SENTENZA N. 186
ANNO 2015
I. Andrea Pugiotto, La giurisprudenza difensiva in materia di OPG a giudizio della Corte costituzionale , per g.c. della Rivista AIC
II. Antonella Massaro, Pericolosità sociale e misure di sicurezza detentive nel processo di “definitivo superamento” degli ospedali psichiatrici giudiziari: la lettura della Corte costituzionale con la sentenza n. 186 del 2015, per g.c. di Diritto penitenziario e Costituzione
III. G. L., La Consulta chiarisce l'attuale disciplina della valutazione di pericolosità sociale per i soggetti ad imputabilità ridotta od esclusa, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Paolo GROSSI Giudice
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Mario Rosario MORELLI "
- Giancarlo CORAGGIO "
- Giuliano AMATO "
- Silvana SCIARRA "
- Daria de PRETIS "
- Nicolò ZANON "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera b), del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 maggio 2014, n. 81, promosso dal Tribunale di sorveglianza di Messina nel procedimento di sorveglianza nei confronti di M.S., con ordinanza del 16 luglio 2014, iscritta al n. 247 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 giugno 2015 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.
1.– Il Tribunale di sorveglianza di Messina, con ordinanza del 16 luglio 2014 (r.o. n. 247 del 2014), ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 25, 27, 29, 30, 31, 32, 34, 77 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 5 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e all’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 10 dicembre 1948, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera b), del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 maggio 2014, n. 81, «nelle parti in cui stabilisce che l’accertamento della pericolosità sociale “è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale” e che “non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali”».
Il Tribunale di sorveglianza premette di essere investito dell’appello avverso l’ordinanza del 28 febbraio 2014, con la quale il Magistrato di sorveglianza di Messina aveva rigettato l’istanza di revoca anticipata della misura di sicurezza detentiva della casa di cura e di custodia, prevista fino al 3 maggio 2015 nei confronti di una persona internata nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto.
In seguito alla sentenza irrevocabile della Corte d’appello di Palermo, che aveva condannato M.S. alla pena di quattro anni e otto mesi di reclusione per il reato di tentato omicidio, con la diminuente di cui all’art. 89 del codice penale ritenuta equivalente all’aggravante di aver agito con crudeltà e alla recidiva reiterata, e aveva applicato al medesimo la misura della casa di cura e custodia per due anni, la Procura della Repubblica di Palermo aveva chiesto al Magistrato di sorveglianza di procedere all’accertamento della pericolosità sociale del condannato, al fine di disporre l’applicazione della citata misura di sicurezza. Il Magistrato di sorveglianza di Palermo, in seguito a un complesso esame della vicenda individuale, familiare, sociale, psichiatrica e giudiziaria di M.S. e dopo avere considerato il delitto contestato, alla luce della sentenza di condanna e delle risultanze peritali, aveva disposto, con ordinanza dell’8 ottobre 2012, l’applicazione della misura di sicurezza detentiva della casa di cura e custodia per la durata di due anni.
Nell’ordinanza si dava atto che il condannato soffriva di un disturbo diagnosticato come «discontrollo degli impulsi in soggetto con esiti di trauma cranico», tale da incidere «sulla capacità di intendere e volere dello stesso, con conseguente applicazione della diminuente prevista dall’art. 89 c.p.». Inoltre si precisava che nella patologia riscontrata era insito un «forte grado di pericolosità, posto che, specie se associata all’assunzione, anche minima, di sostanze alcoliche (cui il M. è dedito) può dar luogo a reazioni molto violente e incontrollate» e si aggiungeva che M.S. era senza fissa dimora, senza occupazione, e privo di punti di riferimento familiare.
Con la successiva ordinanza del 28 febbraio 2014, il Magistrato di sorveglianza di Messina aveva rigettato l’istanza di revoca anticipata della misura di sicurezza, precisando tra l’altro, che non era stato possibile predisporre per M.S. «un progetto terapeutico perché non [era] possibile la presa in carico, non essendo residente nel territorio». Con provvedimento dell’11 aprile 2014, la Direzione dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, in considerazione delle stabili condizioni psichiche di M.S., lo aveva ammesso al lavoro esterno ex art. 21 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).
Il giudice a quo sottolinea che la richiesta del difensore è volta ad ottenere la revoca anticipata della misura di sicurezza detentiva, anche ai fini del rientro nel paese d’origine, o, in via subordinata, l’applicazione della libertà vigilata.
In punto di rilevanza della questione, il Tribunale di sorveglianza osserva che l’impossibilità di utilizzare a fini prognostici dei fattori essenziali, come le condizioni individuali, familiari e sociali e l’assenza di progetti terapeutici individuali, incide «in modo determinante e profondamente distorsivo sul giudizio in corso», impedendo una valutazione compiuta della concreta pericolosità sociale di M.S. e del suo grado attuale. Questi aveva dimostrato condizioni psichiche stabili e aveva tenuto una condotta positiva, partecipando alle attività trattamentali con valenza terapeutica, sì da essere ammesso al lavoro ex art. 21 della legge n. 354 del 1975. La sua situazione individuale, familiare e socio-assistenziale però era «caratterizzata in chiave negativa dalla lontananza della famiglia residente in Tunisia, dalla mancanza di concreta prospettiva lavorativa e risocializzante, essendo sprovvisto di permesso di soggiorno in quanto scaduto, nonché dalla mancanza della presa in carico da parte dei servizi sanitari territoriali in quanto non residente e dall’assenza di un progetto terapeutico e socio-riabilitativo». La prognosi di pericolosità risulterebbe pertanto impossibile o radicalmente alterata, non potendosi considerare i fattori attinenti alle condizioni individuali, familiari, socio-assistenziali e sanitarie, con la conseguenza di affidare «ad un volontarismo giudiziario arbitrario, cognitivamente inadeguato e teleologicamente disorientato» la scelta sulla misura da adottare.
Secondo il Tribunale di sorveglianza, «senza un approccio globale e multifattoriale, garantito dalla normativa previgente ed interdetto dalla novella legislativa», casi come quello trattato non potrebbero trovare soluzioni adeguate, che soddisfino in modo equilibrato le diverse esigenze costituzionalmente rilevanti.
In punto di non manifesta infondatezza, il giudice rimettente, richiamando la sentenza di questa Corte n. 253 del 2003, sostiene che la normativa impugnata è priva «”[del]l’equilibrio costituzionalmente necessario” “fra […] le esigenze di cura e tutela della persona interessata e di controllo della sua pericolosità sociale”» e viola numerosi articoli della Costituzione.
1. Gli artt. 1 e 4 Cost., perché, escludendo la rilevanza a fini prognostici delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale dell’internato, imporrebbe di non tener conto dello svolgimento (o meno) di un’attività lavorativa, che, invece, costituisce un potente fattore di prevenzione criminale e di rieducazione, con conseguente rischio di precludere le possibilità di accesso al lavoro e «di inibirne l’effettività dell’esercizio».
2. L’art. 2 Cost., in quanto la disposizione censurata, imponendo al giudice rigidi vincoli che non consentono l’apprezzamento globale della situazione concreta della persona, con conseguente impossibilità o grave difficoltà nella scelta della misura idonea a fronteggiare la pericolosità sociale, esporrebbe a gravi rischi «diritti e beni fondamentali delle persone e della comunità».
3. Il principio di ragionevolezza espresso dall’art. 3 Cost. Secondo il giudice a quo, infatti, rimettendo in libertà individui «ritenuti fino a ieri pericolosi o molto pericolosi», si vanificherebbero le finalità di difesa sociale e terapeutiche. Inoltre, si introdurrebbe una forma mascherata e surrettizia di «presunzione legislativa di pericolosità (o di non pericolosità)», senza una valida giustificazione scientifica. Infine, non consentendo di tenere conto delle condizioni di vita individuali, familiari e sociali attuali, «ancorché criminogene ed anzi, anche se favorevoli», la norma impugnata richiamerebbe «un modello criminologico tendenzialmente “unifattoriale” di tipo individualistico», invece che multifattoriale, sì da spezzare l’unità organica del giudizio prognostico esaltata dall’art. 133 cod. pen.
Secondo il Tribunale rimettente, una volta escluse le condizioni previste dall’art. 133, secondo comma, numero 4), cod. pen., e rese di per sé irrilevanti ai fini giudiziali le risorse terapeutiche territoriali, residuerebbero i fattori prognostici immutabili e cristallizzati come la gravità del fatto di reato, i motivi a delinquere, i precedenti penali e giudiziari, la condotta e la vita antecedenti al reato e la condotta contemporanea al reato, e si ridurrebbero «i fattori prognostici modificabili in progress come il carattere del reo previsto dal n. 1 e la condotta susseguente al reato prevista dal n. 3, tuttavia ormai devitalizzati e decontestualizzati in quanto sganciati dalle condizioni di cui al n. 4, che costituiscono il pendant necessario di ogni dinamismo evolutivo della personalità di un soggetto, del suo carattere e della sua condotta».
Sarebbe riscontrabile una violazione dell’art. 3 Cost. anche sotto il profilo della irragionevole ed ingiustificata disparità di trattamento di casi simili, «giacché nei confronti degli imputabili la pericolosità sociale continua ad essere accertata nella globalità ed interezza dei fattori prognostici, mentre nei confronti degli inimputabili e dei semimputabili tale accertamento risulta “dimidiato”».
4. Gli artt. 25 e 27 Cost., in quanto riducendo la base cognitiva del giudizio prognostico e prevedendo la durata massima delle misure di sicurezza detentive commisurata al limite edittale della pena prevista per il reato corrispondente, sarebbero attribuite alle misure di sicurezza delle «valenze retributive e punitive» che dovrebbero essere loro estranee. Inoltre la nuova normativa, disciplinando le misure di sicurezza in corso di applicazione o di esecuzione, in relazione a reati commessi prima della sua entrata in vigore, rischierebbe di violare il principio di irretroattività delle disposizioni penali sfavorevoli, dato che l’esclusione del giudizio prognostico delle condizioni di cui all’art. 133, secondo comma, numero 4), cod. pen., «è ambivalente e potenzialmente contra reum e quindi in malam partem».
5. Gli artt. 29, 30 e 31 Cost., in quanto la disposizione censurata, imponendo di ignorare l’ambiente familiare, costituente, sia «un potente fattore di prevenzione criminale, in presenza di una famiglia sana, accogliente e capace, sia, invece, un potente fattore criminogeno, in presenza di una famiglia disastrata o incapace o addirittura dedita al crimine», lederebbe i diritti della famiglia.
6. L’art. 32 Cost., in quanto «la rimessione in libertà o in libertà vigilata, per effetto della nuova normativa, di soggetti affetti da patologie psichiatriche e bisognevoli di assistenza e cure, sebbene in condizioni di vita individuale, familiare e sociale controindicate, se non criminogene, ed in assenza di un progetto terapeutico individuale», esporrebbe tali soggetti al «rischio di commettere non solo atti eterolesivi, ma anche atti autolesivi, pregiudicando la loro salute ed il loro diritto a trattamenti terapeutici e socio-riabilitativi adeguati».
7. L’art. 34 Cost., in quanto, escludendo il rilievo delle condizioni di cui all’art. 133, secondo comma, numero 4), cod. pen., e conseguentemente della frequenza scolastica, la normativa impugnata lederebbe «il diritto del soggetto all’istruzione scolastica», considerato che la scuola, costituendo un essenziale strumento del trattamento penitenziario, educativo, risocializzante e terapeutico, «assume speciale valenza pedagogica e riabilitativa nei confronti dei soggetti affetti da patologie psichiatriche».
8. L’art. 77 Cost., in quanto, nell’ambito dell’iter legislativo della conversione di un decreto-legge che dispone la proroga del termine di chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, non potrebbe ravvisarsi la necessità e l’urgenza di introdurre «modifiche strutturali di istituti secolari come la pericolosità sociale», indirettamente stravolti dall’intervento riformatore, che spezzerebbero «il nesso di “interrelazione funzionale” e di “sostanziale omogeneità” tra decreto-legge e legge di conversione».
9. Infine l’art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e l’art. 5 della CEDU, che tutelano il diritto alla sicurezza, in quanto la disposizione censurata esporrebbe a gravi rischi non solo la sicurezza dei cittadini italiani, ma anche la sicurezza di tutti i cittadini che dalle Convenzioni internazionali riceverebbero protezione giuridica e che, per le più varie ragioni, potrebbero trovarsi nel territorio dello Stato italiano.
2.– Nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
Secondo l’Avvocatura, le nuove disposizioni mirerebbero ad eliminare le condizioni giuridiche che potrebbero consentire la conferma dei giudizi di pericolosità sociale di internati trascurati, o comunque, non presi in carico dal Servizio sanitario nazionale, pur a fronte di quadri clinici adeguati rispetto a percorsi terapeutici e riabilitativi extramurari.
Entrambe le limitazioni del giudizio di pericolosità sociale censurate costituirebbero norme di favore a tutela della libertà della persona. La novella, pertanto, non giustificherebbe le interpretazioni contra reum, paventate dal giudice rimettente. L’esclusione della rilevanza delle «condizioni di cui all’articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale» rappresenterebbe una soluzione, costituzionalmente giustificata, diretta a «scongiurare violazioni ai diritti di libertà» dell’infermo o del seminfermo di mente, le cui condizioni di svantaggio sociale potrebbero essere il pretesto per una rimodulazione del tutto particolare del confine tra libertà e custodia.
L’Avvocatura inoltre sottolinea che nella Relazione sulle condizioni di vita e di cura all’interno degli Ospedali psichiatrici giudiziari, approvata nel 2011 dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale istituita dal Senato, si era affermata la necessità di porre un argine al fenomeno delle proroghe sistematiche della misura di sicurezza, basate su una dilatazione del concetto di pericolosità, in quanto sovente la proroga della misura risultava disposta non già in ragione di una condizione soggettiva di persistente pericolosità, ma per la carenza di un’adeguata offerta di strutture residenziali e riabilitative esterne. La disposizione di cui al comma 4 dell’art. 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 17 febbraio 2012, n. 9, che prevede che «le persone che hanno cessato di essere socialmente pericolose devono essere senza indugio dimesse», si riferirebbe proprio a situazioni di tale tipo, così come ad esse si riferirebbe la disposizione impugnata.
La difesa dello Stato ritiene inesistente anche la prospettata violazione dell’art. 77 Cost., in quanto la disposizione censurata sarebbe volta ad arginare il fenomeno dei soggetti internati negli ospedali psichiatrici giudiziari o nelle case di cura “dimissibili”, e tuttavia non dimessi per cause non attribuibili alla loro condotta ma a inefficienze dei servizi di salute mentale pubblici. Tale finalità sarebbe coerente con l’oggetto del decreto-legge, diretto a fissare il termine per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e a dare inizio al nuovo sistema di trattamento delle persone non imputabili o semimputabili socialmente pericolose.
La novella si sarebbe data carico di tutelare la libertà e la salute dell’infermo o del seminfermo autore del reato con la predisposizione, anche nell’interesse della sicurezza collettiva, di una serie di misure volte a prestare un’adeguata assistenza sul territorio, evitando nel contempo il pregiudizio di un ulteriore periodo restrittivo.
1.– Con ordinanza del 16 luglio 2014 (r.o. n. 247 del 2014), il Tribunale di sorveglianza di Messina ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 25, 27, 29, 30, 31, 32, 34, 77 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 5 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955 n. 848, e all’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 10 dicembre 1948, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera b), del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 maggio 2014, n. 81, «nelle parti in cui stabilisce che l’accertamento della pericolosità sociale “è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale” e che “non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali”».
Ad avviso del giudice rimettente, la normativa impugnata avrebbe violato:
1. gli artt. 1 e 4 Cost., in quanto, escludendo la rilevanza a fini prognostici delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale dell’internato, imporrebbe di non tener conto dell’attività lavorativa, che, invece, costituisce «un potente fattore di prevenzione criminale, ove il lavoro onesto è presente», e di rieducazione, con conseguente rischio di precludere le possibilità di accesso al lavoro e «di inibirne l’effettività dell’esercizio»;
2. l’art. 2 Cost., in quanto la disposizione censurata non consente l’apprezzamento globale della situazione concreta del soggetto, con la conseguente difficoltà di scegliere la misura idonea a fronteggiare la pericolosità sociale, esponendo a gravi rischi diritti e beni delle persone e della comunità;
3. il principio di ragionevolezza espresso dall’art. 3 Cost. Secondo il giudice a quo, infatti, rimettendo in libertà individui «ritenuti fino a ieri pericolosi o molto pericolosi», si vanificherebbero le finalità di difesa sociale e terapeutiche. Inoltre, non consentendo di tenere conto delle condizioni di vita individuali, familiari e sociali attuali, «ancorché criminogene ed anzi, anche se favorevoli», la normativa impugnata richiamerebbe «un modello criminologico tendenzialmente “unifattoriale” di tipo individualistico», invece che multifattoriale, sì da spezzare l’unità organica del giudizio prognostico esaltata dall’art. 133 del codice penale. Sussisterebbe la violazione dell’art. 3 Cost. anche sotto il profilo della irragionevole ed ingiustificata disparità di trattamento di casi simili, «giacché nei confronti degli imputabili la pericolosità sociale continua ad essere accertata nella globalità ed interezza dei fattori prognostici, mentre nei confronti degli inimputabili e dei semimputabili tale accertamento risulta “dimidiato”»;
4. gli artt. 25 e 27 Cost., in quanto riducendo la base cognitiva del giudizio prognostico e prevedendo la durata massima delle misure di sicurezza detentive commisurata al limite edittale della pena prevista per il reato corrispondente, la normativa impugnata attribuirebbe alle misure di sicurezza delle «valenze retributive e punitive», che dovrebbero essere loro estranee; inoltre, disciplinando le misure di sicurezza relative a reati commessi prima della sua entrata in vigore, sarebbe in contrasto con il principio di irretroattività delle disposizioni penali sfavorevoli, perché l’esclusione dal giudizio prognostico delle condizioni di cui all’art. 133, secondo comma , numero 4), cod. pen., «è ambivalente e potenzialmente contra reum e quindi in malam partem»;
5. gli artt. 29, 30 e 31 Cost., in quanto la normativa impugnata, imponendo di ignorare l’ambiente familiare, che costituirebbe, «sia un potente fattore di prevenzione criminale, in presenza di una famiglia sana, accogliente e capace, sia, invece, un potente fattore criminogeno, in presenza di una famiglia disastrata o incapace o addirittura dedita al crimine», lederebbe i diritti della famiglia, impedendole di svolgere i suoi compiti;
6. l’art. 32 Cost., perché «la rimessione in libertà o in libertà vigilata, per effetto della nuova normativa, di soggetti affetti da patologie psichiatriche e bisognevoli di assistenza e cure, sebbene in condizioni di vita individuale, familiare e sociale controindicate, se non criminogene, ed in assenza di un progetto terapeutico individuale», esporrebbe tali soggetti al «rischio di commettere non solo atti eterolesivi, ma anche atti autolesivi, pregiudicando la loro salute»;
7. l’art. 34 Cost., in quanto, escludendo la rilevanza delle condizioni di cui all’art. 133, secondo comma, numero 4), cod. pen., e conseguentemente della frequenza scolastica, sarebbe leso il diritto all’istruzione, particolarmente significativo perché la scuola costituisce un essenziale strumento del trattamento penitenziario, educativo, risocializzante e terapeutico;
8. l’art. 77 Cost., in quanto, nell’ambito dell’iter legislativo della conversione di un decreto-legge che dispone la proroga del termine di chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, non potrebbe ravvisarsi la necessità e l’urgenza di introdurre «modifiche strutturali di istituti secolari come la pericolosità sociale», indirettamente stravolta dall’intervento riformatore, così spezzando «il nesso di “interrelazione funzionale e di sostanziale omogeneità tra decreto-legge e legge di conversione»;
9. infine, l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e all’art. 5 della CEDU, che tutelano il diritto alla sicurezza, in quanto la normativa impugnata esporrebbe «a gravi rischi non solo la sicurezza dei cittadini italiani, ma anche la sicurezza di tutti i cittadini che dalle Convenzioni internazionali ricevono protezione giuridica e che, per le più svariate ragioni, possono trovarsi sul territorio dello Stato italiano».
2.– La questione sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Messina non è fondata.
3.– Logicamente preliminare è la censura relativa all’asserita violazione dell’art. 77, secondo comma Cost., che a parere del Tribunale rimettente si sarebbe verificata perché, senza necessità e urgenza, durante la conversione del d.l. n. 52 del 2014, sarebbero stati approvati gli emendamenti contestati, che hanno determinato «modifiche strutturali di istituti secolari come la pericolosità sociale», disciplinata dagli artt. 133 e 203 cod. pen., «spezzando il nesso di “interrelazione funzionale” e di “sostanziale omogeneità” tra decreto-legge e legge di conversione».
La censura è priva di fondamento.
L’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 52 del 2014, nel testo risultante in seguito alla conversione, ha apportato questa modificazione al comma 4 dell’art. 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri), convertito, con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 17 febbraio 2012, n. 9: «dopo il primo periodo sono aggiunti i seguenti: “Il giudice dispone nei confronti dell’infermo di mente e del seminfermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza, anche in via provvisoria, diversa dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia, salvo quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale, il cui accertamento è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale. Allo stesso modo provvede il magistrato di sorveglianza quando interviene ai sensi dell’articolo 679 del codice di procedura penale. Non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali”».
In sede di conversione, nell’originario art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 52 del 2014, è stata inserita, dopo le parole «pericolosità sociale», la locuzione: «il cui accertamento è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale», e, alla fine della lettera b), è stato aggiunto il periodo: «Non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali».
Si tratta di emendamenti che integrano l’originaria disposizione del decreto-legge con un contenuto normativo del tutto omogeneo, e, completando la disposizione, risultano ugualmente necessari e urgenti, anche se necessità e urgenza sono requisiti che riguardano le disposizioni del decreto e non i relativi emendamenti (sentenza n. 22 del 2012).
Perciò, sotto ogni aspetto, deve escludersi la denunciata violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost.
4.– Anche le censure relative all’asserita violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 25, 27, 29, 30, 31, 32, 34 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 5 della CEDU e all’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, sono prive di fondamento.
4.1.– Il Tribunale di sorveglianza di Messina ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 52 del 2014, «nelle parti in cui stabilisce che l’accertamento della pericolosità sociale “è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale” e che “non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali”».
Come emerge dal chiaro tenore letterale del petitum e dagli argomenti sviluppati nell’ordinanza di rimessione, la questione muove dal presupposto che le disposizioni censurate abbiano modificato, relativamente ai «non imputabili e ai semimputabili», la nozione di pericolosità sociale, che costituisce il presupposto soggettivo delle misure di sicurezza. Infatti nell’ordinanza si sottolinea, tra l’altro, che con la normativa introdotta in sede di conversione del citato decreto-legge sono state effettuate «modifiche strutturali di istituti secolari come la pericolosità sociale, disciplinata dalle norme cardinali degli artt. 133 e 203 del codice penale». Si sarebbe spezzato, «a livello della prognosi giudiziaria, il rapporto inscindibile tra l’uomo e l’ambiente […] rinunziando così al dinamismo che da tale rapporto scaturisce [e contrastando] le stesse essenziali finalità delle misure di sicurezza sottese al sistema costituzionale».
4.2.– È su questo presupposto interpretativo che si innestano tutte le numerose censure d’illegittimità costituzionale sopraindicate, ma si tratta di un presupposto errato.
Basta leggere la disposizione impugnata per comprendere che le frasi sulle quali si appunta la censura non riguardano la pericolosità sociale come categoria generale, ma si riferiscono più specificamente alla pericolosità che legittima il «ricovero in un ospedale psichiatrico o in una casa di cura».
La disposizione esordisce affermando che «il giudice dispone nei confronti dell’infermo di mente e del seminfermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza», ed è chiaro che nel fare ciò il giudice deve valutare la pericolosità sociale nei modi generalmente previsti. È solo per disporre il ricovero di una persona in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura o di custodia che il giudice deve accertare, «senza tenere conto delle condizioni di cui all’art. 133, secondo comma, numero 4, del codice penale», che «ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale». La limitazione quindi non riguarda in generale la pericolosità sociale, ma ha lo scopo di riservare le misure estreme, fortemente incidenti sulla libertà personale, ai soli casi in cui sono le condizioni mentali della persona a renderle necessarie.
È una disposizione da leggere nell’ambito della normativa volta al definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari.
Gli emendamenti approvati durante la conversione del decreto-legge e contestati dal Tribunale rimettente traggono origine dalle osservazioni contenute nella Relazione sulle condizioni di vita e di cura all’interno degli Ospedali psichiatrici giudiziari della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale. I suoi lavori si sono svolti nel corso della XVI legislatura e sono significativi perché hanno dimostrato l’inidoneità degli ospedali psichiatrici giudiziari e delle case di cura e custodia a garantire la tutela della salute mentale di chi vi è ricoverato od avviato ai sensi degli artt. 222 e 219 cod. pen.
Come è stato chiarito nella relazione al Senato, la proposta emendativa tendeva a «impedire all’autorità giudiziaria di desumere la pericolosità sociale dall’apparente mancanza di adeguate possibilità di cura e sistemazione in stato di libertà». Si è voluto che l’applicazione della misura di sicurezza detentiva possa «aver luogo o protrarsi solo in base alla specifica valutazione della situazione personale dell’infermo di mente» e che non sia «conseguenza dello stato di marginalità socioeconomica in cui questi verrebbe a trovarsi se dimesso» (Resoconto stenografico, Senato della Repubblica, 23 aprile 2014).
Anche altre disposizioni dell’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011 sono dirette a favorire l’applicazione di misure diverse da quelle detentive. In questo senso è chiaro il sesto comma di tale articolo, il quale stabilisce che il programma predisposto dalle Regioni ed approvato dai Ministeri competenti deve prevedere, oltre agli interventi strutturali, «attività volte progressivamente a incrementare la realizzazione dei percorsi terapeutico-riabilitativi […] nonché a favorire l’esecuzione di misure di sicurezza alternative al ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o all’assegnazione a casa di cura e custodia». È chiaro che in questa prospettiva l’inefficienza delle amministrazioni sanitarie regionali nel predisporre programmi terapeutici individuali non può tradursi nell’applicazione di misure detentive, inutilmente gravose per l’infermo e il seminfermo di mente.
È da aggiungere cha la normativa in questione appare in linea con la giurisprudenza di questa Corte, che ha dichiarato illegittimi, sia l’art. 222 cod. pen., nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale (sentenza n. 253 del 2003), sia l’art. 206 cod. pen., nella parte in cui non consente al giudice di disporre, in luogo del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, una misura di sicurezza non detentiva prevista dalla legge per il raggiungimento dello stesso obiettivo (sentenza n. 367 del 2004).
Ciò posto, è evidente che la disposizione censurata non ha modificato, neppure indirettamente, per le persone inferme di mente o seminferme di mente, la nozione di pericolosità sociale, ma si è limitata ad incidere sui criteri di scelta tra le diverse misure di sicurezza e sulle condizioni per l’applicazione di quelle detentive.
L’erroneità del presupposto interpretativo posto a base della questione sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Messina ne comporta l’infondatezza in relazione a tutti i residui parametri evocati.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera b), del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 maggio 2014, n. 81, «nelle parti in cui stabilisce che l’accertamento della pericolosità sociale “è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale” e che “non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali”», sollevata, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 25, 27, 29, 30, 31, 32, 34, 77 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 5 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e all’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 10 dicembre 1948, dal Tribunale di sorveglianza di Messina, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2015.