SENTENZA N. 89
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI
”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANO’ ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’art. 83 della legge della Regione
Siciliana 7 maggio 2015, n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per
l’anno 2015. Legge di stabilità regionale), nella parte in cui modifica
l’art. 12, commi 1 e 8, della legge
della Regione Siciliana 15 maggio 2013, n. 9 (Disposizioni programmatiche e
correttive per l’anno 2013. Legge di stabilità regionale), promossi dal
Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, con due ordinanze del 9
gennaio 2017, iscritte rispettivamente ai numeri 177 e 139 del
registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 49 e n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visti gli atti di costituzione di
Anzalone Gessi srl e altri, di CA.VE. srl e altri, del Consorzio Siciliano Cavatori, nonché gli
atti di intervento della Regione Siciliana;
udito nella udienza pubblica del
20 marzo e nella camera di consiglio del 21 marzo 2018 il Giudice relatore
Augusto Antonio Barbera;
uditi gli avvocati Ester Daina
per Anzalone Gessi srl e altri, Giuseppe Ribaudo per CA.VE. srl e altri, Monica Di Giorgio per il Consorzio Siciliano
Cavatori e Marina Valli per la Regione Siciliana.
Ritenuto in fatto
1.– Il Tribunale
amministrativo regionale per la Sicilia, sezione terza (di seguito, anche TAR),
con due distinte ordinanze emesse il 9 gennaio 2017 in altrettanti giudizi,
rispettivamente iscritte ai numeri 139 e 177 del registro ordinanze 2017, ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 53 e 117, primo comma, della
Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art.
1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 e
ratificato con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 83 della legge della Regione Siciliana 7 maggio 2015,
n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2015. Legge di
stabilità regionale), nella parte in cui ha modificato il comma 1 e introdotto
il comma 8 dell’art. 12 della legge della Regione Siciliana 15 maggio 2013, n.
9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2013. Legge di stabilità
regionale).
2.– Premette il tribunale
rimettente che in entrambi i giudizi principali risultano impugnati, da
soggetti esercenti l’attività di estrazione da cava, sia il decreto
dell’assessore della Regione Siciliana per l’energia e i servizi di pubblica
utilità del 12 agosto 2015, adottato in esecuzione dell’art. 83 della citata
legge reg. n. 9 del 2015, a mezzo del quale sono state definite le modalità
applicative del canone di produzione annuo dovuto dai titolari di concessioni
per lo sfruttamento di giacimenti minerari di cave, per gli anni dal 2014
in poi; sia i provvedimenti con cui i Distretti minerari territorialmente
competenti, in forza delle modifiche apportate dalle disposizioni impugnate,
hanno rideterminato i canoni dovuti a tale titolo, relativi al 2014,
intimandone il pagamento ai singoli esercenti.
2.1.– In entrambi i giudizi
i ricorrenti evidenziano che, tramite le disposizioni censurate, manipolando il
contenuto del comma 1 del previgente art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013,
sono stati modificati i criteri di determinazione della base imponibile della
prestazione imposta agli esercenti l’attività di estrazione. In precedenza, il
quantum veniva computato in ragione della quantità e qualità di minerale
estratto, mentre, in forza della novella, la relativa prestazione risulta
commisurata alla dimensione della superficie dell’area coltivabile nonché ai
volumi di estrazione autorizzati. Il tutto con effetti retroattivi, dovendosi
applicare i nuovi criteri sin dal 2014 (come disposto dal comma 8 del citato
art. 12, introdotto dalla novella), così da provocare una notevole maggiorazione
del canone annuo dovuto (da 7 a 17 volte superiore rispetto a quello
precedente).
2.2.– Evidenzia, ancora, il
TAR, che, nell’assunto dei ricorrenti, esposto con argomentazioni
sovrapponibili in entrambi i giudizi principali, si contesta la legittimità degli
atti impugnati, resi in pedissequa attuazione del nuovo disposto normativo,
prospettando diverse eccezioni di illegittimità costituzionale nei confronti
delle modifiche apportate, in parte qua, dall’art. 83 della legge reg. n. 9 del
2015, ritenute in contrasto con gli artt. 53, 3, 23, 41, 97 e 117, primo comma,
Cost., nonché in relazione agli artt. 14, 20, 41
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il
7 Dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2017.
Di qui il rivendicato
annullamento degli atti impugnati, previa rimessione delle questioni di
illegittimità costituzionale prospettate in riferimento ai citati parametri e
in relazione alle indicate disposizioni dell’art. 83 della legge reg. n. 9 del
2015, poste a fondamento delle pretese indebitamente veicolate dalle
amministrazioni resistenti.
2.3.– Nei giudizi
principali, per quanto evidenziato dal rimettente, si è costituito
l’Assessorato regionale dell’energia e dei servizi di pubblica utilità; in
quello poi sfociato nel giudizio incidentale iscritto al r.o.
n. 139 del 2017 si è anche costituito il Comune di Castelvetrano,
amministrazione intimante, mentre in quello inerente al giudizio costituzionale
iscritto al r.o. n. 177 del 2017 sono intervenuti
altri esercenti l’attività di gestione cave nonché il Consorzio Siciliano
Cavatori, aderendo alle prospettazioni dei ricorrenti.
3.– Il TAR, con le due
ordinanze di rimessione, ha delimitato il giudizio di non manifesta
infondatezza solo alle questioni prospettate in riferimento agli artt. 53 e 3 Cost., con riguardo alle modifiche che il censurato art. 83
ha apportato al disposto del comma 1 dell’art. 12 della legge reg. n. 9 del
2013; ancora, ha ritenuto non manifestamente infondata l’eccezione inerente
l’affermato conflitto tra l’innovazione apportata dal medesimo art. 83,
introducendo, nell’impianto del citato art. 12 della legge novellata, il comma
8, e gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU.
3.1.– Sul versante della
rilevanza, ad avviso del rimettente, non potrebbe dubitarsi dell’ammissibilità
delle questioni: le norme impugnate rappresenterebbero, infatti, il fondamento
normativo degli atti impugnati, così da influire radicalmente sulla definizione
delle due fattispecie poste al suo giudizio.
3.2.– Secondo il TAR,
ancora, deve ritenersi non manifestamente infondata l’eccezione sollevata in
riferimento alla addotta violazione dell’art. 53 Cost.,
riferita al primo comma dell’art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013 così come
modificato dal censurato art. 83. Ciò in considerazione della ritenuta natura
tributaria della prestazione imposta, dalla normativa in contestazione, ai
soggetti che esercitano l’attività di gestione delle cave.
Militerebbero in tal senso
sia il fatto che l’obbligo del pagamento trova la sua fonte esclusiva nella
legge regionale, senza costituire remunerazione dell’uso di beni pubblici, così
da risultare estraneo ad un rapporto sinallagmatico; sia la destinazione del
ricavato da tale esazione, giacché, con i relativi fondi, i Comuni e la Regione
vengono dotati dei mezzi finanziari necessari ad assolvere le funzioni di cura
concreta degli interessi generali. La disposizione censurata, infatti,
consentirebbe alla Regione di utilizzare liberamente la quota parte di gettito
che la legge riserva al detto ente (50 per cento dell’intero), mentre i Comuni,
per la quota residua loro assegnata, devono destinare le somme al finanziamento
non solo di interventi infrastrutturali di recupero, riqualificazione e
valorizzazione del territorio, del tessuto urbano e degli edifici scolastici e
ad uso istituzionale, ma anche di manutenzione e valorizzazione ambientale ed
infrastrutturale connessi all’attività estrattiva o su beni immobili confiscati
alla mafia ed alle organizzazioni criminali. Tale connotazione funzionale,
congiunta al fatto che il prelievo si collega all’attività economica di
gestione dei giacimenti, ad avviso del rimettente, porta a ritenere il canone
in questione uno strumento di riparto, ai sensi dell’art. 53 Cost., del carico della spesa pubblica in ragione della
capacità economica manifestata dai soggetti interessati.
3.3.– Muovendo da tale
presupposto, il rimettente rimarca che, in virtù di quanto previsto dalla
disposizione censurata, il corrispettivo per l’uso del giacimento non sarebbe
più commisurato alla sua resa, destinata a diminuire nel tempo in ragione del
relativo sfruttamento, ma risulta ora rapportato alla superficie del terreno
sul quale si svolge l’attività di estrazione, la quale rimane, invece, immutata
anche quando la stessa è quasi esaurita. Poiché si tratta di un canone dovuto
non una tantum, ma annualmente, sarebbe in conseguenza venuto meno il
collegamento con la capacità contributiva. Non assume più rilievo il guadagno
che deriva dal giacimento; si applica, piuttosto, un tributo fisso indipendente
dallo stesso.
3.4.– Sempre con
riferimento alle modifiche apportate al primo comma dell’art. 12 della legge
reg. n. 9 del 2013, il rimettente ritiene non manifestamente infondati i dubbi
prospettati con riguardo all’addotta violazione del principio di uguaglianza.
La disposizione censurata
determinerebbe, infatti, immotivate discriminazioni all’interno della medesima
categoria dei titolari di giacimenti minerari, distinguendo tra quelli che
gestiscono cave di piccola dimensione, ma ad elevata resa, e quelli
titolari di cave di grande estensione, ma a bassa resa. Sui primi
graverebbe un peso identico a quello dei secondi, a parità di superficie
interessata, con prospettive di rendimento, tuttavia, del tutto diverse. Ai
fini della quantificazione del canone, la remuneratività
dell’attività viene, dunque, irrazionalmente sopraffatta dal riferimento alla
superficie dell’area coltivabile ed ai volumi autorizzati della cava.
Ad avviso del rimettente,
pertanto, a situazioni differenti viene applicato il medesimo trattamento in
maniera irragionevole.
3.5.– Il TAR dubita anche
della legittimità costituzionale del comma 8 dell’art. 12 della legge reg. n. 9
del 2013, così come introdotto dall’impugnato art. 83 della legge reg. n. 9 del
2015; norma, questa, in forza della quale le nuove previsioni di determinazione
dei canoni sono state estese anche all’anno 2014, così da giustificare le
intimazioni di pagamento impugnate nei due giudizi principali dai rispettivi
ricorrenti in uno con l’atto amministrativo generale che le ha supportate.
Tale disposizione, ad
avviso del rimettente, sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma,
Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU.
3.5.1.– Con riferimento al
primo dei parametri evocati, ad avviso del TAR, risulterebbe vulnerato il
legittimo affidamento ingenerato, negli esercenti l’attività di estrazione,
dalle previsioni previgenti in punto di determinazione del canone, considerata
l’irragionevolezza e l’arbitrarietà della scelta operata nel far retroagire gli
effetti delle modifiche apportate al primo comma del più volte evocato art. 12
della stessa legge.
Secondo il rimettente,
l’applicazione dei nuovi criteri di determinazione dei canoni espone i titolari
di giacimenti minerari ad un inaspettato e considerevole esborso economico,
così da non metterli nelle condizioni di valutare ex ante, nell’organizzazione
della propria attività imprenditoriale, le conseguenze delle innovazioni
introdotte. Così, se per il periodo successivo all’entrata in vigore delle
nuove disposizioni i detti esercenti hanno avuto la possibilità di decidere se
aumentare il corrispettivo richiesto ai propri clienti o, addirittura,
sospendere o non esercitare più l’attività estrattiva, tale scelta risulterebbe
loro preclusa per l’anno antecedente tanto da ledere irragionevolmente
l’affidamento riposto nella quantificazione del canone secondo i criteri
all’epoca vigenti e mettere in crisi le rispettive strategie imprenditoriali.
4.– Nel giudizio di
costituzionalità iscritto al r. o. n. 177 del 2017 si sono costituiti alcuni
dei ricorrenti del processo a quo, ribadendo la fondatezza delle argomentazioni
spese dal rimettente a sostegno dei prospettati dubbi di illegittimità
costituzionale. Ciò in ragione dell’addotta violazione dell’art. 53 Cost., perché i nuovi indici di determinazione dei canoni
non si sostanziano in fatti o situazioni idonei ad esprimere una potenzialità
economica, nonché in funzione del rilevato contrasto con l’art. 3 Cost., avuto riguardo alla disposta retroattività delle
disposizioni impugnate, irragionevolmente strumentali a coprire esclusivamente
il disavanzo regionale, come comprovato dal fatto che se ne è estesa
l’efficacia ad un ambito temporale (l’anno 2014) non compreso nelle
disposizioni programmatiche e correttive dettate dalla legge che le conteneva
(destinata ad operare per il 2015).
4.1.– Nel medesimo giudizio
incidentale si sono costituiti, con memoria depositata il 17 novembre 2017, i
soggetti intervenuti ad adiuvandum nel relativo
giudizio principale. Con la medesima memoria si è pure costituita la Fratelli
Calamaio di Calamaio Ettore & C. snc, non
indicata tra gli intervenienti nell’ordinanza di rimessione.
Tali parti, nel concludere
in linea con le prospettazioni offerte dal rimettente, hanno ribadito
l’incidenza quantitativa degli aumenti apportati con le nuove disposizioni;
hanno rimarcato la lesività della disposta retroattività avuto riguardo
all’affidamento ingenerato nei soggetti interessati dalla normativa pregressa,
peraltro di recente introduzione; nell’ottica volta a supportare l’addotta
lesione dell’art. 1 Prot. addiz.
CEDU, hanno inoltre segnalato l’assenza del dovuto bilanciamento tra le
esigenze di raggiungimento degli obiettivi di bilancio perseguiti dalla Regione
e l’intensità del correlativo sacrificio economico imposto ai privati
interessati.
4.2.– Sempre nel giudizio
incidentale iscritto al r.o. n. 177 del 2017, si è
costituito, con memoria depositata il 5 dicembre 2017, il Consorzio Siciliano
Cavatori, anch’esso intervenuto ad adiuvandum nel
giudizio a quo, ribadendo le indicazioni argomentative esposte dal rimettente a
sostegno delle questioni, nonché i temi già addotti dalle altre parti ad
ulteriore supporto della fondatezza delle questioni. Sul versante della
retroattività delle disposizioni impugnate, nell’ottica della paventata lesione
dell’affidamento sulla certezza della situazione giuridica garantita dalla
previgente disciplina normativa, tale parte ha rimarcato sia l’incidenza dei
nuovi criteri su un periodo, l’esercizio relativo al 2014, economicamente
esaurito alla data di entrata in vigore della legge impugnata, tanto che erano
stati già determinati e corrisposti i canoni relativi all’annualità in
questione; sia la non prevedibilità della innovazione retroattiva, ribadendone
l’illegittimità costituzionale in ragione della natura tributaria della
relativa previsione.
4.3.– In entrambi i giudizi
incidentali è intervenuta la Regione Siciliana che ha spiegato difese identiche
e concluso per la inammissibilità o comunque per la non fondatezza delle
questioni sollevate dal TAR con le due ordinanze di rimessione in esame.
Con riferimento all’addotta
violazione dell’art. 53 Cost., ad avviso della
Regione, deve escludersi che i canoni legati all’attività di gestione dei
giacimenti minerari di cava possano essere considerati come tributi,
trattandosi, piuttosto, di un corrispettivo pattuito per l’utilizzo del bene
pubblico o in ogni caso, se esercitata su un bene privato, per l’attività di
estrazione che incide sul bene ambiente.
Quanto all’addotta,
irragionevole, diseguaglianza, determinata dai nuovi criteri di quantificazione
introdotti dalla novella censurata, la Regione contesta la fondatezza
dell’assunto sotteso alle due ordinanze di rimessione, perché la ratio delle
modifiche apportate, destinate a dare rilievo decisivo alla superficie ed ai
volumi di potenziale estrazione, corrisponde all’esigenza di garantire un
efficace ripristino della situazione ambientale incisa da detta attività. Si
prescinde, dunque, dall’eventuale pregio dei materiali estratti, così come
confermato non solo dalla destinazione vincolata (al recupero, riqualificazione
e valorizzazione del territorio del tessuto urbano e dell’ambiente) delle somme
all’uopo corrisposte, ma anche dalla prevista sospensione dell’obbligo di
contribuzione in caso di temporanea interruzione dei lavori di coltivazione.
In ordine alla retroattività
prevista dall’ultimo comma dell’art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013, come
introdotto dall’art. 83 della legge reg. n. 9 del 2015, la difesa
dell’interveniente evidenzia che, con il sistema previgente, il calcolo dei
canoni dovuti veniva effettuato l’anno successivo sulla base dei dati relativi
all’esercizio precedente, così come comunicati dai gestori delle cave.
Coerentemente, dunque, la disposizione impugnata fa retroagire gli effetti
delle modifiche sin dall’anno 2014.
Del resto, la presenza di
una causa normativa adeguata, tale da rendere accettabile il sacrificio imposto
dall’intervento ablativo attraverso contropartite intrinseche allo stesso
progetto normativo, destinate a bilanciare le posizioni delle parti, renderebbe
legittima la scelta nel caso operata dal legislatore regionale.
4.4.– Nel corso del
giudizio incidentale iscritto al r.o. n. 177 del
2017, la difesa dei ricorrenti del giudizio principale costituiti innanzi a
questa Corte ha depositato, in data 8 febbraio 2018, memoria con la quale ha
ulteriormente ribadito le ragioni già prospettate a sostegno della fondatezza
delle censure.
4.5.– In data 26 febbraio
2018 la difesa della Regione Siciliana ha depositato, nei due giudizi
incidentali, distinte memorie dal contenuto identico. Con tali atti
l’interveniente ha evidenziato che la disciplina regionale, prima della novella
apportata dalla legge reg. n. 9 del 2013, legava la determinazione del canone
dovuto dai concessionari alla superficie coinvolta nell’attività estrattiva;
criterio di correlazione, questo, peraltro adottato anche in altre Regioni
senza dar luogo a dubbi di legittimità costituzionale. L’interveniente ha,
inoltre, addotto l’inammissibilità della censura rivolta all’attuale comma 8
dell’art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013, prospettata in riferimento all’art
117, primo comma, Cost., integrato dall’art. 1 Prot. addiz. CEDU, perché non
argomentata avuto riguardo all’evocato parametro convenzionale.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale
amministrativo regionale per la Sicilia, sezione terza (di seguito, TAR), con
due distinte ordinanze rese in altrettanti giudizi, prospettando identiche
censure sia per l’oggetto, sia per i parametri evocati, ha sollevato questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 83 della legge della Regione Siciliana
7 maggio 2015, n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2015.
Legge di stabilità regionale), nella parte in cui ha modificato il comma 1 e
introdotto il comma 8 dell’art. 12 della legge della Regione Siciliana 15
maggio 2013, n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2013.
Legge di stabilità regionale).
2.– Ad avviso del
rimettente, le modifiche apportate al comma 1 dell’art. 12 della legge reg. n.
9 del 2013 si pongono in contrasto con gli artt. 53 e 3 della Costituzione.
L’introduzione del comma 8 nell’impianto del citato art. 12 è, invece, ritenuto
in conflitto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 e ratificato con la legge 4
agosto 1955, n. 848.
3.– I due giudizi
incidentali hanno contenuti sostanzialmente sovrapponibili. L’oggetto delle
questioni sollevate dal rimettente, i parametri evocati e le argomentazioni
spese a sostegno delle censure sono identici nelle due ordinanze.
È opportuna, in coerenza,
una trattazione e definizione unitaria.
4.– Preliminarmente, va
dichiarata l’inammissibilità della costituzione della Fratelli Calamaio di
Calamaio Ettore & C. snc, che non risulta tra le
parti costituite nel giudizio principale di riferimento (quello legato al
giudizio incidentale iscritto al r.o. n. 177 del
2017), per quanto emerge dalla relativa ordinanza.
5.– All’infuori di quanto
si dirà con riferimento alla questione prospettata in relazione all’art. 117,
primo comma, Cost., l’esame delle due ordinanze di
rimessione non pone in evidenza vizi inerenti alla motivazione in ordine alla
rilevanza ed alla non manifesta infondatezza delle questioni prospettate.
5.1.– Sotto questo profilo,
va evidenziato che il censurato art. 83 della legge reg. n. 9 del 2015, nella
parte in cui viene investito dai dubbi prospettati dal rimettente, ha
modificato i criteri di determinazione del canone annuo dovuto dai soggetti
esercenti l’attività di cava nel territorio siciliano, tema in precedenza
disciplinato dal comma 1 dell’art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013.
I nuovi criteri sono stati
resi applicabili anche al periodo di esercizio relativo all’anno 2014, grazie a
quanto previsto dal comma 8 dell’art. 12 della legge regionale da ultimo
citata, sempre in forza delle innovazioni apportate dal censurato art. 83 della
legge reg. n. 9 del 2015.
5.2.– Nei due giudizi principali
risultano impugnati, da alcune imprese esercenti l’attività estrattiva, sia
l’atto generale (il decreto dell’assessore della Regione Siciliana per
l’energia e i servizi di pubblica utilità del 12 agosto 2015) a mezzo del
quale, in attuazione delle norme censurate, sono state definite le modalità
applicative del canone di produzione annuo dovuto per lo sfruttamento di
giacimenti minerari di cave, per l’anno 2014 e per le annualità
successive; sia gli avvisi di pagamento, resi dai relativi Distretti minerari
territorialmente competenti, con i quali è stato rideterminato e chiesto il
canone dovuto dai diversi ricorrenti relativamente al 2014.
5.3.– In entrambi i
giudizi, poi, l’invocato annullamento degli atti impugnati si lega alla
illegittimità degli stessi siccome derivata dalla prospettata
incostituzionalità delle disposizioni censurate. È dunque evidente, per un
verso, che la verifica di legittimità costituzionale rimessa a questa Corte
assume rilevo pregiudiziale rispetto all’annullamento degli atti impugnati
innanzi al rimettente nei due giudizi principali; per altro verso, che proprio
il petitum volto all’annullamento degli atti
impugnati innanzi al TAR consente di escludere la sovrapponibilità di oggetto
tra giudizi principali e incidente di legittimità costituzionale, con
conseguente ammissibilità delle questioni (sentenza n. 236 del
2017).
6.– Venendo allo scrutinio
delle singole questioni, non sembra superflua una preliminare descrizione della
cornice normativa all’interno della quale si collocano le disposizioni
impugnate.
6.1.– L’attività di
sfruttamento delle cave, ascritta alla competenza legislativa primaria della
Regione in forza di quanto previsto dalla lettera h) dell’art. 14 del regio
decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della
Regione siciliana), è disciplinata dalle disposizioni contenute nella legge
regionale Siciliana 9 dicembre 1980, n. 127 (Disposizioni per la coltivazione
dei giacimenti minerari da cava e provvedimenti per il rilancio e lo sviluppo
del comparto lapideo di pregio nel territorio della Regione Siciliana), negli
anni integrata da successivi interventi normativi, tra i quali va annoverato
quello legato alle disposizioni oggetto di censura.
Sulla falsariga di quanto
previsto, per l’intero territorio nazionale, dal regio decreto 29 luglio 1927,
n. 1443 (Norme di carattere legislativo per disciplinare la ricerca e la
coltivazione delle miniere del Regno), e in coerenza con quanto previsto, per
le cave, dall’art. 826 codice civile, la relativa attività di estrazione è
subordinata a concessione (artt. 30 e 31 della citata legge reg. n. 127 del
1980), se il giacimento risulta acquisito al patrimonio indisponibile della Regione;
diversamente, laddove la disponibilità del bene rimanga in capo al
proprietario, l’attività è subordinata ad un’autorizzazione.
6.2.– Con specifico
riferimento al tema del canone dovuto dal titolare dell’attività estrattiva, la
citata legge reg. n. 127 del 1980, all’art. 33, prevede il pagamento, in favore
della Regione, di un importo commisurato alla superficie coinvolta dalla
coltivazione e al tipo di materiale oggetto dell’attività estrattiva;
prestazione, questa, legata, dalla lettera della norma, all’ipotesi del solo
rapporto concessorio.
Invece, con riferimento
alle autorizzazioni, la legge in questione prevede che il rilascio delle stesse
venga subordinato al versamento di una somma, stabilita sulla base di apposita
tabella predisposta dal Corpo regionale delle miniere, da utilizzare per
l’esecuzione delle opere di sistemazione dei luoghi soggetti all’attività
estrattiva in funzione del relativo recupero ambientale (art. 19, commi 1 e 2).
6.3.– Con l’art. 12 della
legge reg. n. 9 del 2013, la Regione Siciliana, innovando la precedente
disciplina, ha previsto, con generico riferimento all’attività di estrazione
inerente «ai giacimenti minerari di cava», il versamento di un canone
commisurato alla quantità (comma 1) nonché alla qualità (comma 2) del minerale
estratto. La relativa entrata era destinata per il 60 per cento al comune
interessato e per il 40 per cento alla Regione; la quota parte destinata ai
comuni, inoltre, risultava vincolata funzionalmente «alla realizzazione di
opere di recupero e riqualificazione ambientale nonché al recupero dei beni
confiscati alla mafia e alle organizzazioni criminali».
6.4.– Tale disciplina è
stata modificata, a distanza di due anni, dall’art. 83 della legge reg. n. 9
del 2015, portato, nell’occasione, alla verifica di questa Corte,
rideterminando, per quanto già anticipato, i parametri di commisurazione del
canone.
Con disposizioni rimaste
estranee alle questioni sollevate dal TAR rimettente (commi 4 e 5 del nuovo
art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013), la novella ha, inoltre, inciso sulla
destinazione delle somme percepite a tale titolo dagli enti interessati, con
riguardo sia alla ripartizione (alla Regione oggi spetta il 50 per cento
dell’intero), sia al vincolo funzionale impresso alle stesse per la quota parte
residua assegnata ai Comuni.
In particolare, gli importi
in questione devono essere impiegati esclusivamente per interventi
infrastrutturali di recupero, riqualificazione e valorizzazione del territorio,
del tessuto urbano e degli edifici scolastici e ad uso istituzionale; una quota
non inferiore al 50 per cento delle suddette risorse destinate ai Comuni
resta, inoltre, riservata agli interventi di manutenzione e valorizzazione
ambientale ed infrastrutturale, connessi all’attività estrattiva o su beni
immobili confiscati alla mafia ed alle organizzazioni criminali.
6.5.– Va inoltre
evidenziato che l’art. 12 della citata legge reg. n. 9 del 2013, prima di
subire le modifiche introdotte dalle disposizioni censurate, venne sottoposto,
nel 2014, a due tentativi di innovazione, non portati a termine perché le
relative disposizioni, approvate dall’assemblea regionale, non furono
promulgate in quanto impugnate davanti a questa Corte dal Commissario dello
Stato per la Regione Siciliana, per ragioni afferenti alla relativa copertura
finanziaria (ricorsi iscritti ai n. 5 e n. 62 del 2014, dichiarati
improcedibili rispettivamente con le ordinanze n. 166
e n. 204 del
2015, per il difetto di legittimazione del ricorrente).
Di tali modifiche non
compiutamente esitate, la prima (prevista dall’art. 47, comma 8, della delibera
legislativa della Regione Siciliana del 15 gennaio 2014, in approvazione del
disegno di legge n. 670, recante «Disposizioni programmatiche e correttive per
l’anno 2014. Legge di stabilità regionale») riportava la previsione in oggetto
all’interno dell’ambito disciplinato dall’art. 19 della legge reg. n. 127 del
1980, incrementando la misura della somma da versare per il ripristino
ambientale dell’area immediatamente interessata dall’attività estrattiva; la
seconda (dettata dall’art. 75 della delibera legislativa del 1 agosto 2014, in
approvazione del disegno di legge n. 782, recante «Assestamento del bilancio
della Regione per l’anno finanziario 2014. Variazioni al bilancio di previsione
della Regione per l’esercizio finanziario 2014 e modifiche alla legge regionale
28 gennaio 2014 n. 5. Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2014.
Legge di stabilità regionale. Disposizioni varie») mirava, invece,
all’introduzione di nuovi criteri di determinazione del canone, in termini
identici a quelli oggi disposti dalle norme censurate.
6.6.– Va, infine, sottolineato
che dai lavori preparatori della novella censurata (segnatamente dall’esame, in
commissione, del disegno di legge, di origine assembleare, n. 887 del 2014, poi
integralmente trasfuso in un emendamento alla legge di stabilità, sfociato
nella censurata modifica dell’art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013) emerge
che i nuovi criteri di determinazione del canone hanno trovato una
giustificazione causale nell’esigenza di individuare modalità applicative tali
da garantire un più puntuale accertamento del dovuto, così da rendere effettiva
ed efficiente l’esazione della prestazione riducendo l’area di possibile
evasione.
Ciò in ragione della
riscontrata inadeguatezza del sistema legato alla autocertificazione dei volumi
estratti, previsto dalla normativa previgente, negativamente sperimentato in
sede di prima applicazione della norma.
7.– Tanto premesso,
passando allo scrutinio della prima questione, va rilevato che il rimettente
dubita della legittimità costituzionale del comma 1 dell’art. 12 della citata
legge reg. n. 9 del 2013, così come modificato dall’art. 83 della legge reg. n.
9 del 2015, in riferimento all’art. 53 Cost., perché,
sul presupposto della natura tributaria del canone in oggetto, la disposizione
censurata, a differenza di quanto accadeva nel passato, non ne correla più la
quantificazione al rendimento ricavato dall’attività di estrazione, così da
recidere il necessario collegamento con la capacità contributiva.
7.1.– È di immediata
evidenza che lo snodo logico imprescindibile della censura in questione è
offerto dalla ritenuta natura tributaria del canone in esame. Smentita tale
premessa interpretativa, perde di consistenza l’intera prospettazione sottesa
alla questione.
Secondo la costante
giurisprudenza di questa Corte, una fattispecie deve ritenersi «di natura
tributaria, indipendentemente dalla qualificazione offerta dal legislatore,
laddove si riscontrino tre indefettibili requisiti: la disciplina legale deve
essere diretta, in via prevalente, a procurare una definitiva decurtazione
patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare
una modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un
presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione,
debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese» (ex plurimis,
da ultimo, sentenze
n. 269 e n.
236 del 2017).
Ad avviso del TAR, alla luce
di tali indicazioni interpretative, milita in favore della natura tributaria
del canone previsto dalla legge in esame, in primo luogo, la fonte legislativa
dell’obbligo del pagamento; ancora, rileva l’estraneità della prestazione in
questione ad un rapporto sinallagmatico; infine, sarebbe determinante il fatto
che il ricavato di tale imposizione risulti destinato a dotare i Comuni e la
Regione dei mezzi finanziari necessari ad assolvere le funzioni di cura
concreta degli interessi generali.
7.2.– L’argomento del TAR
non è condivisibile ed è conseguentemente non fondata la questione che su esso
si basa.
7.3.– Questa Corte si è già
occupata dei contributi legati all’attività estrattiva da cava (segnatamente
quelli previsti dall’art. 20 della legge della Regione Veneto 7 settembre 1982,
n. 44, recante «Norme per la disciplina dell’attività di cava»), escludendone,
in particolare, la connotazione tributaria (ordinanza n. 387
del 1990). Innanzi ad un dato normativo che, non diversamente da quello
sottoposto all’odierno controllo di legittimità costituzionale, risultava
finalizzato, nella destinazione delle somme ricavate dal pagamento del dovuto,
anche alla realizzazione di interventi e di opere connesse al ripristino
ambientale, è stata esclusa la natura tributaria della prestazione non essendo
stati rinvenuti «né i presupposti di una indistinta imposizione né quelli di
tassazione specifica per un richiesto servizio».
7.4.– Il rimettente non si
confronta con tale decisione. Quel che più conta, non offre valide
argomentazioni che consentano a questa Corte di distaccarsi dalla relativa
valutazione interpretativa.
7.4.1.– Il canone dovuto in
forza della disposizione censurata si pone a latere del titolo che legittima
l’attività estrattiva. Non è influenzato dalla titolarità, pubblica o privata,
del giacimento; si lega, piuttosto, all’insieme di competenze amministrative
correlate all’attività estrattiva nonché alle caratteristiche della stessa, tali
da incidere sulla salubrità e integrità ambientale del territorio interessato
dalla relativa iniziativa imprenditoriale.
Sotto il primo versante,
non va trascurato che lo sfruttamento dei giacimenti sollecita diverse
competenze amministrative, ripartite tra la Regione e i Comuni interessati
dalla localizzazione dell’attività di estrazione.
Tra queste, in via
esemplificativa, assume, di certo, importanza primaria l’attività di
programmazione e pianificazione territoriale; un ruolo non indifferente va,
pure, ascritto all’azione amministrativa inerente alla fase di affidamento del
titolo e ai compititi di verifica ispettiva, finalizzati, in particolare, al
controllo della conformità della coltivazione esercitata rispetto a quella
assentita nonché alla repressione delle iniziative abusive.
Con riguardo, poi, alla
incidenza dell’attività di estrazione sulla salubrità e integrità del
territorio di riferimento, giova precisare che la prestazione in esame non è
strumentale alla ricomposizione ambientale dell’area immediatamente coinvolta
dall’attività di estrazione, obiettivo autonomamente coperto dal pagamento
della somma prevista dall’art. 19 della legge regionale n. 127 del 1980,
destinata a finanziare le opere da realizzare a tal fine nel corso della coltivazione
o al termine della stessa, in linea con lo studio di fattibilità previsto
dall’art. 12, lettera d, della stessa legge.
Trova, piuttosto, la sua
ratio fondante nell’esigenza di indennizzare la collettività per il disagio
comunque correlato allo sfruttamento del suolo, essendo certa l’incidenza
negativa dell’attività estrattiva sul paesaggio e sull’ambiente inerenti alle
zone limitrofe a quelle di collocazione della cava.
Il costo di un siffatto
disagio finisce per gravare, coerentemente, su chi lo produce, in linea, del
resto, con le indicazioni di principio derivanti, in materia ambientale,
dall’art 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, come
modificato dall’art 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato
dalla legge 2 agosto 2008, n. 130.
Vengono così coperti gli
oneri finanziari che gli enti interessati devono comunque affrontare per
neutralizzare al meglio le conseguenze – nocive ma legittime, perché consentite
dalla legge ed assentite dalle amministrazioni interessate – comunque correlate
a siffatte iniziative economiche.
7.4.2.– Nel caso, tali
considerazioni trovano immediata conferma nella significativa parte degli
importi riscossi a tale titolo e devoluti ai comuni interessati per finanziare
«interventi di manutenzione e valorizzazione ambientale ed infrastrutturale
connessi all’attività estrattiva»; finalizzazione, questa, espressamente
prevista dalla disposizione censurata.
Tale rilievo, diversamente
da quanto sostenuto dal rimettente, non trova adeguata smentita
nell’assegnazione alla Regione del 50 per cento dell’intero ricavato dalla
esazione dei canoni in questione, senza che tale destinazione risulti
espressamente connotata da altrettante indicazioni funzionali legate al
ripristino ambientale.
Sotto questo profilo, il
silenzio assunto sul punto dalla lettera della norma in esame non è decisivo.
Una tale destinazione del ricavato dall’esazione dei canoni in esame, trova,
piuttosto, una coerente giustificazione nella necessità di sostenere, da un
punto di vista finanziario, la Regione in considerazione dell’impegno ad essa
spettante nel pianificare e controllare l’attività estrattiva; compiti che la
disciplina di riferimento riserva primariamente alla Regione stessa.
7.4.3.– Il canone previsto
dalla disposizione censurata, si correla, inoltre, a parametri di
determinazione che si mostrano estranei ai profili di redditività propri della
relativa attività produttiva, così da marcare, sempre di più, le distanze dalla
prospettiva tributaria.
Sia il riferimento alla
quantità e qualità del materiale estratto, previsto in origine dalla normativa
precedente, sia l’odierno riferimento alla estensione della superficie
interessata dall’estrazione nonché ai volumi autorizzati, si basano su criteri
di determinazione del dovuto che mettono al centro della quantificazione del
canone la produzione derivante dalla relativa attività non in quanto indice di
ricchezza effettiva desunta dall’attività di sfruttamento del giacimento, bensì
come parametro dell’incidenza della stessa sull’ambiente circostante.
7.5.– In definitiva, il
canone in esame si correla all’impegno profuso dagli enti interessati nella
gestione amministrativa collegata alla relativa attività di impresa e mira ad
indennizzare il pregiudizio che la collettività finisce per patire in
conseguenza dell’autorizzazione relativa allo sfruttamento delle cave;
pregiudizio al quale corrisponde uno specifico onere delle amministrazioni
interessate quanto al ripristino delle condizioni ambientali e territoriali
pregiudicate dall'attività di estrazione. Non a caso, del resto, i costi legati
a siffatto pregiudizio non gravano su chi sfrutta il giacimento, laddove i
lavori di coltivazione vengano sospesi e durante il periodo di tale sospensione
(ai sensi del comma 7 del più volte citato art. 12 della legge reg. n. 9 del
2013).
7.6.– Una tale
ricostruzione si rivela conforme all’orientamento tracciato dalla
giurisprudenza, ordinaria e amministrativa, nello scrutinare, in genere per
ragioni afferenti alla giurisdizione, alcune disposizioni emanate sul tema in
oggetto da altre Regioni, ed aventi un contenuto sostanzialmente analogo alla
disciplina offerta dalle norme censurate.
7.6.1.– Assumono, in tal
senso, un rilievo paradigmatico le considerazioni interpretative spese in riferimento
al disposto dell’art. 15 della legge della Regione Toscana 3 novembre 1998, n.
78 (Disposizioni in materia di miniere), oggi non più vigente perché sostituito
da altra disposizione avente un contenuto non dissimile.
Anche tale norma (al comma
3) destinava il contributo in questione alla realizzazione di «interventi
infrastrutturali» e di «opere di tutela ambientale» comunque «correlati alle
attività estrattive», nonché alle incombenze amministrative legate a tale
attività di impresa, ripartendo il riscosso tra i Comuni interessati e la
Regione; e ne rapportava la quantificazione ad indici non immediatamente
espressivi della redditività della relativa iniziativa economica (comma 2).
Proprio in ragione di tali
caratteristiche è stata esclusa la natura tributaria del contributo previsto
dalla detta disposizione, il quale, piuttosto, viene descritto in termini di
«strumento diretto ad assicurare l’esecuzione di interventi pubblici […]
funzionali alla salvaguardia dei beni collettivi dell’ambiente e del territorio
dall’impatto su di essi della localizzazione delle cave e dell’esercizio
dell’attività estrattiva, in quanto incidenti in modo rilevante e diffuso sia
sul paesaggio e sulla viabilità prossima ed a media distanza e sia sulla
salubrità dell’atmosfera, con evidenti ricadute anche sulla sopravvivenza o
normale sviluppo della flora e la fauna nelle zone limitrofe» (Corte di
Cassazione, sezioni unite, ordinanze 24 dicembre 2009, n. 27347 e 19 dicembre
2009, n. 26815; analogamente, TAR Toscana, sezione seconda, sentenza 3 marzo
2015, n. 344).
7.6.2.– Una tale lettura,
del resto, è stata estesa dalla giurisprudenza amministrativa a contributi
omologhi previsti da norme di altre leggi regionali (ex multis,
TAR Campania, Napoli, sezione quarta, sentenza 6 luglio 2016, n. 3402; sezione
terza, sentenza 12 gennaio 2015, n. 138). Ne emerge un quadro interpretativo
complessivo che, secondo quanto già evidenziato da questa Corte (sentenza n. 52 del
2018), senza assurgere al rango di «diritto vivente» sul tema, per la
diversità delle fonti e, in parte, dei contenuti delle relative disposizioni
scrutinate, rappresenta tuttavia una chiara conferma della correttezza delle
precedenti considerazioni spese nell’escludere natura tributaria alla
prestazione patrimoniale in esame.
7.7.– Il canone in oggetto,
principalmente caratterizzato da tale peculiare connotazione indennitaria, è
dunque privo della funzione genericamente contributiva al bilancio degli enti
interessati o commutativa di un servizio, che caratterizza i tributi.
Non ha, pertanto, natura
tributaria, difettando i caratteri che lo condizionano, sopra indicati,
stabiliti dalla giurisprudenza costituzionale.
Di qui l’infondatezza della
prima questione.
8.– Secondo il rimettente,
la medesima disposizione sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost.,
perché fonte di irragionevoli discriminazioni. A parità di superficie
interessata, i nuovi criteri di determinazione mettono, ad avviso del TAR,
sullo stesso piano tutti i soggetti che svolgono la relativa attività di
estrazione, quale che sia il materiale oggetto della relativa iniziativa
imprenditoriale ed a prescindere dalla relativa capacità remunerativa.
Secondo il rimettente, dunque,
viene imposto, irrazionalmente, il medesimo trattamento a situazioni
differenti.
8.1.– La censura non coglie
nel segno perché è legata a presupposti logici non coerenti con la ratio della
disposizione censurata (sentenza n. 290 del
2010).
Si è già evidenziato che la
ragione fondante della prestazione patrimoniale disposta dalla norma in esame
si lega sia allo sforzo amministrativo correlato a tale attività di impresa;
sia all’esigenza di far gravare il costo del relativo disagio patito dalla
collettività sui soggetti, che, ottenuto il titolo legittimante, determinano il
pregiudizio ambientale intrinsecamente legato all’attività estrattiva.
All’interno di questo più esteso ambito di riferimento, la disposizione in
oggetto persegue, anche, l’ulteriore obiettivo della individuazione del metodo
applicativo più idoneo a garantire una puntuale esazione del dovuto.
Muovendo da tali
presupposti, non appare convincente il cardine logico sul quale riposa la
prospettata diseguaglianza tra le imprese che esercitano l’attività di
estrazione.
La diversa possibilità di
rendimento dell’attività, in ragione del maggior valore di mercato del
materiale estratto, deve ritenersi ininfluente una volta che si colleghi il
canone in esame non ai valori di produzione reddituale della relativa
iniziativa imprenditoriale, bensì alla esigenza di compensare il costo
amministrativo ed il disagio ambientale conseguenti alla attività di cava. In
particolare, i profili di erosione territoriale e ambientale conseguenti
all’attività estrattiva, prescindono dalla potenziale redditività della
relativa iniziativa economica, che ovviamente troverà, invece, rilievo nella
determinazione dell’imponibile ai fini della tassazione sul reddito delle
imprese.
Infatti, nei criteri di
determinazione del canone introdotti dalla novella, viene data rilevanza
essenziale alla deturpazione del paesaggio, certamente correlata alla quantità
di superficie interessata dall’attività di scavo; e, nell’ottica indennitaria,
si tempera il relativo parametro coniugandolo con il riferimento ai volumi di
estrazione autorizzati, ancor più concretamente indicativi dell’effettiva
modificazione ambientale assentita.
9.– Il TAR dubita, infine,
della legittimità costituzionale del comma 8 della medesima legge reg. n. 9 del
2013, così come introdotto dall’art. 83 della legge reg. n. 9 del 2015, in
relazione agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in riferimento all’art. 1 Prot. addiz. CEDU.
Con la norma censurata,
secondo il rimettente, si dispone, in modo arbitrario e irragionevole,
l’efficacia retroattiva dei nuovi criteri di determinazione del canone in
esame, estendendone l’applicazione anche all’anno 2014, così da ledere il
legittimo affidamento riposto, dai titolari dell’attività di estrazione, sul
mantenimento delle condizioni di quantificazione del detto corrispettivo
garantite dalla previgente normativa.
9.1.– Preliminarmente, in
linea con quanto eccepito dalla difesa della Regione, va dichiarata
l’inammissibilità della questione con riguardo al parametro convenzionale,
evocato per il tramite del primo comma dell’art. 117 Cost.
Tale parametro risulta
richiamato solo nominalmente dal rimettente, che non ha argomentato sul punto
nelle due ordinanze. Le relative motivazioni, in parte qua, risultano,
piuttosto, esclusivamente riferite all’asserita lesione dell’art. 3 Cost.
9.2.– Con riguardo al
parametro interno, la censura si rivela infondata.
9.3.– Va in primo luogo
confermato che la disposizione censurata, rendendo applicabili i nuovi criteri
di determinazione del canone anche all’esercizio relativo al 2014, ha natura
retroattiva.
I nuovi criteri previsti
dalla novella, in vigore dal 15 maggio 2015, finiscono per incidere su una
prestazione che, alla data di entrata in vigore della riforma, doveva ritenersi
già compiutamente definita.
E infatti, in virtù di
quanto previsto dall’art. 5 del decreto dell’assessore regionale per l’energia
e i servizi di pubblica utilità dell’11 aprile 2014, reso in attuazione
dell’originario tenore dell’art. 12 della legge reg. n. 9 del 2013, il
pagamento della prestazione in esame, relativa all’anno 2014, andava effettuato
entro il 31 marzo 2015.
9.4.– Va, poi, rimarcato
che il presupposto logico dell’intero ragionamento sotteso alla dedotta
illegittimità costituzionale attiene alla misura dell’aumento fatto gravare sui
soggetti che esercitano l’attività di sfruttamento delle cave, nel passaggio
tra quanto originariamente dovuto nel 2014 e gli importi rivendicati dagli enti
competenti, per il medesimo periodo di esercizio, in esito alla novella.
L’incidenza quantitativa di
siffatto aumento renderebbe arbitraria e irrazionale la disposta retroattività
delle modifiche.
9.5.– Ciò precisato, va
ribadito che l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica costituisce
un «elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto» (sentenze n. 822 del
1988 e n.
349 del 1985) e «trova copertura costituzionale nell’art. 3 Cost., ma non già in termini assoluti e inderogabili» (sentenza n. 56 del
2015).
Come chiarito dalla
costante giurisprudenza di questa Corte (in consonanza anche con quella della
Corte EDU), la tutela dell’affidamento non comporta che, nel nostro sistema
costituzionale, sia assolutamente interdetto al legislatore di emanare
disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di
durata, e ciò «anche se il loro oggetto sia costituito dai diritti soggettivi
perfetti, salvo, qualora si tratti di disposizioni retroattive, il limite
costituzionale della materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.)», fermo restando tuttavia che dette disposizioni,
«al pari di qualsiasi precetto legislativo, non possono trasmodare in un
regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali
poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l’affidamento del
cittadino» (sentenze
n. 16 del 2017 e n. 822 del 1988;
in senso analogo, ex plurimis, sentenze n. 203 del
2016; n. 64
del 2014; n.
1 del 2011; n.
302 del 2010; n.
236, n. 206
e n. 24 del 2009;
n. 409 e n. 264 del 2005;
n. 446 del 2002;
n. 416 del 1999).
L’affidamento da tutelare
postula, tuttavia, il consolidamento, nel tempo, della situazione normativa che
ha generato la posizione giuridica incisa dal nuovo assetto regolatorio,
sia perché protratta per un periodo sufficientemente lungo, sia per essere
sorta in un contesto giuridico sostanziale atto a far sorgere nel destinatario
una ragionevole fiducia nel suo mantenimento (sentenza n. 56 del
2015).
Se, dunque, interessi
pubblici sopravvenuti possono esigere interventi normativi in grado di
comprimere posizioni consolidate, è comunque necessario, per un verso, che
l’incidenza peggiorativa non sia sproporzionata rispetto all’obiettivo
perseguito nell’interesse della collettività; per altro verso, che l’intervento
di modifica sia prevedibile, non potendosi tollerare mutamenti retroattivi
dell’assetto di interessi relativo a rapporti di durata consolidati nel tempo,
del tutto inaspettati (sentenze n. 203 del
2016 e n. 64
del 2014).
9.6.– L’esame della ratio e
del contenuto della norma impugnata induce ad escludere che questa abbia inciso
in modo irragionevole, arbitrario e imprevedibile così da ledere – come
denunziano le ordinanze rimettenti – il principio evocato.
9.6.1.– In primo luogo, va
considerato che il canone in questione è stato introdotto nel 2013, mentre le
modifiche apportate risalgono al 2015.
L’ambito temporale sopra
descritto rende evidente che nel caso non poteva essersi consolidato un
affidamento particolarmente radicato nel tempo quanto al tenore delle
disposizioni previgenti, avuto riguardo ai criteri di determinazione della
prestazione patrimoniale in esame.
9.6.2.– Il portato di
novità che connotava l’introduzione delle norme modificate dalle disposizioni
censurate – tramite le quali, per la prima volta, per i titolari di
autorizzazione all’attività estrattiva, è stato disposto il pagamento della
prestazione in oggetto – rendeva inoltre prevedibile, anche in un breve lasso
temporale, una fisiologica instabilità di disciplina, motivata dall’esigenza di
individuare non solo e non tanto i criteri di quantificazione del dovuto
maggiormente confacenti alla tipologia dei rapporti in esame, ma anche le
modalità attraverso le quali pervenire ad una più puntuale escussione della
relativa obbligazione.
Siffatta prevedibilità
della modifica, del resto, trova una rilevante conferma nel secondo dei già evidenziati
tentativi di innovazione posti in essere dalla Regione nel corso del 2014,
quello legato al disposto dell’art. 75 della delibera legislativa del 1° agosto
2014, in approvazione del disegno di legge n. 782, il quale anticipava
l’introduzione dei criteri di determinazione del canone attualmente vigenti.
Per quanto già segnalato,
siffatto tentativo non venne portato a termine per l’impugnazione della
delibera legislativa che lo conteneva, all’epoca proposta, innanzi a questa
Corte, dal Commissario dello Stato, prospettando minori entrate: motivazioni
che si pongono in aperta distonia logica con il contenuto della censura
sollevata dalle ordinanze di rinvio (le quali logicamente riposano, piuttosto,
su un asserito considerevole aumento di entrate derivante dalla applicazione
dei nuovi criteri).
La prevedibilità
dell’introduzione dei nuovi criteri trova, inoltre, riscontro nelle ragioni di
interesse pubblico – messe in luce dai lavori preparatori – che hanno imposto
le modifiche oggetto di censura. Ragioni, emerse già nel primo anno di
applicazione del canone in esame (come reso evidente dal tenore dell’art. 75
citato da ultimo), legate alle difficoltà incontrate nella puntuale verifica ed
esazione del dovuto; e ciò in considerazione del metodo di accertamento
correlato agli originari criteri di determinazione, fondato
sull’autocertificazione della quantità di materiale estratto da parte del
soggetto passivo della prestazione, tale da rendere non agevole un utile
riscontro, quantomeno in termini di tempestività, degli importi da riscuotere
da parte degli organi demandati al relativo controllo.
9.6.3.– È di immediata
evidenza che la compiutezza dell’accertamento del dovuto e la puntualità
nell’escussione del canone rappresentano segmenti imprescindibili del percorso
che porta alla utile realizzazione dell’interesse della collettività sotteso
alla prestazione patrimoniale prevista dalle disposizioni in esame, altrimenti
vanificato. L’obiettivo perseguito con l’introduzione dei nuovi criteri di
determinazione si fonde, dunque, inscindibilmente con le ragioni sottese alla
previsione del canone dovuto dai soggetti che svolgono l’attività estrattiva;
ragioni dotate di primario rilievo, perché correlate alla tutela dei valori
ambientali compromessi dalla detta iniziativa imprenditoriale.
9.6.4.– La natura ed il
rilievo dell’interesse collettivo perseguito dal legislatore regionale rendono,
innanzitutto, non arbitrarie le modifiche introdotte dalla novella censurata,
volte a rendere efficiente la fase di accertamento e riscossione del dovuto a
tale titolo. Portano, inoltre, ad escludere che l’intervento normativo in esame
possa aver arrecato una sproporzionata compressione delle posizioni soggettive
coinvolte: sia perché queste ultime riposano su un affidamento tutt’altro che
radicato nel tempo (sentenza n. 56 del
2015), ulteriormente messo in discussione dalla già rimarcata prevedibilità
della riforma adottata; sia perché è evidentemente modesto l’ambito temporale
di retrodatazione degli effetti delle nuove disposizioni, limitato al dovuto
per un solo esercizio. Considerazione, quest’ultima, che finisce per privare di
effettivo rilievo il profilo legato alle addotte conseguenze economiche che derivano
dalla retroattività dei criteri in contestazione, elemento fondante la censura
prospettata.
per
questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi:
1) dichiara inammissibile la costituzione della parte privata Fratelli
Calamaio di Calamaio Ettore & C. snc;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 83 della legge della Regione Siciliana 7 maggio 2015, n. 9
(Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2015. Legge di stabilità
regionale), nella parte in cui ha introdotto il comma 8 dell’art. 12 della
legge della Regione Siciliana 15 maggio 2013, n. 9 (Disposizioni programmatiche
e correttive per l’anno 2013. Legge di stabilità regionale) sollevate dal
Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia in riferimento all’art. 117,
primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 1 del Protocollo
addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 e ratificato con la legge
4 agosto 1955, n. 848, con le ordinanze indicate in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 83 della legge della Regione Siciliana n. 9 del 2015, nella parte in
cui ha modificato il comma 1 dell’art. 12 della legge della Regione Siciliana
n. 9 del 2013, sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia
in riferimento agli artt. 53 e 3 Cost., con le
ordinanze indicate in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 83 della legge della Regione Siciliana n. 9 del 2015, nella parte in
cui ha introdotto il comma 8 dell’art. 12 della legge della Regione Siciliana
n. 9 del 2013, sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia
in riferimento all’art. 3 Cost., con le ordinanze
indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 marzo 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI,
Presidente
Augusto Antonio BARBERA,
Redattore
Filomena PERRONE,
Cancelliere
Depositata in Cancelleria
il 26 aprile 2018.