge 11 agosto 2014, n. 114), emanato in attuazione del comma
5 del censurato art. 9.
4.2.– Il sistema normativo
previgente alla novella in esame distingueva due ipotesi: una prima,
concernente il caso in cui le spese del processo erano state poste a carico
della controparte (art. 21, commi 1,
2 e 3, del r.d. n. 1611 del 1933); una seconda,
costituita dalla definizione della lite con compensazione delle spese di
giudizio (secondo il citato art. 21, comma 3).
Nel primo caso (comunemente
definito del "riscosso”), le somme recuperate dalla controparte a cura della
stessa Avvocatura competente erano ripartite per sette decimi tra gli avvocati
e procuratori di ciascun ufficio distrettuale e per i restanti tre decimi in
misura uguale fra tutti gli avvocati e procuratori dello Stato, una volta
passata in giudicato la relativa pronuncia.
Nel secondo caso (comunemente
definito del "compensato”) era corrisposta dall’Erario all’Avvocatura dello
Stato, secondo le modalità stabilite dal regolamento,
la metà delle competenze di avvocato e di procuratore che si sarebbero
liquidate nei confronti del soccombente. In caso di compensazione parziale,
oltre la quota degli onorari riscossa dal soccombente, l’Erario era tenuto a
corrispondere la metà della quota di competenze di avvocato e di procuratore sulla quale era caduta la compensazione (art. 21, comma 3, del r.d. n. 1611 del 1933).
4.3.– Su tale impianto
normativo ha inciso la novella oggetto delle censure prospettate dai
rimettenti.
4.3.1.– Il
censurato art. 9, comma 1, stabilisce che i
compensi variabili sopra descritti debbano essere computati ai fini del
raggiungimento della soglia retributiva massima di cui all’art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni
urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito,
con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214.
4.3.2.– L’art. 9, comma 2, abroga l’articolo 1, comma 457, della legge 27 dicembre
2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)», il quale prevedeva, per i
compensi variabili in oggetto, una decurtazione del 25 per cento nel periodo
compreso tra il 1° gennaio 2014 ed il 31 dicembre 2016; lo stesso comma 2
dispone, inoltre, per quel che qui principalmente interessa, l’abrogazione
dell’art. 21, comma 3, del r.d.
n. 1611 del 1933, relativo, come anticipato, alla ripartizione delle competenze
legate a cause definite con compensazione o transatte senza spese a carico
della controparte.
4.3.3.– I commi 3, 4, 6 e 7 del richiamato art. 9 dettano
la struttura nevralgica delle innovazioni apportate con le disposizioni
censurate. È stata, infatti, rivista la disciplina concernente le cosiddette
"propine”, distinguendo tra quelle destinate agli avvocati dello Stato e quelle
maturate dagli avvocati dipendenti delle altre amministrazioni.
4.3.3.1.– Per questi
ultimi, in caso di sentenza con spese a carico della controparte (di cui al censurato art. 9, comma 3), non si introducono
limitazioni di sorta rispetto all’acquisizione di tali importi da parte degli
avvocati dipendenti da altre amministrazioni, rimandando la fonte primaria,
quanto a misura e modalità della ripartizione, alle disposizioni dei
regolamenti dei singoli enti di riferimento e alle indicazioni di disciplina
offerte dalla contrattazione collettiva. Le relative prospettive retributive
devono, comunque, mantenersi all’interno delle soglie massime imposte in linea
generale dal comma 1 del richiamato art. 9 (il tetto imposto dall’art. 23-ter del d.l.
n. 201 del 2001) e individuale dal comma 7 dello
stesso art. 9 (riferito allo specifico trattamento economico
complessivo maturato di anno in anno).
Del pari, quanto alla ipotesi delle spese compensate o della causa transatta
senza spese a carico della controparte, la norma primaria, pur non mettendo in
discussione il relativo diritto, lo lega, nella misura, al contenuto delle
previsioni dei regolamenti e della contrattazione collettiva di riferimento
attualmente vigenti. Fermi i vincoli imposti dai commi 1
e 7 dello stesso art. 9, si prevede, inoltre, che la relativa spesa non potrà
superare quanto già stanziato per il medesimo titolo per l’anno 2013 dalle
singole amministrazioni.
4.3.3.2.– Relativamente al personale dell’Avvocatura dello Stato, è
stato previsto che, in caso di soccombenza della controparte (comma 4, del
citato art. 9), il diritto alla ripartizione è espressamente limitato al 50 per
cento delle somme recuperate. La restante parte è destinata, in misura del 25
per cento, a borse di studio per lo svolgimento della pratica forense presso
l’Avvocatura dello Stato; la residua quota, al Fondo per la riduzione della
pressione fiscale, di cui all’art. 1, comma 431, della legge
n. 147 del 2013.
La nuova disciplina, con
riguardo al personale dell’Avvocatura dello Stato, nulla prevede, inoltre, per
le ipotesi di compensazione integrale o di transazione senza spese, una volta
abrogata la normativa previgente (dall’art. 9, comma 2); piuttosto, nel disciplinare l’ipotesi relativa (di cui
all’art. 9, comma 6), esclude espressamente gli
avvocati dello Stato dal novero dei soggetti destinatari della relativa
previsione.
4.3.4.– In
ordine al regime temporale di efficacia delle innovazioni in oggetto, il
censurato art. 9 (al comma 8, il cui contenuto
coincide con quello del comma 2, in parte qua) dispone, quanto al cosiddetto
"compensato”, che la novella è applicabile alle sentenze depositate
successivamente all’entrata in vigore del decreto.
In caso di soccombenza della
controparte (quindi, con riguardo al cosiddetto "riscosso”) la nuova disciplina
(di cui al secondo periodo del censurato art. 9, comma
8) si applica invece «[…] a decorrere dall’adeguamento dei regolamenti e dei
contratti collettivi di cui al comma 5, da operare
entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto. In assenza del suddetto adeguamento, a decorrere dal 1º gennaio 2015, le amministrazioni pubbliche di cui al
comma 1 non possono corrispondere compensi professionali agli avvocati
dipendenti delle amministrazioni stesse, ivi incluso il personale
dell’Avvocatura dello Stato».
5.– Le domande formulate
nei giudizi principali e le circostanze che hanno dato origine agli stessi,
sono di identico tenore.
In tutti i giudizi
i ricorrenti sono, infatti, avvocati o procuratori dello Stato che
agiscono per il riconoscimento del diritto ai compensi maturati per le
prestazioni rese in favore dell’amministrazione patrocinata, fondando la
relativa pretesa sul regime normativo anteriore alla novella. Sono identici
anche i relativi petita, diretti ad
ottenere la condanna delle amministrazioni resistenti a pagare i maggiori
importi dovuti, quantificati sulla scorta della previgente normativa, previa
declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme introdotte dalla
novella.
5.1.– Le questioni
sollevate dai rimettenti hanno parametri di
riferimento e oggetti in larga misura coincidenti, prospettando censure
sostanzialmente sovrapponibili. Le stesse difese prospettate dalle parti
private costituite nei giudizi davanti a questa Corte (tutti i ricorrenti dei
processi principali), nonché dal Presidente del
Consiglio dei ministri (intervenuto in tutti i giudizi di costituzionalità)
hanno tratti comuni e ripetuti.
5.2.– Le questioni vanno
ordinate in ragione dell’identità degli oggetti e delle censure prospettate.
Per esigenze di chiarezza espositiva, questa Corte si riserva di evidenziare
eventuali profili di inammissibilità in relazione al
singolo gruppo di questioni esaminate.
Preliminarmente occorre, in via
generale, sottolineare che le ordinanze di rimessione
non sono affette da vizi di motivazione in ordine alla non manifesta
infondatezza ed alla rilevanza delle sollevate questioni.
Sotto quest’ultimo profilo, in
particolare, va osservato che la questione di legittimità costituzionale del censurato art. 9 è pregiudiziale rispetto
all’accertamento della pretesa economica prospettata nei giudizi principali e
alla decisione della domanda di condanna delle
amministrazioni resistenti. Del resto, il relativo petitum,
volto ad ottenere la differenza tra quanto liquidato
in virtù delle disposizioni novellate e quanto preteso dai ricorrenti sulla
scorta della normativa previgente, permette di escludere la sovrapponibilità di
oggetto tra giudizi principali e giudizio di costituzionalità, con conseguente
ammissibilità delle questioni.
Inoltre, va data continuità al
costante orientamento di questa Corte, secondo cui sono inammissibili le
questioni ed i profili di costituzionalità dedotti dalle parti, ulteriori
rispetto a quelli prospettati dai rimettenti, volti dunque ad ampliare o
modificare il contenuto dei provvedimenti di rimessione (ex plurimis,
sentenza n. 83
del 2015).
6.– Il primo gruppo di
questioni concerne le censure aventi ad oggetto
l’intero art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, denunciato
da tutti i rimettenti in riferimento all’art. 77,
secondo comma, Cost., seguendo le linee argomentative
tracciate, in particolare, dalla ordinanza di
rimessione pronunciata dal TRGA di Trento.
6.1.– Secondo i giudici a quibus, detta norma avrebbe realizzato una riforma
strutturale del trattamento economico spettante agli avvocati dello Stato,
utilizzando lo strumento del decreto-legge in assenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza.
La censura viene
ancorata, oltre che all’art. 77 Cost., al disposto
dell’art. 15, commi 1 e 3, della legge 23 agosto 1988,
n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del
Consiglio dei Ministri), e, ad avviso dei rimettenti, troverebbe conforto nella
lettera delle premesse del d.l. n. 90 del 2014,
esaminate partitamente dando rilievo all’epigrafe del decreto-legge, al
preambolo, nonché al titolo e al capo che contengono l’articolo oggetto di
censura e sottolineando, altresì, la disomogeneità tra la disciplina contestata
e il contenuto degli altri articoli del medesimo capo.
Secondo i rimettenti, nessun
collegamento sarebbe ravvisabile tra le riportate premesse e le disposizioni di
cui si prospetta l’illegittimità costituzionale: le ragioni di contenimento
della spesa pubblica, le uniche fondanti la riforma in
disamina, infatti, renderebbero evidente l’assenza di correlazioni tra il decreto
in parte qua e l’elemento finalistico proclamato nel preambolo, coerente con il
restante ed omogeneo contenuto del decreto, del titolo e del capo di
riferimento. Né, del resto, il preambolo darebbe conto delle ragioni di
necessità e di urgenza che imponevano l’adozione delle previsioni normative
censurate tramite un decreto-legge. La disomogeneità tra le disposizioni
censurate e l’ulteriore contenuto del decreto
impedirebbe, inoltre, di estendere alle prime le connotazioni di urgenza della
restante parte del decreto.
Per altro profilo, l’art. 9
conterrebbe anche misure che non sono di immediata
applicazione, come invece richiesto dall’art. 15, comma 3,
della legge n. 400 del 1988. Il comma 8 del censurato
art. 9 stabilisce, infatti, che il nuovo regime dei compensi con riferimento
alle spese riscosse può trovare applicazione solo a decorrere, per quel che qui
interessa, dalla previsione, nei regolamenti dell’Avvocatura dello Stato, di
regole dettate per legare il riparto delle somme al rendimento individuale.
Tanto renderebbe ancora più dubbia la concreta sussistenza dei presupposti
della decretazione d’urgenza.
6.2.– Le questioni non
sono fondate.
Non si ravvisa, in primo luogo,
l’asserita estraneità delle disposizioni in esame rispetto al decreto-legge che
le contiene.
Come già evidenziato da questa
Corte con la sentenza
n. 133 del 2016, resa nello scrutinare l’art. 1, commi 1,
2 e 3, del medesimo decreto-legge, l’ampio preambolo che precede il
provvedimento motiva la straordinaria urgenza, giustificando la necessità di
intervenire anche in considerazione dell’esigenza di «[…] emanare disposizioni
volte a favorire la più razionale utilizzazione dei dipendenti pubblici».
All’interno di questa cornice
finalistica, si inserisce, con adeguata coerenza, l’articolo
in esame, collocato nel Titolo I, denominato «Misure urgenti per l’efficienza
della p.a. e per il sostegno dell’occupazione» e più precisamente all’interno
del Capo I di tale Titolo, recante la rubrica «Misure urgenti in materia di
lavoro pubblico».
La novella tiene conto della
crisi economico-finanziaria presente al momento dell’emanazione e persegue,
come reso palese dalla relazione illustrativa predisposta dal Governo, la
finalità di una revisione della spesa pubblica in uno
dei settori di maggiore rilievo della stessa, quello inerente al costo per il
personale della pubblica amministrazione, obiettivo ancor più compiutamente
realizzato attraverso il coerente riferimento ai criteri di rendimento, di cui
al comma 5 dell’articolo 9 in disamina, introdotto in sede di conversione.
Non può poi dubitarsi del fatto
che il riordino ed il contenimento della spesa
inerente al costo del personale costituiscono momenti di essenziale attuazione
del buon andamento dell’azione amministrativa; considerazione, questa, che
assume ancor più rilievo ora che l’art. 97, primo comma,
Cost., nel richiedere alle pubbliche amministrazioni
di assicurare la sostenibilità del debito, consolida il principio di
economicità quale corollario del buon andamento della p.a.
Non manca, dunque, un coerente
raccordo tra il censurato art. 9 e le premesse della
decretazione d’urgenza. Non sussiste, inoltre, disomogeneità tra le
disposizioni recate da detta norma e le altre del titolo e del capo di
riferimento, ancora di più se si considera che quest’ultimo reca
altre misure di revisione della spesa concernenti il personale, in particolare,
le previsioni degli artt. 10 e 13, connotate da una comune logica di
rimodulazione e contenimento di determinati emolumenti economici accessori.
6.2.1.– La congiuntura
economica e finanziaria nella quale la disposizione è stata dettata consente di
escludere, inoltre, che nella specie possa ritenersi insussistente il
presupposto della straordinaria necessità e urgenza; ciò anche tenuto conto che,
secondo la giurisprudenza di questa Corte, la sindacabilità in
relazione all’art. 77 Cost., della scelta del
Governo di intervenire con decreto-legge va limitata ai soli casi di evidente
mancanza dei presupposti in questione o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà
della relativa valutazione (ex plurimis, sentenze n. 287
e 133 del 2016;
n. 10 del 2015;
ordinanza n. 72
del 2015).
6.2.2.– Le disposizioni in
esame, peraltro, non hanno realizzato una riforma organica e di sistema del
segmento lavorativo di riferimento, non compatibile
con la decretazione d’urgenza.
Le norme in esame influiscono
sulle prospettive reddituali della categoria interessata e, tuttavia, incidono,
senza peraltro neutralizzarla integralmente, soltanto sulla parte variabile del
trattamento economico, senza intaccare lo stipendio tabellare, che costituisce
il nucleo del relativo profilo retributivo.
6.2.3.– Le valutazioni
sottese alla scelta della decretazione d’urgenza non sono censurabili neppure
per manifesta irragionevolezza, a causa della mancata indicazione dell’entità del risparmio di spesa nella relazione tecnica di
accompagnamento al decreto-legge n. 90 del 2014.
La variabilità dei compensi in
oggetto impone infatti di valutare a consuntivo
l’effettiva portata dell’intervento, giustificando a monte una certa
indeterminatezza di contenuto del relativo risparmio di spesa. Peraltro, tale
circostanza è temperata dalla possibilità di fare riferimento alle previsioni
esplicitate in occasione della riduzione di spesa imposta dall’art. 1, comma
457, della legge n. 147 del 2013 (poi abrogato dal comma 2
del richiamato art. 9), il quale, per un periodo temporale limitato (il
triennio 2014-2016), decurtava (anche se solo) in percentuale proprio tale voce
del trattamento economico degli avvocati dipendenti pubblici, compresi quelli facenti parte del personale dell’Avvocatura dello Stato.
6.2.4.– Non rileva,
infine, che il censurato art. 9, al comma 8, subordini l’applicabilità della novella (nella sola parte
relativa alla ripartizione del "riscosso”) all’adeguamento dei regolamenti e
dei contratti collettivi di riferimento, secondo le indicazioni di principio
dettate dal precedente comma 5.
Tale norma non mette, infatti,
in crisi la portata immediatamente precettiva della novella, tenuto conto sia
dei tempi estremamente contenuti entro i quali le
amministrazioni e le parti interessate dovevano procedere a siffatti
adeguamenti (tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione), sia della stringente previsione correlata al mancato rispetto di
tale termine (il blocco integrale della ripartizione del "riscosso” a far data
dal 1° gennaio 2015). Il tutto, del resto, alla luce del principio di recente
enunciato da questa Corte, secondo cui «la straordinaria necessità ed urgenza non
postula inderogabilmente un’immediata applicazione delle disposizioni normative
contenute nel decreto-legge, ma ben può fondarsi sulla necessità di provvedere
con urgenza, anche laddove il risultato sia per qualche aspetto necessariamente
differito» (sentenze
n. 170 e n.
16 del 2017).
È dunque non fondata
la censura, prospettata da tutte le ordinanze di rimessione, in riferimento
all’art. 77, secondo comma, Cost.
7.– Tutti i rimettenti,
con la sola eccezione del TRGA di Trento, dubitano della legittimità
costituzionale dell’art. 9, commi 2, 3, 4 e 6, del d.l. n. 90 del 2014, per contrasto con l’art. 3, primo comma, Cost., in quanto
realizzerebbe una disparità di trattamento tra il personale dell’Avvocatura
dello Stato e gli avvocati dipendenti delle altre amministrazioni pubbliche.
7.1.– In via preliminare,
vanno rilevati, d’ufficio, alcuni profili di inammissibilità
relativi all’individuazione delle norme impugnate.
7.1.1.– Il riferimento ai
commi 3 (relativo al "riscosso” degli avvocati dipendenti da enti diversi dallo
Stato) e 6 (che si riferisce al "compensato”, escludendo dalla relativa
disciplina gli avvocati dello Stato) del denunciato art.
9, contenuto nelle ordinanze dei TAR Calabria, Molise, Puglia e Campania, deve
ritenersi inammissibile, per difetto di rilevanza nei giudizi a quibus, perché relativo a disposizioni
estranee alla disciplina dettata, dall’articolo in disamina, per il
personale dell’Avvocatura dello Stato.
Tali disposizioni, in quanto concernenti esclusivamente gli avvocati dipendenti
da amministrazioni diverse dallo Stato, costituiscono, al più, il tertium comparationis, non certo
l’oggetto del dubbio di legittimità costituzionale.
Avuto riguardo alla ipotesi del cosiddetto "riscosso”, le censure avrebbero
dovuto appuntarsi esclusivamente sul comma 4 del citato art. 9, con conseguente
eccentricità dei rilievi rivolti al comma 3.
Identiche considerazioni vanno
svolte in ordine al comma 6 di detta norma.
Quest’ultimo reca infatti una disciplina che non è applicabile al personale dell’Avvocatura
dello Stato, soggetto alle norme di diritto pubblico ex art. 3 del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche): abrogata la specifica
disposizione previgente, la misura del diritto alla percezione di emolumenti
per l’ipotesi del cosiddetto "compensato” non potrebbe
infatti, oggi, essere demandata alla normazione secondaria o alla
contrattazione collettiva, fonti cui rimanda, per i soli avvocati dipendenti da
amministrazioni diverse dallo Stato, la disposizione in oggetto.
7.1.2.– Piuttosto, è di
tutta evidenza, che, avuto riguardo al tema del "compensato”, assume rilievo
decisivo il comma 2 dell’art. 9 nella parte in cui
dispone l’abrogazione della norma che in precedenza tale diritto riconosceva e
disciplinava (il già citato comma 3 dell’art. 21 del r.d. n. 1611 del 1933). Solo il
riferimento a tale disposizione dà, infatti, sostanza al vulnus di incostituzionalità prospettato in parte qua.
Tale disposizione, tuttavia, non
trova un riscontro esplicito e letterale nelle censure esposte dai rimettenti,
fatto salvo quanto evidenziato nell’ordinanza resa dal TAR Campania. Una
lettura complessiva delle ordinanze di rimessione mette tuttavia in chiaro che,
nella specie, pur in presenza delle riscontrate distonie con i diversi
dispositivi, non decisive se superate dal tenore della motivazione (ex plurimis, da ultimo sentenza n. 203 del
2016), l’intero portato argomentativo delle questioni prospettate coinvolge
sia il disposto del comma 4 dell’art. 9 in disamina, sia il comma 2 dello stesso articolo, in ragione dei diversi riferimenti
resi alla intervenuta abrogazione della previgente normativa relativa alla
disciplina del "compensato”.
7.2.– Ad avviso dei
rimettenti, le disposizioni censurate violerebbero il principio di uguaglianza
per la irragionevole discriminazione tra avvocati
dello Stato ed avvocati di altre amministrazioni pubbliche avuto riguardo alla
prevista decurtazione degli onorari. A differenza dei primi, gli avvocati delle
amministrazioni pubbliche non statali hanno infatti
conservato il diritto a percepire emolumenti legati sia all’ipotesi del
"riscosso” che a quella del "compensato”, anche in misura integrale (a seconda
di quanto previsto nei regolamenti dei rispettivi enti); per contro, gli
avvocati dello Stato godono di una tale possibilità nei limiti del 50 per cento
delle sole somme recuperate in danno della parte soccombente condannata alle
spese.
L’art. 9 in esame, sottolineano i rimettenti, dà tuttavia corpo ad una riforma
della parte variabile del trattamento economico non solo dell’Avvocatura dello
Stato, ma di tutte le avvocature pubbliche. Coerenza e ragionevolezza
dell’intervento normativo, dunque, non potrebbero che essere lette nel contesto in cui lo stesso è posto, rendendo arbitraria la
detta differenziazione, che non troverebbe giustificazione nel livello della
componente fissa della retribuzione degli avvocati dello Stato, solo
assertivamente superiore, in media, a quella degli avvocati delle altre
amministrazioni pubbliche.
Non andrebbe trascurato,
inoltre, sempre secondo i rimettenti, che gli avvocati delle amministrazioni
pubbliche diverse dallo Stato hanno statuti e inquadramenti che mutano da un
ente all’altro, senza possibilità di individuare una disciplina giuridica ed
economica unitaria, di modo che l’assegnazione ai soli avvocati dello Stato di
un trattamento economico variabile peggiorativo rispetto agli altri potrebbe
assumere il carattere di una penalizzazione discriminatoria, soprattutto se il
trattamento deteriore consegue alla semplice appartenenza all’Avvocatura dello
Stato e non sia agganciata ad una soglia stipendiale
specifica.
7.3.– Le questioni non
sono fondate.
Relativamente
a dette censure va accolta l’eccezione
dell’interveniente quanto alla inidoneità del tertium
comparationis indicato dai rimettenti a conforto
delle stesse.
Le due categorie poste a
raffronto, avuto riguardo ai relativi status giuridici ed economici, presentano
connotazioni eterogenee, tali da inficiare il giudizio di comparazione
richiesto.
Infatti, gli avvocati e
procuratori dello Stato sono stati espressamente sottratti al regime della
privatizzazione che ha interessato il rapporto di lavoro alle dipendenze della
pubblica amministrazione: essi si caratterizzano, quindi, per una peculiarità
ordinamentale che li differenzia dagli altri avvocati dipendenti della pubblica
amministrazione, soggetti, di contro, alla contrattazione collettiva.
La eterogeneità dei termini raffrontati preclude dunque la
comparazione in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost.,
come già affermato da questa Corte (sentenze n. 192 del
2016 e n.
178 del 2015), qualora il confronto avvenga tra categorie disomogenee,
l’una ricompresa e l’altra esclusa dall’area del lavoro pubblico
contrattualizzato.
Sono pertanto non fondate le
censure concernenti i commi 2 e 4 dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, proposte in
riferimento all’art. 3 Cost.
8.– Il TAR Calabria e il
TAR Campania deducono altresì la violazione degli artt. 3,
23 e 53 Cost., sul presupposto della natura
tributaria delle decurtazioni e limitazioni imposte dalla novella. Analoghe
censure sono prospettate dal TAR Puglia, pur se riferite ai soli artt. 3 e 53 Cost. Soltanto il TAR
Campania, inoltre, prospetta la lesione anche dell’art. 2 Cost.
8.1.– Non diversamente da
quanto in precedenza segnalato, le ordinanze di rimessione sono connotate da
incongruenze di contenuto tra motivazione e dispositivo. Si profilano, inoltre,
ragioni di inammissibilità, rilevate d’ufficio, con
riferimento sia ad alcune delle norme oggetto delle censure in disamina, sia ad
uno dei parametri costituzionali evocati a sostegno di una delle dette
questioni.
8.1.2.– Il TAR Calabria,
nel dispositivo dell’ordinanza, non fa cenno ai citati parametri
costituzionali, mentre esplicita l’oggetto delle
censure facendo puntuale richiamo ai commi 3, 4 e 6 dell’art. 9. La lettura
della motivazione consente, tuttavia, di delimitare la questione alla sola
decurtazione prevista dal comma 4, in riferimento agli
artt. 3, 23 e 53 Cost.
Le censure dirette nei confronti
dei commi 3 e 6, evocate nel solo dispositivo, sono
prive di svolgimento argomentativo: ne consegue l’inammissibilità per carenza
di motivazione.
8.1.3.– Il TAR Puglia non
indica esplicitamente, nel dispositivo, le disposizioni, interne all’art. 9, oggetto delle censure prospettate a sostegno della questione.
In motivazione, con argomentazioni che si sovrappongono
rispetto alla già esaminata questione sollevata con riguardo all’art. 3, primo comma, Cost., il
rimettente fa un riferimento solo nominale ai commi 3 e 6 del citato art. 9,
limitandosi ad argomentare rilievi di incostituzionalità
sul solo comma 4 dell’articolo più volte richiamato.
Anche con riferimento a tale
ultima ordinanza, dunque, si profilano ragioni di inammissibilità
identiche a quelle prospettate con riguardo all’ordinanza di rimessione del TAR
Calabria.
8.1.4.– Il TAR Campania fa
un espresso riferimento anche al comma 2, ma solo in
motivazione, senza peraltro supportare sul piano argomentativo il relativo
richiamo; la censura viene ancorata anche al parametro di cui all’art. 2 Cost., senza tuttavia sviluppi argomentativi spesi in seno
alla motivazione.
Appare dunque evidente
l’inammissibilità, per difetto integrale di motivazione, delle censure
concernenti i commi 2, 3 e 6 dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014 sollevate in
riferimento agli artt 3, 23 e 53 Cost.,
nonché quella prospettata in direzione del comma 4 dello stesso articolo per
l’asserito contrasto con l’art. 2 Cost.
8.2.– Delimitato l’oggetto
dello scrutinio di costituzionalità al solo comma 4
dell’art. 9, può ora passarsi alla descrizione delle censure.
Muovendo da quanto affermato da
questa Corte con la sentenza n. 223 del
2012, i rimettenti ritengono sussistenti nella specie gli elementi
indefettibili propri della imposizione tributaria. La disciplina censurata
sarebbe infatti diretta, in via prevalente, a
procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto
passivo, senza modificare il rapporto sinallagmatico posto alla base delle
situazioni remunerative incise dalla novella; il tutto perseguendo finalità di
risanamento della finanza pubblica, rese evidenti da quanto esplicitato dal
comma 4 del censurato art. 9, laddove si prevede – per i casi di sentenza
favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti –
che una quota pari al 25 per cento delle somme recuperate «[…]
è destinato al Fondo per la riduzione della pressione fiscale, di cui all’art. 1, comma 431, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, e successive
modificazioni».
Ad avviso dei giudici a quibus, l’imposizione tributaria determinata dalla
censurata novella inciderebbe, inoltre, su una particolare voce remunerativa,
che è parte di un reddito lavorativo complessivo già sottoposto ad imposta in condizioni di parità con tutti gli altri
percettori di reddito di lavoro. Dunque,
introdurrebbe, senza alcuna giustificazione, un elemento di discriminazione
soltanto in danno della categoria di dipendenti statali in esame, non
contrattualizzata. Del resto, la disciplina in disamina, in ragione del
carattere, ad essa proprio, di prelievo appare,
secondo i rimettenti, di dubbia costituzionalità perché strutturata e non
temporanea.
8.3.– Le censure non sono
fondate.
Secondo la giurisprudenza di
questa Corte (sentenze
n. 96 del 2016; n. 178 e n. 70 del 2015;
n. 154 del 2014;
n. 310 e n. 304 del 2013;
n. 233 del 2012),
una fattispecie deve ritenersi di natura tributaria, indipendentemente dalla
qualificazione offerta dal legislatore, laddove si riscontrino tre
indefettibili requisiti: la disciplina legale deve essere diretta, in via
prevalente, a procurare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del
soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un
rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente
rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, debbono essere destinate a
sovvenire pubbliche spese.
Nel caso in esame non sussistono
i primi due dei tre indici sopra elencati.
8.3.1.– Quanto alla
decurtazione patrimoniale, va rilevato che il diritto alla partecipazione "al
riscosso” matura di pari passo con il progredire del giudizio nel quale vengono rese le prestazioni professionali da compensare.
Non va trascurato, al fine qui
rilevante, che il combinato disposto dei primi due commi dell’art. 21 del r.d. n. 1611 del 1993, nello stabilire il diritto alla
ripartizione di tali compensi, lega il consolidarsi della relativa pretesa al
verificarsi di tre diversi presupposti: il primo, dato dalla presenza di un
titolo, anche transattivo, che ponga a carico della controparte le spese di
giudizio; il secondo, correlato al passaggio in giudicato del titolo che
dispone sulle spese; il terzo, relativo alla effettiva
esazione delle somme in questione.
Ora, quale che sia il momento di
completamento di tale fattispecie a formazione progressiva, in ogni caso non può
negarsi che la relativa pretesa patrimoniale è quantomeno subordinata alla
condanna della controparte alle spese ovvero alla presenza di una transazione
che ponga su quest’ultima il costo del giudizio: sino a quando non viene a
concretarsi tale presupposto, l’avvocato dipendente può dirsi titolare solo di una aspettativa con riguardo alla possibilità di percepire
tali emolumenti, sino a quel momento solo eventuale.
La disciplina intertemporale
dettata dall’art. 9 (data, per quel che riguarda il "riscosso”, dal comma 8 letto congiuntamente al comma 5), avuto riguardo al
personale della Avvocatura dello Stato, condiziona l’applicabilità della
novella alla entrata in vigore del regolamento chiamato a prevedere i criteri
di rendimento attraverso i quali modulare quantitativamente il diritto alla
ripartizione delle propine. Le nuove disposizioni sono, dunque, operative per
le sole prestazioni rese in giudizi definiti con titoli giudiziali depositati o
con transazioni formalizzate dopo l’entrata in vigore del detto regolamento.
La revisione
quantitativa del diritto alla ripartizione del "riscosso”, imposta dalla
normativa censurata, incide, dunque, su situazioni giuridiche soggettive non
ancora maturate, vale a dire quelle inerenti ai giudizi definiti da provvedimenti
depositati dopo l’emanazione del regolamento di cui al comma 5.
È, pertanto, da escludere che
nel caso possa riscontrarsi una effettiva
decurtazione, la quale, invece, presuppone l’incidenza della novità normativa
su situazioni soggettive di matrice patrimoniale compiutamente formate.
8.3.2.– Non può poi
trascurarsi che il comma 5 del censurato art. 9,
grazie alle modifiche apportate in sede di conversione, ha introdotto nel
sistema verifiche di rendimento destinate ad incidere
sul quantum del diritto a godere degli emolumenti in questione in ragione di
alcuni filtri valutativi definiti dalla normazione secondaria.
È di tutta evidenza, dunque, che
le modifiche introdotte dalla novella incidono, modificandolo, sul sinallagma
contrattuale, perché il diritto alle propine viene
modulato differentemente in ragione del rendimento degli avvocati dipendenti:
non si risolvono, dunque, esclusivamente in una decurtazione patrimoniale, così
da condurre la fattispecie al di fuori dei casi di imposizione tributaria
anomala e implicita, in altre occasioni riscontrati da questa Corte.
8.4.– Esclusa la matrice
tributaria della previsione in oggetto, perdono di rilievo le ulteriori censure proposte in riferimento agli artt. 3, 23 e
53 Cost., tutte sollevate sul presupposto della
sussistenza della natura tributaria.
9.– Il TAR Puglia dubita
della legittimità costituzionale dell’art. 9 del d.l.
n. 90 del 2014, in riferimento agli artt. 3, 25 e 117,
primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione
all’art. 6 della CEDU. Le riduzioni apportate dalla novella, a suo avviso,
avrebbero efficacia retroattiva e sarebbero destinate ad
incidere negativamente su diritti soggettivi legati a rapporti di durata.
Dunque, sarebbe lesa la tutela dell’affidamento anche in ragione della irragionevolezza delle decurtazioni imposte, non
proporzionate agli interessi collettivi all’uopo perseguiti, entrando in
conflitto anche con detta norma della Convenzione.
9.1.– Per quanto
genericamente rivolta all’intero art. 9, la questione
va delimitata alle sole disposizioni (i commi 2, 4 e
8) del medesimo articolo, con le quali si impongono le riduzioni e le
decurtazioni più volte descritte e si detta, al contempo, la relativa
disciplina intertemporale di operatività della novella. Così ricostruita, la
questione coincide, per oggetto e contenuti argomentativi, con quella
prospettata, in motivazione, dal TAR Campania.
9.2.– Va, tuttavia,
osservato che il TAR Campania, oltre ad evocare l’art. 3 Cost,
indica, quali parametri assertivamente violati, anche gli
artt. 35, 42 e 97 Cost. Ancora, adduce la violazione
sia dell’art. 6 della CEDU, sia dell’art. 1 del relativo Protocollo
addizionale, con argomentazioni che portano a ritenere implicitamente sollevata
la questione anche in relazione all’art. 117, primo comma, Cost.
9.2.1.– Le censure
prospettate in riferimento agli artt. 35, 42 e 97 Cost. dal TAR Campania sono inammissibili per carenza di
argomentazioni spese a conforto delle stesse.
9.3.– Delimitato l’oggetto
delle due questioni in disamina, venendo al merito delle relative censure, va
evidenziato che, secondo quanto concordemente prospettato dai rimettenti, benchè non sussista il divieto di irretroattività
della legge, in quanto previsto dall’art. 25 Cost.
soltanto per la legge penale, la facoltà del legislatore ordinario
di modificare in peius la disciplina
concernente i diritti soggettivi perfetti relativi a rapporti di durata
richiede che la stessa sia giustificata da esigenze di assoluto rilievo, tali
da imporre sacrifici eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo
scopo prefisso.
Sempre secondo i rimettenti, il censurato art. 9 avrebbe invece modificato, in modo
tutt’altro che transeunte, disposizioni che disciplinano, da oltre un secolo,
il trattamento economico dell’Avvocatura erariale, imponendo un sacrificio
arbitrario ai soli avvocati e procuratori dello Stato, non anche agli altri
avvocati dipendenti delle amministrazioni pubbliche. La lesione del legittimo
affidamento comporterebbe anche la violazione dell’art. 6 della CEDU: come
chiarito dalla Corte di Strasburgo, la preminenza del diritto e lo stesso
concetto di processo equo di cui a detto articolo ostano, infatti, ad un intervento legislativo retroattivo, a meno che esso
non sia giustificato da un motivo imperativo di interesse generale, che non può
però ravvisarsi nella mera realizzazione di un beneficio finanziario per lo
Stato.
9.3.1.– Il solo TAR
Campania censura le disposizioni in oggetto anche in
relazione al disposto di cui all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU.
Ad avviso del rimettente, le
misure disposte dalle norme censurate, destinate ad
incidere sulle legittime aspettative degli avvocati dello Stato alla
continuativa percezione del medesimo trattamento retributivo, sarebbero
manifestamente prive di un ragionevole fondamento. In particolare non vi
sarebbe proporzionalità tra l’ablazione disposta, le ragioni della collettività
che la sostengono e il sacrificio non transeunte che ne deriva, operante su una
quota non indifferente del relativo trattamento retributivo.
9.4.– Le censure non sono
fondate avuto riguardo a tutti parametri evocati, compreso quello inerente al
Protocollo addizionale alla CEDU che viene valutato
congiuntamente agli altri, considerato che gli indici sintomatici della lesione
del legittimo affidamento, elaborati da questa Corte e dalla Corte EDU, in gran
parte convergono.
9.4.1.– Si è anticipato
che la disciplina impugnata, avuto riguardo alla ipotesi
del "compensato”, limita l’applicabilità delle nuove norme alle sole pretese
patrimoniali inerenti a prestazioni rese in giudizi definiti con provvedimento
depositato (o con una transazione formalizzata) in data successiva alla entrata
in vigore del decreto. Quanto al "riscosso”, l’operatività della novella è
stata altresì subordinata alla avvenuta adozione dei
parametri di rendimento, demandata alla fonte regolamentare.
Va, pertanto, ribadito
che, quantomeno sino alla data della decisione che definisce il giudizio
regolandone anche le spese, il professionista dipendente non può ritenersi
titolare di una posizione giuridica soggettiva consolidata, essendo la stessa
subordinata all’esito del giudizio stesso. Piuttosto, il dipendente in
questione vanta una aspettativa legata al tenore della
normativa di riferimento presente al momento della esecuzione della
prestazione.
9.4.2.– Alla luce di tali
premesse, può escludersi la retroattività delle disposizioni censurate. Deve infatti ritenersi che le nuove norme siano destinate,
considerato il momento di consolidamento della relativa pretesa retributiva, ad
operare ex nunc, perché dirette a disciplinare
situazioni non ancora compiutamente definite all’interno del rapporto
lavorativo corrente tra amministrazione e dipendente.
9.4.3.– Ciò non ostacola
l’ulteriore approfondimento del merito relativo alle
questioni in disamina.
Non diversamente da quanto
accade per i diritti, anche in caso di novità normativa destinata ad incidere su aspettative giuridicamente qualificate legate
a rapporti di durata, occorre, infatti, valutare, ex art. 3 Cost.,
ragionevolezza e proporzione della novella nell’ottica del necessario
bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti (sentenza n. 203 del
2016).
9.4.4.– Secondo l’ormai
costante orientamento di questa Corte (ex multis, da
ultimo, sentenza n. 16 del 2017), in termini non diversi da quanto elaborato
sul tema dalla Corte EDU, l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica
costituisce un elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto.
La tutela dell’affidamento non comporta, tuttavia, che nel nostro sistema
costituzionale sia assolutamente interdetto al legislatore di emanare
disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di
durata salvo, qualora si tratti di disposizioni
retroattive, il limite costituzionale della materia penale (art. 25, secondo
comma, Cost.). Tali
disposizioni, al pari di qualsiasi precetto legislativo, non possono tuttavia
trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle
situazioni sostanziali poste in essere da leggi
precedenti, frustrando così anche l’affidamento del cittadino nella sicurezza
giuridica.
9.5.– Deve escludersi che,
alla luce delle suesposte considerazioni, il legislatore, con le disposizioni
censurate, abbia realizzato una scelta irragionevole e arbitraria.
9.5.1.– Le limitazioni e
decurtazioni imposte dalla normativa censurata trovano
una incontroversa ratio nelle già evidenziate esigenze di bilancio e di
contenimento della spesa pubblica, maturate in un contesto di necessità e
urgenza quale quello indotto dalla grave crisi finanziaria nel cui ambito è
intervenuta la novella in contestazione.
Assume rilievo anche il settore
sul quale le norme in oggetto hanno inciso, quello del lavoro nella pubblica
amministrazione, che integra una delle più significative
voci di spesa pubblica. Né va trascurato, del resto, che il contenimento del
costo del lavoro pubblico entro i vincoli di bilancio costituisce uno degli
obiettivi strutturali della relativa disciplina così come reso evidente dal
tenore letterale dell’art. 1, comma 1, lettera b), del
d.lgs. n. 165 del 2001.
In questo contesto di
riferimento, in più occasioni questa Corte ha ritenuto non arbitrarie e
irragionevoli misure normative dirette a incidere sulla spesa del personale
della pubblica amministrazione anche quando l’intervento contestato incideva su
diritti maturati nel settore del lavoro pubblico (ex plurimis,
sentenze n. 304
e n. 310 del
2013).
9.6.– Le restrizioni
imposte alla categoria di riferimento hanno un portato
non indifferente; ancora, che l’aspettativa di godimento degli emolumenti in
questione riposa su un dato normativo consolidato negli anni; infine, che
vengono introdotte riduzioni strutturali.
Muovendo dal contenuto delle disposizioni
censurate, si tratta di verificare, dunque, se la certezza del diritto,
correlata alle esigenze di stabilità e di sicurezza delle situazioni giuridiche
nascenti dal rapporto di lavoro sul quale poggiano gli emolumenti in oggetto,
possa ritenersi legittimamente compressa, con le modalità
sopra accennate, da un dato normativo successivo, ispirato alle evidenziate
esigenze di contenimento della spesa.
9.6.1.– Non può, in primo
luogo, trascurarsi che, nella comparazione tra valori sottesa allo scrutinio in
esame, l’aspettativa da tutelare, per quanto
meritevole di considerazione, non ha di certo lo stesso rilievo ponderale che
va invece assegnato alle posizioni giuridiche soggettive pienamente
consolidate.
Si tratta, peraltro, di aspettativa immediatamente correlata al tema delle
competenze professionali inerenti a prestazioni rese nel corso di un giudizio.
In quanto tale, risente ontologicamente dei mutamenti di disciplina destinati
ad influire sui criteri di determinazione del contenuto della relativa pretesa
patrimoniale, dovendosi comunque guardare al dato normativo vigente al momento
della relativa liquidazione (ordinanza n. 261
del 2013). E ciò non può che rilevare nella specie, essendo le situazioni
soggettive in oggetto fisiologicamente esposte alla dinamica fluidità del
relativo regime normativo.
9.6.2.– Occorre, poi,
considerare che la normativa censurata, attraverso la già descritta disciplina
transitoria, circoscrive il perimetro di incidenza
delle disposte decurtazioni: sono, infatti, rimaste indifferenti alle modifiche
le prestazioni professionali inerenti a giudizi definiti con provvedimenti già
depositati (o transazioni concluse) alla data di entrata in vigore del decreto
o a quella di adeguamento del regolamento richiamato dal comma 5, per le quali
continua ad operare la previgente e più favorevole disciplina.
9.6.3.– Peraltro,
diversamente da quanto prospettato dai rimettenti, il contenimento della spesa
non viene realizzato con riduzioni e limitazioni
apportate a carico del solo personale dell’Avvocatura dello Stato.
La soglia massima di godimento
degli emolumenti in oggetto, prevista dal comma 1
dell’art. 9, risulta, infatti, estesa anche agli altri avvocati dipendenti ai
quali, inoltre, viene riferito espressamente anche il
tetto indicato al comma 7 dello stesso articolo oltre che il limite di
stanziamento previsto per l’anno 2013, indicato dal comma 6 quanto alla ipotesi
del "compensato”.
9.6.4.– È, poi, decisivo
che alle modifiche peggiorative imposte dalla novella sia rimasta insensibile
la voce retributiva legata allo stipendio tabellare, lo stesso corrisposto ai
magistrati, la cui adeguatezza fonda, sul versante del relativo trattamento
economico, le prerogative di indipendenza e autonomia
assicurate dai principi costituzionali.
Né, ancora, può ritenersi
insignificante che la novella abbia neutralizzato integralmente solo la quota relativa al "compensato”, l’unica effettivamente gravante
sull’erario, mantenendo, per contro, la pretesa degli avvocati dello Stato a
prendere parte alla ripartizione del "riscosso” in termini tali (il 50 per
cento delle somme recuperate dalla controparte) che non possono ritenersi
indifferenti alla luce del complessivo trattamento economico. Ciò ancora più se
si considera che, ai sensi del comma 4 dell’articolo
censurato, una quota parte del residuo riscosso e non più distribuito (il 25
per cento dell’intero) è stato stornato verso obiettivi (il fondo destinato a
borse di studio per lo svolgimento della pratica forense presso la stessa
Avvocatura) diretti a favorire accessi quanto più qualificati al relativo
organico di riferimento, in piena coerenza con l’obiettivo di razionale
gestione delle risorse a disposizione, posto a fondamento dell’intervento
contrastato.
9.6.5.– Deve dunque
negarsi che le disposizioni censurate realizzino arbitrarie e non proporzionate
restrizioni, tenuto conto delle già enunciate esigenze di riordino e
contenimento della spesa pubblica.
9.7.– Del pari, sulla base
delle medesime considerazioni, si può anche escludere l’addotta violazione
dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, in linea con quanto
costantemente affermato dalla Corte EDU nel verificare il rispetto della citata
norma convenzionale: può dirsi, infatti, salvaguardato il giusto equilibrio che
la disposizione in oggetto impone tra l’interesse generale della comunità,
perseguito dall’intervento statale, e l’obbligo di proteggere i diritti
fondamentali della persona, incisi dall’intervento ablativo realizzato dalle
norme scrutinate (ex plurimis, da ultimo, sentenza della Corte EDU 17
novembre 2015, Preite contro Italia, paragrafo
44).
9.7.1.– Va ribadito che secondo la Corte EDU, le ragioni di
contenimento della spesa pubblica integrano il requisito del legittimo
interesse generale, il quale, ai sensi dell’art. 1 del Protocollo, può giustificare l’ingerenza da parte di un’autorità
pubblica nel pacifico godimento dei «beni» tutelati dalla citata disposizione
convenzionale, tra questi comprese, soprattutto in materia retributiva e
previdenziale, anche le aspettative legittime legate a prestazioni dal
contenuto patrimoniale (da ultimo, sentenza 15 aprile 2014, Stefanetti
ed altri contro Italia, paragrafo 48). Per altro verso, va ricordato che la
stessa Corte riconosce che le autorità nazionali sono generalmente nella
migliore posizione per decidere cosa sia di pubblico interesse nell’attuazione
degli interventi che, come quello di specie, sono finalizzati alla riduzione
della spesa pubblica in ragione della particolare situazione economica in cui
sono maturati (sentenza 19
giugno 2012, Khoniakina contro Georgia, paragrafo
76; sentenza 20 marzo 2012, Panfile contro Romania,
paragrafi 11 e 21).
9.7.2.– Si è già
anticipato che le misure adottate non sono né irragionevoli nè
arbitrarie; non impongono, in particolare, oneri eccessivi alla categoria
interessata.
Non viene
messo in crisi, dunque, il ragionevole rapporto di proporzionalità che deve
correre tra mezzi impiegati e fini perseguiti. E ciò ancor di più considerando
il già evidenziato ampio margine di apprezzamento che la Corte EDU suole
riconoscere al singolo Stato nella individuazione sia delle modalità di
attuazione delle misure di politica economica o sociale, sia delle conseguenze
correlate alla realizzazione degli obiettivi all’uopo fissati, così che, soprattutto
in presenza di risorse statali limitate, solo le scelte del legislatore
manifestamente prive di ragionevole fondamento possono dar luogo al vulnus
paventato dai rimettenti (sentenza
del 24 giugno 2014, Silverfunghi ed altri contro
Italia, paragrafi 103 e 105; sentenza 8 ottobre 2013, Da Conceição Mateus e altro contro
Portogallo, paragrafo 22).
9.8.– Sia il TAR Puglia che il TAR Campania adducono anche la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in
riferimento all’art. 6 CEDU.
Tale norma convenzionale è,
tuttavia, evocata erroneamente, giacché le
disposizioni censurate non danno corpo ad alcuna ingerenza del potere
legislativo sull’amministrazione della giustizia, e non mirano ad influenzare
la definizione giudiziaria di una lite, presupposto oggettivo imprescindibile
della tutela garantita dall’art. 6 (Corte EDU, sentenza del 3
settembre 2013, M.C. ed altri contro Italia, paragrafi 49, 50, 52, 53).
Di qui la non fondatezza della
questione.
10.– Le ultime due
questioni oggetto dello scrutinio sollecitato dalle ordinanze di rimessione in
disamina ruotano intorno alla natura retributiva degli emolumenti presi in
considerazione dalla novella, in linea con quanto già affermato da questa Corte
(sentenze n. 33
del 2009 e n.
624 del 1988).
10.1.– Il TAR per la
Campania dubita della legittimità costituzionale dei commi 2,
4 e 8 dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, in riferimento all’art. 36 Cost.
A suo avviso, l’insieme delle
decurtazioni e limitazioni in questione inficerebbe, squilibrandolo,
il vincolo di corrispettività tra lavoro e retribuzione, alla luce della
complessità e quantità delle attribuzioni dell’Avvocatura dello Stato.
10.1.1.– La censura non è
fondata.
Secondo quanto costantemente
affermato da questa Corte (ex multis, sentenze n. 96 del
2016; e n.
154 del 2014), il giudizio sulla sufficienza e sulla proporzionalità della
retribuzione non può prescindere da una valutazione complessiva delle diverse
voci che la compongono e non può essere svolto per singoli istituti.
Il rimettente ha invece
focalizzato l’attenzione esclusivamente sul contenuto delle riduzioni apportate
dalla norma censurata, trascurando, nel quadro retributivo complessivo relativo
alla categoria di riferimento, di valutare l’incidenza da ascrivere alla componente offerta dallo stipendio tabellare, rimasta
insensibile alla novella; né, ancora, è stato dato il giusto peso al ruolo che
deve ascriversi alla componente retributiva aggiuntiva legata agli emolumenti
per il "riscosso”, ancora riconosciuti, seppure in quota parte, agli avvocati
dello Stato.
Da qui la non fondatezza della
questione prospettata.
10.2.– Il TAR Calabria
denunzia la violazione degli artt. 3 e 97 Cost., da parte dell’art. 9, comma 1,
del d.l. n. 90 del 2014, che ha compreso gli
emolumenti inerenti alle competenze professionali tra quelli soggetti al limite
stabilito dall’art. 23-ter del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito dalla
legge n. 214 del 2011 e successive modificazioni.
10.2.1.– La questione è
inammissibile.
Nell’ordinanza di rimessione, il
rimettente non ha dedotto ed esplicitato se nel
giudizio principale veniva in questione il superamento del limite di cui al
citato art. 23-ter.
Nel difetto di motivazione in ordine alle ragioni dell’applicabilità del limite
stabilito dalla richiamata disposizione, la censura è inammissibile.
per
questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi:
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 9, commi 3 e 6, del decreto-legge 24 giugno
2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza
amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con
modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, sollevate dal Tribunale
amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria,
dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, dal Tribunale
amministrativo regionale per il Molise e dal Tribunale amministrativo regionale
per la Campania in riferimento all’art. 3, primo comma,
della Costituzione, con le ordinanze indicate in epigrafe;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 9, commi 2, 3 e 6, del d.l.
n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge 114 del 2014, in
riferimento agli artt. 3, 23 e 53 Cost., e del comma
4 dello stesso articolo in relazione all’art. 2 Cost.,
sollevata dal TAR Campania, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionali
dell’art. 9, commi 3 e 6, del d.l.
n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014,
sollevate dal TAR Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, in riferimento
agli artt. 3, 23 e 53, Cost., e dal TAR Puglia in
riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., con le ordinanze
indicate in epigrafe;
4) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 9, commi 2, 4 e 8, del d.l.
n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014,
sollevata dal TAR Campania in riferimento agli artt. 35, 42 e 97 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe;
5) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 9, comma 1, del d.l.
n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014,
sollevata dal TAR Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, in riferimento
agli artt. 3 e 97 Cost., con l’ordinanza indicata in
epigrafe;
6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014, sollevate
dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige,
sede di Trento, dal TAR Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, dal TAR
Puglia, dal TAR Molise e dal TAR Campania, in riferimento all’art. 77, secondo
comma, Cost., con le ordinanze indicate in epigrafe;
7) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 9, commi 2 e 4 del d.l.
n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014,
sollevate dal TAR Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, dal TAR
Puglia, dal TAR Molise e dal TAR Campania, in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., con le
ordinanze indicate in epigrafe;
8) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 9, comma 4, del d.l.
n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014,
sollevate dal TAR Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria e dal TAR
Campania, in riferimento agli artt. 3, 23 e 53 Cost.,
e dal TAR Puglia in riferimento agli artt. 3 e 53, Cost.,
con le ordinanze indicate in epigrafe;
9) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 9, commi 2, 4 e 8 del d.l.
n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014,
sollevate dal TAR Puglia, in riferimento agli artt. 3, 25 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e dal TAR Campania, in riferimento
agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo
in relazione all’art. 6 della CEDU e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla
richiamata Convenzione, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 e ratificato con la
stessa legge n. 848 del 1955, con le ordinanze indicate in epigrafe;
10) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 9, commi 2, 4 e 8 del d.l.
n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014,
sollevata dal TAR Campania in riferimento all’art. 36, Cost.,
con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede
della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 ottobre 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Augusto Antonio BARBERA,
Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10
novembre 2017.