Sentenza n. 89 del 2018

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SENTENZA N. 89

ANNO 2018

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Giorgio                       LATTANZI                                       Presidente

-      Aldo                           CAROSI                                            Giudice

-      Marta                          CARTABIA                                             

-      Mario Rosario             MORELLI                                                 

-      Giancarlo                    CORAGGIO                                            

-      Giuliano                      AMATO                                                   

-      Silvana                        SCIARRA                                                

-      Daria                           de PRETIS                                               

-      Franco                        MODUGNO                                            

-      Augusto Antonio       BARBERA                                              

-      Giulio                          PROSPERETTI                                        

-      Giovanni                     AMOROSO                                              

-      Francesco                   VIGANO’                                                

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 83 della legge della Regione Siciliana 7 maggio 2015, n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2015. Legge di stabilità regionale), nella parte in cui modifica l’art. 12, commi 1 e 8, della legge della Regione Siciliana 15 maggio 2013, n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2013. Legge di stabilità regionale), promossi dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, con due ordinanze del 9 gennaio 2017, iscritte rispettivamente ai numeri 177 e 139 del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49 e n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti gli atti di costituzione di Anzalone Gessi srl e altri, di CA.VE. srl e altri, del Consorzio Siciliano Cavatori, nonché gli atti di intervento della Regione Siciliana;

udito nella udienza pubblica del 20 marzo e nella camera di consiglio del 21 marzo 2018 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera;

uditi gli avvocati Ester Daina per Anzalone Gessi srl e altri, Giuseppe Ribaudo per CA.VE. srl e altri, Monica Di Giorgio per il Consorzio Siciliano Cavatori e Marina Valli per la Regione Siciliana.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione terza (di seguito, anche TAR), con due distinte ordinanze emesse il 9 gennaio 2017 in altrettanti giudizi, rispettivamente iscritte ai numeri 139 e 177 del registro ordinanze 2017, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 53 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 e ratificato con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83 della legge della Regione Siciliana 7 maggio 2015, n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2015. Legge di stabilità regionale), nella parte in cui ha modificato il comma 1 e introdotto il comma 8 dell’art. 12 della legge della Regione Siciliana 15 maggio 2013, n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2013. Legge di stabilità regionale).

2.– Premette il tribunale rimettente che in entrambi i giudizi principali risultano impugnati, da soggetti esercenti l’attività di estrazione da cava, sia il decreto dell’assessore della Regione Siciliana per l’energia e i servizi di pubblica utilità del 12 agosto 2015, adottato in esecuzione dell’art. 83 della citata legge reg. n. 9 del 2015, a mezzo del quale sono state definite le modalità applicative del canone di produzione annuo dovuto dai titolari di concessioni per lo sfruttamento di giacimenti minerari di cave, per gli anni dal 2014 in poi; sia i provvedimenti con cui i Distretti minerari territorialmente competenti, in forza delle modifiche apportate dalle disposizioni impugnate, hanno rideterminato i canoni dovuti a tale titolo, relativi al 2014, intimandone il pagamento ai singoli esercenti.

2.1.– In entrambi i giudizi i ricorrenti evidenziano che, tramite le disposizioni censurate, manipolando il contenuto del comma 1 del previgente art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013, sono stati modificati i criteri di determinazione della base imponibile della prestazione imposta agli esercenti l’attività di estrazione. In precedenza, il quantum veniva computato in ragione della quantità e qualità di minerale estratto, mentre, in forza della novella, la relativa prestazione risulta commisurata alla dimensione della superficie dell’area coltivabile nonché ai volumi di estrazione autorizzati. Il tutto con effetti retroattivi, dovendosi applicare i nuovi criteri sin dal 2014 (come disposto dal comma 8 del citato art. 12, introdotto dalla novella), così da provocare una notevole maggiorazione del canone annuo dovuto (da 7 a 17 volte superiore rispetto a quello precedente).

2.2.– Evidenzia, ancora, il TAR, che, nell’assunto dei ricorrenti, esposto con argomentazioni sovrapponibili in entrambi i giudizi principali, si contesta la legittimità degli atti impugnati, resi in pedissequa attuazione del nuovo disposto normativo, prospettando diverse eccezioni di illegittimità costituzionale nei confronti delle modifiche apportate, in parte qua, dall’art. 83 della legge reg. n. 9 del 2015, ritenute in contrasto con gli artt. 53, 3, 23, 41, 97 e 117, primo comma, Cost., nonché in relazione agli artt. 14, 20, 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 Dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2017.

Di qui il rivendicato annullamento degli atti impugnati, previa rimessione delle questioni di illegittimità costituzionale prospettate in riferimento ai citati parametri e in relazione alle indicate disposizioni dell’art. 83 della legge reg. n. 9 del 2015, poste a fondamento delle pretese indebitamente veicolate dalle amministrazioni resistenti.

2.3.– Nei giudizi principali, per quanto evidenziato dal rimettente, si è costituito l’Assessorato regionale dell’energia e dei servizi di pubblica utilità; in quello poi sfociato nel giudizio incidentale iscritto al r.o. n. 139 del 2017 si è anche costituito il Comune di Castelvetrano, amministrazione intimante, mentre in quello inerente al giudizio costituzionale iscritto al r.o. n. 177 del 2017 sono intervenuti altri esercenti l’attività di gestione cave nonché il Consorzio Siciliano Cavatori, aderendo alle prospettazioni dei ricorrenti.

3.– Il TAR, con le due ordinanze di rimessione, ha delimitato il giudizio di non manifesta infondatezza solo alle questioni prospettate in riferimento agli artt. 53 e 3 Cost., con riguardo alle modifiche che il censurato art. 83 ha apportato al disposto del comma 1 dell’art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013; ancora, ha ritenuto non manifestamente infondata l’eccezione inerente l’affermato conflitto tra l’innovazione apportata dal medesimo art. 83, introducendo, nell’impianto del citato art. 12 della legge novellata, il comma 8, e gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU.

3.1.– Sul versante della rilevanza, ad avviso del rimettente, non potrebbe dubitarsi dell’ammissibilità delle questioni: le norme impugnate rappresenterebbero, infatti, il fondamento normativo degli atti impugnati, così da influire radicalmente sulla definizione delle due fattispecie poste al suo giudizio.

3.2.– Secondo il TAR, ancora, deve ritenersi non manifestamente infondata l’eccezione sollevata in riferimento alla addotta violazione dell’art. 53 Cost., riferita al primo comma dell’art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013 così come modificato dal censurato art. 83. Ciò in considerazione della ritenuta natura tributaria della prestazione imposta, dalla normativa in contestazione, ai soggetti che esercitano l’attività di gestione delle cave.

Militerebbero in tal senso sia il fatto che l’obbligo del pagamento trova la sua fonte esclusiva nella legge regionale, senza costituire remunerazione dell’uso di beni pubblici, così da risultare estraneo ad un rapporto sinallagmatico; sia la destinazione del ricavato da tale esazione, giacché, con i relativi fondi, i Comuni e la Regione vengono dotati dei mezzi finanziari necessari ad assolvere le funzioni di cura concreta degli interessi generali. La disposizione censurata, infatti, consentirebbe alla Regione di utilizzare liberamente la quota parte di gettito che la legge riserva al detto ente (50 per cento dell’intero), mentre i Comuni, per la quota residua loro assegnata, devono destinare le somme al finanziamento non solo di interventi infrastrutturali di recupero, riqualificazione e valorizzazione del territorio, del tessuto urbano e degli edifici scolastici e ad uso istituzionale, ma anche di manutenzione e valorizzazione ambientale ed infrastrutturale connessi all’attività estrattiva o su beni immobili confiscati alla mafia ed alle organizzazioni criminali. Tale connotazione funzionale, congiunta al fatto che il prelievo si collega all’attività economica di gestione dei giacimenti, ad avviso del rimettente, porta a ritenere il canone in questione uno strumento di riparto, ai sensi dell’art. 53 Cost., del carico della spesa pubblica in ragione della capacità economica manifestata dai soggetti interessati.

3.3.– Muovendo da tale presupposto, il rimettente rimarca che, in virtù di quanto previsto dalla disposizione censurata, il corrispettivo per l’uso del giacimento non sarebbe più commisurato alla sua resa, destinata a diminuire nel tempo in ragione del relativo sfruttamento, ma risulta ora rapportato alla superficie del terreno sul quale si svolge l’attività di estrazione, la quale rimane, invece, immutata anche quando la stessa è quasi esaurita. Poiché si tratta di un canone dovuto non una tantum, ma annualmente, sarebbe in conseguenza venuto meno il collegamento con la capacità contributiva. Non assume più rilievo il guadagno che deriva dal giacimento; si applica, piuttosto, un tributo fisso indipendente dallo stesso.

3.4.– Sempre con riferimento alle modifiche apportate al primo comma dell’art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013, il rimettente ritiene non manifestamente infondati i dubbi prospettati con riguardo all’addotta violazione del principio di uguaglianza.

La disposizione censurata determinerebbe, infatti, immotivate discriminazioni all’interno della medesima categoria dei titolari di giacimenti minerari, distinguendo tra quelli che gestiscono cave di piccola dimensione, ma ad elevata resa, e quelli titolari di cave di grande estensione, ma a bassa resa. Sui primi graverebbe un peso identico a quello dei secondi, a parità di superficie interessata, con prospettive di rendimento, tuttavia, del tutto diverse. Ai fini della quantificazione del canone, la remuneratività dell’attività viene, dunque, irrazionalmente sopraffatta dal riferimento alla superficie dell’area coltivabile ed ai volumi autorizzati della cava.

Ad avviso del rimettente, pertanto, a situazioni differenti viene applicato il medesimo trattamento in maniera irragionevole.

3.5.– Il TAR dubita anche della legittimità costituzionale del comma 8 dell’art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013, così come introdotto dall’impugnato art. 83 della legge reg. n. 9 del 2015; norma, questa, in forza della quale le nuove previsioni di determinazione dei canoni sono state estese anche all’anno 2014, così da giustificare le intimazioni di pagamento impugnate nei due giudizi principali dai rispettivi ricorrenti in uno con l’atto amministrativo generale che le ha supportate.

Tale disposizione, ad avviso del rimettente, sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU.

3.5.1.– Con riferimento al primo dei parametri evocati, ad avviso del TAR, risulterebbe vulnerato il legittimo affidamento ingenerato, negli esercenti l’attività di estrazione, dalle previsioni previgenti in punto di determinazione del canone, considerata l’irragionevolezza e l’arbitrarietà della scelta operata nel far retroagire gli effetti delle modifiche apportate al primo comma del più volte evocato art. 12 della stessa legge.

Secondo il rimettente, l’applicazione dei nuovi criteri di determinazione dei canoni espone i titolari di giacimenti minerari ad un inaspettato e considerevole esborso economico, così da non metterli nelle condizioni di valutare ex ante, nell’organizzazione della propria attività imprenditoriale, le conseguenze delle innovazioni introdotte. Così, se per il periodo successivo all’entrata in vigore delle nuove disposizioni i detti esercenti hanno avuto la possibilità di decidere se aumentare il corrispettivo richiesto ai propri clienti o, addirittura, sospendere o non esercitare più l’attività estrattiva, tale scelta risulterebbe loro preclusa per l’anno antecedente tanto da ledere irragionevolmente l’affidamento riposto nella quantificazione del canone secondo i criteri all’epoca vigenti e mettere in crisi le rispettive strategie imprenditoriali.

4.– Nel giudizio di costituzionalità iscritto al r. o. n. 177 del 2017 si sono costituiti alcuni dei ricorrenti del processo a quo, ribadendo la fondatezza delle argomentazioni spese dal rimettente a sostegno dei prospettati dubbi di illegittimità costituzionale. Ciò in ragione dell’addotta violazione dell’art. 53 Cost., perché i nuovi indici di determinazione dei canoni non si sostanziano in fatti o situazioni idonei ad esprimere una potenzialità economica, nonché in funzione del rilevato contrasto con l’art. 3 Cost., avuto riguardo alla disposta retroattività delle disposizioni impugnate, irragionevolmente strumentali a coprire esclusivamente il disavanzo regionale, come comprovato dal fatto che se ne è estesa l’efficacia ad un ambito temporale (l’anno 2014) non compreso nelle disposizioni programmatiche e correttive dettate dalla legge che le conteneva (destinata ad operare per il 2015).

4.1.– Nel medesimo giudizio incidentale si sono costituiti, con memoria depositata il 17 novembre 2017, i soggetti intervenuti ad adiuvandum nel relativo giudizio principale. Con la medesima memoria si è pure costituita la Fratelli Calamaio di Calamaio Ettore & C. snc, non indicata tra gli intervenienti nell’ordinanza di rimessione.

Tali parti, nel concludere in linea con le prospettazioni offerte dal rimettente, hanno ribadito l’incidenza quantitativa degli aumenti apportati con le nuove disposizioni; hanno rimarcato la lesività della disposta retroattività avuto riguardo all’affidamento ingenerato nei soggetti interessati dalla normativa pregressa, peraltro di recente introduzione; nell’ottica volta a supportare l’addotta lesione dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU, hanno inoltre segnalato l’assenza del dovuto bilanciamento tra le esigenze di raggiungimento degli obiettivi di bilancio perseguiti dalla Regione e l’intensità del correlativo sacrificio economico imposto ai privati interessati.

4.2.– Sempre nel giudizio incidentale iscritto al r.o. n. 177 del 2017, si è costituito, con memoria depositata il 5 dicembre 2017, il Consorzio Siciliano Cavatori, anch’esso intervenuto ad adiuvandum nel giudizio a quo, ribadendo le indicazioni argomentative esposte dal rimettente a sostegno delle questioni, nonché i temi già addotti dalle altre parti ad ulteriore supporto della fondatezza delle questioni. Sul versante della retroattività delle disposizioni impugnate, nell’ottica della paventata lesione dell’affidamento sulla certezza della situazione giuridica garantita dalla previgente disciplina normativa, tale parte ha rimarcato sia l’incidenza dei nuovi criteri su un periodo, l’esercizio relativo al 2014, economicamente esaurito alla data di entrata in vigore della legge impugnata, tanto che erano stati già determinati e corrisposti i canoni relativi all’annualità in questione; sia la non prevedibilità della innovazione retroattiva, ribadendone l’illegittimità costituzionale in ragione della natura tributaria della relativa previsione.

4.3.– In entrambi i giudizi incidentali è intervenuta la Regione Siciliana che ha spiegato difese identiche e concluso per la inammissibilità o comunque per la non fondatezza delle questioni sollevate dal TAR con le due ordinanze di rimessione in esame.

Con riferimento all’addotta violazione dell’art. 53 Cost., ad avviso della Regione, deve escludersi che i canoni legati all’attività di gestione dei giacimenti minerari di cava possano essere considerati come tributi, trattandosi, piuttosto, di un corrispettivo pattuito per l’utilizzo del bene pubblico o in ogni caso, se esercitata su un bene privato, per l’attività di estrazione che incide sul bene ambiente.

Quanto all’addotta, irragionevole, diseguaglianza, determinata dai nuovi criteri di quantificazione introdotti dalla novella censurata, la Regione contesta la fondatezza dell’assunto sotteso alle due ordinanze di rimessione, perché la ratio delle modifiche apportate, destinate a dare rilievo decisivo alla superficie ed ai volumi di potenziale estrazione, corrisponde all’esigenza di garantire un efficace ripristino della situazione ambientale incisa da detta attività. Si prescinde, dunque, dall’eventuale pregio dei materiali estratti, così come confermato non solo dalla destinazione vincolata (al recupero, riqualificazione e valorizzazione del territorio del tessuto urbano e dell’ambiente) delle somme all’uopo corrisposte, ma anche dalla prevista sospensione dell’obbligo di contribuzione in caso di temporanea interruzione dei lavori di coltivazione.

In ordine alla retroattività prevista dall’ultimo comma dell’art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013, come introdotto dall’art. 83 della legge reg. n. 9 del 2015, la difesa dell’interveniente evidenzia che, con il sistema previgente, il calcolo dei canoni dovuti veniva effettuato l’anno successivo sulla base dei dati relativi all’esercizio precedente, così come comunicati dai gestori delle cave. Coerentemente, dunque, la disposizione impugnata fa retroagire gli effetti delle modifiche sin dall’anno 2014.

Del resto, la presenza di una causa normativa adeguata, tale da rendere accettabile il sacrificio imposto dall’intervento ablativo attraverso contropartite intrinseche allo stesso progetto normativo, destinate a bilanciare le posizioni delle parti, renderebbe legittima la scelta nel caso operata dal legislatore regionale.

4.4.– Nel corso del giudizio incidentale iscritto al r.o. n. 177 del 2017, la difesa dei ricorrenti del giudizio principale costituiti innanzi a questa Corte ha depositato, in data 8 febbraio 2018, memoria con la quale ha ulteriormente ribadito le ragioni già prospettate a sostegno della fondatezza delle censure.

4.5.– In data 26 febbraio 2018 la difesa della Regione Siciliana ha depositato, nei due giudizi incidentali, distinte memorie dal contenuto identico. Con tali atti l’interveniente ha evidenziato che la disciplina regionale, prima della novella apportata dalla legge reg. n. 9 del 2013, legava la determinazione del canone dovuto dai concessionari alla superficie coinvolta nell’attività estrattiva; criterio di correlazione, questo, peraltro adottato anche in altre Regioni senza dar luogo a dubbi di legittimità costituzionale. L’interveniente ha, inoltre, addotto l’inammissibilità della censura rivolta all’attuale comma 8 dell’art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013, prospettata in riferimento all’art 117, primo comma, Cost., integrato dall’art. 1 Prot. addiz. CEDU, perché non argomentata avuto riguardo all’evocato parametro convenzionale.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione terza (di seguito, TAR), con due distinte ordinanze rese in altrettanti giudizi, prospettando identiche censure sia per l’oggetto, sia per i parametri evocati, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83 della legge della Regione Siciliana 7 maggio 2015, n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2015. Legge di stabilità regionale), nella parte in cui ha modificato il comma 1 e introdotto il comma 8 dell’art. 12 della legge della Regione Siciliana 15 maggio 2013, n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2013. Legge di stabilità regionale).

2.– Ad avviso del rimettente, le modifiche apportate al comma 1 dell’art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013 si pongono in contrasto con gli artt. 53 e 3 della Costituzione. L’introduzione del comma 8 nell’impianto del citato art. 12 è, invece, ritenuto in conflitto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 e ratificato con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

3.– I due giudizi incidentali hanno contenuti sostanzialmente sovrapponibili. L’oggetto delle questioni sollevate dal rimettente, i parametri evocati e le argomentazioni spese a sostegno delle censure sono identici nelle due ordinanze.

È opportuna, in coerenza, una trattazione e definizione unitaria.

4.– Preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità della costituzione della Fratelli Calamaio di Calamaio Ettore & C. snc, che non risulta tra le parti costituite nel giudizio principale di riferimento (quello legato al giudizio incidentale iscritto al r.o. n. 177 del 2017), per quanto emerge dalla relativa ordinanza.

5.– All’infuori di quanto si dirà con riferimento alla questione prospettata in relazione all’art. 117, primo comma, Cost., l’esame delle due ordinanze di rimessione non pone in evidenza vizi inerenti alla motivazione in ordine alla rilevanza ed alla non manifesta infondatezza delle questioni prospettate.

5.1.– Sotto questo profilo, va evidenziato che il censurato art. 83 della legge reg. n. 9 del 2015, nella parte in cui viene investito dai dubbi prospettati dal rimettente, ha modificato i criteri di determinazione del canone annuo dovuto dai soggetti esercenti l’attività di cava nel territorio siciliano, tema in precedenza disciplinato dal comma 1 dell’art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013.

I nuovi criteri sono stati resi applicabili anche al periodo di esercizio relativo all’anno 2014, grazie a quanto previsto dal comma 8 dell’art. 12 della legge regionale da ultimo citata, sempre in forza delle innovazioni apportate dal censurato art. 83 della legge reg. n. 9 del 2015.

5.2.– Nei due giudizi principali risultano impugnati, da alcune imprese esercenti l’attività estrattiva, sia l’atto generale (il decreto dell’assessore della Regione Siciliana per l’energia e i servizi di pubblica utilità del 12 agosto 2015) a mezzo del quale, in attuazione delle norme censurate, sono state definite le modalità applicative del canone di produzione annuo dovuto per lo sfruttamento di giacimenti minerari di cave, per l’anno 2014 e per le annualità successive; sia gli avvisi di pagamento, resi dai relativi Distretti minerari territorialmente competenti, con i quali è stato rideterminato e chiesto il canone dovuto dai diversi ricorrenti relativamente al 2014.

5.3.– In entrambi i giudizi, poi, l’invocato annullamento degli atti impugnati si lega alla illegittimità degli stessi siccome derivata dalla prospettata incostituzionalità delle disposizioni censurate. È dunque evidente, per un verso, che la verifica di legittimità costituzionale rimessa a questa Corte assume rilevo pregiudiziale rispetto all’annullamento degli atti impugnati innanzi al rimettente nei due giudizi principali; per altro verso, che proprio il petitum volto all’annullamento degli atti impugnati innanzi al TAR consente di escludere la sovrapponibilità di oggetto tra giudizi principali e incidente di legittimità costituzionale, con conseguente ammissibilità delle questioni (sentenza n. 236 del 2017).

6.– Venendo allo scrutinio delle singole questioni, non sembra superflua una preliminare descrizione della cornice normativa all’interno della quale si collocano le disposizioni impugnate.

6.1.– L’attività di sfruttamento delle cave, ascritta alla competenza legislativa primaria della Regione in forza di quanto previsto dalla lettera h) dell’art. 14 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), è disciplinata dalle disposizioni contenute nella legge regionale Siciliana 9 dicembre 1980, n. 127 (Disposizioni per la coltivazione dei giacimenti minerari da cava e provvedimenti per il rilancio e lo sviluppo del comparto lapideo di pregio nel territorio della Regione Siciliana), negli anni integrata da successivi interventi normativi, tra i quali va annoverato quello legato alle disposizioni oggetto di censura.

Sulla falsariga di quanto previsto, per l’intero territorio nazionale, dal regio decreto 29 luglio 1927, n. 1443 (Norme di carattere legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere del Regno), e in coerenza con quanto previsto, per le cave, dall’art. 826 codice civile, la relativa attività di estrazione è subordinata a concessione (artt. 30 e 31 della citata legge reg. n. 127 del 1980), se il giacimento risulta acquisito al patrimonio indisponibile della Regione; diversamente, laddove la disponibilità del bene rimanga in capo al proprietario, l’attività è subordinata ad un’autorizzazione.

6.2.– Con specifico riferimento al tema del canone dovuto dal titolare dell’attività estrattiva, la citata legge reg. n. 127 del 1980, all’art. 33, prevede il pagamento, in favore della Regione, di un importo commisurato alla superficie coinvolta dalla coltivazione e al tipo di materiale oggetto dell’attività estrattiva; prestazione, questa, legata, dalla lettera della norma, all’ipotesi del solo rapporto concessorio.

Invece, con riferimento alle autorizzazioni, la legge in questione prevede che il rilascio delle stesse venga subordinato al versamento di una somma, stabilita sulla base di apposita tabella predisposta dal Corpo regionale delle miniere, da utilizzare per l’esecuzione delle opere di sistemazione dei luoghi soggetti all’attività estrattiva in funzione del relativo recupero ambientale (art. 19, commi 1 e 2).

6.3.– Con l’art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013, la Regione Siciliana, innovando la precedente disciplina, ha previsto, con generico riferimento all’attività di estrazione inerente «ai giacimenti minerari di cava», il versamento di un canone commisurato alla quantità (comma 1) nonché alla qualità (comma 2) del minerale estratto. La relativa entrata era destinata per il 60 per cento al comune interessato e per il 40 per cento alla Regione; la quota parte destinata ai comuni, inoltre, risultava vincolata funzionalmente «alla realizzazione di opere di recupero e riqualificazione ambientale nonché al recupero dei beni confiscati alla mafia e alle organizzazioni criminali».

6.4.– Tale disciplina è stata modificata, a distanza di due anni, dall’art. 83 della legge reg. n. 9 del 2015, portato, nell’occasione, alla verifica di questa Corte, rideterminando, per quanto già anticipato, i parametri di commisurazione del canone.

Con disposizioni rimaste estranee alle questioni sollevate dal TAR rimettente (commi 4 e 5 del nuovo art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013), la novella ha, inoltre, inciso sulla destinazione delle somme percepite a tale titolo dagli enti interessati, con riguardo sia alla ripartizione (alla Regione oggi spetta il 50 per cento dell’intero), sia al vincolo funzionale impresso alle stesse per la quota parte residua assegnata ai Comuni.

In particolare, gli importi in questione devono essere impiegati esclusivamente per interventi infrastrutturali di recupero, riqualificazione e valorizzazione del territorio, del tessuto urbano e degli edifici scolastici e ad uso istituzionale; una quota non inferiore al 50 per cento delle suddette risorse destinate ai Comuni resta, inoltre, riservata agli interventi di manutenzione e valorizzazione ambientale ed infrastrutturale, connessi all’attività estrattiva o su beni immobili confiscati alla mafia ed alle organizzazioni criminali.

6.5.– Va inoltre evidenziato che l’art. 12 della citata legge reg. n. 9 del 2013, prima di subire le modifiche introdotte dalle disposizioni censurate, venne sottoposto, nel 2014, a due tentativi di innovazione, non portati a termine perché le relative disposizioni, approvate dall’assemblea regionale, non furono promulgate in quanto impugnate davanti a questa Corte dal Commissario dello Stato per la Regione Siciliana, per ragioni afferenti alla relativa copertura finanziaria (ricorsi iscritti ai n. 5 e n. 62 del 2014, dichiarati improcedibili rispettivamente con le ordinanze n. 166 e n. 204 del 2015, per il difetto di legittimazione del ricorrente).

Di tali modifiche non compiutamente esitate, la prima (prevista dall’art. 47, comma 8, della delibera legislativa della Regione Siciliana del 15 gennaio 2014, in approvazione del disegno di legge n. 670, recante «Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2014. Legge di stabilità regionale») riportava la previsione in oggetto all’interno dell’ambito disciplinato dall’art. 19 della legge reg. n. 127 del 1980, incrementando la misura della somma da versare per il ripristino ambientale dell’area immediatamente interessata dall’attività estrattiva; la seconda (dettata dall’art. 75 della delibera legislativa del 1 agosto 2014, in approvazione del disegno di legge n. 782, recante «Assestamento del bilancio della Regione per l’anno finanziario 2014. Variazioni al bilancio di previsione della Regione per l’esercizio finanziario 2014 e modifiche alla legge regionale 28 gennaio 2014 n. 5. Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2014. Legge di stabilità regionale. Disposizioni varie») mirava, invece, all’introduzione di nuovi criteri di determinazione del canone, in termini identici a quelli oggi disposti dalle norme censurate.

6.6.– Va, infine, sottolineato che dai lavori preparatori della novella censurata (segnatamente dall’esame, in commissione, del disegno di legge, di origine assembleare, n. 887 del 2014, poi integralmente trasfuso in un emendamento alla legge di stabilità, sfociato nella censurata modifica dell’art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013) emerge che i nuovi criteri di determinazione del canone hanno trovato una giustificazione causale nell’esigenza di individuare modalità applicative tali da garantire un più puntuale accertamento del dovuto, così da rendere effettiva ed efficiente l’esazione della prestazione riducendo l’area di possibile evasione.

Ciò in ragione della riscontrata inadeguatezza del sistema legato alla autocertificazione dei volumi estratti, previsto dalla normativa previgente, negativamente sperimentato in sede di prima applicazione della norma.

7.– Tanto premesso, passando allo scrutinio della prima questione, va rilevato che il rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 1 dell’art. 12 della citata legge reg. n. 9 del 2013, così come modificato dall’art. 83 della legge reg. n. 9 del 2015, in riferimento all’art. 53 Cost., perché, sul presupposto della natura tributaria del canone in oggetto, la disposizione censurata, a differenza di quanto accadeva nel passato, non ne correla più la quantificazione al rendimento ricavato dall’attività di estrazione, così da recidere il necessario collegamento con la capacità contributiva.

7.1.– È di immediata evidenza che lo snodo logico imprescindibile della censura in questione è offerto dalla ritenuta natura tributaria del canone in esame. Smentita tale premessa interpretativa, perde di consistenza l’intera prospettazione sottesa alla questione.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, una fattispecie deve ritenersi «di natura tributaria, indipendentemente dalla qualificazione offerta dal legislatore, laddove si riscontrino tre indefettibili requisiti: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese» (ex plurimis, da ultimo, sentenze n. 269 e n. 236 del 2017).

Ad avviso del TAR, alla luce di tali indicazioni interpretative, milita in favore della natura tributaria del canone previsto dalla legge in esame, in primo luogo, la fonte legislativa dell’obbligo del pagamento; ancora, rileva l’estraneità della prestazione in questione ad un rapporto sinallagmatico; infine, sarebbe determinante il fatto che il ricavato di tale imposizione risulti destinato a dotare i Comuni e la Regione dei mezzi finanziari necessari ad assolvere le funzioni di cura concreta degli interessi generali.

7.2.– L’argomento del TAR non è condivisibile ed è conseguentemente non fondata la questione che su esso si basa.

7.3.– Questa Corte si è già occupata dei contributi legati all’attività estrattiva da cava (segnatamente quelli previsti dall’art. 20 della legge della Regione Veneto 7 settembre 1982, n. 44, recante «Norme per la disciplina dell’attività di cava»), escludendone, in particolare, la connotazione tributaria (ordinanza n. 387 del 1990). Innanzi ad un dato normativo che, non diversamente da quello sottoposto all’odierno controllo di legittimità costituzionale, risultava finalizzato, nella destinazione delle somme ricavate dal pagamento del dovuto, anche alla realizzazione di interventi e di opere connesse al ripristino ambientale, è stata esclusa la natura tributaria della prestazione non essendo stati rinvenuti «né i presupposti di una indistinta imposizione né quelli di tassazione specifica per un richiesto servizio».

7.4.– Il rimettente non si confronta con tale decisione. Quel che più conta, non offre valide argomentazioni che consentano a questa Corte di distaccarsi dalla relativa valutazione interpretativa.

7.4.1.– Il canone dovuto in forza della disposizione censurata si pone a latere del titolo che legittima l’attività estrattiva. Non è influenzato dalla titolarità, pubblica o privata, del giacimento; si lega, piuttosto, all’insieme di competenze amministrative correlate all’attività estrattiva nonché alle caratteristiche della stessa, tali da incidere sulla salubrità e integrità ambientale del territorio interessato dalla relativa iniziativa imprenditoriale.

Sotto il primo versante, non va trascurato che lo sfruttamento dei giacimenti sollecita diverse competenze amministrative, ripartite tra la Regione e i Comuni interessati dalla localizzazione dell’attività di estrazione.

Tra queste, in via esemplificativa, assume, di certo, importanza primaria l’attività di programmazione e pianificazione territoriale; un ruolo non indifferente va, pure, ascritto all’azione amministrativa inerente alla fase di affidamento del titolo e ai compititi di verifica ispettiva, finalizzati, in particolare, al controllo della conformità della coltivazione esercitata rispetto a quella assentita nonché alla repressione delle iniziative abusive.

Con riguardo, poi, alla incidenza dell’attività di estrazione sulla salubrità e integrità del territorio di riferimento, giova precisare che la prestazione in esame non è strumentale alla ricomposizione ambientale dell’area immediatamente coinvolta dall’attività di estrazione, obiettivo autonomamente coperto dal pagamento della somma prevista dall’art. 19 della legge regionale n. 127 del 1980, destinata a finanziare le opere da realizzare a tal fine nel corso della coltivazione o al termine della stessa, in linea con lo studio di fattibilità previsto dall’art. 12, lettera d, della stessa legge.

Trova, piuttosto, la sua ratio fondante nell’esigenza di indennizzare la collettività per il disagio comunque correlato allo sfruttamento del suolo, essendo certa l’incidenza negativa dell’attività estrattiva sul paesaggio e sull’ambiente inerenti alle zone limitrofe a quelle di collocazione della cava.

Il costo di un siffatto disagio finisce per gravare, coerentemente, su chi lo produce, in linea, del resto, con le indicazioni di principio derivanti, in materia ambientale, dall’art 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, come modificato dall’art 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130.

Vengono così coperti gli oneri finanziari che gli enti interessati devono comunque affrontare per neutralizzare al meglio le conseguenze – nocive ma legittime, perché consentite dalla legge ed assentite dalle amministrazioni interessate – comunque correlate a siffatte iniziative economiche.

7.4.2.– Nel caso, tali considerazioni trovano immediata conferma nella significativa parte degli importi riscossi a tale titolo e devoluti ai comuni interessati per finanziare «interventi di manutenzione e valorizzazione ambientale ed infrastrutturale connessi all’attività estrattiva»; finalizzazione, questa, espressamente prevista dalla disposizione censurata.

Tale rilievo, diversamente da quanto sostenuto dal rimettente, non trova adeguata smentita nell’assegnazione alla Regione del 50 per cento dell’intero ricavato dalla esazione dei canoni in questione, senza che tale destinazione risulti espressamente connotata da altrettante indicazioni funzionali legate al ripristino ambientale.

Sotto questo profilo, il silenzio assunto sul punto dalla lettera della norma in esame non è decisivo. Una tale destinazione del ricavato dall’esazione dei canoni in esame, trova, piuttosto, una coerente giustificazione nella necessità di sostenere, da un punto di vista finanziario, la Regione in considerazione dell’impegno ad essa spettante nel pianificare e controllare l’attività estrattiva; compiti che la disciplina di riferimento riserva primariamente alla Regione stessa.

7.4.3.– Il canone previsto dalla disposizione censurata, si correla, inoltre, a parametri di determinazione che si mostrano estranei ai profili di redditività propri della relativa attività produttiva, così da marcare, sempre di più, le distanze dalla prospettiva tributaria.

Sia il riferimento alla quantità e qualità del materiale estratto, previsto in origine dalla normativa precedente, sia l’odierno riferimento alla estensione della superficie interessata dall’estrazione nonché ai volumi autorizzati, si basano su criteri di determinazione del dovuto che mettono al centro della quantificazione del canone la produzione derivante dalla relativa attività non in quanto indice di ricchezza effettiva desunta dall’attività di sfruttamento del giacimento, bensì come parametro dell’incidenza della stessa sull’ambiente circostante.

7.5.– In definitiva, il canone in esame si correla all’impegno profuso dagli enti interessati nella gestione amministrativa collegata alla relativa attività di impresa e mira ad indennizzare il pregiudizio che la collettività finisce per patire in conseguenza dell’autorizzazione relativa allo sfruttamento delle cave; pregiudizio al quale corrisponde uno specifico onere delle amministrazioni interessate quanto al ripristino delle condizioni ambientali e territoriali pregiudicate dall'attività di estrazione. Non a caso, del resto, i costi legati a siffatto pregiudizio non gravano su chi sfrutta il giacimento, laddove i lavori di coltivazione vengano sospesi e durante il periodo di tale sospensione (ai sensi del comma 7 del più volte citato art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013).

7.6.– Una tale ricostruzione si rivela conforme all’orientamento tracciato dalla giurisprudenza, ordinaria e amministrativa, nello scrutinare, in genere per ragioni afferenti alla giurisdizione, alcune disposizioni emanate sul tema in oggetto da altre Regioni, ed aventi un contenuto sostanzialmente analogo alla disciplina offerta dalle norme censurate.

7.6.1.– Assumono, in tal senso, un rilievo paradigmatico le considerazioni interpretative spese in riferimento al disposto dell’art. 15 della legge della Regione Toscana 3 novembre 1998, n. 78 (Disposizioni in materia di miniere), oggi non più vigente perché sostituito da altra disposizione avente un contenuto non dissimile.

Anche tale norma (al comma 3) destinava il contributo in questione alla realizzazione di «interventi infrastrutturali» e di «opere di tutela ambientale» comunque «correlati alle attività estrattive», nonché alle incombenze amministrative legate a tale attività di impresa, ripartendo il riscosso tra i Comuni interessati e la Regione; e ne rapportava la quantificazione ad indici non immediatamente espressivi della redditività della relativa iniziativa economica (comma 2).

Proprio in ragione di tali caratteristiche è stata esclusa la natura tributaria del contributo previsto dalla detta disposizione, il quale, piuttosto, viene descritto in termini di «strumento diretto ad assicurare l’esecuzione di interventi pubblici […] funzionali alla salvaguardia dei beni collettivi dell’ambiente e del territorio dall’impatto su di essi della localizzazione delle cave e dell’esercizio dell’attività estrattiva, in quanto incidenti in modo rilevante e diffuso sia sul paesaggio e sulla viabilità prossima ed a media distanza e sia sulla salubrità dell’atmosfera, con evidenti ricadute anche sulla sopravvivenza o normale sviluppo della flora e la fauna nelle zone limitrofe» (Corte di Cassazione, sezioni unite, ordinanze 24 dicembre 2009, n. 27347 e 19 dicembre 2009, n. 26815; analogamente, TAR Toscana, sezione seconda, sentenza 3 marzo 2015, n. 344).

7.6.2.– Una tale lettura, del resto, è stata estesa dalla giurisprudenza amministrativa a contributi omologhi previsti da norme di altre leggi regionali (ex multis, TAR Campania, Napoli, sezione quarta, sentenza 6 luglio 2016, n. 3402; sezione terza, sentenza 12 gennaio 2015, n. 138). Ne emerge un quadro interpretativo complessivo che, secondo quanto già evidenziato da questa Corte (sentenza n. 52 del 2018), senza assurgere al rango di «diritto vivente» sul tema, per la diversità delle fonti e, in parte, dei contenuti delle relative disposizioni scrutinate, rappresenta tuttavia una chiara conferma della correttezza delle precedenti considerazioni spese nell’escludere natura tributaria alla prestazione patrimoniale in esame.

7.7.– Il canone in oggetto, principalmente caratterizzato da tale peculiare connotazione indennitaria, è dunque privo della funzione genericamente contributiva al bilancio degli enti interessati o commutativa di un servizio, che caratterizza i tributi.

Non ha, pertanto, natura tributaria, difettando i caratteri che lo condizionano, sopra indicati, stabiliti dalla giurisprudenza costituzionale.

Di qui l’infondatezza della prima questione.

8.– Secondo il rimettente, la medesima disposizione sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., perché fonte di irragionevoli discriminazioni. A parità di superficie interessata, i nuovi criteri di determinazione mettono, ad avviso del TAR, sullo stesso piano tutti i soggetti che svolgono la relativa attività di estrazione, quale che sia il materiale oggetto della relativa iniziativa imprenditoriale ed a prescindere dalla relativa capacità remunerativa.

Secondo il rimettente, dunque, viene imposto, irrazionalmente, il medesimo trattamento a situazioni differenti.

8.1.– La censura non coglie nel segno perché è legata a presupposti logici non coerenti con la ratio della disposizione censurata (sentenza n. 290 del 2010).

Si è già evidenziato che la ragione fondante della prestazione patrimoniale disposta dalla norma in esame si lega sia allo sforzo amministrativo correlato a tale attività di impresa; sia all’esigenza di far gravare il costo del relativo disagio patito dalla collettività sui soggetti, che, ottenuto il titolo legittimante, determinano il pregiudizio ambientale intrinsecamente legato all’attività estrattiva. All’interno di questo più esteso ambito di riferimento, la disposizione in oggetto persegue, anche, l’ulteriore obiettivo della individuazione del metodo applicativo più idoneo a garantire una puntuale esazione del dovuto.

Muovendo da tali presupposti, non appare convincente il cardine logico sul quale riposa la prospettata diseguaglianza tra le imprese che esercitano l’attività di estrazione.

La diversa possibilità di rendimento dell’attività, in ragione del maggior valore di mercato del materiale estratto, deve ritenersi ininfluente una volta che si colleghi il canone in esame non ai valori di produzione reddituale della relativa iniziativa imprenditoriale, bensì alla esigenza di compensare il costo amministrativo ed il disagio ambientale conseguenti alla attività di cava. In particolare, i profili di erosione territoriale e ambientale conseguenti all’attività estrattiva, prescindono dalla potenziale redditività della relativa iniziativa economica, che ovviamente troverà, invece, rilievo nella determinazione dell’imponibile ai fini della tassazione sul reddito delle imprese.

Infatti, nei criteri di determinazione del canone introdotti dalla novella, viene data rilevanza essenziale alla deturpazione del paesaggio, certamente correlata alla quantità di superficie interessata dall’attività di scavo; e, nell’ottica indennitaria, si tempera il relativo parametro coniugandolo con il riferimento ai volumi di estrazione autorizzati, ancor più concretamente indicativi dell’effettiva modificazione ambientale assentita.

9.– Il TAR dubita, infine, della legittimità costituzionale del comma 8 della medesima legge reg. n. 9 del 2013, così come introdotto dall’art. 83 della legge reg. n. 9 del 2015, in relazione agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art. 1 Prot. addiz. CEDU.

Con la norma censurata, secondo il rimettente, si dispone, in modo arbitrario e irragionevole, l’efficacia retroattiva dei nuovi criteri di determinazione del canone in esame, estendendone l’applicazione anche all’anno 2014, così da ledere il legittimo affidamento riposto, dai titolari dell’attività di estrazione, sul mantenimento delle condizioni di quantificazione del detto corrispettivo garantite dalla previgente normativa.

9.1.– Preliminarmente, in linea con quanto eccepito dalla difesa della Regione, va dichiarata l’inammissibilità della questione con riguardo al parametro convenzionale, evocato per il tramite del primo comma dell’art. 117 Cost.

Tale parametro risulta richiamato solo nominalmente dal rimettente, che non ha argomentato sul punto nelle due ordinanze. Le relative motivazioni, in parte qua, risultano, piuttosto, esclusivamente riferite all’asserita lesione dell’art. 3 Cost.

9.2.– Con riguardo al parametro interno, la censura si rivela infondata.

9.3.– Va in primo luogo confermato che la disposizione censurata, rendendo applicabili i nuovi criteri di determinazione del canone anche all’esercizio relativo al 2014, ha natura retroattiva.

I nuovi criteri previsti dalla novella, in vigore dal 15 maggio 2015, finiscono per incidere su una prestazione che, alla data di entrata in vigore della riforma, doveva ritenersi già compiutamente definita.

E infatti, in virtù di quanto previsto dall’art. 5 del decreto dell’assessore regionale per l’energia e i servizi di pubblica utilità dell’11 aprile 2014, reso in attuazione dell’originario tenore dell’art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013, il pagamento della prestazione in esame, relativa all’anno 2014, andava effettuato entro il 31 marzo 2015.

9.4.– Va, poi, rimarcato che il presupposto logico dell’intero ragionamento sotteso alla dedotta illegittimità costituzionale attiene alla misura dell’aumento fatto gravare sui soggetti che esercitano l’attività di sfruttamento delle cave, nel passaggio tra quanto originariamente dovuto nel 2014 e gli importi rivendicati dagli enti competenti, per il medesimo periodo di esercizio, in esito alla novella.

L’incidenza quantitativa di siffatto aumento renderebbe arbitraria e irrazionale la disposta retroattività delle modifiche.

9.5.– Ciò precisato, va ribadito che l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica costituisce un «elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto» (sentenze n. 822 del 1988 e n. 349 del 1985) e «trova copertura costituzionale nell’art. 3 Cost., ma non già in termini assoluti e inderogabili» (sentenza n. 56 del 2015).

Come chiarito dalla costante giurisprudenza di questa Corte (in consonanza anche con quella della Corte EDU), la tutela dell’affidamento non comporta che, nel nostro sistema costituzionale, sia assolutamente interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, e ciò «anche se il loro oggetto sia costituito dai diritti soggettivi perfetti, salvo, qualora si tratti di disposizioni retroattive, il limite costituzionale della materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.)», fermo restando tuttavia che dette disposizioni, «al pari di qualsiasi precetto legislativo, non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l’affidamento del cittadino» (sentenze n. 16 del 2017 e n. 822 del 1988; in senso analogo, ex plurimis, sentenze n. 203 del 2016; n. 64 del 2014; n. 1 del 2011; n. 302 del 2010; n. 236, n. 206 e n. 24 del 2009; n. 409 e n. 264 del 2005; n. 446 del 2002; n. 416 del 1999).

L’affidamento da tutelare postula, tuttavia, il consolidamento, nel tempo, della situazione normativa che ha generato la posizione giuridica incisa dal nuovo assetto regolatorio, sia perché protratta per un periodo sufficientemente lungo, sia per essere sorta in un contesto giuridico sostanziale atto a far sorgere nel destinatario una ragionevole fiducia nel suo mantenimento (sentenza n. 56 del 2015).

Se, dunque, interessi pubblici sopravvenuti possono esigere interventi normativi in grado di comprimere posizioni consolidate, è comunque necessario, per un verso, che l’incidenza peggiorativa non sia sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito nell’interesse della collettività; per altro verso, che l’intervento di modifica sia prevedibile, non potendosi tollerare mutamenti retroattivi dell’assetto di interessi relativo a rapporti di durata consolidati nel tempo, del tutto inaspettati (sentenze n. 203 del 2016 e n. 64 del 2014).

9.6.– L’esame della ratio e del contenuto della norma impugnata induce ad escludere che questa abbia inciso in modo irragionevole, arbitrario e imprevedibile così da ledere – come denunziano le ordinanze rimettenti – il principio evocato.

9.6.1.– In primo luogo, va considerato che il canone in questione è stato introdotto nel 2013, mentre le modifiche apportate risalgono al 2015.

L’ambito temporale sopra descritto rende evidente che nel caso non poteva essersi consolidato un affidamento particolarmente radicato nel tempo quanto al tenore delle disposizioni previgenti, avuto riguardo ai criteri di determinazione della prestazione patrimoniale in esame.

9.6.2.– Il portato di novità che connotava l’introduzione delle norme modificate dalle disposizioni censurate – tramite le quali, per la prima volta, per i titolari di autorizzazione all’attività estrattiva, è stato disposto il pagamento della prestazione in oggetto – rendeva inoltre prevedibile, anche in un breve lasso temporale, una fisiologica instabilità di disciplina, motivata dall’esigenza di individuare non solo e non tanto i criteri di quantificazione del dovuto maggiormente confacenti alla tipologia dei rapporti in esame, ma anche le modalità attraverso le quali pervenire ad una più puntuale escussione della relativa obbligazione.

Siffatta prevedibilità della modifica, del resto, trova una rilevante conferma nel secondo dei già evidenziati tentativi di innovazione posti in essere dalla Regione nel corso del 2014, quello legato al disposto dell’art. 75 della delibera legislativa del 1° agosto 2014, in approvazione del disegno di legge n. 782, il quale anticipava l’introduzione dei criteri di determinazione del canone attualmente vigenti.

Per quanto già segnalato, siffatto tentativo non venne portato a termine per l’impugnazione della delibera legislativa che lo conteneva, all’epoca proposta, innanzi a questa Corte, dal Commissario dello Stato, prospettando minori entrate: motivazioni che si pongono in aperta distonia logica con il contenuto della censura sollevata dalle ordinanze di rinvio (le quali logicamente riposano, piuttosto, su un asserito considerevole aumento di entrate derivante dalla applicazione dei nuovi criteri).

La prevedibilità dell’introduzione dei nuovi criteri trova, inoltre, riscontro nelle ragioni di interesse pubblico – messe in luce dai lavori preparatori – che hanno imposto le modifiche oggetto di censura. Ragioni, emerse già nel primo anno di applicazione del canone in esame (come reso evidente dal tenore dell’art. 75 citato da ultimo), legate alle difficoltà incontrate nella puntuale verifica ed esazione del dovuto; e ciò in considerazione del metodo di accertamento correlato agli originari criteri di determinazione, fondato sull’autocertificazione della quantità di materiale estratto da parte del soggetto passivo della prestazione, tale da rendere non agevole un utile riscontro, quantomeno in termini di tempestività, degli importi da riscuotere da parte degli organi demandati al relativo controllo.

9.6.3.– È di immediata evidenza che la compiutezza dell’accertamento del dovuto e la puntualità nell’escussione del canone rappresentano segmenti imprescindibili del percorso che porta alla utile realizzazione dell’interesse della collettività sotteso alla prestazione patrimoniale prevista dalle disposizioni in esame, altrimenti vanificato. L’obiettivo perseguito con l’introduzione dei nuovi criteri di determinazione si fonde, dunque, inscindibilmente con le ragioni sottese alla previsione del canone dovuto dai soggetti che svolgono l’attività estrattiva; ragioni dotate di primario rilievo, perché correlate alla tutela dei valori ambientali compromessi dalla detta iniziativa imprenditoriale.

9.6.4.– La natura ed il rilievo dell’interesse collettivo perseguito dal legislatore regionale rendono, innanzitutto, non arbitrarie le modifiche introdotte dalla novella censurata, volte a rendere efficiente la fase di accertamento e riscossione del dovuto a tale titolo. Portano, inoltre, ad escludere che l’intervento normativo in esame possa aver arrecato una sproporzionata compressione delle posizioni soggettive coinvolte: sia perché queste ultime riposano su un affidamento tutt’altro che radicato nel tempo (sentenza n. 56 del 2015), ulteriormente messo in discussione dalla già rimarcata prevedibilità della riforma adottata; sia perché è evidentemente modesto l’ambito temporale di retrodatazione degli effetti delle nuove disposizioni, limitato al dovuto per un solo esercizio. Considerazione, quest’ultima, che finisce per privare di effettivo rilievo il profilo legato alle addotte conseguenze economiche che derivano dalla retroattività dei criteri in contestazione, elemento fondante la censura prospettata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi:

1) dichiara inammissibile la costituzione della parte privata Fratelli Calamaio di Calamaio Ettore & C. snc;

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83 della legge della Regione Siciliana 7 maggio 2015, n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2015. Legge di stabilità regionale), nella parte in cui ha introdotto il comma 8 dell’art. 12 della legge della Regione Siciliana 15 maggio 2013, n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2013. Legge di stabilità regionale) sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 e ratificato con la legge 4 agosto 1955, n. 848, con le ordinanze indicate in epigrafe;

3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83 della legge della Regione Siciliana n. 9 del 2015, nella parte in cui ha modificato il comma 1 dell’art. 12 della legge della Regione Siciliana n. 9 del 2013, sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia in riferimento agli artt. 53 e 3 Cost., con le ordinanze indicate in epigrafe;

4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83 della legge della Regione Siciliana n. 9 del 2015, nella parte in cui ha introdotto il comma 8 dell’art. 12 della legge della Regione Siciliana n. 9 del 2013, sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia in riferimento all’art. 3 Cost., con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 marzo 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Augusto Antonio BARBERA, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 aprile 2018.