Sentenza n. 181 del 2021

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SENTENZA N. 181

ANNO 2021

Commento alla decisione di

Davide Monego

Parificazione dei rendiconti regionali e incidente di costituzionalità

per g.c.  del Forum di Quaderni costituzionali

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera b), della legge della Regione Lazio 8 novembre 2004, n. 12 (Disposizioni in materia di definizione di illeciti edilizi), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda-quater, nel procedimento vertente tra M. F. e C. B., in proprio e nella qualità di erede, unitamente a M. B., di M. F., e il Comune di Monte Compatri, con ordinanza del 20 dicembre 2019, iscritta al n. 45 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Udita nella camera di consiglio del 7 luglio 2021 la Giudice relatrice Daria de Pretis;

deliberato nella camera di consiglio del 7 luglio 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 20 dicembre 2019, iscritta al n. 45 del registro ordinanze 2020, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda-quater, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera b), della legge della Regione Lazio 8 novembre 2004, n. 12 (Disposizioni in materia di definizione di illeciti edilizi), in riferimento agli artt. 3, 42, 97, 103 e 113 della Costituzione.

1.1.– Il rimettente premette di essere investito di due ricorsi promossi dai signori M. F. e C. B. (quest’ultimo sia in proprio sia, unitamente a M. B., come erede di M. F.) nei confronti del Comune di Monte Compatri, per l’annullamento di due provvedimenti di diniego di altrettante domande di condono edilizio, entrambi del 20 febbraio 2009, notificati ai ricorrenti il successivo 25 febbraio. I due ricorsi sono stati riuniti in ragione del fatto che concernono il medesimo edificio e che gli atti di diniego gravati presentano una motivazione coincidente.

Gli atti impugnati nel giudizio a quo sono relativi a istanze di condono presentate ai sensi dell’art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326, e sono motivati sulla base del rilievo che le unità immobiliari oggetto delle relative istanze, situate al piano primo ed al piano terra dello stesso edificio, insistono in zona di interesse archeologico, ai sensi dell’art. 41 delle norme del piano territoriale paesistico regionale (PTPR), adottato dapprima con la deliberazione della Giunta 25 luglio 2007, n. 556, recante «Adozione del Piano Territoriale Paesistico Regionale, ai sensi degli articoli 21, 22 e 23 della legge regionale 6 luglio 1998, n. 24 (recante “Pianificazione paesistica e tutela dei beni e delle aree sottoposti a vincolo paesistico”), ed in ottemperanza agli articoli 135, 143, e 156 del decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) e successive modificazioni in coerenza con quanto indicato nell’art. 36-quater, comma 1-quater, della legge regionale 24/1998», indi con la deliberazione della Giunta 21 dicembre 2007, n. 1025, recante «Modificazione, integrazione e rettifica della deliberazione Giunta regionale n. 556 del 25 luglio 2007 inerente: Adozione del Piano Territoriale Paesistico Regionale, ai sensi degli articoli 21, 22 e 23 della legge regionale 6 luglio 1998, n. 24 (recante “Pianificazione paesistica e tutela dei beni e delle aree sottoposti a vincolo paesistico”), ed in ottemperanza agli articoli 135, 143 e 156 del decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 (Codici dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) e successive modificazioni in coerenza con quanto indicato nell’art. 36-quater, comma 1-quater, della legge regionale 24/1998».

Da quanto detto deriverebbe la non sanabilità degli immobili in parola, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera a) (recte: b), della legge reg. Lazio n. 12 del 2004, secondo cui «non sono comunque suscettibili di sanatoria» le opere «realizzate, anche prima della apposizione del vincolo, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela dei monumenti naturali, dei siti di importanza comunitaria e delle zone a protezione speciale, non ricadenti all’interno dei piani urbanistici attuativi vigenti, nonché a tutela dei parchi e delle aree naturali protette nazionali, regionali e provinciali».

Le domande oggetto degli atti di diniego, relative a unità immobiliari destinate ad abitazione dei richiedenti, sono state presentate il 7 dicembre 2004 e integrate il 25 ottobre 2005, con la produzione del certificato di idoneità sismica, e, infine, il 9 gennaio 2006 – per quanto concerne l’istanza presentata da M. F. – e il 23 maggio 2006 – per quanto concerne la pratica presentata da C. B. –, con la produzione dell’attestazione di pagamento della terza rata degli oneri concessori.

Le parti ricorrenti nel giudizio a quo hanno articolato gli stessi motivi di ricorso.

Innanzitutto, è dedotto l’eccesso di potere e il travisamento delle circostanze di fatto, poiché a fondamento dei provvedimenti di diniego vi sarebbe il mancato invio di documentazione essenziale ai fini istruttori (nella specie la perizia giurata), che invece sarebbe stata depositata ancora prima della richiesta del Comune (formulata il 25 ottobre 2005).

In secondo luogo, è lamentato l’«eccesso di potere per difetto e/o carenza di istruttoria». In particolare, l’amministrazione non avrebbe quantificato «in maniera precisa e circostanziata l’ipotizzato eccesso di cubatura».

In terzo luogo, è censurata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della legge reg. Lazio n. 12 del 2004, unitamente all’«eccesso di potere per illegittimità interna». Nel caso di specie, l’amministrazione comunale avrebbe errato nel rilevare l’eccesso di cubatura degli immobili per cui è causa, deducendolo dalla complessiva cubatura considerata dai ricorrenti per il calcolo dell’oblazione e degli oneri concessori, senza considerare che le unità immobiliari de quibus sono l’unica residenza dei ricorrenti medesimi. Di conseguenza, il Comune avrebbe dovuto fare riferimento al disposto dell’art. 2 della legge reg. Lazio n. 12 del 2004, nella parte in cui fissa il limite di 900 metri cubi per l’immobile nel suo complesso, in relazione a unità immobiliari adibite a prima casa di abitazione del richiedente. Inoltre, nella relazione di idoneità sismica sarebbe stato considerato, nel volume complessivo dell’immobile, anche il piano interrato, la cui volumetria non dovrebbe, invece, essere calcolata ai fini della determinazione delle superfici sanabili.

Infine, è lamentata la violazione dell’art. 33, comma 1, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive) e «del principio di non contraddittorietà dei provvedimenti provenienti dalla medesima attività amministrativa, nonché [la] carente motivazione». In particolare, entrambi i provvedimenti impugnati avrebbero illegittimamente considerato, «quale ulteriore motivo di diniego della concessione del permesso di costruire in sanatoria», l’insistenza degli immobili in parola su una zona archeologica ai sensi dell’art. 41 delle norme del PTPR della Regione Lazio, adottato con le citate delibere della Giunta regionale n. 556 e n. 1025 del 2007. Secondo i ricorrenti, «non potrebbe tenersi conto di un vincolo successivo, come nella specie, alla realizzazione del fabbricato, e pertanto le limitazioni scaturenti dal Piano paesistico regionale non potrebbero incidere sull’ammissibilità delle domande di condono, oggetto di esame da parte dell’amministrazione comunale, precedenti rispetto all’entrata in vigore del Piano paesistico».

Aderendo alla tesi contraria, la sanabilità dell’abuso «dipenderebbe dal momento in cui l’amministrazione competente abbia ad esaminare la domanda di condono», e, di conseguenza, si avrebbe «una disparità di trattamento rispetto a quanti, pur avendo presentato domanda di condono, in relazione ad immobili siti nella medesima zona, abbiano ottenuto il permesso di costruire in sanatoria solo per il fatto che la loro domanda sia stata esitata prima dell’adozione del Piano paesistico regionale».

Al riguardo, i ricorrenti richiamano «il costante orientamento giurisprudenziale in tema di condonabilità degli abusi edilizi», secondo cui dal disposto dell’art. 33, comma 1, della legge n. 47 del 1985, al quale fa rinvio anche l’art. 32, comma 27, del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, si deduce che l’inedificabilità ostativa alla sanatoria è quella derivante da vincoli archeologici, paesistici ed ambientali che siano stati imposti prima dell’esecuzione delle opere.

In ogni caso, i provvedimenti di diniego impugnati sarebbero illegittimi, perché l’amministrazione avrebbe omesso di motivare in ordine all’effettiva incidenza delle opere abusive sui valori paesistici.

Nel giudizio a quo si è costituito il Comune di Monte Compatri, chiedendo il rigetto dei ricorsi sull’assunto che motivo assorbente degli impugnati provvedimenti di diniego di condono sarebbe il vincolo discendente dal PTPR della Regione Lazio, in forza della previsione di cui all’art. 3, comma 1, lettera b), della legge reg. Lazio n. 12 del 2004, la quale imporrebbe la non sanabilità delle opere anche qualora realizzate prima dell’apposizione del vincolo archeologico e paesaggistico di cui al citato art. 3. Dovrebbe quindi trovare applicazione una norma più restrittiva rispetto a quella di cui all’art. 32, comma 27, lettera d), del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, per cui devono essere presi in considerazione, al momento della decisione sulle istanze di condono, anche i vincoli sopravvenuti, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera b), della legge reg. Lazio n. 12 del 2004.

Il giudice rimettente riferisce, infine, che il ricorso è stato trattenuto in decisione all’udienza del 20 settembre 2019, fissata per lo smaltimento dell’arretrato, in occasione della quale i ricorrenti hanno affermato di avere avuto contezza della circostanza che, in relazione allo stesso lotto di cui è causa, il Comune ha rilasciato permessi di costruire in sanatoria ai sensi del d.l. n. 269 del 2003, come convertito. Hanno poi insistito per l’accoglimento del ricorso, in ragione dell’irrilevanza dei vincoli sopravvenuti alla realizzazione dell’abuso, in quanto, argomentando diversamente, si farebbe dipendere la condonabilità delle opere dal momento in cui l’amministrazione esamina la domanda di sanatoria.

1.2.– Il Collegio rimettente – muovendo dall’assunto che i provvedimenti impugnati si fondano «essenzialmente» sulla non condonabilità delle opere realizzate prevista dalla norma censurata – ha quindi sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera b), della legge reg. Lazio n. 12 del 2004, ritenendo che tale previsione normativa, «di carattere speciale» rispetto a quella di carattere generale di cui all’art. 32, comma 27, del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, violi gli artt. 3, 42, 97, 103 e 113 Cost.

1.3.– Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo ribadisce che gli atti di diniego della sanatoria, impugnati nel giudizio principale, sono «essenzialmente» motivati sulla base del profilo ostativo derivante dalla norma censurata, sicché sarebbe irrilevante esaminare i primi tre motivi di ricorso relativi a differenti profili. Peraltro – rileva il Collegio rimettente – questi ultimi non sono stati «reiterati nella motivazione dei provvedimenti finali».

In ogni caso, quand’anche si ritenesse che i provvedimenti impugnati nel giudizio a quo reiterino le ulteriori ragioni di diniego indicate nelle premesse, si tratterebbe «al più» di atti plurimotivati, «essendo il motivo ostativo fondato sulla sussistenza del vincolo paesistico ed archeologico sull’area de qua e sull’incondonabilità delle opere di cui è causa […], idoneo da solo a sorreggere gli atti gravati». Al riguardo, sono richiamate la giurisprudenza di questa Corte, che ha riconosciuto al legislatore regionale la possibilità di dotarsi di una disciplina, in materia di condoni, di maggior rigore rispetto a quella statale (sentenze n. 49 del 2006, n. 71 e n. 70 del 2005, e 196 del 2004), e la «costante» giurisprudenza amministrativa, secondo cui la normativa della Regione Lazio, censurata nel presente giudizio, esclude dalla sanatoria anche le opere realizzate prima dell’apposizione del vincolo.

Secondo il rimettente, si dovrebbe quindi fare applicazione del «costante orientamento giurisprudenziale», in base al quale, «[a]llorché sia controversa la legittimità di un provvedimento che si fondi su più ragioni di diritto tra loro indipendenti, l’accertamento dell’inattaccabilità anche di una sola di essa vale a sorreggere il provvedimento stesso, sì che diventano, in sede processuale, inammissibili per carenza di interesse le doglianze fatte valere avverso le restanti ragioni».

L’odierna questione di legittimità costituzionale inerente al vaglio del quarto motivo di ricorso sarebbe dunque rilevante, in quanto l’amministrazione comunale, nel dare rilievo al sopravvenuto vincolo archeologico e paesistico, ha fatto applicazione di tale disposto normativo, come costantemente interpretato dalla giurisprudenza amministrativa sopra richiamata. In particolare, la definizione della questione di legittimità costituzionale sarebbe dirimente poiché il suo accoglimento comporterebbe l’accoglimento del ricorso, mentre, per converso, il suo rigetto comporterebbe il rigetto del ricorso, non potendo giovare ai ricorrenti neppure quanto dedotto nel quarto motivo di gravame in ordine al difetto di motivazione degli atti gravati, per mancata disamina dell’impatto sul paesaggio delle opere de quibus.

Sul punto, il rimettente sottolinea come per i condoni edilizi di cui alle leggi n. 47 del 1985 e 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) rilevi la differenza tra vincoli di inedificabilità assoluta (art. 33 della legge n. 47 del 1985), di per sé ostativi alla concessione del permesso di costruire in sanatoria, qualora «siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse», e vincoli di inedificabilità relativa (art. 32 della legge n. 47 del 1985), in presenza dei quali è possibile il rilascio del condono, previo parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo, che devono valutare l’impatto delle opere abusive sul contesto vincolato.

Il giudice a quo ricorda, altresì, che, in base alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, per i condoni di cui alle leggi n. 47 del 1985 e n. 724 del 1994, «rileva […] anche il vincolo sopravvenuto, non in senso ostativo, ma nel senso di richiedere comunque la necessità del previo parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo […] la quale deve pronunciarsi tenendo conto del quadro normativo vigente al momento in cui esercita i propri poteri consultivi» (è richiamata la sentenza del Consiglio di Stato, sezione sesta, 31 ottobre 2013, n. 5274).

Quanto al terzo condono, la cui applicazione da parte della Regione Lazio rileva in particolare in questa sede, l’art. 32, comma 27, lettera d), del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, oltre a rinviare a quanto già disposto dai citati artt. 32 e 33 della legge n. 47 del 1985, prevede che le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora «siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici».

Il giudice a quo precisa, al riguardo, che questa disposizione è interpretata dalla giurisprudenza nel senso che assume rilievo ostativo anche il vincolo di inedificabilità relativa; pertanto, mentre per i condoni previsti dalle leggi n. 47 del 1985 e n. 724 del 1994 il vincolo di inedificabilità opera in senso ostativo soltanto se di carattere assoluto, per il cosiddetto terzo condono, di cui all’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, anche i vincoli che non comportino l’inedificabilità assoluta assumono carattere ostativo alla sanatoria (è citata, tra le altre, anche la sentenza di questa Corte n. 117 del 2015).

Il rimettente richiama, inoltre, la giurisprudenza penale e amministrativa che, in relazione al cosiddetto terzo condono, ha escluso la possibilità della sanatoria qualora il vincolo sia istituito prima dell’esecuzione delle opere abusive.

Nel presente giudizio – rileva il rimettente – viene in rilievo l’art. 3, comma 1, lettera b), della legge reg. Lazio n. 12 del 2004, ovvero una norma regionale recante una previsione ulteriormente limitativa rispetto a quella statale, in quanto preclusiva della condonabilità anche delle opere realizzate prima dell’apposizione del vincolo. Secondo il giudice a quo, la giurisprudenza del TAR Lazio, «nel dare rilievo, in conformità peraltro al dato letterale della norma de qua, ai vincoli sopravvenuti alla realizzazione delle opere, invero non individua, né potrebbe in mancanza di un’indicazione in senso contrario nella norma che espressamente assegna rilievo al vincolo anche sopravvenuto, lo spatium temporis entro cui deve intervenire il vincolo ostativo alla concessione della sanatoria, per cui la stessa in virtù del principio del tempus regit actum, non può che interpretarsi nel senso fatto proprio dal comune, ovvero della rilevanza di qualsiasi vincolo esistente al momento della decisione sull’istanza di sanatoria».

1.4.– Quanto alla non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, il Collegio rimettente dà conto dell’esistenza di due interpretazioni della disposizione censurata: secondo la prima, «costantemente» seguita dal TAR Lazio, il vincolo sopravvenuto sarebbe ostativo solo in caso di mancanza della conformità urbanistica dell’opera abusiva; in base alla seconda, invece, seguita dal Consiglio di Stato, il vincolo sopravvenuto si porrebbe come ostativo «a prescindere dalla verifica della conformità urbanistica dell’opera abusiva» (è citata la sentenza del Consiglio di Stato, sezione sesta, 14 giugno 2016, n. 2568).

In ogni caso, le parti ricorrenti non avrebbero censurato la mancata verifica da parte dell’amministrazione comunale della conformità o meno dell’opera alla normativa urbanistica (per cui sarebbe irrilevante l’adesione all’una o all’altra interpretazione) e, soprattutto, «entrambe le interpretazioni […] danno rilievo al vincolo sopravvenuto […] per cui deve ritenersi che la norma, così come formulata, dia rilevanza a tutti i vincoli sopravvenuti».

1.4.1.– A questo punto, il giudice a quo, richiamando la giurisprudenza di questa Corte (sono citate le sentenze n. 54 del 2009, n. 49 del 2006, n. 71 e n. 70 del 2005 e n. 196 del 2004, e l’ordinanza n. 150 del 2009), sottolinea come il legislatore regionale, pur non potendo vanificare i vincoli di cui all’art. 32, comma 27, lettera d), del d.l. n. 269 del 2003, «ben può nell’esercizio delle prerogative di cui è attributario […] introdurre […] una disciplina di maggior rigore rispetto alla disciplina nazionale». Ciò deve avvenire, però, nel rispetto del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e del principio costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), principi, questi, che secondo il rimettente non sarebbero rispettati dalla norma regionale censurata.

In particolare, «se è vero che alcun legittimo affidamento può vantare colui che realizza un’opera sine titulo, deve ritenersi che tale legittimo affidamento per contro ben possa sorgere allorquando venga introdotta una normativa condonistica, dovendo il soggetto che presenti una domanda di condono essere in grado di comprendere se la sua istanza sia suscettibile o meno di accoglimento, con un giudizio di prognosi postuma, sulla base della normativa vigente al momento dell’entrata in vigore di tale normativa condonistica, o al più di quella vigente al momento della presentazione della domanda».

Secondo il giudice a quo, il legislatore regionale avrebbe dovuto, al più concedere, dare rilevanza ai «vincoli esistenti al momento della presentazione della domanda medesima, che pertanto cristallizzerebbe lo stato di diritto rilevante ai fini della decisione». Nel senso auspicato dal rimettente si sarebbe mosso il legislatore statale nella disciplina del cosiddetto accertamento di conformità (art. 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia»), là dove ha previsto che debba essere valutata la doppia conformità, cioè quella esistente al momento della realizzazione delle opere e quella esistente al momento della presentazione dell’istanza, con la conseguente irrilevanza delle modifiche alla normativa urbanistica intervenute dopo tale momento. In alternativa, il giudice a quo sostiene che il legislatore regionale avrebbe potuto dare rilevanza ai vincoli esistenti al momento dell’entrata in vigore della normativa condonistica.

Il Collegio rimettente esclude, inoltre, che la norma censurata possa essere letta in modo conforme a Costituzione, secondo l’interpretazione «in senso additivo» operata dal TAR Lazio e di cui sopra si è dato conto. Siffatta interpretazione si risolverebbe, infatti, «in una vera e propria operazione di ortopedia giuridica».

1.4.2.– Tutto ciò premesso, sarebbe violata la «clausola generale di ragionevolezza», atteso che nessun «legittimo affidamento potrebbero nutrire i richiedenti il condono, nonostante il sopravvenire della normativa condonistica, in ordine all’accoglibilità o meno della domanda di condono, non dipendendo la stessa dalla situazione giuridica esistente al momento dell’entrata in vigore della normativa condonistica, ovvero al momento della presentazione della domanda, ma da quella esistente al momento della sua esitazione».

Di qui la lesione del principio di certezza del diritto, «da ritenersi sotteso alla clausola generale di ragionevolezza di cui al citato art. 3, oltre che al principio di buon andamento della P.A. di cui all’art. 97 della Cost. e alla giustiziabilità degli atti delle P.A. di cui agli artt. 103 e 113 Cost.».

La norma censurata produrrebbe, inoltre, una disparità di trattamento tra più richiedenti la sanatoria, a seconda del momento di esame delle loro domande di condono, «con la conseguenza che gli istanti potrebbero essere penalizzati dalla lunghezza dei tempi per la decisione sulle domande di condono, posto che si assegnerebbe rilevanza a tutti i vincoli sopravvenuti, anche dopo la presentazione della domanda di condono, sino al momento in cui l’amministrazione abbia ad esitare la medesima».

La clausola generale di ragionevolezza, «quale criterio “onnipervasivo della misurazione della legalità e della adeguatezza della scelta politica” ex art. 3 della Costituzione», sarebbe violata «anche avendo riguardo alla gerarchia dei valori costituzionali».

Infatti, pur assurgendo la tutela del paesaggio a principio fondamentale della Costituzione, sovraordinato pertanto al diritto di proprietà privata (art. 42 Cost.), «il giusto contemperamento di tali valori costituzionali può essere ragionevolmente assicurato nel dare rilevanza alla situazione esistente al momento dell’entrata in vigore della normativa condonistica ovvero al momento della presentazione dell’istanza di condono, che pertanto dovrebbero cristallizzare la situazione giuridica rilevante ai fini dell’esitazione della domanda».

Secondo il rimettente, tale contemperamento sarebbe «tanto più necessario» nel caso di vincolo sopravvenuto all’integrazione delle domande di condono e quando si tratti di immobili destinati ad abitazione principale dei richiedenti, in ragione della funzione sociale della proprietà.

Pertanto, la norma censurata, nel considerare preclusivi tutti i vincoli sopravvenuti – e quindi anche quelli successivi alla presentazione della domanda di condono – sacrificherebbe irragionevolmente gli interessi degli istanti e il loro diritto di proprietà (art. 42 Cost.), alla cui tutela è preposta la normativa condonistica.

Il giudice a quo sostiene che tali considerazioni debbano «rimanere ferme» pur a fronte di quella giurisprudenza amministrativa che, in relazione ai condoni ex lege n. 47 del 1985 ed ex lege n. 724 del 1994, ha ritenuto di dover considerare i vincoli sopravvenuti alla realizzazione delle opere (sia pure ai fini della valutazione della conformità dell’opera rispetto al vincolo), dando rilievo alla situazione esistente al momento dell’esame della domanda di condono e non alla data della sua presentazione.

La norma regionale oggetto dell’odierno giudizio esclude invece in senso assoluto la condonabilità dell’opera, prescindendo dalla disamina del suo impatto sul contesto vincolato e imponendo quindi, anche da questo punto di vista, un irragionevole sacrificio del diritto di proprietà senza il suo giusto e dovuto contemperamento con la tutela del paesaggio.

2.– Non si sono costituite in giudizio né la Regione Lazio né le parti del giudizio principale.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 20 dicembre 2019, iscritta al n. 45 del registro ordinanze 2020, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda-quater, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera b), della legge della Regione Lazio 8 novembre 2004, n. 12 (Disposizioni in materia di definizione di illeciti edilizi), in riferimento agli artt. 3, 42, 97, 103 e 113 della Costituzione.

2.– Il TAR Lazio è investito di due ricorsi promossi dai signori M. F. e C. B. (quest’ultimo sia in proprio sia, unitamente a M. B., nella qualità di erede di M. F.) nei confronti del Comune di Monte Compatri, per l’annullamento di due provvedimenti di diniego di altrettante domande di condono edilizio presentate dai ricorrenti. I provvedimenti di diniego, entrambi del 20 febbraio 2009, sono stati notificati il successivo 25 febbraio.

Le istanze di condono erano state presentate sulla base della normativa contenuta nella legge reg. Lazio n. 12 del 2004 (recante, tra l’altro, il censurato art. 3, comma 1, lettera b), a sua volta attuativa della disciplina della sanatoria degli abusi edilizi (cosiddetto terzo condono) prevista dall’art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326.

I due ricorsi sono stati riuniti dal giudice amministrativo in ragione del fatto che concernono il medesimo edificio e che gli atti di diniego gravati presentano una motivazione coincidente.

Nell’ordinanza di rimessione si espone che: il 7 dicembre 2004 M. F. e C. B. hanno presentato due distinte domande di condono per due immobili (siti al piano primo e al piano terra del medesimo fabbricato) di cui sono proprietari; il 25 ottobre 2005 le domande sono state integrate con la produzione del certificato di idoneità sismica; il 9 gennaio e il 23 maggio 2006, rispettivamente, M. F. e C. B. hanno prodotto le ricevute di pagamento della terza rata degli oneri concessori.

Nelle more della definizione delle due istanze di condono è intervenuta la deliberazione della Giunta della Regione Lazio 25 luglio 2007, n. 556, recante «Adozione del Piano Territoriale Paesistico Regionale, ai sensi degli articoli 21, 22 e 23 della legge regionale 6 luglio 1998, n. 24 (recante “Pianificazione paesistica e tutela dei beni e delle aree sottoposti a vincolo paesistico”), ed in ottemperanza agli articoli 135, 143, e 156 del decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) e successive modificazioni in coerenza con quanto indicato nell’art. 36-quater, comma 1-quater, della legge regionale 24/1998», come modificata e integrata dalla deliberazione della Giunta della Regione Lazio 21 dicembre 2007, n. 1025, «Modificazione, integrazione e rettifica della deliberazione Giunta regionale n. 556 del 25 luglio 2007 inerente: Adozione del Piano Territoriale Paesistico Regionale, ai sensi degli articoli 21, 22 e 23 della legge regionale 6 luglio 1998, n. 24 (recante “Pianificazione paesistica e tutela dei beni e delle aree sottoposti a vincolo paesistico”), ed in ottemperanza agli articoli 135, 143 e 156 del decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 (Codici dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) e successive modificazioni in coerenza con quanto indicato nell’art. 36-quater, comma 1-quater, della legge regionale 24/1998». Le due delibere della Giunta (n. 556 e n. 1025 del 2007) sono state pubblicate nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 6, Supplemento ordinario n. 14, del 14 febbraio 2008.

A partire da questa data e in attesa della definitiva approvazione del PTPR da parte del Consiglio regionale sono operative le misure di salvaguardia e quindi «non sono consentiti, sugli immobili e nelle aree di cui all’articolo 134 del D.Lgs. 42/2004 e successive modifiche, interventi che siano in contrasto con le prescrizioni di tutela previste nel PTPR adottato» (art. 23-bis della legge della Regione Lazio 6 luglio 1998, n. 24 «Pianificazione paesistica e tutela dei beni e delle aree sottoposti a vincolo paesistico»).

Con specifico riguardo alla vicenda che ha dato vita all’odierna questione di legittimità costituzionale, il giudice a quo precisa che, ai sensi dell’art. 41 delle sopravvenute norme del piano territoriale paesistico (PTPR), adottato con le citate delibere della Giunta della Regione Lazio, la zona in cui ricadono le unità immobiliari, per cui è causa, è «di interesse archeologico».

Il Comune di Monte Compatri, sul cui territorio insistono gli immobili in questione, dopo aver notificato ai ricorrenti il preavviso di diniego delle istanze di sanatoria edilizia, ha adottato i due provvedimenti impugnati nel giudizio a quo. Il rimettente riferisce che gli atti di diniego sono fondati «essenzialmente» sull’incondonabilità delle opere, prevista dal censurato art. 3, comma 1, lettera b), della legge reg. Lazio n. 12 del 2004. Di qui la rilevanza delle questioni sollevate.

In pendenza del giudizio dinanzi al TAR (promosso nel 2009 e giunto in discussione solo all’udienza del 20 settembre 2019), il Consiglio regionale del Lazio ha approvato il PTPR con la deliberazione 2 agosto 2019, n. 5, pubblicata nel Bollettino Ufficiale n. 13 del 13 febbraio 2020. Quest’ultima delibera è stata impugnata dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso per conflitto di attribuzione dinanzi a questa Corte e il relativo giudizio è stato deciso nel senso dell’accoglimento con la sentenza n. 240 del 2020, con la quale è stata annullata la deliberazione n. 5 del 2019.

A questo punto è ripartito l’iter per l’approvazione del PTPR, che è giunto a termine con la deliberazione del Consiglio regionale 21 aprile 2021, n. 5, pubblicata nel Bollettino Ufficiale n. 56, Supplemento n. 2, del 10 giugno 2021.

Ricostruiti così anche gli eventi successivi al promovimento dell’odierna questione di costituzionalità, occorre rilevare come gli stessi non incidano sulla sua definizione, essendo il giudice a quo chiamato a decidere sulla legittimità dei provvedimenti di diniego in base al quadro giuridico operante al tempo in cui gli stessi sono stati adottati.

3.– Esclusa la possibilità di interpretare la disposizione censurata in modo conforme a Costituzione, il TAR Lazio ritiene che la norma regionale de qua sia costituzionalmente illegittima nella parte in cui non consente il condono delle opere abusive realizzate «anche prima dell’apposizione [di un] vincolo […] impost[o] sulla base di leggi statali e regionali a tutela dei monumenti naturali, dei siti di importanza comunitaria e delle zone a protezione speciale, non ricadenti all’interno dei piani urbanistici attuativi vigenti, nonché a tutela dei parchi e delle aree naturali protette nazionali, regionali e provinciali».

In particolare, tale previsione sarebbe lesiva del principio di certezza del diritto, «da ritenersi sotteso alla clausola generale di ragionevolezza di cui al citato art. 3, oltre che al principio di buon andamento della P.A. di cui all’art. 97 della Cost. e alla giustiziabilità degli atti delle P.A. di cui agli artt. 103 e 113 Cost.». Inoltre, nel considerare preclusivi tutti i vincoli sopravvenuti – e quindi anche quelli successivi alla presentazione della domanda di condono – la norma censurata sacrificherebbe irragionevolmente gli interessi degli istanti e il loro diritto di proprietà (art. 42 Cost.), alla cui tutela sarebbe preposta la normativa condonistica.

4.– Preliminarmente, questa Corte è chiamata a verificare la rilevanza delle questioni sollevate dal TAR Lazio. Più precisamente, quest’ultimo afferma che i due provvedimenti di diniego delle (due) domande di sanatoria si fondano «essenzialmente» sulla non condonabilità delle opere per cui è causa, prevista dalla norma censurata. Il rimettente aggiunge che quest’ultima costituisce il «motivo assorbente degli impugnati provvedimenti di diniego di condono» e che è quindi preliminarmente necessario risolvere il dubbio della sua legittimità costituzionale.

L’affermazione risulta sufficiente a far apparire non implausibile la motivazione, in linea con l’indirizzo costante di questa Corte, che, nel delibare l’ammissibilità della questione, «effettua in ordine alla rilevanza solo un controllo “esterno”» (sentenza n. 32 del 2021; nello stesso senso, sentenze n. 59 e n. 15 del 2021).

5.– Sempre in via preliminare, deve essere rilevata l’assoluta carenza di motivazione delle censure formulate in riferimento agli artt. 103 e 113 Cost. Il rimettente si limita, infatti, a richiamare il principio di giustiziabilità degli atti della pubblica amministrazione senza offrire altre indicazioni sulle ragioni della lamentata lesione.

Per costante giurisprudenza di questa Corte, l’insufficiente motivazione in punto di non manifesta infondatezza determina l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale (tra le più recenti, sentenze n. 114, n. 87 e n. 39 del 2021).

6.– Le altre ragioni di censura possono essere invece esaminate congiuntamente, sia perché il giudice a quo svolge in modo unitario le argomentazioni relative alla presunta violazione degli artt. 3 e 97 Cost., sia perché, quanto alla lamentata lesione del diritto di proprietà riconosciuto dall’art. 42 Cost., il rimettente si duole della sua irragionevole compressione, finendo quindi per far rifluire anche questo motivo nella prima ragione di censura, riguardante – appunto – l’irragionevolezza della norma regionale in esame.

7.– Quanto alla praticabilità di un’interpretazione conforme a Costituzione, il giudice a quo dà conto dell’esistenza di due interpretazioni della disposizione censurata, la cui differenza non sarebbe però rilevante nel presente giudizio: secondo la prima, «costantemente» seguita dal TAR Lazio, il vincolo sopravvenuto sarebbe ostativo solo in caso di mancanza della conformità urbanistica dell’opera abusiva; in base alla seconda, invece, seguita dal Consiglio di Stato, il vincolo sopravvenuto si porrebbe come ostativo «a prescindere dalla verifica della conformità urbanistica dell’opera abusiva».

Il rimettente aggiunge inoltre, per un verso, che le parti ricorrenti non avrebbero censurato la mancata verifica da parte dell’amministrazione comunale della conformità o meno dell’opera alla normativa urbanistica (per cui sarebbe irrilevante l’adesione all’una o all’altra interpretazione) e, per altro verso e soprattutto, che «entrambe le interpretazioni […] danno rilievo al vincolo sopravvenuto». Di qui, la rilevanza comunque di tutti i vincoli sopravvenuti.

Le argomentazioni svolte sul punto nell’ordinanza di rimessione risultano, in effetti, persuasive. E del resto, il chiaro tenore letterale della previsione censurata non consente di pervenire a esiti interpretativi diversi da quelli cui è pervenuto il TAR Lazio, sulla scia peraltro di una cospicua giurisprudenza dello stesso giudice amministrativo puntualmente richiamata dal rimettente.

8.– Prima di affrontare il merito delle censure prospettate in riferimento agli artt. 3, 42 e 97 Cost., devono essere ricordati gli approdi cui questa Corte è pervenuta a proposito del cosiddetto terzo condono edilizio, previsto dall’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, come convertito.

Analogamente a quanto avvenuto per il cosiddetto secondo condono (previsto dall’art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, recante «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica»), il legislatore ha costruito la disciplina di questa terza sanatoria facendo perno sulla normativa del primo condono, contenuta negli artt. 31 e seguenti della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive), e in particolare nei suoi artt. 32 e 33 (la cui disciplina è espressamente fatta salva dall’art. 32, comma 27, del d.l. n. 269 del 2003, come convertito).

Questa Corte è stata chiamata, sin da subito, a giudicare della legittimità costituzionale della normativa condonistica del 2003, a seguito della proposizione di numerosi ricorsi promossi dalle regioni in via d’azione. Si è pertanto formata una cospicua giurisprudenza che, sulla scia della prima di queste decisioni (sentenza n. 196 del 2004), ha progressivamente definito le caratteristiche del cosiddetto terzo condono e ha delimitato la sfera di competenza delle regioni su tale oggetto, in ampia misura rientrante nella materia del «governo del territorio».

A proposito della sanatoria straordinaria prevista dal d.l. n. 269 del 2003, come convertito, merita di essere ricordato come questa Corte abbia più volte sottolineato il suo «carattere temporaneo ed eccezionale rispetto all’istituto a carattere generale e permanente del “permesso di costruire in sanatoria”, disciplinato dagli artt. 36 e 45 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), [e il fatto di essere] ancorato a presupposti in parte diversi e comunque sottoposto a condizioni assai più restrittive» (sentenza n. 196 del 2004, punto 17 del Considerato in diritto). Più in generale, questa Corte ha definito il condono come un istituto «“a carattere contingente e del tutto eccezionale” (in tale senso, ad esempio, sentenze n. 427 del 1995 e n. 416 del 1995), ammissibile solo “negli stretti limiti consentiti dal sistema costituzionale” (sentenza n. 369 del 1988), dovendo in altre parole “trovare giustificazione in un principio di ragionevolezza” (sentenza n. 427 del 1995)» (sentenza n. 196 del 2004, punto 24 del Considerato in diritto).

È stato altresì ribadito che il fondamento giustificativo di questa legislazione va individuato nella «necessità di “chiudere un passato illegale” in attesa di poter infine giungere ad una repressione efficace dell’abusivismo edilizio, pur se non sono state estranee a simili legislazioni anche “ragioni contingenti e straordinarie di natura finanziaria” (cfr., tra le altre, sentenze n. 256 del 1996, n. 427 del 1995 e n. 369 del 1988, nonché ordinanza n. 174 del 2002)» (sentenza n. 196 del 2004, punto 24 del Considerato in diritto).

Quanto alle caratteristiche del terzo condono, questa Corte ha precisato che esso «si ricollega sotto molteplici aspetti ai precedenti condoni edilizi che si sono succeduti dall’inizio degli anni ottanta: ciò è reso del tutto palese dai molteplici [richiami] contenuti nell’art. 32 alle norme concernenti i precedenti condoni, ma soprattutto dal comma 25 dell’art. 32, il quale espressamente rinvia alle disposizioni dei “capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dall’art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni”, disponendo che tale normativa, come ulteriormente modificata dal medesimo art. 32, si applica “alle opere abusive” cui la nuova legislazione appunto si riferisce»; determinando in particolare, il rinvio alle disposizioni relative ai precedenti condoni, «una esplicita saldatura fra il nuovo condono ed il testo risultante dai due precedenti condoni edilizi di tipo straordinario, cui si apportano solo alcune limitate innovazioni» (sentenza n. 196 del 2004, punto 17 del Considerato in diritto).

Sull’ambito oggettivo di applicazione del terzo condono (che era stato già definito nella sentenza n. 196 del 2004), questa Corte ha confermato che costituiscono vincoli preclusivi della sanatoria anche quelli che non comportano l’inedificabilità assoluta (ordinanza n. 150 del 2009). In particolare, ha precisato che «[i]l richiamo alla precedente distinzione tra inedificabilità relativa ed assoluta contenuta negli artt. 32 e 33 della legge n. 47 del 1985 viene effettuato al solo fine di coordinare la vecchia disciplina della sanatoria con quella sopravvenuta, mentre non risulta dirimente nella definizione dell’ambito oggettivo del condono del 2003 che viene in discussione in questa sede»; aggiungendo, poi, che «il condono di cui al d.l. n. 269 del 2003 è caratterizzato da un ambito oggettivo più circoscritto rispetto a quello del 1985, per effetto dei limiti ulteriori contemplati dal precitato comma 27, i quali “si aggiungono a quanto previsto negli artt. 32 e 33 della legge n. 47 del 1985” (sentenza n. 196 del 2004) e non sono racchiusi nell’area dell’inedificabilità assoluta (ordinanza n. 150 del 2009)» (sentenza n. 225 del 2012).

Tali considerazioni sono state riprese nella giurisprudenza successiva (tra le tante, sentenze n. 77 del 2021, n. 70 del 2020, n. 208 del 2019, n. 68 del 2018, n. 73 del 2017, n. 233 e n. 117 del 2015), con la precisazione che «il ruolo del legislatore regionale, “specificativo – all’interno delle scelte riservate al legislatore nazionale – delle norme in tema di condono, contribuisce senza dubbio a rafforzare la più attenta e specifica considerazione di quegli interessi pubblici, come la tutela dell’ambiente e del paesaggio, che sono – per loro natura – i più esposti a rischio di compromissione da parte delle legislazioni sui condoni edilizi” (sentenza n. 49 del 2006)» (sentenza n. 208 del 2019).

Dalla giurisprudenza costituzionale esaminata emerge: per un verso, il carattere sicuramente più restrittivo del terzo condono rispetto ai precedenti, in ragione dell’effetto ostativo alla sanatoria anche dei vincoli che comportano inedificabilità relativa; per altro verso, il significativo ruolo riconosciuto al legislatore regionale, al quale – ferma restando la preclusione all’ampliamento degli spazi applicativi del condono – è assegnato il delicato compito di «rafforzare la più attenta e specifica considerazione di […] interessi pubblici, come la tutela dell’ambiente e del paesaggio» (sentenza n. 208 del 2019).

9.– In questo quadro si colloca la scelta del legislatore regionale del Lazio, il quale, prevedendo che anche il vincolo sopravvenuto determini la non condonabilità dell’opera abusiva (art. 3, comma 1, lettera b, legge reg. Lazio n. 12 del 2004), ha adottato un regime certamente più restrittivo di quello previsto dalla normativa statale. Quest’ultima non dispone, infatti, la non condonabilità in caso di vincolo sopravvenuto. In particolare, da una parte, l’art. 32 della legge n. 47 del 1985, nel testo oggi vigente, prevede, per le opere costruite su aree sottoposte a vincolo, che «il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria […] è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso» (comma 1); e che «le opere insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione» «[s]ono suscettibili di sanatoria» in presenza di determinate condizioni, indicate nel comma 2 del medesimo art. 32.

Dall’altra parte, l’art. 33 della legge n. 47 del 1985, nel testo oggi vigente, stabilisce che «non sono suscettibili di sanatoria» le opere che siano in contrasto con vincoli posti «a tutela di interessi storici, artistici, architettonici, archeologici, paesistici, ambientali, idrogeologici», «qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse».

A sua volta, la stessa normativa relativa al terzo condono prevede, all’art. 32, comma 27, del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, che «le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora: […] d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli […] qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici».

Il legislatore regionale del Lazio, assegnando ai vincoli sopravvenuti l’effetto di rendere non condonabile l’opera abusiva, ha introdotto dunque una condizione ostativa ulteriore rispetto a quelle previste dalla normativa statale susseguitasi nel tempo. Scelta, questa, in sé non censurata dal rimettente, che – evidentemente sulla scorta della giurisprudenza di questa Corte sopra richiamata – non lamenta la violazione del riparto di competenze legislative tra Stato e regioni in materia di governo del territorio, riconoscendo che il legislatore regionale può adottare una disciplina più rigorosa e restringere così l’ambito applicativo del condono.

Pur sottolineando tale aspetto e del pari riconoscendo che i richiedenti la sanatoria non possono nutrire «alcun legittimo affidamento», il giudice a quo ritiene nondimeno che la norma censurata oltrepassi il limite costituito dal principio di certezza del diritto, «da ritenersi sotteso alla clausola generale di ragionevolezza […], oltre che al principio di buon andamento della P.A.», e al tempo stesso comprima irragionevolmente il diritto di proprietà degli istanti il condono.

10.– Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera b), legge reg. Lazio n. 12 del 2004, sollevate in riferimento agli artt. 3, 42 e 97 Cost., non sono fondate.

10.1.– In primo luogo, questa Corte non può che ribadire quanto già affermato nelle pronunce richiamate sopra: l’insistente ricorso ad aggettivi come «eccezionale», «straordinario», «temporaneo» e «contingente», utilizzati per descrivere la normativa sui condoni edilizi, esprime la peculiare ratio di queste misure, da considerare come assolutamente extra ordinem e destinate a operare una tantum in vista di un definitivo superamento di situazioni di abuso. Per queste stesse ragioni, il legislatore regionale non può «ampliare i limiti applicativi della sanatoria», né «allargare l’area del condono edilizio rispetto a quanto stabilito dalla legge dello Stato» (sentenze n. 73 del 2017, n. 233 e n. 117 del 2015, n. 290 del 2009). Al legislatore regionale compete «l’articolazione e la specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale» (sentenze n. 77 del 2021, n. 73 del 2017 e n. 233 del 2015), e, in questo contesto, gli spetta il compito di farsi garante dei valori paesaggistico-ambientali e – per quel che rileva nel caso di specie – archeologici, che rischierebbero di essere ulteriormente compromessi da un ampliamento del regime condonistico. L’intervento regionale può essere diretto solo a introdurre una disciplina più restrittiva di quella statale, nell’esercizio delle competenze in materia di «governo del territorio», e quindi anche a proteggere meglio gli anzidetti valori.

Nell’odierno giudizio si tratta di verificare se il maggiore livello di rigore imposto dalla disposizione regionale censurata sia irragionevole. Secondo il giudice a quo, infatti, sarebbe violato il principio di certezza del diritto nel quale dovrebbero poter confidare anche i proprietari di opere abusive che hanno presentato domanda di sanatoria. Benché per essi non si possa configurare un vero e proprio legittimo affidamento, i proprietari subirebbero in particolare una lesione, perché l’eventuale accoglimento dell’istanza dipenderebbe dai tempi impiegati dall’amministrazione comunale chiamata a valutarla, con la conseguenza che, in caso di eccessivi ritardi e qualora sopravvenissero vincoli ostativi al condono, il privato subirebbe un vulnus al diritto di proprietà; ciò inciderebbe, inoltre, sul principio di buon andamento delle pubbliche amministrazioni che sarebbe sottoposto a una grave torsione.

10.2.– Il tema in esame investe, a ben vedere, la questione – sulla quale si è ampiamente soffermata anche la giurisprudenza amministrativa – del momento in cui deve essere valutata l’operatività di un vincolo paesaggistico, archeologico, ambientale, idrogeologico eccetera, limitativo delle facoltà edificatorie di un’area; questione per la quale si possono immaginare in astratto tre soluzioni: il momento in cui l’opera è realizzata, quello in cui è presentata la domanda di condono e quello in cui quest’ultima è esaminata dall’amministrazione.

Sotto il vigore della sola legge n. 47 del 1985 e nell’incertezza derivante da un quadro normativo (art. 32) che non prevedeva espressamente che il vincolo dovesse essere anteriore all’esecuzione delle opere abusive, i giudici amministrativi hanno offerto – limitatamente alla richiesta di parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo – una articolata gamma di soluzioni al problema del rilievo dei vincoli sopravvenuti (per un quadro di sintesi, Consiglio di Stato, adunanza plenaria, decisione 22 luglio 1999, n. 20).

Rispetto a queste diverse ipotesi interpretative, la citata decisione dell’Adunanza plenaria ha affermato che, «in mancanza di indicazioni univoche desumibili dal dato normativo», la questione deve essere risolta privilegiando la normativa «vigente al tempo in cui la funzione si esplica (tempus regit actum)», essendo la più idonea alla «cura del pubblico interesse, in che si concreta la pubblica funzione».

Ha poi aggiunto che, «[q]uanto alla preoccupazione che siffatta soluzione esporrebbe il singolo caso, in violazione del principio di certezza del diritto e di non disparità di trattamento, alla variabile alea dei tempi di decisione sull’istanza, […] l’ordinamento appresta idonei strumenti di sollecitazione e, se del caso, di sostituzione dell’Amministrazione inerte» (sempre, Cons. Stato, adunanza plenaria, decisione n. 20 del 1999; nella stessa direzione, tra le tante, Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenze 22 agosto 2003, n. 4765, e 31 ottobre 2013, n. 5274).

La normativa concernente il terzo condono (art. 32, comma 27, lettera d, del d.l. n. 269 del 2003, come convertito), qui segnatamente in esame, pur facendo salve le previsioni degli artt. 32 e 33 della legge n. 47 del 1985, presenta «un ambito oggettivo più circoscritto» rispetto a quello di quest’ultima legge. Mentre, infatti, in base alla normativa del 1985 l’efficacia ostativa al rilascio del condono dei vincoli in esame era collegata al parere negativo dell’autorità preposta alla loro tutela, la disciplina del 2003 prevede che – come detto in precedenza – essi precludano senz’altro la sanatoria, al pari di quelli che comportano l’inedificabilità assoluta (in questo senso, tra le tante, sentenze n. 117 del 2015, n. 225 del 2012, n. 54 del 2009 e n. 196 del 2004, e ordinanza n. 150 del 2009).

La richiamata normativa del 2003 aggiunge che i vincoli aventi carattere ostativo alla sanatoria sono quelli «istituiti prima della esecuzione [delle] opere [abusive]» (sull’interpretazione di questa normativa, Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenze 5 agosto 2020, n. 4933, e sezione seconda, 13 novembre 2020, n. 7014).

A sua volta, la normativa regionale del Lazio distingue tra «[o]pere abusive suscettibili di sanatoria» (art. 2 della legge reg. Lazio n. 12 del 2004) e «[c]ause ostative alla sanatoria edilizia» (art. 3 della stessa legge), annoverando, tra queste ultime, anche la successiva apposizione del vincolo (art. 3, comma 1, lettera b), senza che in via interpretativa tale non condonabilità possa ritenersi superabile (in tal senso, tra le tante, Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenze 14 giugno 2016, n. 2568, 11 aprile 2017, n. 1697, 9 settembre 2019, n. 6109; TAR Lazio, Roma, sezione seconda-bis, sentenze 8 gennaio 2007, n. 52, sezione prima-quater, 3 novembre 2009, n. 10774, sezione seconda-bis, 4 marzo 2015, n. 3713, sezione seconda-bis, 21 gennaio 2019, n. 795, sezione seconda-bis, 2 dicembre 2019, n. 13758, sezione seconda-bis, 7 gennaio 2020, n. 90, sezione seconda-bis, 2 marzo 2020, n. 2660, sezione seconda-bis, 12 maggio 2020, n. 4982, sezione seconda-bis, 1° luglio 2020, n. 7487; TAR Lazio, Latina, sezione prima, sentenze 8 gennaio 2015, n. 2, 15 gennaio 2015, n. 44, 26 gennaio 2015, n. 90, 12 novembre 2019, n. 668).

10.3.– Le conclusioni della richiamata giurisprudenza amministrativa meritano di essere condivise e da esse possono trarsi alcune considerazioni rilevanti anche nel presente giudizio.

Innanzitutto, la lamentata violazione del principio di certezza del diritto e di parità di trattamento, in ragione della diversa tempistica nella decisione delle domande di condono da parte delle amministrazioni competenti, non costituisce di per sé un valido motivo per escludere la conformità a Costituzione della norma censurata. Come già ricordato anche dalla citata decisione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, l’ordinamento appresta strumenti di sollecitazione e, se del caso, di sostituzione dell’amministrazione inerte, idonei in particolare a tutelare il cittadino contro ritardi ingiustificati o addirittura strumentali. Ai rimedi di carattere procedimentale si aggiungono quelli di carattere sostanziale diretti a far valere la responsabilità dell’amministrazione per l’intempestività della sua azione.

Si deve poi osservare che, mentre l’art. 32 della legge n. 47 del 1985, per l’incertezza del suo dato letterale, richiedeva uno sforzo interpretativo di cui si sono fatti carico i giudici amministrativi, il tenore del censurato art. 3, comma 1, lettera b), della legge reg. Lazio n. 12 del 2004 è chiaro nell’escludere dalla sanatoria le opere abusive realizzate «anche prima della apposizione del vincolo». Il dato non è irrilevante nella valutazione della ragionevolezza complessiva della soluzione adottata con la disposizione censurata. Esso infatti – anche al di là della generale impossibilità di riconoscere, di per sé, un legittimo affidamento in capo a chi versi, non incolpevolmente, in una situazione antigiuridica, qual è quella della realizzazione di un’opera edilizia abusiva (tra le tante, Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza 17 ottobre 2017, n. 9) – esclude la configurabilità di un qualsivoglia affidamento del proprietario che, già nel momento in cui ha presentato la domanda di condono, era a conoscenza del quadro normativo regionale e quindi dell’alea connessa all’eventualità di una possibile successiva apposizione di un vincolo sull’area di insistenza dell’opera abusiva.

Conferma della correttezza di tale conclusione si ricava, del resto, indirettamente dalla stessa normativa regionale nella quale è contenuta la disposizione censurata. Il legislatore regionale, infatti – evidentemente consapevole del fatto che le condizioni più restrittive introdotte avrebbero potuto pregiudicare chi avesse già presentato la domanda di condono riponendo affidamento nel diverso regime stabilito dalla legge statale – ha espressamente previsto la possibilità, per chi avesse proposto l’istanza prima dell’entrata in vigore della legge regionale, di rinunciarvi, inviando al comune apposito atto entro il 30 novembre 2004 (art. 10, comma 3). Con una previsione, dunque, che per un verso esprime la preoccupazione dello stesso legislatore regionale di rispettare, nei limiti detti, aspettative già insorte, ma al tempo stesso implicitamente sottolinea che chi intende invece presentare la sua domanda successivamente all’entrata in vigore della nuova disciplina si accolla consapevolmente il rischio di vederla valutata anche alla luce di vincoli ad essa eventualmente sopraggiunti.

In conclusione, introducendo un regime più rigoroso di quello disegnato dalla normativa statale, il legislatore regionale del Lazio non ha oltrepassato il limite costituito dal principio di ragionevolezza. Per un verso, infatti, la possibile sopravvenienza di vincoli ostativi alla concessione del condono risulta espressamente prevista dalla disposizione censurata, ciò che ne esclude la lamentata assoluta imprevedibilità. Per altro verso, il regime più restrittivo introdotto dalla legge regionale ha come obiettivo la tutela di valori che presentano precipuo rilievo costituzionale, quali quelli paesaggistici, ambientali, idrogeologici e archeologici, sicché non è irragionevole che il legislatore regionale, nel bilanciare gli interessi in gioco, abbia scelto di proteggerli maggiormente, restringendo l’ambito applicativo del condono statale, sempre restando nel limite delle sue attribuzioni.

Per le ragioni anzidette le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 3, 42 e 97 Cost. non possono essere accolte.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera b), della legge della Regione Lazio 8 novembre 2004, n. 12 (Disposizioni in materia di definizione di illeciti edilizi), sollevata, in riferimento agli artt. 103 e 113 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda-quater, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera b), della legge reg. Lazio n. 12 del 2004, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 42 e 97 Cost., dal TAR Lazio, sezione seconda-quater, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Daria de PRETIS, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2021.