Sentenza n. 89 del 1966
 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 89

ANNO 1966

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO,  

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5, primo comma, della legge 15 novembre 1964, n. 1162, recante "Istituzione di una addizionale all'imposta generale sull'entrata", promosso con ordinanza emessa il 5 aprile 1965 dal Giudice conciliatore di Genova-Voltri nel procedimento civile vertente tra Assereto Mario e Barisone Ivo, iscritta al n. 90 del Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 139 del 5 giugno 1965.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione di Barisone Ivo;

udita nell'udienza pubblica del 17 maggio 1966 la relazione del Giudice Francesco Paolo Bonifacio;

uditi gli avvocati Victor Uckmar ed Enrico Allorio, per il Barisone, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Umberto Coronas, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un procedimento civile instaurato innanzi al Giudice conciliatore di Genova-Voltri da Mario Assereto contro Ivo Barisone il convenuto ha eccepito l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, primo comma, della legge 15 novembre 1964, n. 1162, con il quale si stabilisce che l'addizionale straordinaria del venti per cento sulle aliquote dell'imposta generale sull'entrata di cui all'art. 1 della stessa legge si applica anche agli atti economici effettuati nel periodo intercorso dal 31 agosto al 24 settembre 1964.

2. - Con ordinanza del 5 aprile 1965 il Giudice conciliatore, dopo aver rigettato per manifesta infondatezza l'eccezione relativa alla pretesa violazione degli artt. 64 e 72 della Costituzione, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione sollevata in riferimento agli artt. 23, 3 e 53 della Costituzione.

Il giudice a quo osserva che l'art. 23 della Costituzione, interpretato alla luce dei principi enunciati negli artt. 3 e 53, esclude la legittimità di norme che siano prive del carattere di astrattezza: e tale é, a suo parere, quella impugnata, giacché l'individuazione dei destinatari é operata in riferimento a situazioni concrete "irripetibili nella loro storicità". Il denunziato art. 5 violerebbe altresì l'art. 3 della Costituzione, giacché esso dà luogo ad una disparità di trattamento tra coloro che hanno posto in essere atti economici nel periodo 31 agosto-24 settembre 1964 e coloro che identici atti hanno effettuato dopo tale data e prima dell'entrata in vigore della legge. A fondamento della qual disparità non sarebbe sufficiente invocare le ragioni addotte dal legislatore, e, cioè, che il rimborso dell'imposta già pagata in quel periodo per effetto del decreto-legge 31 agosto 1964, n. 705, poi non convertito avrebbe implicato una diminuzione del gettito previsto ed avrebbe di conseguenza resi necessari altri inasprimenti fiscali: il giudice a quo, richiamando la sentenza n. 155 del 1963 di questa Corte, rileva in proposito che i bisogni finanziari dello Stato non possono mai legittimare la imposizione di un obbligo tributario diverso tra due soggetti, ad entrambi i quali sia da riconoscere una pari capacità contributiva. L'ordinanza, infine, denunzia anche la violazione dell'art. 53 della Costituzione, perché la norma impugnata assumerebbe ad elemento costitutivo della fattispecie impositiva un fatto - vale a dire il periodo di tempo che va dal 31 agosto al 24 settembre 1964 - che di per sé non può essere indice di maggiore o di minore ricchezza.

3. - L'ordinanza é stata notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri; é stata comunicata ai Presidenti delle due Camere ed é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 139 del 5 giugno 1965.

Nel presente giudizio si é costituito il signor Ivo Barisone (atto depositato il 24 giugno 1965), rappresentato e difeso dagli avvocati Victor Uckmar e Guido Guidi, ed é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato (atto depositato il 16 giugno 1965),

4. - Nell'atto di costituzione la difesa del signor Barisone osserva che il principio della riserva di legge in materia di prestazioni personali e patrimoniali (art. 23 della Costituzione) non può essere inteso nella sua reale portata se non attraverso il collegamento con gli artt. 3 e 53 della Costituzione: la riserva di legge, cioé, é strumentale rispetto al principio della capacità contributiva ed é garanzia di una imposizione tributaria senza discriminazioni. L'art. 53, infatti, con la locuzione "tutti sono tenuti" richiama un dovere valido per una serie tendenzialmente indefinita di soggetti, ed in tal modo si collega col principio di eguaglianza. La legge tributaria, perciò, non può avere che un contenuto astratto e generale, e sono di conseguenza illegittime le leggi di imposizione per il caso singolo, le leggi-provvedimento e le leggi auto-applicative. Non é dubbio che la norma impugnata detta una disciplina relativa ad accadimenti già verificatisi e, pertanto, manca di astrattezza: né é invocabile il disposto dell'art. 77, perché fra le regolamentazioni possibili il legislatore é tenuto ad evitare quelle che contrastino con principi costituzionali.

La difesa del signor Barisone rileva altresì che la ragione addotta dal legislatore a giustificazione dell'art. 5 é del tutto insufficiente, perché i bisogni finanziari dello Stato non possono legittimare la violazione del principio della riserva di legge: e, d'altra parte, la norma impugnata, la quale ha il solo scopo di impedire la restituzione delle somme riscosse, crea una disparità di trattamento che, in mancanza di una ragione idonea, non può non essere giudicata, secondo i principi che emergono dalla costante giurisprudenza della Corte, costituzionalmente illegittima. Se infatti si prescinde dai bisogni finanziari dello Stato, non é possibile rinvenire alcuna circostanza idonea a giustificare la creazione, fra il 31 agosto ed il 24 settembre 1964, di un'assurda "isola impositiva".

La parte conclude chiedendo che la norma denunziata venga dichiarata costituzionalmente illegittima.

5. - L'Avvocatura dello Stato ritiene che nessun precetto costituzionale configuri l'elemento dell'astrattezza come requisito indefettibile della legge e, quanto al preteso contrasto della norma impugnata con l'art. 3 della Costituzione, sostiene che la discriminazione fra atti economici effettuati nel periodo preso in considerazione dall'art. 5 ed atti economici posti in essere dopo il 24 settembre 1964 non si fonda su un elemento meramente temporale, ma su una circostanza obiettiva, giacché vengono colpiti gli atti compiuti nell'arco di tempo in cui era concretamente operante il D.L. 31 agosto 1964, n. 705, istitutivo di un'analoga maggiorazione di i.g.e. Dopo aver ricordato la norma contenuta nel terzo comma dell'art. 77 della Costituzione, l'Avvocatura afferma che l'esigenza di tutelare la stabilità dei già sorti rapporti giuridici può essere tenuta presente dal legislatore non solo quando si abbia successione di leggi nel tempo ma anche quando si tratti di regolare i rapporti sorti sulla base di decreti non convertiti. Aggiunge che la mancata previsione dell'efficacia retroattiva delle norme emanate con la legge n. 1162 avrebbe determinato gravi inconvenienti: si sarebbero infatti verificate sperequazioni fra i contribuenti a seconda che il tributo fosse stato versato attraverso marche o a mezzo del servizio di conto corrente (e fosse, quindi, ripetibile nel primo caso, irripetibile nel secondo); sarebbe stato necessario procedere a complesse operazioni di rimborso, complicate dalla difficoltà di individuare gli aventi diritto; e, infine, i contribuenti i quali non avessero ottemperato agli obblighi sanciti dal decreto legge, non avendo necessità di esperire alcuna pratica di rimborso sarebbero risultati avvantaggiati.

Quanto al contrasto della norma impugnata con l'art. 53 della Costituzione, l'Avvocatura rileva che il principio della commisurazione degli oneri fiscali alla capacità contributiva del cittadino condiziona il sistema nel suo complesso e che, comunque, anche se lo si volesse riferire ad una singola imposta, bisognerebbe concludere che esso ubbidisce agli stessi criteri desumibili dall'art. 3: con la conseguenza che la discriminazione é da ritenere legittima tutte le volte in cui, come nella specie, sia sorretta da considerazioni obiettive. L'Avvocatura conclude chiedendo che la questione venga dichiarata non fondata.

6. - In un'ampia memoria depositata il 4 maggio 1966 la difesa del Barisone ribadisce le tesi già esposte nell'atto di costituzione e contesta la validità delle singole argomentazioni esposte dall'Avvocatura dello Stato. In particolare sui vari profili della questione di legittimità costituzionale osserva:

1) L'art. 5 della legge 15 novembre 1964, n. 1162, sottopone gli atti economici compiuti nel periodo durante il quale fu operativo il D.L. 31 agosto 1964, n. 705, allo stesso regime tributario introdotto da quel decreto successivamente non convertito in legge (e non ha rilevanza alcuna la circostanza che ivi si parli di aumento dell'i.g.e. e nella legge n. 1162, invece, di addizionale): la norma, perciò, non ha altra portata che quella di estinguere una serie finita di obbligazioni di rimborso, nei confronti di una individuata serie di contribuenti.

Non si contesta, in generale, la legittimità di leggi prive del carattere di astrattezza; ma é da escludere che leggi siffatte siano compatibili con la presenza di una riserva di legge, quale é quella disposta dall'art. 23 della Costituzione. La riserva di legge, come é sostenuto da una autorevole dottrina, impone al legislatore di dettare discipline generali ed astratte in settori normativi nei quali si reputa indispensabile infrenare l'arbitrio; nel caso di specie, sotto l'aspetto di una disciplina generale, non si é fatto altro che introdurre un privilegio odioso ai danni di quei contribuenti ai quali capitò di pagare l'I.G.E. nel periodo compreso fra il 31 agosto ed il 24 settembre 1964.

2) La discriminazione fra coloro che hanno compiuto atti economici nel periodo indicato e coloro che hanno posto in essere atti identici dopo il 24 settembre e prima dell'entrata in vigore della legge n. 1162 non può trovare giustificazione nella circostanza che il periodo al quale la norma impugnata si riferisce coincide col periodo di operatività del decreto legge: il legislatore, infatti, non può muovere dal presupposto che si debba ridar vigore retroattivo ad una disciplina normativa che tale vigore ha retroattivamente perduto. É indubbio che a seguito della mancata conversione del decreto-legge i rapporti sulla base di esso instaurati sono automaticamente invalidati, e perciò é inaccettabile la tesi dell'Avvocatura che muove da un'assurda analogia con la successione delle leggi nel tempo: nel caso di specie il rapporto di imposta non può accostarsi alla figura del diritto quesito meritevole di salvaguardia, giacché, se mai, meritevole di tutela era il diritto al rimborso dell'imposta, sorto a seguito della mancata conversione.

L'art. 77 della Costituzione postula che le Camere attuino il regolamento dei rapporti nati sulla base del decreto non convertito contestualmente alla non conversione, mentre nel caso in esame il legislatore non solo ha provveduto a distanza di tempo, ma non ha fatto il minimo riferimento all'art. 77 della Costituzione. La norma impugnata deve essere quindi valutata come una qualsiasi legge retroattiva, e non può pertanto trovare nell'art. 77 della Costituzione la sua legittimità. Va comunque aggiunto, che anche se il legislatore avesse inteso esercitare la facoltà conferitagli da quella norma costituzionale, é escluso che potesse dettare un regolamento che si tradurrebbe nella convalida del decreto del quale fu rifiutata la conversione. La norma impugnata non può pertanto trovare valida giustificazione nell'intento di attuare un regolamento dei rapporti sorti sotto il decreto-legge non convertito. Né un logico fondamento potrebbe esser rinvenuto, come sostiene l'Avvocatura, negli inconvenienti ai quali il rimborso del maggior tributo avrebbe dato luogo. Ed infatti: a) la disparità fra il contribuente che avesse corrisposto il tributo a mezzo marche ed il contribuente che avesse, invece, adempiuto a mezzo del conto corrente non é idonea a giustificare la legge. La tesi dell'Avvocatura si basa sul disposto dell'art. 47 del D.L. 9 gennaio 1940, n. 2 (convertito nella legge 29 giugno 1940, n. 762), che esclude il rimborso dell'imposta erroneamente corrisposta a mezzo di marche applicate dal contribuente: ma, a prescindere dalla considerazione che l'imposta pagata in virtù di un decreto-legge in vigore non può definirsi erroneamente pagata, non può negarsi che un dubbio di illegittimità costituzionale può investire lo stesso art. 47, proprio perché esso produce una sperequazione fra i contribuenti; b) l'individuazione degli aventi diritto a rimborso non incontra le gravissime difficoltà supposte dall'Avvocatura: peraltro la legge avrebbe potuto legittimamente disporre un modico compenso all'amministrazione per le relative operazioni; c) non ha infine rilevanza il vantaggio che sarebbe derivato ai contribuenti non osservanti, i quali si sarebbero trovati in una situazione più vantaggiosa per il fatto di non dover esperire alcuna pratica per il rimborso: si tratta infatti di una discriminazione accidentale che ha riscontro in altri casi (ad es. in quello dell'amnistia fiscale).

3) Circa la capacità contributiva, é evidente che nel periodo compreso fra il 31 agosto ed il 24 settembre 1964 non si rilevava in coloro che ponevano in essere atti economici una capacità contributiva maggiore di quella che era rivelata da atti identici effettuati in un periodo immediatamente anteriore o immediatamente posteriore.

7. - Nella memoria depositata il 29 aprile 1966 l'Avvocatura dello Stato ribadisce l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale ed osserva che in forza dell'art. 77 della Costituzione non vi é dubbio che a seguito della mancata conversione di un decreto-legge il Parlamento può disporre per il passato, tanto più che la Costituzione sancisce il principio della irretroattività solo per le leggi penali. L'art. 5 della legge 15 novembre 1964 n. 1162, lungi dal contraddire agli artt. 3 e 53 della Costituzione, ha precisamente lo scopo di impedire la violazione dei principi sanciti nelle due disposizioni: ed infatti, tenuta presente la particolare struttura dell'I.G.E., gravi sperequazioni fra i vari contribuenti si sarebbero verificate in occasione del rimborso e illeciti arricchimenti si sarebbero determinati a vantaggio di quei contribuenti che avessero già trasferito sui privati consumatori il maggior tributo versato nel periodo di operatività del decreto. Quanto al profilo relativo alla capacità contributiva, l'Avvocatura afferma che presupposto dell'imposizione restano esclusivamente gli atti economici presi in considerazione dalla legge e non già il periodo temporale nel quale essi furono posti in essere: periodo che assume rilevanza solo come mezzo tecnico per delimitare la validità della regolamentazione degli effetti prodotti dal decaduto decreto-legge.

8. - Nella discussione orale la difesa del Barisone e l'Avvocatura dello Stato hanno illustrato le tesi già esposte negli scritti difensivi ed hanno insistito nelle rispettive conclusioni.

 

Considerato in diritto

 

1. - A seguito del voto negativo espresso dal Senato nella seduta del 24 settembre 1964 il D.L. 31 agosto 1964, n. 705, col quale le aliquote dell'imposta generale sull'entrata erano state aumentate del 20 per cento, non venne convertito in legge e di conseguenza perdette efficacia sin dall'inizio.

La successiva legge 15 novembre 1964, n. 1162, istitutiva di un'addizionale del 20 per cento sulle stesse aliquote, ha stabilito (art. 5, primo comma) che tale addizionale si applichi anche agli atti economici compiuti dal 31 agosto al 24 settembre 1964. L'ordinanza di rimessione prospetta il dubbio che questa norma violi la riserva di legge disposta per l'imposizione di prestazioni patrimoniali (art. 23 della Costituzione) leda il principio di eguaglianza (art. 3 della Costituzione) e contrasti con quello relativo alla capacità contributiva (art. 53 della Costituzione).

2. - La Corte ritiene che per un'esatta valutazione del fondamento delle questioni sottoposte al suo esame si debba tener conto della circostanza che la norma impugnata venne emanata dal Parlamento nell'esercizio del potere di regolare con legge i rapporti sorti sulla base del non convertito D.L. 31 agosto 1964, n. 705.

Non appaiono fondate le obiezioni formulate in proposito dalla difesa del Barisone, secondo la quale il Parlamento avrebbe avuto l'onere di provvedere contestualmente al rifiuto di conversione del decreto, avrebbe dovuto far espresso riferimento all'art. 77 della Costituzione e non avrebbe potuto, comunque, ridar sostanziale vigore al decreto legge del quale era stata rifiutata la conversione. Su questi singoli punti é sufficiente osservare:

a) poiché la non conversione consegue ipso iure ad un evento negativo (inutile decorso di sessanta giorni dalla pubblicazione del decreto) o, come nel caso in esame, al voto contrario espresso anche da una sola delle assemblee legislative, é da escludere perfino la possibilità che la regolamentazione dei rapporti sorti sulla base del decreto sia contestuale alla non conversione;

b) un formale riferimento all'art. 77 della Costituzione è del tutto superfluo quando da obiettivi dati sostanziali risulti in modo non equivoco che il Parlamento abbia esercitato il potere da quella norma costituzionale previsto. Nel caso oggetto del presente giudizio é certo che la legge intese regolare quei rapporti fra Stato e contribuenti che erano stati invalidati a seguito della mancata conversione del D.L. 31 agosto 1964, n. 705: lo dimostrano i lavori preparatori, nel corso dei quali le dichiarazioni del Governo proponente, le relazioni e i dibattiti parlamentari partirono dal presupposto che l'art. 5 della nuova legge intendesse disciplinare precisamente quelle fattispecie che già erano state regolate dal Governo attraverso la decretazione di urgenza; e lo conferma perentoriamente la circostanza che il periodo intercorso fra il 31 agosto e il 24 settembre 1964 é esattamente corrispondente a quello durante il quale aveva spiegato effetti il decreto successivamente non convertito;

c) l'identità della misura di aumento dell'imposta, dell'elenco dei prodotti esentati e delle disposizioni relative all'esercizio del credito ed alle esportazioni dimostra, senza dubbio, che la norma impugnata assoggetta gli atti economici compiuti nel predetto periodo ad una disciplina che ha lo stesso contenuto di quella adottata col decreto legge non convertito. Ma ciò non significa che il Parlamento abbia agito al di là e al di fuori del potere conferitogli dall'art. 77 della Costituzione. La norma costituzionale, infatti, stabilendo che i decreti non convertiti "perdono efficacia sin dall'inizio" non si propone altro scopo che non sia quello di regolare le conseguenze della mancata conversione, e nulla consente di ravvisare in essa, nello stesso tempo, un limite alla facoltà del legislatore, nella stessa disposizione riconosciuta, di disciplinare, secondo una scelta demandata alla sua valutazione politica, i rapporti sorti sulla base dei decreti non convertiti.

3. - É tuttavia chiaro che, se il terzo comma dell'art. 77 della Costituzione abilita il legislatore a dettare una regolamentazione retroattiva dei rapporti, la relativa disciplina non può in alcun modo prescindere dal pieno rispetto delle norme costituzionali. Con questa premessa occorre quindi procedere all'esame delle censure mosse dall'ordinanza di rimessione alla norma impugnata.

La prima questione trarrebbe fondamento, secondo il giudice a quo, dal fatto che l'individuazione dei destinatari dell'art. 5, primo comma, della legge 15 novembre 1964, n. 1162, "é operata in riferimento a situazioni concrete irripetibili nella loro storicità": alla norma mancherebbe, quindi, quel carattere di astrattezza necessario "al fine del rispetto dell'art. 23 della Costituzione".

É evidente che tale motivazione fa discendere l'illegittimità costituzionale della disposizione dal suo carattere retroattivo, dal momento che ogni disciplina retroattiva inevitabilmente si riferisce ad una serie definita di casi già verificatisi: sicché la censura mossa dall'ordinanza di rimessione alla norma in esame, come bene é stato messo in luce dalla difesa privata, parte dal presupposto che la retroattività sia di per sé incompatibile con la riserva di legge.

Tale tesi non appare fondata. Lo dimostra inequivocabilmente il secondo comma dell'art. 25 della Costituzione, nel quale espressamente si pone il divieto di retroattività nella materia penale, per la quale pur vige un rigoroso principio di riserva di legge: dal che sembra doversi desumere che in via di principio la riserva non esclude affatto la legittimità costituzionale di una disciplina retroattiva dei rapporti. A ciò va aggiunto che con giurisprudenza assolutamente costante (cfr. sentenze n. 45 del 4 giugno 1964; n. 44 del 4 maggio 1966) questa Corte ha sempre ritenuto che nella materia tributaria, coperta dalla riserva di legge in forza dell'art. 23 della Costituzione, la retroattività non costituisce di per sé ragione di illegittimità costituzionale della norma.

4. - La questione é infondata anche in riferimento agli articoli 3 e 53 della Costituzione.

La circostanza che all'addizionale dell'aliquota dell'imposta generale sull'entrata soggiacciano solo gli atti economici posti in essere fra il 31 agosto ed il 24 settembre 1964 e non anche gli analoghi atti compiuti dopo tale data e prima dell'entrata in vigore della legge 15 novembre 1964, n. 1162, trova il suo fondamento razionale nello scopo perseguito dal legislatore che, come si é detto, é quello di dettare una disciplina idonea a regolare i rapporti sorti a seguito del non convertito D.L. 31 agosto 1964, n. 705. E ciò dimostra che la scelta di quel periodo di tempo non é frutto di una valutazione arbitraria e perciò sindacabile. Va ancora rilevato che il legislatore ha provveduto nel modo descritto tenendo presenti, come risulta dai lavori preparatori, le difficoltà e le sperequazioni alle quali si sarebbe andati incontro ove si fosse provveduto, a seguito della mancata conversione del decreto, al rimborso delle maggiori somme versate a titolo di imposta generale sull'entrata: ed assume particolare rilevanza la ragionevole preoccupazione che, a causa del già verificatosi trasferimento del maggior onere sui consumatori dei beni e dei servizi, il rimborso potesse esser causa di ingiusti arricchimenti. Non si può dire, perciò, che il legislatore ha dettato discipline diverse per situazioni sostanzialmente eguali, ma si deve invece riconoscere che la legge ragionevolmente ha preso in considerazione i fatti intervenuti tra il 31 agosto e il 24 settembre 1964 come aventi proprie peculiarità e caratteristiche, atte a giustificare un trattamento differenziato.

É anche da escludere che la norma impugnata violi l'art. 53 della Costituzione. Gli atti economici regolati dall'art. 5, primo comma, della legge 15 novembre 1964, n. 1162, sono stati e sono pur sempre assoggettati, prima e dopo il 24 settembre 1964, all'imposta generale sull'entrata e sono quindi costantemente assunti dal legislatore come indici di capacità contributiva. Quel che varia nel periodo preso in considerazione dalla norma é solo l'entità del tributo. In proposito va osservato che la capacità contributiva, presupposto di una legittima imposizione, condiziona certo la misura massima del tributo, nel senso che questa non può mai essere fissata ad un livello superiore alla capacità dimostrata dall'atto o dal fatto economico, ma non esclude, purché tale limite sia rispettato, che gli stessi atti o fatti possano in tempi diversi dar luogo a prelievi tributari di diversa entità, secondo gli obiettivi di politica fiscale di volta in volta perseguiti dal legislatore. É ovvio che tali variazioni non possano e non debbano essere arbitrarie, perché in tal caso verrebbe ad essere compromesso il principio di eguaglianza: ma sotto tale profilo la norma impugnata, per le ragioni già esposte, risulta immune da ogni censura.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, primo comma, della legge 15 novembre 1964, n. 1162, ("Istituzione di un'addizionale all'imposta generale sull'entrata"), sollevata con ordinanza 5 aprile 1965 del Giudice conciliatore di Genova-Voltri in riferimento agli artt. 23, 3 e 53 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 giugno 1966.

 

 

Gaspare AMBROSINI - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO

 

Depositata in cancelleria il 6 luglio 1966.