Sentenza n. 44 del 1966
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SENTENZA N. 44

ANNO 1966

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale della legge 5 marzo 1963, n. 246, sulla istituzione di una imposta sugli incrementi di valore delle aree fabbricabili, e dell'art. 8 della legge 5 gennaio 1957, n. 33, sull'ordinamento e le attribuzioni del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 20 ottobre 1964 dal Pretore di Pisa nel procedimento civile vertente tra la Società Fabbrica torinese cioccolato e biscotti Federico Salza e Susini Remo, iscritta al n. 183 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26 del 30 gennaio 1965;

2) ordinanza emessa il 7 luglio 1964 dal Pretore di Salerno nel procedimento penale a carico di Nicodemi Antonio, Ada e Giuseppe, iscritta al n. 185 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26 del 30 gennaio 1965.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione della Società Federico Salza e di Nicodemi Antonio, Ada e Giuseppe;

udita nell'udienza pubblica del 15 dicembre 1965 la relazione del Giudice Giuseppe Chiarelli;

uditi l'avv. Renato Tortorella, per la Società Salza, ed il vice avvocato generale dello Stato Dario Foligno, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel procedimento penale a carico di Nicodemi Antonio, Ada e Giuseppe, imputati di concorso nella contravvenzione di cui agli artt. 6 e 42 della legge 5 marzo 1963, n. 246, istitutiva dell'imposta sugli incrementi di valore delle aree fabbricabili, il Pretore di Salerno, con ordinanza 7 luglio 1964, riteneva rilevante ai fini del giudizio e non manifestamente infondate le seguenti questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla difesa.

a) Illegittimità costituzionale della legge n. 246 del 1963, nel suo procedimento di formazione, per non essere stato sentito il parere del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, nonché dell'art. 8 della legge 5 gennaio 1957, n. 33, sull'ordinamento e le attribuzioni del detto Consiglio, per asserita violazione dell'art. 99 della Costituzione, il quale avrebbe qualificato come obbligatori i pareri del C.N.E.L. nelle leggi concernenti materia ed indirizzo di politica finanziaria ed economica.

b) Illegittimità costituzionale delle disposizioni della medesima legge n. 246 del 1963, contenute negli artt. 1, 2, 5, 6, 13, 21, 25, per violazione degli artt. 3, 23, 25, 41, 42, 53 e 70, 73, 76, 77, della Costituzione, anche alla stregua e in relazione agli artt. 25 della Costituzione ed 11 delle disposizioni preliminari del Codice civile.

Le questioni di legittimità costituzionale così dedotte venivano specificate, nell'ordinanza, nei seguenti termini:

a) In relazione all'art. 6 della legge, illegittimità costituzionale dell'art. 1 della stessa, per violazione dell'art. 3 della Costituzione, in quanto, essendo prevista per alcuni Comuni l'istituzione dell'imposta come facoltativa, si produce una distinzione tra i soggetti che possono essere colpiti, a seconda delle libere determinazioni dei comuni anche in ordine al tempo; e per violazione dell'art. 23 della Costituzione, in quanto, sempre nei predetti Comuni, le prestazioni patrimoniali correlative all'istituzione del tributo non sono fissate né imposte in base alla legge.

b) Sempre in relazione all'art. 6 della legge, illegittimità costituzionale degli artt. 1, 5, 21 e 25, le cui disposizioni normative attribuiscono ai Comuni il potere di determinare liberamente, entro un periodo di 10 anni antecedenti alla deliberazione dell'imposta, la data di riferimento per la determinazione dell'incremento tassabile (art. 5), con conseguente variazione non solo in assoluto del periodo a cui si riferisce l'imposta, ma anche relativa all'aliquota, determinata nei modi di cui all'art. 21. Tali disposizioni sarebbero in contrasto con l'art. 23 della Costituzione, in quanto le prestazioni patrimoniali vengono ad essere imposte alla stregua di parametri assunti liberamente e discrezionalmente dai singoli Comuni, per cui lo stesso "oggetto" dell'imposta viene ad essere rimesso alla loro libera determinazione; con l'art. 3 della Costituzione, in quanto la predetta assoluta libertà dei Comuni importa come conseguenza una diseguale applicazione della legge in ordine ai vari soggetti colpiti dall'imposta, non essendo fissato alcun principio-limite al riguardo; infine, con gli artt. 41 e 42 della Costituzione, e con l'art. 3, risultando dalle norme impugnate una serie di vincoli - limiti alla eguale libertà delle iniziative economiche e alla eguaglianza del regime giuridico della proprietà privata, dovuti ad atti amministrativi.

c) Illegittimità costituzionale dell'art. 2, che assume a oggetto dell'imposizione l'incremento di valore delle aree rilevabile alla data dell'alienazione e della utilizzazione edificatoria, e dell'art. 3, che per alcune categorie di soggetti colpisce anche la differenza di valore raggiunta al compimento di ogni decennio decorrente dalla data di riferimento assunta. L'illegittimità costituzionale é dedotta in riferimento all'art. 3 della Costituzione, per la diversa applicazione e operatività dell'imposizione con diversificazione dello stesso oggetto dell'imposta a seconda del periodo assunto; all'art. 23, essendo rimesso il criterio di determinazione dell'oggetto dell'imposta alla determinazione dei Comuni; all'art. 53, in quanto é violato ogni criterio di progressività, che necessariamente esige ed implica l'identità dell'oggetto.

d) Illegittimità costituzionale degli artt. 5, 21 e 25, in quanto, col consentire ai Comuni di fissare la data di riferimento, si attribuisce ad essi un potere di imposizione retroattiva. La illegittimità costituzionale é dedotta in riferimento all'art. 53 della Costituzione, in quanto le menzionate disposizioni escludono ogni rapporto con la capacità contributiva; all'art. 11 disposizioni sulla legge in generale, costituente principio generale dell'ordinamento circa la validità e operatività degli atti legislativi e amministrativi; alle norme costituzionali regolatrici della funzione legislativa (artt. 70 e segg., 73, 76, 77).

e) Illegittimità costituzionale per violazione della riserva di legge fissata dall'art. 23 della Costituzione, per l'attribuzione ai Comuni di un potere imposizionale attraverso atti amministrativi.

f) Illegittimità costituzionale dell'art. 13, che attribuisce ai Comuni il potere di promuovere l'espropriazione di aree, per violazione dell'art. 42 della Costituzione.

L'ordinanza é stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata.

Si sono costituiti in giudizio i sigg. Nicodemi, rappresentati e difesi dagli avvocati Girolamo Bottiglieri e Vincenzo Sica. Nelle loro deduzioni, depositate il 12 ottobre 1964, sono esposte e sviluppate le indicate questioni di costituzionalità delle predette disposizioni legislative, di cui si chiede la dichiarazione di illegittimità.

In data 14 novembre 1964 si é costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato. Nelle deduzioni da questa presentate, e nella successiva memoria, si osserva quanto segue:

a) Dall'art. 99 della Costituzione non si ricava, né in via diretta, né in base ai principi, la necessità di prevedere come obbligatori i pareri del C.N.E.L. Non può pertanto porsi in dubbio la piena costituzionalità dell'art. 8 della legge 5 gennaio 1957, n. 33, ed é conseguentemente da ritenere infondata la questione di legittimità costituzionale della legge n. 246 del 1963.

b) Il carattere di obbligatorietà dell'imposta per talune classi di Comuni, ad esclusione di altre per le quali l'istituzione é facoltativa, non contrasta con l'art. 3 della Costituzione, perché rispetto a situazioni diseguali il legislatore può procedere con norme differenziate. Il fenomeno della speculazione del mercato di aree, che la legge n. 246 ha voluto colpire, ha assunto proporzioni più vaste, rispetto alle altre località, nei grossi centri urbani e nel loro immediato retroterra. nonché in località di particolari attrattive turistiche: a questa differenza di situazioni corrisponde la distinzione dei Comuni posta dall'art. 1; distinzione che ha precedenti nel nostro sistema tributario (imposta di soggiorno). Alla valutazione delle condizioni particolari dei singoli ambienti economici si collega la facoltà, attribuita ai Comuni, di stabilire il riferimento iniziale del fenomeno dell'incremento e la conseguente applicazione dell'aliquota a scaglioni. Né la libera istituzione dell'imposta contrasta con l'art. 23 della Costituzione, essendo le prestazioni puntualmente fissate dalla legge nei presupposti soggettivi e oggettivi, nella determinazione quantitativa e nei controlli.

c) La libertà dei Comuni di determinare la data di riferimento della base imponibile non viola l'art. 23 della Costituzione, in quanto non l'oggetto dell'imposta ma la scelta del tempo in cui essa appare più idonea a raggiungere gli scopi perequativi della legge viene rimessa alla detta determinazione, che non é discrezionale ma vincolata da elementi tecnici, in base ai quali il Comune dovrà valutare in quale periodo di tempo si é maggiormente sviluppato nel Comune il fenomeno della speculazione sulle aree fabbricabili.

La difesa dello Stato ricorda inoltre che la retroattività della legge non é vietata nel settore tributario, purché non si risolva in una violazione del principio di eguaglianza; violazione che non sussiste nella soggetta materia. A questo proposito la memoria dell'Avvocatura dello Stato rileva che per i Comuni sottoposti all'obbligatoria istituzione dell'imposta la delibera comunale si risolve in una applicazione del tributo deliberato per legge: la delibera é un atto di accertamento tecnico di mera esecuzione del precetto legislativo e pertanto non é a parlarsi di retroattività della norma istitutiva del tributo. Nei casi di applicazione facoltativa, invece, la delibera comunale é effettivamente istitutiva del tributo, ma anche in tale caso ha carattere di accertamento tecnico collettivo, nel reperimento degli elementi di fatto costituenti presupposto comune per i soggetti giuridici di imposta. Non attinente é il riferimento agli artt. 41 e 42 della Costituzione, i quali non escludono l'assoggettabilità delle libere attività economiche e della proprietà privata a limiti e vincoli imposti dalla legge, per esigenze di carattere generale.

d) Il contrasto con gli artt. 3 e 23 della Costituzione non sussiste anche perché alla delibera del Comune non é rimessa la determinazione dell'oggetto formale dell'imposta, ma la specificazione dell'oggetto sostanziale, che si articola per situazioni diverse. Si aggiunge che l'imposta viene applicata con aliquote fortemente progressive.

e) Non sussiste la violazione dell'art. 53 della Costituzione, in quanto la legge tributaria retroattiva non comporta per se stessa la violazione del principio della capacità contributiva (sentenze nn. 9 del 1959 e 45 del 1964). Nella legge di cui trattasi, il riferimento retrodatato per accertare l'incremento di valore risponde a un giusto principio di etica tributaria, inteso a colpire gli sproporzionati arricchimenti verificatisi nel periodo antecedente.

f) L'affermazione di una pretesa violazione della riserva di legge di cui all'art. 23 é generica e non motivata; comunque, l'oggetto dell'imposizione é stabilito dalla legge.

g) Infine l'art. 13 della legge non viola l'art. 42 della Costituzione, in quanto prevede l'espropriazione da parte dei Comuni per un fine di utilità generale, qual é la formazione del patrimonio comunale. Gli interessati potranno comunque avvalersi dei mezzi consentiti dalla legge per tutelare i propri diritti e interessi.

La difesa dello Stato chiede, quindi, che sia dichiarata infondata la dedotta questione di legittimità costituzionale.

2. - Nel giudizio pendente tra la Società Fabbrica torinese cioccolato e biscotti Federico Salza e Susini Remo, il Pretore di Pisa, con la seconda delle ordinanze in epigrafe indicata, su concorde istanza delle parti, ha rimesso gli atti a questa Corte per l'esame di legittimità costituzionale del primo capoverso dell'art. 25 della legge 5 marzo 1963, n. 246, in relazione agli artt. 2 e 3 della stessa legge. Nell'ordinanza si osserva che il primo comma del detto articolo stabilisce che i Comuni possono fissare l'imposizione del tributo per un periodo anteriore di un decennio all'anno in cui la deliberazione é stata adottata. Il capoverso dello stesso articolo, però, mentre considera gli alienanti delle aree fabbricabili, nulla dispone per quanti, acquirenti di dette aree, abbiano, entro i limiti predetti, già fabbricato, per cui essi sembrerebbero del tutto esonerati dal pagamento del tributo, malgrado l'incremento di valore, dipendente dall'edificazione. Non é pertanto manifestamente infondata l'eccezione di illegittimità costituzionale, per contrasto col principio di eguaglianza espresso nell'art. 3 della Costituzione. L'ordinanza soggiunge che tale eguaglianza deve riferirsi anche alla commisurazione del carico tributario in modo uniforme nei confronti dei vari soggetti essendo tutti i cittadini tenuti a concorrere nella economia dello Stato.

L'ordinanza é stata regolarmente notificata e comunicata.

Si sono costituiti in giudizio la Società FedericoSalza, difesa dall'avv. Renato Tortorella, con atto 17 febbraio 1965, e il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto 19 febbraio dello stesso anno.

Nelle deduzioni contenute in tale atto, e in successiva memoria, la difesa dello Stato sostiene che la differente situazione in cui viene a trovarsi, in base all'art. 25, primo capoverso, della legge, colui che abbia alienato l'area rispetto a chi l'abbia utilizzata, corrisponde a una diversità di situazione "obbiettiva", in quanto é sostanzialmente diversa la posizione di coloro che hanno lucrato sulla vendita di aree, da quella di coloro che hanno invece acquistato aree allo scopo, realizzato, di edificazione. Tale diversità ha determinato il legislatore, nella sua libera valutazione economico-sociale del fenomeno, a colpire solo i primi, e non pure gli altri, senza con ciò violare il principio sancito dall'art. 3 della Costituzione.

Nella memoria 1 dicembre 1965 la difesa della Società Salza ha svolto, invece, la tesi dell'illegittimità del primo capoverso dell'art. 25, sostenendo che la norma ivi contenuta ha creato una situazione di assoluto privilegio (esentivo) a favore degli utilizzatori, nei confronti degli alienanti; situazione che non trova alcuna spiegazione in fattori o dati o ragioni obbiettive, né si collega a implicazioni organiche o di coordinamento legislativo.

Con successiva istanza la difesa della Società ha chiesto che la causa sia riunita, nella discussione, all'altra instaurata con ordinanza del Pretore di Salerno nel procedimento penale a carico di Nicodemi Antonio.

3. - All'udienza di trattazione le due cause sono state discusse congiuntamente e i rappresentanti delle parti hanno ribadito i rispettivi argomenti.

 

Considerato in diritto

 

1. - L'oggetto della questione di legittimità costituzionale rimessa a questa Corte dal Pretore di Pisa, con l'ordinanza 20 ottobre 1964, é comune a una delle questioni dedotte, con l'ordinanza 7 luglio 1964, del Pretore di Salerno. Le due cause, congiuntamente trattate, possono perciò essere decise con unica sentenza.

2. - La prima questione di legittimità costituzionale sollevata nella causa Nicodemi, in riferimento all'art. 99 della Costituzione, riguarda il procedimento di formazione della legge 5 marzo 1963, n. 246, per non essere stato sentito il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, e l'art. 8 della legge 5 gennaio 1957, n. 33, sull'ordinamento e le attribuzioni del detto Consiglio, per aver configurato i pareri di esso come meramente facoltativi.

La questione non ha fondamento, perché dalla definizione del Consiglio come "organo di consulenza delle Camere", contenuta nell'art. 99 della Costituzione, non si desume che la Costituzione abbia voluto la obbligatorietà dei suoi pareri.

É vero che nel vigente ordinamento il Consiglio dell'economia e del lavoro ha una rilevanza costituzionale, ed é palese l'opportunità che sia sentito il suo parere nelle questioni di particolare rilevanza economica e sociale; ma l'attribuzione al Consiglio di funzioni incidenti sul procedimento legislativo e sulle funzioni del Parlamento avrebbe richiesto una espressa previsione della Costituzione, in mancanza della quale ai suoi pareri non può attribuirsi altro carattere che facoltativo.

Deve pertanto ritenersi l'infondatezza della questione.

3. - Le altre questioni di legittimità costituzionale, sollevate nel presente giudizio, investono disposizioni della legge 5 marzo 1963, considerate nel loro specifico contenuto e nelle loro connessioni, in riferimento a varie norme della Costituzione.

In relazione all'art. 1 della legge, si assume che esso violerebbe gli artt. 3 e 23 della Costituzione: l'art. 3, perché la distinzione fra Comuni per i quali l'istituzione dell'imposta é obbligatoria e Comuni per i quali é, invece, facoltativa, importerebbe una distinzione tra i soggetti colpiti dall'imposta, a seconda delle determinazioni lasciate alla libertà dei Comuni non obbligati alla istituzione dell'imposta; l'art. 23, perché in tali Comuni si avrebbero prestazioni patrimoniali non fissate né imposte in base alla legge.

In proposito é da premettere che scopo della legge é stato di colpire gli incrementi di valore delle aree fabbricabili, verificatisi, in un certo periodo di tempo, per effetto dello sviluppo edilizio. Nello stabilire per quali Comuni l'istituzione dell'imposta é obbligatoria, il legislatore ha tenuto presenti degli elementi che ha considerato per se stessi sufficienti a indicare l'esistenza del fenomeno che si voleva colpire: e precisamente, la popolazione superiore a 30 mila abitanti, la qualifica del Comune come capoluogo di provincia o come luogo di soggiorno o di cura, la vicinanza a un Comune con popolazione superiore ai 300 mila abitanti. Per gli altri Comuni ha lasciato alle Amministrazioni la valutazione dell'esistenza del presupposto dell'imposta.

La differenza che ne risulta tra i soggetti colpiti o non dall'imposta, secondo la loro appartenenza all'una o all'altra categoria di Comuni e secondo che i Comuni facoltizzati alla imposizione abbiano o non fatto uso del loro potere, non é in contrasto col principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, perché corrisponde a una distinzione posta dal legislatore in relazione a situazioni obbiettive diverse, valutate dallo stesso legislatore in modo non irrazionale, e secondo criteri pertinenti al fenomeno che si voleva individuare.

Né dalla libertà di istituire o no l'imposta, lasciata ai Comuni per i quali non ricorrono le condizioni dell'imposizione obbligatoria, deriva una violazione del principio di eguaglianza, giacché l'attribuzione ad enti locali di una discrezionalità nell'usare o non il potere imposizionale loro conferito, quando non ricorrano ragioni generali di imposizione obbligatoria, é conforme al principio di autonomia degli enti locali, costituzionalmente garantito (artt. 5 e 128 della Costituzione).

Non ha maggior fondamento l'affermazione che, con l'attribuzione della detta facoltà ad alcuni Comuni, si sarebbe violato l'art. 23 della Costituzione. La legge, infatti, non ha lasciato i detti Comuni liberi nelle loro determinazioni, come si assume nell'ordinanza di rimessione. Essi, invece, in ordine al periodo assumibile per la determinazione dell'incremento tassabile, sono vincolati alla norma dell'art. 5 della legge stessa; in ordine all'aliquota, sono vincolati, come tutti gli altri Comuni, alle norme dell'art. 21. Pertanto, l'esercizio da parte loro del potere ad essi conferito, trovando i suoi limiti nelle predette norme, dà luogo ad una imposizione di prestazioni patrimoniali fondata sulla legge.

4. - La violazione dell'art. 23 della Costituzione viene inoltre dedotta in relazione agli artt. 1, 5, 21 e 25 della legge. Si assume in proposito che, con l'attribuire ai Comuni il potere di stabilire la data di riferimento dell'incremento tassabile, si é rimesso alle loro libere determinazioni l'oggetto dell'imposta, con la conseguenza che le corrispondenti prestazioni patrimoniali vengono ad essere stabilite, non in base a criteri fissati dalla legge, ma alla stregua dei parametri assunti dai singoli Comuni.

Nel sistema adottato si é scorto, inoltre, una violazione dell'art. 3 della Costituzione, perché da esso deriverebbe una diseguale applicazione della legge, e una violazione degli artt. 41 e 42 della Costituzione, in quanto la lamentata disuguaglianza si verificherebbe in relazione alla libertà delle iniziative economiche e al regime della proprietà privata, risultandone altresì dei vincoli e dei limiti, dovuti ad atti amministrativi.

Ma le questioni così proposte non hanno fondamento.

L'oggetto dell'imposta é, infatti, stabilito dalla legge e consiste nell'incremento di valore realizzatosi nelle aree fabbricabili. La stessa legge stabilisce tassativamente quali aree si considerano fabbricabili (art. 1, commi 2-6), e pone le norme per la determinazione dell'incremento di valore. L'attribuzione ai Comuni del compito di fissare la data per determinare il cosiddetto valore iniziale o di base corrisponde alla natura stessa del tributo e del fenomeno economico-sociale che ha prodotto l'aumento dei valori. É ben noto, infatti, che l'incremento di valore delle aree fabbricabili é connesso a condizioni locali di sviluppo urbanistico, di investimenti produttivi e di modificazioni sociali, che possono essere accertate solo localmente, e di cui solo localmente si può determinare l'arco di tempo in cui le condizioni stesse si sono avverate. Sta in ciò la ragione per la quale la legge ha attribuito al Comune la determinazione della data da assumere come termine di riferimento per stabilire l'incremento tassabile del valore delle aree, nel territorio dello stesso Comune: determinazione che non si prestava ad essere compiuta con legge.

Con ciò non é stato però attribuito al Comune un potere illimitato, in quanto é stato posto un termine, anteriormente al quale tale data non può essere fissata: termine stabilito in via generale in tre anni (art. 5, secondo comma), e in dieci anni per i Comuni obbligati all'imposizione e per quelli ubicati in prossimità di un Comune con più di 30 mila abitanti e compresi in zona di espansione urbanistica o in un piano intercomunale (art. 25). É stato inoltre fissato in un anno dall'entrata in vigore della legge il termine entro il quale i detti Comuni possono applicare l'imposta; é stato stabilito (artt. 25 e 44) il procedimento da seguire; é stata prevista (art. 43, secondo comma) una particolare pubblicità per le deliberazioni del Consiglio comunale, le quali sono soggette al controllo della G.P.A. o dei corrispondenti organi delle Regioni a statuto speciale, da esercitare entro 90 giorni, ed al successivo controllo di legittimità, a norma della legge comunale e provinciale e del testo unico per la finanza locale, richiamato dal primo comma dell'art. 43. É superfluo aggiungere che contro la deliberazione comunale sono esperibili i comuni rimedi giurisdizionali.

Va pertanto riconosciuto che la legge in esame, pur nella peculiarità del suo congegno, dovuta alla materia che ne forma oggetto, non ha conferito agli enti impositori un potere illimitato, per il quale sia da considerare violata la riserva di legge relativa, posta dall'art. 23 della Costituzione.

Dalle esposte considerazioni deriva, inoltre, che egualmente infondata é la questione di legittimità costituzionale per pretesa violazione del principio di eguaglianza. Il sistema della legge é infatti diretto ad assicurare che nei singoli Comuni l'imposizione del tributo avvenga su la base della situazione in ciascuno di essi effettivamente esistente. La diversità delle rispettive determinazioni non dà quindi luogo a una diseguale applicazione della legge, ma dà luogo a una applicazione di essa conforme a situazioni obbiettivamente diverse, come si richiede perché sia attuato il principio di eguaglianza. Può soggiungersi che una maggiore determinazione, in via generale, dei criteri per stabilire l'incremento dei valori tassabili avrebbe prodotto disuguaglianze e sperequazioni, col ricondurre sotto norme comuni situazioni diverse.

La stessa previsione, da parte del legislatore, di un arco di tempo di dieci anni, per i Comuni obbligati all'imposizione e per quelli compresi in zone di espansione urbanistica, va considerata nella sua funzione di evitare simili disuguaglianze, in quanto, avendo il legislatore ritenuto, nella sua discrezionale valutazione, che il fenomeno dell'incremento dei valori delle aree, e la connessa speculazione edilizia, abbia cominciato a manifestarsi in alcuni Comuni almeno da un decennio, la previsione di un obbligo per i Comuni di fissare la data di riferimento in un periodo più ristretto avrebbe portato ad eguagliare situazioni diverse, con conseguente non equa distribuzione del carico contributivo.

Escluso che la legge abbia violato il principio generale di eguaglianza, resta anche escluso che ci sia stata violazione del principio della eguale libertà delle iniziative economiche e dell'eguaglianza del regime della proprietà privata. Dalle esposte considerazioni risulta infatti che l'imposizione tributaria di cui trattasi é stata prevista e regolata dalla legge in modo che essa corrisponda alle diverse situazioni obbiettive nelle quali, nei singoli Comuni, si é sviluppata l'iniziativa economica e si é incrementato il valore della proprietà.

5. - Le disposizioni degli artt. 2 e 3 della legge sono state impugnate anch'esse per violazione degli artt. 3 e 23 della Costituzione, e inoltre per violazione dell'art. 53 della Costituzione.

L'art. 3 della legge stabilisce che le società di capitali, e gli altri soggetti che, al compimento di un decennio dalla data di riferimento o dall'ultima data rispetto alla quale fu applicata la imposta, siano intestatari di aree fabbricabili per un valore globale superiore a 100 milioni di lire, sono soggetti all'imposta al compimento del detto decennio e per ogni decennio successivo.

Con tale norma il legislatore non ha assoggettato a discipline diverse situazioni identiche, ma, anche qui sulla base di situazioni obbiettivamente diverse, ha distinto dagli altri una categoria di soggetti, sui quali ha ritenuto dovesse gravare l'imposta anche secondo l'indicato sistema di periodicità decennale. Né può ritenersi che sia incorso in irrazionalità nell'individuazione delle categorie colpite o nella determinazione dell'obbligo tributario periodico.

La dedotta violazione dell'art. 3 della Costituzione, pertanto, non sussiste, come non sussiste la violazione dell'art. 23, in riferimento al quale non sono addotti argomenti diversi da quelli innanzi esaminati.

Privo di fondamento, sotto il profilo in esame, é anche il riferimento all'art. 53 della Costituzione, giacché non si vede in che modo l'aver assoggettato determinate categorie di contribuenti, obbiettivamente determinate, al pagamento decennale dell'imposta violi il principio di progressività.

6. - La violazione dell'art. 53 della Costituzione, insieme a quella dell'art. 11 delle disposizioni preliminari del Codice civile e degli artt. 70 e seguenti, 73, 76, 77, viene anche dedotta in relazione agli artt. 5, 21 e 25 della legge n. 246 del 1963, in quanto con le norme ivi contenute la legge avrebbe disposto retroattivamente e avrebbe attribuito ai Comuni un potere di imposizione retroattiva.

In proposito é preliminarmente da escludere l'ammissibilità della questione di legittimità costituzionale in riferimento all'art. 11 delle disposizioni preliminari del Codice civile, la cui norma non ha una corrispondente disposizione nella Costituzione, la quale, come questa Corte ha già rilevato (sentenza n. 81 del 1958), all'art. 25 pone il divieto della retroattività limitatamente alla legge penale.

Non pertinente é anche il richiamo agli artt. 70 e seguenti della Costituzione, i quali riguardano la formazione della legge e non i limiti di tempo della sua efficacia.

Più ampio discorso richiede la dedotta violazione dell'art. 53 delle Costituzione.

Questa Corte ha già avuto modo di affermare che, anche al di fuori della materia penale, l'emanazione di una legge retroattiva, e in particolare di una legge finanziaria retroattiva, può rivelarsi in contrasto con qualche specifico principio o precetto costituzionale (sentenza n. 118 del 1957; n. 81 del 1958). Quanto all'art. 53 della Costituzione, la Corte ha affermato che una legge tributaria retroattiva non comporta per se stessa la violazione del principio della capacità contributiva (sentenza n. 9 del 1959), e ha successivamente precisato che deve essere verificato di volta in volta, in relazione alla singola legge tributaria, se questa, con l'assumere a presupposto della prestazione un fatto o una situazione passati, o con l'innovare, estendendo i suoi effetti al passato, gli elementi dai quali la prestazione trae i suoi caratteri essenziali, abbia spezzato il rapporto che deve sussistere tra imposizione e capacità contributiva e abbia così violato il precetto costituzionale (sentenza n. 45 del 1964).

Alla stregua di questi principi vanno esaminate le disposizioni di cui trattasi.

Va ricordato che, nel sistema della legge, l'oggetto dell'imposizione é l'incremento di valore delle aree fabbricabili, realizzatosi in un determinato periodo di tempo.

Il compito attributo ai Comuni dagli artt. 5 e 25 di fissare la data di riferimento, per stabilire il valore iniziale, non si concreta in un potere impositivo retroattivo dei Comuni stessi, ma consiste nella determinazione di un elemento per calcolare l'incremento di valore effettivamente verificatosi. Certo questo elemento si riferisce al passato, e non potrebbe essere altrimenti, perché, essendo l'imposta destinata a colpire un aumento di valore già avvenuto, tale aumento non può, logicamente, essere calcolato che assumendo un termine di riferimento nel passato; ma l'imposta colpisce l'aumento di valore che si realizza nel momento dell'alienazione o dell'utilizzazione dell'immobile, o che é esistente nella sfera patrimoniale dell'intestatario dell'area fabbricabile al momento della deliberazione istitutiva (imposta straordinaria di cui al terzo comma dell'art. 25).

Non si può pertanto considerare insussistente, nel momento della prestazione, il rapporto tra imposizione, basata su aliquote corrispondenti all'aumento di valore accertato nel momento predetto, e capacità contributiva.

Ove invece tale rapporto risulta spezzato é nella disposizione che consente ai Comuni di applicare l'imposta a carico di coloro che abbiano alienato le aree posteriormente alla data di riferimento, ma prima dell'entrata in vigore della legge (secondo comma dell'art. 25). In questo caso si ha l'applicazione dell'imposta a rapporti esauriti, senza che questa efficacia retroattiva della norma sia sorretta da alcuna razionale presunzione che gli effetti economici dell'alienazione, e del valore realizzato con essa, permangono nella sfera patrimoniale del soggetto, data anche la possibilità che l'alienazione sia avvenuta in un tempo notevolmente remoto, in cui non era neanche prevedibile l'istituzione dell'imposta.

É pertanto da riconoscere che la retroattività dell'imposizione, così com'é prevista dal secondo comma dell'art. 25, contrasta col precetto costituzionale relativo alla capacità contributiva, ed é quindi da dichiarare illegittima.

7. - Infine, é stata dedotta la violazione dell'art. 42 della Costituzione in relazione alla facoltà concessa ai Comuni dal l'art. 13 della legge di promuovere l'espropriazione delle aree.

Il detto articolo stabilisce che i Comuni, anche ai fini di formarsi un patrimonio di aree fabbricabili per favorire lo sviluppo edilizio, urbanistico ed economico del loro territorio, hanno facoltà di acquistare le aree, oggetto della dichiarazione a cui é tenuto l'intestatario di esse, al valore dichiarato agli effetti dell'imposta, maggiorato degli interessi legali. In mancanza di adesione degli aventi diritto, il Comune può, nei successivi sei mesi, promuovere l'espropriazione, al valore dichiarato.

Quest'ultima norma forma oggetto della sollevata questione di legittimità costituzionale, in quanto la formula adottata sarebbe generica, mancando la determinazione legislativa, alla stregua dell'interesse generale, del rapporto tra patrimonio comunale di aree fabbricabili e sviluppo urbanistico ed economico del territorio comunale.

La questione non é fondata. L'art. 42 della Costituzione, com'é noto, stabilisce che la proprietà privata può essere espropriata per motivi di interesse generale. Nel caso presente i motivi di interesse generale sono chiaramente indicati, come si é visto, nel fine di formare un patrimonio comunale di aree fabbricabili per favorire lo sviluppo edilizio, urbanistico ed economico del territorio: finalità, queste, il cui perseguimento indubbiamente rientra tra i più importanti compiti economici e sociali a cui oggi, nell'interesse generale, i Comuni sono chiamati a provvedere. La norma non é pertanto in contrasto col precetto costituzionale, dal quale é arbitrario dedurre che, nella specie, il legislatore avrebbe dovuto determinare il rapporto tra patrimonio comunale delle aree fabbricabili e sviluppo edilizio.

Va tenuto presente che lo stesso art. 13, nell'ultimo comma, richiama, per quanto non é in esso diversamente stabilito, le norme vigenti in materia di espropriazione, per cui é da escludere che il Comune possa promuovere l'espropriazione per fini diversi da quelli indicati dall'art. 13, che non siano, secondo queste ultime norme, di interesse generale.

8. - Passando all'esame della questione sollevata nella causa Società Salza-Susini Remo, si osserva che essa investe l'art. 25, comma secondo, della legge, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, in quanto, col considerare, nella detta disposizione, coloro che, nel periodo ivi indicato, avevano alienato l'area, e non coloro che l'avevano utilizzata, si é creata una disparità di trattamento in contrasto col principio di eguaglianza.

Ma essendosi innanzi rilevata l'illegittimità costituzionale del detto comma secondo dell'art. 25, la questione resta assorbita.

9. - Dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale del secondo comma dell'art. 25 della legge deriva come conseguenza la illegittimità della norma di cui al primo e secondo comma dell'art. 27 e al terzo comma dell'art. 43, in cui si prevedono obblighi di denuncia a carico di chi abbia alienato o acquistato aree successivamente alla data di riferimento di cui agli artt. 5 e 25: obblighi che, nel sistema della legge, riguardano soltanto i casi di alienazione previsti dal secondo comma dell'art. 25. Pertanto anche le dette norme sono da dichiarare costituzionalmente illegittime, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i due giudizi,

dichiara l'illegittimità costituzionale del secondo comma dell'art. 25 della legge 5 marzo 1963, n. 246, sulla istituzione di una imposta sugli incrementi di valore delle aree fabbricabili;

dichiara altresì, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 27, primo e secondo comma, e dell'art. 43, terzo comma, della predetta legge;

dichiara non fondate le questioni relative alla illegittimità costituzionale della intera legge 5 marzo 1963, n. 246, e dell'art. 8 della legge 5 gennaio 1957, n. 33, sull'ordinamento e le attribuzioni del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, in relazione all'art. 99 della Costituzione, e degli artt. 1, 2, 3, 5, 6, 13, 21, 25, primo, terzo, quarto e quinto comma, 42 della legge 5 marzo 1963, n. 246, in relazione agli artt. 3, 23, 41, 42, 53, 70 e seguenti della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 maggio 1966.

 

Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO

 

Depositata in cancelleria il 23 maggio 1966.