Sentenza n. 200 del 2018

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SENTENZA N. 200

ANNO 2018

 

 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Giorgio                       LATTANZI                                       Presidente

-      Aldo                           CAROSI                                            Giudice

-      Marta                          CARTABIA                                              ”

-      Mario Rosario             MORELLI                                                 ”

-      Giancarlo                    CORAGGIO                                             ”

-      Silvana                        SCIARRA                                                 ”

-      Daria               de PRETIS                                                ”

-      Nicolò                         ZANON                                                    ”

-      Augusto Antonio       BARBERA                                               ”

-      Giulio              PROSPERETTI                                                    ”

-      Giovanni                     AMOROSO                                               ”

-      Francesco                    VIGANÒ                                                   ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, in legge 30 luglio 2010, n. 122; dell’art. 16, comma 1, lettera b), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, in legge 15 luglio 2011, n. 111, come specificato dall’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122 (Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, a norma dell’articolo 16, commi 1, 2, e 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111), promosso dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Liguria, nel procedimento vertente tra F. S. e il Ministero della difesa, con ordinanza del 13 gennaio 2017, iscritta al n. 71 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti l’atto di costituzione di F. S., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 20 giugno 2018 il Giudice relatore Giulio Prosperetti, sostituito per la redazione della decisione dal Giudice Giovanni Amoroso;

uditi gli avvocati Umberto Verdacchi e Alba Giordano per F. S. e l’avvocato dello Stato Vincenzo Nunziata per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.− La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Liguria, con ordinanza del 13 gennaio 2017 ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, in legge 30 luglio 2010, n. 122, e dell’art. 16, comma l, lettera b), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, in legge 15 luglio 2011, n. 111, come integrato dall’art. l, comma l, lettera a), primo periodo, del d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122 (Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendia1i per i pubblici dipendenti, a norma dell’articolo 16, commi l, 2 e 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111), nella parte in cui «dette norme non hanno previsto, nei confronti dei soggetti che sarebbero cessati dal servizio nell’arco temporale della “cristallizzazione”, la valorizzazione in quiescenza, a decorrere dalla data di cessazione del blocco, degli emolumenti pensionabili derivanti dalle progressioni di carriera conseguite durante il blocco stesso».

Espone il giudice rimettente che S. F., ufficiale della Marina militare, è cessato dal servizio per limiti di età a decorrere dall’8 febbraio 2014, essendo stato collocato in ausiliaria dalla stessa data, ai sensi degli artt. 886, comma 1, e 992, comma l, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare). Lo stesso ha convenuto in giudizio il Ministero della difesa avverso il rifiuto opposto all’istanza di rideterminazione della pensione e ha chiesto l’annullamento del provvedimento di determinazione della pensione provvisoria nella parte in cui assume, nella base pensionabile, lo stipendio e gli altri assegni pensionabili propri del grado di ammiraglio ispettore, anziché quelli propri del grado di ammiraglio ispettore capo, grado attribuitogli a seguito della promozione conseguita il 30 agosto 2012. Il ricorrente ha lamentato di non aver avuto il trattamento economico del grado di ammiraglio ispettore capo, conseguito durante il periodo di blocco, disposto dalle predette norme, degli incrementi retributivi derivanti dalle progressioni di carriera, e di aver avuto la pensione determinata in relazione alla base pensionabile correlata al trattamento economico inferiore al grado rivestito alla data di cessazione dal servizio.

Prosegue il giudice a quo che il Ministero della difesa – Direzione generale della previdenza militare e della leva, si era costituito contestando, in via pregiudiziale, la giurisdizione della Corte dei conti e, nel merito, chiedendo il rigetto del ricorso.

Il giudice a quo, all’udienza del 18 novembre 2016, con sentenza parziale n. 109 del 2016, ha rigettato le eccezioni proposte dal Ministero della difesa, affermando la giurisdizione della Corte dei conti, e, dichiarata quindi l’ammissibilità del gravame, ha sollevato, con separata ordinanza, la suddetta questione di legittimità, peraltro prospettata dal ricorrente in via subordinata.

2.− Osserva il rimettente che il periodo di efficacia del blocco degli effetti economici derivanti dalle progressioni di carriera si è concluso al 31 dicembre 2014. Conseguentemente, a decorrere dal l° gennaio 2015, il personale in servizio ha potuto godere degli emolumenti derivanti dalle progressioni di carriera conseguite nel periodo del blocco.

Illustrate le disposizioni applicabili alla fattispecie in esame, il rimettente, nell’evidenziare che la questione dedotta in giudizio verte dunque sul quantum del diritto a pensione, assume che la pretesa avanzata nel giudizio principale dal ricorrente di vedersi determinata la pensione sulla base della retribuzione corrispondente al grado di ammiraglio ispettore capo – conseguito il 30 agosto 2012, ovvero in vigenza del blocco del correlato incremento stipendiale disposto dalle norme censurate – non può, tuttavia, essere accolta atteso il contesto normativo vigente.

Il giudice a quo, al riguardo, deduce che – secondo la giurisprudenza della Corte dei conti – il trattamento stipendiale corrispondente alla progressione di carriera conseguita «ai fini esclusivamente giuridici» nel periodo del blocco, non essendo entrato a far parte della base retributiva e contributiva del ricorrente, non può, in assenza di un’espressa previsione in tal senso, entrare nel calcolo della base pensionabile e nella determinazione del trattamento di quiescenza. Infatti, ai sensi dell’art. 1866 del d.lgs. n. 66 del 2010 e dell’art. 53 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), la base pensionabile si determina con riferimento allo stipendio e agli emolumenti retributivi pensionabili integralmente percepiti in attività di servizio. Anche per effetto delle disposizioni in materia di ampliamento della base contributiva e pensionabile previste dall’art. 2, commi 9, 10 e 11, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), il trattamento di quiescenza va rapportato alla contribuzione versata durante il rapporto lavorativo e, quindi, agli emolumenti percepiti in servizio.

Il legislatore, tuttavia, introducendo un temporaneo e transeunte blocco degli effetti economici delle progressioni di carriera, non ha considerato la posizione di coloro che sarebbero cessati dal servizio prima della cessazione della «cristallizzazione economica», trascurando, in tal modo, che gli stessi avrebbero subito una «vanificazione» della conseguita progressione di carriera, con definitiva perdita della retribuzione discendente dalla progressione stessa.

La mancata previsione della valorizzazione in quiescenza degli emolumenti pensionabili derivanti dalle progressioni di carriera, a far data dalla cessazione del regime di blocco, determina – secondo il giudice rimettente – il contrasto della disciplina censurata con l’art. 3 Cost., sotto il duplice aspetto della contrarietà al principio della ragionevolezza e al principio di uguaglianza.

Infatti, da una parte tale disciplina si appalesa irragionevole a causa degli effetti definitivi che si producono nei confronti dei soggetti che, cessando dal servizio prima della cessazione del blocco, non possono godere, neanche ai fini pensionistici, degli effetti economici delle conseguite promozioni. Il sacrificio loro imposto, non avendo carattere temporaneo, va oltre la giustificata necessità di risparmi immediati per il contenimento della spesa pubblica e, quindi, va oltre la insindacabile discrezionalità del legislatore, sfociando in una arbitraria, e comunque sproporzionata, compromissione, solo per alcuni, degli interessi colpiti dalla «cristallizzazione» degli adeguamenti retributivi.

D’altra parte, vi è una disciplina ingiustificatamente differenziata: i dipendenti rimasti in servizio possono godere degli effetti economici della progressione alla data di cessazione del blocco, mentre altri, come il ricorrente, cessati dal servizio per limiti di età nel periodo del blocco, non possono goderne neanche ai fini della determinazione della base pensionabile. Né la diversa età anagrafica o la sopravvenuta cessazione dal servizio dopo il periodo di blocco rappresentano elementi idonei a giustificare il trattamento differenziato a fronte di identiche situazioni giuridiche caratterizzate dalla stessa anzianità di servizio e dall’avvenuto conseguimento della medesima progressione.

3.− Con atto di intervento depositato in data 13 giugno 2017, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto di dichiarare infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate.

La difesa statale ricorda la giurisprudenza di questa Corte, in base alla quale è stata dichiarata la legittimità delle disposizioni che hanno introdotto il blocco degli incrementi stipendiali, in quanto giustificate dalle esigenze di contenimento della spesa pubblica, e assume che «eventuali discrasie, come quelle evidenziate dal giudice remittente in ordine alle discriminazioni tra dipendenti, costituiscono ostacoli di fatto, tali comunque da non vanificare le predette inderogabili esigenze di contenimento della spesa pubblica per far fronte alla grave crisi economica».

4.− Con atto depositato in data 13 giugno 2017, si è costituito S. F., aderendo alla richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale avanzata dal giudice rimettente, per le ragioni e i profili indicati nell’ordinanza.

Aggiunge, inoltre, la parte costituita che «un ulteriore profilo di incostituzionalità si appalesa per violazione dei parametri desumibili dagli articoli 36 e 38 della Costituzione. Ed infatti: è pacifica la natura di retribuzione differita della pensione; non trova giustificazione la mancata determinazione della base pensionabile, tenendo conto del trattamento economico corrispondente al grado rivestito, per effetto della progressione di carriera maturata anche nel periodo inciso dalla “cristallizzazione”, perché l’art. 9, comma 21, terzo periodo del D.L. n. 78/2010, non lo prevede espressamente».

5.− In prossimità dell’udienza, la medesima parte ha depositato una memoria nella quale ha ribadito le argomentazioni già svolte a sostegno della fondatezza della dedotta questione di legittimità costituzionale.

Considerato in diritto

1.− Con ordinanza del 13 gennaio 2017 la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Liguria, ha sollevato questioni incidentali di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, in legge 30 luglio 2010, n. 122, e dell’art. 16, comma 1 , lettera b), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, in legge 15 luglio 2011, n. 111, come integrato dall’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122 (Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, a norma dell’art. 16, commi 1, 2 e 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111).

Secondo la Corte dei conti rimettente, le disposizioni censurate contrasterebbero con l’art. 3 della Costituzione nella parte in cui non hanno previsto, nei confronti dei soggetti cessati dal servizio nell’arco temporale della «cristallizzazione» degli incrementi retributivi (relativo agli anni 2011-2014), la valorizzazione in quiescenza, a decorrere dalla data di cessazione del blocco stipendiale, degli emolumenti pensionabili derivanti dalle progressioni di carriera conseguite durante il blocco stesso.

Le questioni sono state sollevate nel procedimento promosso da F. S., ufficiale della Marina militare con il grado di ammiraglio ispettore, cessato dal servizio per limiti di età a decorrere dall’8 febbraio 2014, contro il Ministero della difesa, per ottenere l’annullamento del provvedimento (del 31 luglio 2015) di determinazione della pensione provvisoria della Direzione di commissariato Marina militare di Roma e la conseguente rideterminazione della pensione, considerando, come base di calcolo del trattamento di quiescenza, lo stipendio e gli altri assegni pensionabili propri del grado di ammiraglio ispettore, anziché quelli propri del grado di ammiraglio ispettore capo, conseguito a seguito della promozione del 30 agosto 2012. L’Amministrazione militare non aveva tenuto conto, al fine della determinazione provvisoria della pensione, della promozione conseguita dal ricorrente, perché ricadente nell’intervallo di tempo della vigenza della disciplina censurata, che prevedeva che gli avanzamenti di carriera avevano effetto «ai fini esclusivamente giuridici» e quindi non anche economici.

2.− Preliminarmente, sotto il profilo dell’ammissibilità, va considerato che la Corte dei conti rimettente deve fare applicazione dell’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013, che proroga il blocco stipendiale per l’anno 2014, perché il ricorrente è cessato dal servizio per limiti di età a decorrere dall’8 febbraio 2014, ossia proprio nel corso dell’anno che ha visto prorogata la disciplina legale limitativa degli incrementi retributivi.

E infatti, l’art. 16, comma 1, lettera b), del d.l. n. 98 del 2011, non ha prorogato direttamente il blocco disposto dall’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010 per il triennio 2011-2013, ancora in corso alla data di entrata in vigore del medesimo d.l. n. 98 del 2011, ma ha previsto che «[…] con uno o più regolamenti da emanare ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta dei Ministri per la pubblica amministrazione e l’innovazione e dell’economia e delle finanze, può essere disposta: […] b) la proroga fino al 31 dicembre 2014 delle vigenti disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici anche accessori del personale delle pubbliche amministrazioni previste dalle disposizioni medesime». Quindi, la proroga del blocco per l’anno 2014 era rimessa a una scelta discrezionale del Governo, proroga che – disponeva l’art. 16, comma 1, lettera b), citato – «può» – non necessariamente deve – «essere disposta».

Approssimandosi la scadenza del triennio 2011-2013, il Governo è intervenuto con il regolamento emanato con il d.P.R. n. 122 del 2013, che, all’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, ha previsto: «le disposizioni recate dall’articolo 9, commi 1, 2 nella parte vigente, 2-bis e 21 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, sono prorogate fino al 31 dicembre 2014»; ossia per un ulteriore anno oltre l’iniziale triennio (2011-2013) al quale si riferiva la disposizione richiamata. La quale in tanto è anch’essa applicabile nel caso di specie in quanto richiamata dal combinato disposto dell’art. 16, comma 1, lettera b), del citato d.l. n. 98 del 2011, e dell’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013.

Nella specie, il trattamento pensionistico spettante al ricorrente, della cui esatta quantificazione si dibatte nel giudizio a quo, decorre dalla data del collocamento in quiescenza (8 febbraio 2014) ed è la disciplina del blocco stipendiale vigente a quella data che viene in rilievo, anche se ai fini retributivi – ma di ciò non si fa questione – il ricorrente ha subito il rigore del blocco stipendiale pure nel corso del triennio precedente a partire dalla data della progressione al grado superiore.

Quindi, nel giudizio a quo, essendo applicabile la disciplina della proroga del blocco per l’anno 2014, viene in rilievo proprio l’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013, che prevede la proroga al 2014 della disciplina limitativa degli incrementi retributivi, e non già direttamente l’originaria disciplina del blocco stipendiale per il triennio 2011-2013, quest’ultima, invece, di rango solo primario.

Il citato art. 1 ha però natura regolamentare, come espressamente previsto dalla disposizione di legge (art. 16, comma 1, lettera b, citato) che ha autorizzato il Governo a emanarla, e, quindi, costituisce una norma subprimaria, priva di «forza di legge» ai sensi dell’art. 134 Cost.

3.− Tale natura subprimaria della disciplina posta dal regolamento citato potrebbe far dubitare dell’ammissibilità delle questioni sollevate dal giudice rimettente, in quanto verrebbe in rilievo il limite del sindacato accentrato di costituzionalità posto dall’art. 134 Cost.

Questa Corte ha, infatti, già avuto modo di chiarire che la propria giurisdizione è limitata alla cognizione dell’illegittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge e non si estende a norme di natura regolamentare, neppure ai regolamenti di delegificazione (sentenza n. 427 del 2000; ordinanze n. 254 del 2016, n. 156 del 2013, n. 37 del 2007, n. 401 e n. 125 del 2006, e n. 389 del 2004). Il sindacato di costituzionalità della normativa subprimaria è rimesso alla cognizione del giudice comune: alla giurisdizione di annullamento del giudice amministrativo e al potere di disapplicazione incidentale di ogni altro giudice.

4.− Non di meno, nella fattispecie, la disposizione censurata può essere oggetto di questione incidentale di costituzionalità innanzi a questa Corte.

Vi è infatti che, con l’arresto giurisprudenziale rappresentato dalla sentenza n. 1104 del 1988, in seguito ripetutamente confermato (da ultimo, sentenza n. 178 del 2015), questa Corte ha affermato che, ove la regolamentazione censurata di illegittimità costituzionale sia rappresentata, nella sostanza, dal combinato disposto di una norma primaria e di una subprimaria e se la prima «risulta in concreto applicabile attraverso le specificazioni formulate nella fonte secondaria», è possibile il sindacato di costituzionalità sulla norma primaria tenendo conto che quella subprimaria ne costituisce un «completamento del contenuto prescrittivo». La citata pronuncia ha ritenuto sussistente questo nesso di specificazione qualificata e, entrando nel merito delle censure, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma primaria.

Analogamente, la sentenza n. 34 del 2011 ha ritenuto che un determinato regolamento ministeriale costituisse «specificazione di una normativa di rango primario ed in particolare della disposizione censurata sicché, unitamente a quest’ultima, può costituire oggetto del giudizio incidentale di costituzionalità». In senso conforme, è anche la sentenza n. 242 del 2014, che ha affermato che «le disposizioni regolamentari contestualmente impugnate contribuiscono a chiarire il contenuto applicativo della disposizione legislativa, della quale costituiscono specificazione; pertanto, è solo unitamente a quest’ultima che le stesse possono rientrare nella valutazione rimessa a questa Corte». Più recentemente, con sentenza n. 178 del 2015, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale (sopravvenuta) del regime di sospensione della contrattazione collettiva, risultante dalla norma primaria, come specificato dalla norma subprimaria.

Anche nella fattispecie in esame sussiste questo nesso stretto di specificazione qualificata, che lega la norma primaria e quella subprimaria.

La regola che la Corte dei conti rimettente è chiamata ad applicare per stabilire se, anche ai fini pensionistici, operi, o no, il limite agli incrementi retributivi nel corso del rapporto di lavoro, è recata dalla disposizione regolamentare che proroga il blocco stipendiale anche per l’anno 2014, autorizzata a ciò dalla disposizione di legge che demanda al regolamento – e quindi al potere esecutivo – tale scelta di politica economica. Sicché, può ben dirsi che la norma regolamentare costituisce il «completamento del contenuto prescrittivo» della norma primaria (sentenza n. 1104 del 1988).

È la disposizione regolamentare (subprimaria) che riempie di contenuto la disposizione di legge (primaria). La regola della limitazione degli incrementi retributivi nel corso del 2014 è recata dal loro stretto combinato disposto, sicché la disposizione avente forza di legge attrae al livello primario la disposizione regolamentare, quantunque di rango subprimario.

La norma di risulta, che tale regola reca, può pertanto essere oggetto di questione incidentale di legittimità costituzionale, la quale pertanto è ammissibile.

5.− Nel merito, la questione sollevata dal giudice rimettente, con riferimento all’art. 3 Cost., non è fondata.

Non rilevano, invece, gli altri parametri indicati dalla parte privata costituita che ha chiesto di valutare la legittimità costituzionale della normativa censurata anche con riferimento agli artt. 36 e 38 Cost., non avendo in generale le parti costituite o intervenute in giudizio il potere di ampliare il thema decidendum, quale posto dal giudice rimettente (ex plurimis, sentenze n. 231, n. 83, n. 37 e n. 34 del 2015, n. 271 del 2011, n. 236 e n. 56 del 2009).

6.− Va rilevato, anzitutto, che la regola limitativa degli incrementi stipendiali – applicabile nel giudizio a quo per il tramite del rinvio del combinato disposto dell’art. 16, comma 1, lettera b), del d.l. n. 98 del 2011, e dell’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013 – è posta dall’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, dichiaratamente al fine di contenere le spese in materia di impiego pubblico, come risulta dalla stessa rubrica della disposizione.

Tale disposizione stabilisce: «I meccanismi di adeguamento retributivo per il personale non contrattualizzato di cui all’articolo 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, così come previsti dall’articolo 24 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, non si applicano per gli anni 2011, 2012 e 2013 ancorché a titolo di acconto, e non danno comunque luogo a successivi recuperi. Per le categorie di personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni, che fruiscono di un meccanismo di progressione automatica degli stipendi, gli anni 2011, 2012 e 2013 non sono utili ai fini della maturazione delle classi e degli scatti di stipendio previsti dai rispettivi ordinamenti. Per il personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni le progressioni di carriera comunque denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici. Per il personale contrattualizzato le progressioni di carriera comunque denominate ed i passaggi tra le aree eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici».

Tutto il pubblico impiego è stato coinvolto da questa articolata regola di conformazione della retribuzione.

Infatti, si prevede che per il pubblico impiego non contrattualizzato la retribuzione è determinata senza tener conto né dei meccanismi di adeguamento retributivo – quello di cui all’art. 24 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), o altri di progressione automatica degli stipendi – né delle «progressioni di carriera comunque denominate».

Simmetricamente, per il lavoro pubblico contrattualizzato si prevede che la retribuzione è determinata senza tener conto né delle «progressioni di carriera comunque denominate» (esattamente come per il pubblico impiego non contrattualizzato), né dei passaggi tra le aree, che sono parimenti assimilabili a progressioni di carriera.

Così articolata, è questa la regola complessiva per determinare, in chiave di contenimento della spesa, la retribuzione “spettante” in tutto il pubblico impiego, contrattualizzato e non, nel triennio 2011-2013, regola prorogata all’anno 2014.

A ciò si sono aggiunte altre misure di contenimento delle spese per il pubblico impiego, quale il blocco della contrattazione collettiva con conseguente congelamento dei livelli retributivi. Lo stesso art. 9, al precedente comma 17, ha previsto che «[n]on si dà luogo, senza possibilità di recupero, alle procedure contrattuali e negoziali relative al triennio 2010-2012» per il pubblico impiego contrattualizzato, aggiungendo che, per il successivo triennio (2013-2015), la contrattazione sarebbe stata possibile per la sola parte normativa e «senza possibilità di recupero per la parte economica». Il regime di sospensione della contrattazione collettiva è stato poi dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla sentenza n. 178 del 2015, ma soltanto a partire dal giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

L’ampia e complessiva manovra diretta al contenimento delle spese per il pubblico impiego ha quindi superato il vaglio di costituzionalità, quanto al congelamento delle retribuzioni previsto dal comma 21 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010 (sentenze n. 96 del 2016, n. 154 del 2014, n. 310 e n. 304 del 2013; ordinanza n. 113 del 2014) e soltanto il regime di sospensione della contrattazione collettiva, di cui al comma 17 della medesima disposizione, è poi stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, ma unicamente a partire dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza (n. 178 del 2015). Si è confermato così indirettamente il blocco per il periodo precedente e, in particolare, per il 2014, che è l’anno in cui il ricorrente nel giudizio a quo è stato collocato in quiescenza e al quale occorre fare riferimento per stabilire la retribuzione utile al fine della quantificazione del trattamento pensionistico, calcolato sia con il criterio contributivo, sia residualmente ancora secondo il sistema retributivo.

7.− Va subito precisato che la censurata disposizione dettata per contenere la spesa per il pubblico impiego (art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, citato) è costruita come regola per conformare la retribuzione spettante e non già come prelievo straordinario su una retribuzione più elevata.

Ove si fosse trattato di un prelievo straordinario sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti, sarebbe venuta in rilievo la sua possibile natura tributaria. Tuttavia la giurisprudenza di questa Corte ha già esaminato la disposizione censurata e ne ha escluso la valenza tributaria con conseguente infondatezza anche, in particolare, delle questioni di costituzionalità sollevate sulla base di tale presupposto (sentenza n. 304 del 2013). Ha affermato la Corte, in quest’ultima pronuncia, che «[l]a norma censurata […] non ha natura tributaria in quanto non prevede una decurtazione o un prelievo a carico del dipendente pubblico» (in senso conforme, con riferimento alla stessa disposizione, le sentenze n. 96 del 2016 e n. 154 del 2014).

L’articolazione testuale dell’art. 9, comma 21, citato e la sua evidente ratio confermano l’esclusione della natura tributaria. Si tratta, invece, di una regola legale conformativa della retribuzione dei pubblici dipendenti nel quadriennio in questione, che integra, temporaneamente e in via eccezionale, la disciplina, legale o contrattuale, del trattamento retributivo, per perseguire la finalità di contenerne il costo complessivo.

Muovendo da tale presupposto, questa Corte ha dichiarato non fondate varie questioni di costituzionalità, sollevate con riferimento essenzialmente all’art. 36 Cost. (sentenza n. 304 del 2013). Il legislatore può temporaneamente congelare gli incrementi retributivi che, senza la regola limitativa posta dall’art. 9, comma 21, sarebbero altrimenti spettati ai pubblici dipendenti, sempre che la retribuzione di risulta assicuri comunque il rispetto del canone di proporzionalità e sufficienza di cui all’art. 36 Cost.

Con riferimento alla stessa disposizione censurata, ha affermato questa Corte (sentenza n. 96 del 2016) che «esigenze di politica economica giustificano interventi che, come quello in esame, comprimono solo temporaneamente gli effetti retributivi della progressione in carriera».

Questa Corte ha, quindi, già ritenuto che la limitazione degli incrementi stipendiali non sia tale da compromettere l’adeguatezza complessiva della retribuzione, sicché non vi è ragione di dubitare della legittimità di questa regola legale conformativa della retribuzione dei pubblici dipendenti.

8.− Il contenimento della retribuzione nel quadriennio suddetto ha comportato, come conseguenza, che la retribuzione calcolata con il criterio limitativo in questione è stata anche la base di calcolo della contribuzione previdenziale ed è quella rilevante al fine della quantificazione del trattamento pensionistico, sia nel generalizzato sistema contributivo, sia in quello residuale ancora retributivo.

Il differenziale tra la retribuzione percepita (perché “spettante” in ragione del criterio limitativo suddetto) e quella che altrimenti sarebbe stata percepita dal pubblico dipendente, ove tale criterio non fosse stato applicabile, rappresenta una quota di retribuzione virtuale non rilevante ai fini pensionistici, perché non spettante né percepita. Manca una disposizione che deroghi a tale effetto naturale della limitazione legale della retribuzione spettante nel quadriennio in questione, a differenza di quanto è invece previsto – come eccezione alla regola – da altre disposizioni dello stesso censurato art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, sia al comma 1 (secondo cui la riduzione percentuale delle retribuzioni superiori a una determinata soglia «non opera ai fini previdenziali»), sia dal comma 22, quanto alle soppressioni di acconti e conguagli per il personale magistratuale, che parimenti «non opera ai fini previdenziali» (e che, comunque, è stata ritenuta costituzionalmente illegittima, perché «eccede i limiti del raffreddamento delle dinamiche retributive»: sentenza n. 223 del 2012).

Né, in generale, per il pubblico impiego è prevista alcuna contribuzione figurativa su tale quota differenziale, altrimenti necessaria ove in ipotesi essa dovesse rilevare ai fini pensionistici.

In realtà, il giudice rimettente non dubita della legittimità della quantificazione del trattamento pensionistico al momento del collocamento in quiescenza; ciò che manca nella disposizione censurata – e comporterebbe la violazione del principio di eguaglianza – è un meccanismo di ricalcolo del trattamento pensionistico al momento di cessazione di operatività del blocco stipendiale, ossia a partire dal 1° gennaio 2015, sulla base della retribuzione che sarebbe spettata al ricorrente in ragione della progressione di carriera.

Secondo il giudice rimettente tutti i trattamenti pensionistici dei dipendenti pubblici non contrattualizzati, che abbiano avuto una progressione di carriera nel quadriennio 2011-2014, dovrebbero essere riliquidati con decorrenza a partire dalla data suddetta, perché sia rispettato il principio di eguaglianza, tenendo conto della superiore posizione raggiunta.

9.− Indubbiamente – come giustamente rileva il giudice rimettente – l’aver questa Corte già ritenuto infondate questioni di legittimità costituzionale di tale regime limitativo, quanto ai trattamenti retributivi, non assicura di per sé la legittimità della norma censurata nella misura in cui incide anche sul rapporto contributivo, e segnatamente sui trattamenti pensionistici.

Vi è però che, come la tenuta della prevista limitazione degli incrementi retributivi deve essere parametrata soprattutto al canone costituzionale della retribuzione proporzionata e sufficiente (art. 36 Cost.) – e in passato varie questioni in tal senso sono state sollevate, e da questa Corte dichiarate non fondate (per tutte, sentenza n. 310 del 2013) – così la ricaduta di tale limitazione sui trattamenti pensionistici ha come parametro di riferimento essenzialmente l’art. 38 Cost., unitamente allo stesso art. 36 Cost. Il trattamento pensionistico risultante dalla ricaduta, sul piano del rapporto previdenziale, della regola limitativa degli incrementi retributivi deve comunque, se complessivamente considerato, essere proporzionale alla contribuzione previdenziale, nonché sufficiente ad assicurare al pensionato una vita dignitosa.

Al contrario, il giudice rimettente non invoca questi parametri (lo fa – inammissibilmente – la parte costituita); non dubita, dunque, della complessiva adeguatezza del trattamento pensionistico spettante al ricorrente in ragione dell’applicazione del blocco stipendiale.

10.− La Corte dei conti rimettente invoca un diverso parametro – l’art. 3 Cost. – e pone (solo) una questione di ingiustificato trattamento differenziato di situazioni che invece, in ragione del principio di eguaglianza, andrebbero trattate allo stesso modo. Infatti, pone in comparazione i pubblici dipendenti che sono stati collocati in quiescenza nel quadriennio (e segnatamente nel 2014, come il ricorrente nel giudizio a quo) e quelli collocati dopo tale quadriennio.

Inoltre, non può non rilevarsi che la Corte dei conti rimettente ritaglia la sollevata questione di costituzionalità riferendola alla più limitata categoria dei pubblici dipendenti non contrattualizzati. Infatti, il dispositivo dell’ordinanza di rimessione limita la censura di illegittimità costituzionale alla fattispecie del terzo periodo del comma 21 dell’art. 9 citato che – come già detto – prescrive che per tale personale le «progressioni di carriera comunque denominate», disposte nel triennio (puoi divenuto quadriennio) in questione, abbiano effetto «ai fini esclusivamente giuridici» e quindi non comportino incrementi retributivi.

Ma il successivo quarto periodo del censurato comma 21 dell’art. 9 citato pone la stessa regola limitativa anche per le medesime «progressioni di carriera comunque denominate» conseguite in tale periodo dal personale contrattualizzato, a esse, inoltre, parificando i «passaggi tra le aree» che costituiscono parimenti una progressione di carriera.

La normativa del blocco stipendiale riguarda quindi, all’evidenza, tutto il pubblico impiego, sia quello non contrattualizzato preso specificamente in considerazione dalla Corte dei conti rimettente, sia quello contrattualizzato, perché la regola limitativa che il giudice rimettente censura è la stessa.

Per il resto, l’ordinanza di rimessione pone la questione in termini generali, ossia con riferimento a qualsiasi ricaduta sul trattamento pensionistico – a prescindere dal criterio di calcolo, se contributivo o, residualmente, retributivo – del «congelamento» delle retribuzioni previsto dall’art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, essendo quest’ultimo censurato, unitamente alle altre disposizioni sopra richiamate, nella parte in cui non è prevista, in favore dei dipendenti pubblici, cessati dal servizio nell’arco temporale della cristallizzazione degli incrementi retributivi, la «valorizzazione in quiescenza, a decorrere dalla data di cessazione del blocco, degli emolumenti pensionabili derivanti dalle progressioni di carriera conseguite durante il blocco stesso».

Può anche aggiungersi che nel giudizio a quo viene in rilievo, in particolare, il trattamento pensionistico del personale militare, per il quale ai sensi dell’art. 1866 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), e dell’art. 53 del D.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), la base pensionabile si determina con riferimento allo stipendio e agli emolumenti retributivi pensionabili integralmente percepiti in attività di servizio. Questa peculiarità, però, non rileva al fine dello scrutinio della questione di costituzionalità, che dal giudice rimettente è posta con riferimento alla disposizione censurata che riguarda tutto il personale non contrattualizzato, tra cui quello militare.

11.− Ciò posto, è determinante considerare che il “fluire del tempo” differenzia il regime pensionistico prima e dopo la scadenza del quadriennio e giustifica il fatto che per i dipendenti collocati in quiescenza nel quadriennio la retribuzione pensionabile – calcolata vuoi con il sistema contributivo, vuoi ancora residualmente con il sistema retributivo – debba tener conto della retribuzione “spettante” secondo la disciplina applicabile ratione temporis, mentre per i dipendenti collocati dopo la scadenza del quadriennio il parametro di riferimento è la retribuzione spettante fino alla data del loro pensionamento.

Una volta sterilizzati ex lege, per effetto della disposizione censurata, gli automatismi retributivi nel quadriennio in questione, la retribuzione utile ai fini previdenziali è quella risultante dall’applicazione di tale regola limitativa, senza che a tal fine rilevi il momento del collocamento in quiescenza, se nel corso del quadriennio o successivamente alla sua scadenza.

Parimenti, una volta posta la regola dell’invarianza della retribuzione dei pubblici dipendenti in caso di progressione di carriera – senza che si dubiti della legittimità costituzionale di tale regola di iniziale immodificabilità in melius della retribuzione, vuoi perché non ne dubita la Corte dei conti rimettente, vuoi perché questa Corte ha già ritenuto non fondate questioni di costituzionalità riguardanti la retribuzione e non già la pensione (per tutte, sentenza n. 310 del 2013) – la ricaduta sul piano del rapporto previdenziale è generalizzata e non consente di porre utilmente a raffronto il trattamento pensionistico, spettante ai dipendenti collocati in quiescenza nel corso del quadriennio in questione, con quello riconosciuto ai dipendenti collocati in quiescenza dopo la scadenza di tale periodo. Così come, con riferimento al blocco della contrattazione collettiva, non potrebbero esser posti in comparazione i trattamenti pensionistici liquidati prima e dopo un incremento retributivo previsto dalla contrattazione collettiva, una volta cessato il periodo di sospensione.

12.− È solo in termini suggestivi che l’ordinanza di rimessione lamenta che il dipendente collocato in quiescenza nel corso del quadriennio subisca a tempo indeterminato il rigore della regola censurata che congela solo temporaneamente gli incrementi retributivi.

Questa prospettazione avrebbe una sua plausibilità solo se la regola posta dalla disposizione censurata fosse quella di un prelievo straordinario sulle retribuzioni in caso di progressione di carriera: cessata l’operatività del prelievo, la retribuzione si riespande a un livello superiore e si potrebbe dubitare della legittimità costituzionale di un prelievo che per una parte del pubblico impiego in servizio nel quadriennio sarebbe ad tempus e per altra parte – i pubblici dipendenti collocati in quiescenza nel corso del quadriennio – sarebbe sofferta indefinitivamente senza limitazione di tempo.

Ma – come già sopra rilevato – la costruzione della disposizione censurata come introduttiva di un prelievo straordinario sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti, con conseguente sua natura tributaria, è stata già esclusa da questa Corte (sentenze n. 154 del 2014 e n. 304 del 2013), a differenza della decurtazione retributiva di cui al successivo comma 22 del medesimo art. 9, di cui è stata ritenuta invece la natura tributaria (con conseguente fondatezza della questione di legittimità costituzionale: sentenza n. 223 del 2012).

La regola dell’iniziale invarianza della retribuzione in caso di progressione di carriera (o di passaggio a un’area superiore) – ossia la regola che così fissa la retribuzione del pubblico dipendente “promosso”, privo inizialmente di anzianità di servizio nella più elevata posizione di lavoro conseguita – vale a definire la retribuzione d’ingresso ad esso spettante, in quanto il soggetto interessato ha diritto non già a una retribuzione superiore su cui grava un prelievo forzoso, ma proprio a quella retribuzione che percepiva prima della “promozione”; regola questa che è sì di rigore, ma la cui legittimità costituzionale, o no, va verificata sul piano del rapporto di impiego in corso e della disciplina del trattamento retributivo. Ma una volta che non si dubita dell’adeguatezza della retribuzione spettante al pubblico dipendente “promosso”, la stessa varrà anche sul piano (contributivo e) previdenziale, al fine di quantificare il trattamento pensionistico al quale il dipendente stesso ha diritto, quale che sia il sistema di calcolo, se contributivo o ancora residualmente retributivo. Questa Corte, con riferimento alla stessa disposizione attualmente censurata (art. 9, comma 21, terzo periodo, citato) ha affermato che «non è prevista l’obbligatoria corrispondenza tra grado e funzioni e, conseguentemente, tra grado e trattamento economico collegato all’esercizio delle funzioni» (sentenza n. 304 del 2013). E ha ritenuto anche che non fosse violato il principio di eguaglianza in ragione della denunciata disparità di trattamento tra dipendenti che avevano conseguito una progressione di carriera raggiungendo un grado più elevato prima o dopo l’inizio del blocco stipendiale (sentenza n. 154 del 2014). Più recentemente, con riferimento alla stessa normativa, si è ribadito (sentenza n. 96 del 2016) che «questa Corte ha valorizzato il criterio oggettivo che si ricava dalla maggiore anzianità di servizio dei soggetti destinatari di un miglior trattamento economico corrispondente all’ottenuta promozione (sentenza n. 304 del 2013), criterio cui si affianca quello della maggiore anzianità nel grado (sentenza n. 154 del 2014)».

La circostanza che, superato il quadriennio, al dipendente “promosso” sia attribuita una retribuzione superiore, rilevante anche sul piano (contributivo e) previdenziale e del trattamento pensionistico, si giustifica – senza che perciò sia leso il principio di eguaglianza – per l’incidenza del “fluire del tempo” che costituisce sufficiente elemento idoneo a differenziare situazioni non comparabili e a rendere applicabile alle stesse una disciplina diversa (ex plurimis, sentenze n. 104 del 2018, n. 53 del 2017, n. 254 del 2014).

13.− Conclusivamente, le questioni di costituzionalità sollevate dalla Corte dei conti rimettente vanno dichiarate non fondate.

Spetterebbe comunque al legislatore, nell’esercizio discrezionale delle scelte di politica economica e di compatibilità con l’esigenza di equilibrio della finanza pubblica, prevedere eventualmente quanto richiede il giudice rimettente: la riliquidazione dei trattamenti pensionistici dei pubblici dipendenti, collocati in quiescenza nel quadriennio del blocco degli incrementi stipendiali, e che nello stesso periodo abbiano conseguito una progressione di carriera o un passaggio a un’area superiore.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, in legge 30 luglio 2010, n. 122, e dell’art. 16, comma 1, lettera b), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, in legge 15 luglio 2011, n. 111, come integrato dall’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122 (Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, a norma dell’art. 16, commi 1, 2 e 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111), sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Liguria, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 ottobre 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Giovanni AMOROSO, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 novembre 2018.