SENTENZA
N. 194
ANNO
2018
Commenti alla decisione di
I.
Enzo Balboni, La
forza dei princìpi, ovvero ultimi (?) bagliori costituzionalmente orientati.
Commento alla sentenza n. 194 del 2018 intorno al "diritto al lavoro”, per g.c. del Forum
di Quaderni Costituzionali
II.
Claudio Panzera, Indennità
di licenziamento e garanzie (costituzionali ed europee) del lavoratore, per
g.c. di Diritti
Comparati
III.
Chiara Lazzari, Sulla
Carta Sociale Europea quale parametro interposto ai fini dell’art. 117, comma
1, Cost.: note a margine delle sentenze della Corte
Costituzionale n. 120/2018 e n. 194/2018, per g.c.
di Federalismi.it
IV. Giuseppe Eduardo Polizzi, Le
norme della Carta sociale europea come parametro interposto di legittimità
costituzionale alla luce delle sentenze Corte costituzionale nn. 120 e 194 del
2018, per g.c. di Federalismi.it
V. Federico Ghera, La
tutela contro il licenziamento secondo la sentenza n. 194/2018 della Corte
costituzionale, per g.c. di Diritti fondamentali
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME
DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai
signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI
Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de
PRETIS ”
- Nicolò
ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
- Luca ANTONINI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge
10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli
ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive,
nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività
ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di
lavoro) e degli artt. 2, 3 e 4 del decreto
legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro
a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre
2014, n. 183), promosso dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione
lavoro, nel procedimento vertente tra Francesca Santoro e Settimo senso s.r.l.,
con ordinanza
del 26 luglio 2017, iscritta al n. 195 del registro ordinanze 2017 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno
2018.
Visti l’atto di
costituzione di Francesca Santoro, nonché gli atti di intervento della
Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) e del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nella udienza
pubblica del 25 settembre 2018 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
uditi gli avvocati Amos Andreoni per la Confederazione generale italiana del lavoro
(CGIL), Carlo de Marchis e Amos Andreoni per
Francesca Santoro e l’avvocato dello Stato Vincenzo Nunziata per il Presidente
del Consiglio dei ministri.
Ritenuto
in fatto
1.– Con ordinanza del 26 luglio 2017 (reg. ord. n. 195 del 2017), il Tribunale ordinario di Roma,
terza sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma,
della Costituzione – questi ultimi due articoli in relazione all’art. 30
della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a
Strasburgo il 12 dicembre 2007, alla Convenzione sul licenziamento n. 158
del 1982 (Convenzione sulla cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa
del datore di lavoro), adottata a Ginevra dalla Conferenza generale
dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) il 22 giugno 1982 (e non
ratificata dall’Italia) e all’art. 24 della Carta
sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996,
ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30 – questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10
dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli
ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive,
nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e
dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di
vita e di lavoro) e degli artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015,
n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a
tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183).
Va precisato che l’ordinanza di rimessione aveva
indicato quali disposizioni censurate (in particolare, al secondo rigo del
punto 2. e al secondo rigo del dispositivo), oltre all’art. 7, comma 1, lettera
c), della legge n. 183 del 2014, gli «artt. 2, 4 e 10» del d.lgs. n. 23 del
2015. Su richiesta della ricorrente nel giudizio a quo, il giudice rimettente,
con provvedimento del 2 agosto 2017, rilevato che l’ordinanza di rimessione
«indica erroneamente sia a pag. 4 che a pag. 10 gli articoli del D.Lgs. n. 23/2015 sospettati di incostituzionalità, come si
evince chiaramente dal resto della parte motiva dell’ordinanza, che invece li
riporta con esattezza anche nel contenuto», ha disposto la correzione di questa
«nel senso che, nella seconda riga del parg. 2 e
nella seconda riga dopo il "P.Q.M.”, in luogo delle parole "artt. 2, 4 e 10”
debbano intendersi scritte le parole "artt. 2, 3 e 4”». Il provvedimento di
correzione di errore materiale è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica, prima serie speciale, n. 3 del 17 gennaio 2018, insieme con
l’ordinanza di rimessione.
Va altresì dato atto che, su richiesta della
Cancelleria della Corte costituzionale, nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica, prima serie speciale, n. 7 del 14 febbraio 2018, è stato pubblicato
il seguente avviso di rettifica, relativo all’ordinanza n. 195 del 2017:
«Nell’ordinanza citata in epigrafe, emessa dal Tribunale di Roma, pubblicata
nella sopraindicata Gazzetta Ufficiale, alla pag. 41 e seguenti, sia nel titolo
che nel testo, il nome della parte nel giudizio a quo è Santoro Francesca
anziché Santoro Federica».
1.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto
di fatto: di essere investito del ricorso proposto da Francesca Santoro avverso
il licenziamento intimatole dalla Settimo senso s.r.l. il 15 dicembre 2015,
dopo pochi mesi dall’assunzione, avvenuta l’11 maggio 2015; che tale
licenziamento era basato sulla motivazione che, «a seguito di crescenti
problematiche di carattere economico-produttivo che non ci consentono il
regolare proseguimento del rapporto di lavoro, la Sua attività lavorativa non
può più essere proficuamente utilizzata dall’azienda. Rilevato che non è
possibile, all’interno dell’azienda, reperire un’altra posizione lavorativa per
poterLa collocare, siamo costretti a licenziarLa per
giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966
n. 604»; che la società convenuta è rimasta contumace.
Il giudice a quo prende atto che quest’ultima,
dichiarata contumace, non ha adempiuto l’onere di dimostrare la fondatezza
della citata motivazione del licenziamento né ha contestato di possedere i
requisiti dimensionali di cui all’art. 18, ottavo e nono comma, della legge 20
maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori,
della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme
sul collocamento), implicitamente allegati dalla ricorrente con l’invocazione
della tutela prevista dall’art. 3 (e non anche dall’art. 9) del d.lgs. n. 23
del 2015.
Ciò premesso, il giudice a quo rappresenta che,
poiché la lavoratrice ricorrente è stata assunta dopo il 6 marzo 2015, la
tutela a essa applicabile è costituita dagli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del
2015 e, in particolare, dai citati comma 1 dell’art. 3 e comma unico dell’art.
4.
Invece, per i lavoratori assunti fino al 6 marzo
2015, la tutela avverso i licenziamenti illegittimi è quella prevista dall’art.
18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge 28 giugno 2012, n.
92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una
prospettiva di crescita), e, in particolare: dal settimo comma dell’art. 18,
«per il caso di assenza del motivo oggettivo (definito come difetto di
giustificazione, manifesta insussistenza del fatto posto a base del
licenziamento), che richiama il comma 4 e il comma 5 a seconda della gravità
del vizio»; dal sesto comma dell’art. 18, «per il caso di difetto di
motivazione».
Ciò esposto, il giudice a quo afferma di
ritenere che, «a fronte della estrema genericità della motivazione addotta e
della assoluta mancanza di prova della fondatezza di alcune delle circostanze
laconicamente accennate nell’espulsione, il vizio ravvisabile sia il più grave fra
quelli indicati, vale a dire la "non ricorrenza degli estremi del licenziamento
per giustificato motivo oggettivo”».
Lo stesso giudice osserva quindi che la
lavoratrice ricorrente: se fosse stata assunta prima del 7 marzo 2015, avrebbe
usufruito, applicando il quarto comma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970,
della tutela reintegratoria e di un’indennità
commisurata a dodici mensilità e, applicando il quinto comma dello stesso art.
18, della tutela indennitaria tra dodici e ventiquattro mensilità; poiché è
stata assunta a decorrere dal 7 marzo 2015, «ha diritto soltanto a quattro
mensilità, e solo in quanto la contumacia del convenuto consente di ritenere
presuntivamente dimostrato il requisito dimensionale, altrimenti le mensilità
risarcitorie sarebbero state due». Il rimettente soggiunge che, «[a]nche nel caso si ravvisasse un mero vizio della
motivazione, la tutela nel vigore dell’art. 18 sarebbe stata molto più
consistente (6-12 mensilità risarcitorie a fronte di 2)».
1.2.– Con riguardo alla non manifesta
infondatezza, il rimettente, prima di esporre più diffusamente le ragioni della
violazione dei singoli parametri costituzionali invocati, afferma, in generale,
che i censurati artt. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 e 2,
3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, «priva[no la] ricorrente di gran parte delle
tutele tuttora vigenti per coloro che sono stati assunti a tempo indeterminato
prima del 7.3.2015» e «preclud[ono]
qualsiasi discrezionalità valutativa del giudice» – in precedenza esercitabile,
ancorché nel rispetto dei criteri previsti dall’art. 8 della legge 15 luglio
1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) e dall’art. 18 della legge
n. 300 del 1970 – «imponendo[gli] un automatismo in base al quale al lavoratore
spetta, in caso di […] illegittimità del licenziamento, la piccola somma
risarcitoria [da essi] prevista».
Lo stesso rimettente anticipa che le successive
considerazioni in tema di non manifesta infondatezza saranno incentrate sul
contrasto delle disposizioni censurate con: l’art. 3 Cost., perché «l’importo»
dell’indennità risarcitoria da esse prevista non ha «carattere compensativo né
dissuasivo ed ha conseguenze discriminatorie» e perché la totale eliminazione
della discrezionalità valutativa del giudice «finisce per disciplinare in modo
uniforme casi molto dissimili fra loro»; gli artt. 4 e 35 Cost., perché «al
diritto al lavoro, valore fondante della Carta, è attribuito un controvalore
monetario irrisorio e fisso»; gli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., perché le
sanzioni previste per il licenziamento illegittimo sono «inadeguat[e]»
rispetto a quanto previsto dagli obblighi discendenti, tra l’altro, dalla Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla Carta sociale europea.
Il giudice a quo precisa ancora, sempre in via
preliminare, che il contrasto con la Costituzione non è da lui ravvisato in
ragione dell’eliminazione della tutela reintegratoria
– tranne che per i licenziamenti nulli e discriminatori e per specifiche
ipotesi di licenziamento disciplinare ingiustificato – e, quindi,
dell’integrale monetizzazione della garanzia assicurata al lavoratore, ma in
ragione della disciplina dell’indennità risarcitoria dettata dagli articoli
censurati. Quest’ultima sostituirebbe la reintegrazione quale risarcimento in
forma specifica e dunque avrebbe dovuto essere «ben più consistente ed
adeguata». Il rimettente afferma che la Corte costituzionale ha più volte
statuito che la regola generale di integralità della riparazione e di
equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha
copertura costituzionale, purché sia garantita l’adeguatezza del risarcimento.
Profilo, quest’ultimo, rispetto al quale la normativa censurata non si
sottrarrebbe al dubbio di legittimità costituzionale.
1.2.1.– Il rimettente espone, in primo luogo, le
ragioni del contrasto di tale normativa con l’art. 3 Cost.
Egli asserisce anzitutto che la previsione di
un’indennità «così modesta, fissa e crescente solo in base alla anzianità di
servizio» non costituisce un adeguato ristoro per i lavoratori assunti a
decorrere dal 7 marzo 2015 e illegittimamente licenziati. Tale «regresso di
tutela per come irragionevole e sproporzionato viola l’art. 3 Cost.
differenziando tra vecchi e nuovi assunti, pertanto non soddisfa il test del bilanciamento
dei contrapposti interessi in gioco imposto dal giudizio di ragionevolezza».
La mancanza di «carattere compensativo»
dell’indennità si evincerebbe da due circostanze. Anzitutto, dal fatto che
l’assunzione della lavoratrice ricorrente ha consentito al datore di lavoro «la
fruizione di uno sgravio contributivo per 36 mesi», previsto dalla legge 23
dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», di importo molto
più consistente di quello della condanna che egli potrà ricevere nel giudizio a
quo. In secondo luogo, dal fatto che la «misura fissa» dell’indennità non
consente al giudice di valutare in concreto il pregiudizio sofferto dalla
lavoratrice – tenuto conto che la motivazione del licenziamento «è tautologica
e generica al massimo» – e comporta di «apprestare identica tutela a situazioni
molto dissimili nella sostanza».
Le stesse circostanze sarebbero sintomatiche
della mancanza anche di «carattere dissuasivo» della prevista indennità, dato
che, come detto, il licenziamento illegittimo dopo pochi mesi dall’assunzione
per la quale è riconosciuto lo sgravio contributivo costituisce un «affare» per
il datore di lavoro. Il rimettente ribadisce quindi l’inadeguatezza, sul piano
dissuasivo e sanzionatorio, dell’indennità prevista, il cui importo «contenuto,
scisso dall’effettivo pregiudizio provocato, sottratto, nella sua
quantificazione, alla valutazione del giudice […] e addirittura inferiore al
correlato beneficio contributivo» non induce le imprese a condotte virtuose ma
si risolve, al contrario, in un incentivo all’inadempimento dell’impegno da
esse assunto con la stipulazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Il rimettente deduce ancora che un tale sistema
risulta discriminatorio nei confronti dei lavoratori assunti, anche nella
stessa azienda, successivamente al 6 marzo 2015, essendo evidente che, a fronte
di un medesimo contratto di lavoro, in caso di necessità di ridurre il
personale, l’azienda privilegerà sempre il meno costoso e problematico
licenziamento dei lavoratori cui si applica il regime di tutela previsto dal
d.lgs. n. 23 del 2015. Il giudice a quo precisa di conoscere l’orientamento
della Corte costituzionale secondo cui «il fluire del tempo può costituire un
valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche» (sentenza n. 254 del
2014), ma ritiene che «la data di assunzione appare come un dato
accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che in nulla è idoneo a
differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni altro profilo
sostanziale».
Il giudice a quo afferma poi che l’XI
Commissione lavoro «del Parlamento», nella seduta del 17 febbraio 2015, aveva approvato
lo schema di decreto legislativo, poi divenuto il d.lgs. n. 23 del 2015,
ritenendo tuttavia che, «per i licenziamenti ingiustificati ai quali non si
applica la sanzione conservativa, occorra incrementare la misura minima e la
misura massima dell’indennizzo economico dovuto al lavoratore»; invito
disatteso, però, dal Governo.
L’irragionevole disparità di trattamento
determinata dalle disposizioni impugnate emergerebbe dal confronto, oltre che
tra lavoratori assunti prima o a decorrere dal 7 marzo 2015 e tra «lavoratori
licenziati con provvedimenti affetti da illegittimità macroscopiche ovvero da
vizi meramente formali, tutti irragionevolmente tutelati, oggi, con un
indennizzo del medesimo importo», anche, «quanto agli assunti dopo il 7.3.2015,
fra dirigenti e lavoratori privi della qualifica dirigenziale, dal momento che
i primi, non soggetti alla nuova disciplina, continueranno a godere di
indennizzi di importo minimo e massimo ben più consistente».
1.2.2.– Il giudice a quo espone, in secondo
luogo, le ragioni del contrasto della normativa denunciata con gli artt. 4,
primo comma, e 35, primo comma, Cost. e asserisce che tali parametri non
possono ritenersi rispettati da una normativa come quella denunciata, che
«sostanzialmente "valuta” il diritto al lavoro, […] strumento di realizzazione
della persona e mezzo di emancipazione sociale ed economico, con una
quantificazione tanto modesta ed evanescente, in comparazione con la normativa
ex lege 92/2012 ancora vigente, ed oltretutto fissa e
crescente in base al parametro della mera anzianità».
Il rimettente sottolinea come la tutela contro i
licenziamenti illegittimi trascenda la vicenda del recesso e la tutela della
stabilità dell’occupazione e del reddito, giacché sostiene la forza
contrattuale del lavoratore nelle relazioni quotidiane sul luogo di lavoro e ne
protegge le libertà fondamentali in tale luogo.
Il giudice a quo conclude sul punto affermando
di ritenere che la quantificazione dell’indennità operata dalle disposizioni
censurate sia costruita «su una consapevole rottura del principio di
uguaglianza e solidarietà nei luoghi di lavoro»; rottura che ha effetto anche
sugli altri diritti costituzionali dei lavoratori, quali la libertà di
espressione e sindacale.
1.2.3.– Il rimettente espone infine le ragioni
del contrasto della normativa denunciata con gli artt. 76 e 117, primo comma,
Cost.
Dopo avere richiamato il contenuto dell’art. 35,
terzo comma, Cost., e avere rammentato che l’art. 7, comma 1, della legge di
delegazione n. 183 del 2014 detta il criterio direttivo della «coerenza con la
regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali», il giudice a
quo asserisce che gli invocati parametri costituzionali sarebbero violati in
relazione: all’art. 30 CDFUE, che «impone […] di garantire una adeguata tutela
in caso di licenziamento ingiustificato»; alla Convenzione OIL n. 158 del 1982
sul licenziamento (è citato, in particolare, il testo dell’art. 10 di tale
Convenzione); all’art. 24 della Carta sociale europea, secondo cui, «[p]er assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una
tutela in caso di licenziamento, le Parti s’impegnano a riconoscere: a) il
diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato
alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di
funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio; b) il diritto
dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o
altra adeguata riparazione» (primo comma).
Il giudice a quo rappresenta che la congruità e
l’adeguatezza del ristoro da garantire ai lavoratori licenziati senza valido
motivo ai sensi di quest’ultima disposizione sono stati oggetto di diverse
decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali che, pur dando atto che la
tutela può essere anche solo indennitaria, ha affermato che il suddetto ristoro
deve essere adeguato (dal punto di vista del lavoratore) e dissuasivo (dal
punto di vista del datore di lavoro). Ciò che confermerebbe, sul piano
internazionale, quanto in precedenza argomentato.
Il rimettente cita, in particolare, le decisioni
del 31 gennaio 2017 emesse su due reclami collettivi proposti dalla Finnish Society of Social Rights
contro la Finlandia (reclami n. 106/2014 e n. 107/2014) e relativi alla
lamentata violazione dell’art. 24 della Carta sociale europea da parte delle
disposizioni della legge finlandese che disciplinano, rispettivamente, la
responsabilità datoriale nel caso di licenziamento illegittimo e le condizioni
per intimare un licenziamento economico. Il rimettente deduce che il Comitato,
dopo avere affermato che, ai sensi del citato art. 24 della Carta, ai
lavoratori licenziati senza un valido motivo deve essere attribuito un adeguato
indennizzo o altro adeguato rimedio, ha specificato che deve ritenersi adeguata
compensazione quella che include, tra le altre, la compensazione a un livello
sufficientemente elevato per dissuadere il datore di lavoro e risarcire il
danno subito dal dipendente.
Da tali decisioni deriverebbe che, in linea di
principio, qualsiasi limite risarcitorio che precluda una compensazione
commisurata alla perdita subita dal lavoratore e sufficientemente dissuasiva
per il datore di lavoro sarebbe in contrasto con la Carta. Lo stesso Comitato
avrebbe rilevato – sempre secondo il giudice a quo – che la previsione di un
limite massimo dell’indennizzo può condurre a situazioni in cui il risarcimento
attribuito al lavoratore non è commisurato alla perdita da lui subita; sicché
il «plafonnement dell’indennità» integrerebbe una
violazione dell’art. 24 della Carta.
Il rimettente rappresenta ancora che lo stesso
Comitato europeo dei diritti sociali, nelle conclusioni del 2016 relative alla
legislazione italiana vigente nel 2014 (e, quindi, alla legge n. 92 del 2012),
ha rammentato il divieto di qualunque tetto alle indennità riconoscibili al
lavoratore tale da determinare che esse non siano in rapporto con il
pregiudizio da lui subito e sufficientemente dissuasive per il datore di
lavoro.
1.3.– Con riguardo alla rilevanza, il
rimettente, oltre a rinviare a quanto esposto in ordine ai fatti di causa, alle
ragioni dell’illegittimità del licenziamento della ricorrente e alle tutele a
essa spettanti, afferma che l’accoglimento delle questioni sollevate
«consentirebbe […] di riconoscere alla ricorrente una tutela compensativa del
reale pregiudizio subito, che sarebbe in tal caso costituita dalla tutela di
cui all’art. 18, commi 4 e 7 (in subordine, comma 5) della legge n. 300/1970
come modificata dalla legge n. 92/2012».
Il giudice a quo afferma altresì
l’impraticabilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme delle
disposizioni denunciate, in particolare, di quell’interpretazione consistente
nell’ampliare l’ambito applicativo della tutela reintegratoria
stabilita per gli «altri casi di nullità previsti dalla legge». Tale opzione
costituirebbe, però, una «forzatura interpretativa (consentita solo se la Corte
costituzionale adita dovesse indicare tale via con una pronuncia interpretativa
di rigetto del quesito)» e, «[i]n assenza di riscontro nelle conclusioni del
ricorso», contrasterebbe con il principio che la causa petendi
dell’azione proposta dal lavoratore per contestare la validità e l’efficacia
del licenziamento va individuata nello specifico motivo di illegittimità
dedotto nel ricorso introduttivo.
1.4.– Il rimettente dichiara quindi rilevanti e
non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014, e degli artt. 2,
3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 «per contrasto con gli artt. 3, 4, 76 e 117,
comma 1, della Costituzione, letti autonomamente ed anche in correlazione tra
loro».
2.– Si è costituita nel giudizio Francesca
Santoro, ricorrente nel processo principale, chiedendo che le questioni siano
dichiarate fondate.
La parte costituita indica e argomenta quattro
profili di contrasto con la Costituzione delle disposizioni impugnate.
2.1.– In primo luogo, queste determinerebbero
un’ingiustificata disparità di trattamento tra i lavoratori assunti con
contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo
2015 – per i quali l’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 e
«gli articoli attuativi contenuti nella delega» prevedono «una sostanziale
modifica peggiorativa delle condizioni di tutela» – e i lavoratori assunti con
identico contratto, anche nella stessa azienda, prima del 7 marzo 2015.
Secondo la parte costituita, l’affievolimento
della tutela apprestata dalle disposizioni denunciate rispetto a quella
concorrente prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 sarebbe evidente
ove si consideri che, per il licenziamento economico, dette disposizioni, da un
lato, escludono la reintegrazione e, dall’altro, stabiliscono che «l’indennizzo
nella misura massima si ottiene decorsi 12 anni di lavoro»; il menzionato art.
18, invece, non esclude a priori la reintegrazione, mentre «la tutela massima
può essere immediatamente accordata in ragione di vari fattori che concorrono a
determinare la misura, permettendo quella "elasticità” applicativa che
costituisce la regula iuris
nel caso concreto tipica della funzione del magistrato, vanificata dalla
riforma».
Operato il raffronto tra le concorrenti e
differenti tutele apprestate, rispettivamente, dalle disposizioni denunciate e
dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, la parte afferma la mancanza di una
ragionevole giustificazione dell’evidenziata disparità di trattamento.
A tale proposito, essa sottolinea che il
denunciato nuovo sistema di tutela non introduce un diverso modello di
contratto di lavoro subordinato ma si limita a disciplinare diversamente le
conseguenze sanzionatorie del recesso illegittimo da tale contratto di lavoro,
sicché le due fattispecie poste a raffronto «sono […] identiche e diversificate
solo dal distinto e sostanzialmente difforme grado di tutela».
Il fattore di differenziazione del medesimo
rapporto di lavoro «sul quale insistono i due diversi regimi sanzionatori» è
dunque costituito «dal decorso del tempo che separa i due interventi
normativi». Tale fattore, tuttavia, «non assume […] rilevanza ai fini della
disparità normativa», atteso che «non ha generato alcun elemento di valida
"novità” nel rapporto di lavoro».
La parte ritiene dunque che il tempo, «ove non
abbia concretamente determinato una modifica delle condizioni di applicazione
della normativa modificata, non rappresenta, quindi, una valida ragione per
giustificare un trattamento differenziato che diviene, pertanto, irragionevole
con riferimento a identici rapporti contestuali ma assoggettati a diverse
sanzioni».
2.2.– In secondo luogo, le disposizioni
censurate sarebbero in sé irragionevoli «rispetto alla finalità dichiarata e
agli effetti prodotti», atteso che, costituendo una tutela del tutto
inadeguata, inidonea a dissuadere il datore di lavoro dall’intimare
licenziamenti non conformi al paradigma normativo, lo stesso datore di lavoro
eserciterà il potere di recesso «sulla base di una valutazione soggettiva di
convenienza e non oggettiva dell’esigenza».
Risulterebbe allora evidente l’intrinseca
irragionevolezza della normativa denunciata rispetto al fine di «rafforzare le
opportunità di ingresso nel mondo del lavoro». Essa, infatti, lungi dal
favorire l’ingresso in una realtà aziendale, «incentiva, viceversa,
l’estromissione» del lavoratore assunto dopo il 6 marzo 2015, non bilanciando
adeguatamente gli effetti dell’insufficiente garanzia del posto di lavoro sugli
altri diritti fondamentali della persona coinvolti in un rapporto di durata
connotato in senso fortemente gerarchico e verticistico; i quali vengono, così,
del tutto sacrificati.
L’intrinseca irrazionalità della normativa
censurata rispetto al suo obiettivo dichiarato sarebbe evidente, atteso che il
legislatore avrebbe depotenziato la sanzione posta a presidio della legittimità
del recesso datoriale «in una prospettiva a favore dell’iniziativa privata, non
controbilanciata da concreti risultati occupazionali, con sacrifici abnormi di
pari e contrapposti diritti sociali».
2.3.– In terzo luogo, le disposizioni censurate
sarebbero in sé irragionevoli «rispetto all’omesso bilanciamento di valori
costituzionali coinvolti».
Premesso che la giustificazione del
licenziamento corrisponde a un valore costituzionale, la parte afferma che la
previsione di un risarcimento tanto modesto e inadeguato, limitando la tutela
efficace a fattispecie marginali o a rapporti di lunga durata, non costituisce
un corretto bilanciamento dei diritti costituzionali che spettano al lavoratore
a prescindere dalla sua anzianità lavorativa, per il solo fatto di vantare la
titolarità di un diritto sociale in virtù del rapporto in essere. Infatti, la
radicale assenza di protezione contro il licenziamento ingiustificato, che
rende vano il principio della causalità del recesso, specie per i neo assunti,
comporta che il diritto al lavoro, nella sua connotazione di garanzia di
stabilità, venga sottoposto a un sacrificio sproporzionato.
La sanzione contro il licenziamento
ingiustificato, che assicura un ristoro inadeguato, costituirebbe, in effetti,
«una misura repressiva irragionevole rispetto al bene protetto perché priva la
norma a presidio del diritto del carattere di proporzionalità e di concreta
efficacia dissuasiva alla violazione»; irragionevolezza che riguarderebbe sia
«l’entità che […] la rigidità intrinseca del modello».
Ne consegue – sempre ad avviso della parte
costituita – che «[l]’unico interesse effettivamente "protetto” finisce per
essere quello del datore di lavoro (e quindi dell’iniziativa privata)»; in
specie, l’interesse «a vedere consolidati gli effetti della sua iniziativa
organizzativa e prescindendo dalle condizioni di legittimità sulla base di una
sanzione inadeguata che rende discrezionale un potere, viceversa, vincolato».
Sarebbe, infatti, incontestabile che la prevista misura indennitaria, «nel suo
automatismo, svincolata dagli effetti concretamente verificatisi dalla condotta
e dalle caratteristiche che connotano il licenziamento», vanifica il
contrapposto interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro,
tutelato dagli artt. 1, 4 e 35 Cost.
La degradazione della tutela del lavoro operata
dagli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, basati su un «meccanismo "anonimo”
di monetizzazione», si porrebbe, pertanto, in evidente collisione con la
promozione del lavoro e la garanzia di stabilità del relativo rapporto imposte
dagli artt. 4 e 35 Cost.
L’assenza di gradazione della tutela, assicurata
mediante automatismi legislativi che privano l’ordinamento di un’effettiva
capacità di reazione alle violazioni, e la misura inadeguata dell’indennizzo
violerebbero «il principio di uguaglianza che esige […] che la sanzione sia
proporzionata al disvalore e alle conseguenze del fatto illecito commesso». La
sanzione prevista, «improntata su un sistema di tetti progressivi legati a un
fattore neutro, quale l’anzianità lavorativa», da un lato, impedirebbe ogni
valutazione e gradazione rispetto all’effettiva lesione causata, al disvalore
dell’atto e alle circostanze del caso concreto, dando luogo a un sistema
connotato da irragionevolezza intrinseca, dall’altro, renderebbe «pressoché
privo di una adeguata causalità il potere di recesso che, non adeguatamente
sanzionato, non trova di fatto limiti al suo esercizio».
2.4.– Infine, le disposizioni denunciate
violerebbero i «parametri della legge delega rappresentati dal rispetto della
regolazione dell’Unione europea e delle convenzioni internazionali nonché degli
art. 10 e 117 Cost.».
La parte afferma anzitutto che l’art. 1, comma
7, lettera c), della legge di delegazione n. 183 del 2014, nello stabilire,
come parametro per l’esercizio della delega, «per le nuove assunzioni», un
modello sanzionatorio «crescente con l’anzianità di servizio» e «certo»
nell’ammontare del «plafond», con esclusione, per i licenziamenti economici,
della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, fornirebbe al
legislatore delegato criteri direttivi in contrasto con i principi di
effettività, adeguatezza e dissuasività della misura
sanzionatoria stabiliti dalle norme dell’Unione europea e dai trattati
internazionali, che pure la stessa legge di delegazione, contraddittoriamente,
richiama. Ne consegue che tale legge presenta «in sé» i vizi di
costituzionalità evidenziati dal rimettente, perché impone principi e criteri
direttivi in contrasto con i parametri dallo stesso invocati.
I censurati artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del
2015, nell’attuare una delega illegittima, in quanto in contrasto con le norme
internazionali pur da essa stessa richiamate, si pongono necessariamente in
conflitto con tali norme internazionali interposte, che sono tenuti a
rispettare.
Sulla base di tali considerazioni, la parte
afferma di condividere la scelta, operata dal giudice a quo, di censurare sia
la legge di delegazione che il decreto delegato.
Quanto al merito di tali censure, la parte
afferma che i «principi di effettività, deterrenza e adeguatezza della
sanzione», violati dalla normativa denunciata, costituiscono i parametri che, a
livello sia interno sia internazionale, connotano le norme a tutela del posto
di lavoro; principi che risulterebbero dall’art. 24 della Carta sociale europea,
le cui previsioni «assumono diretta efficacia nell’ordinamento interno quale
norma interposta».
Le decisioni del Comitato europeo dei diritti
sociali avrebbero individuato, quali requisiti che devono caratterizzare la
misura sanzionatoria, quelli di adeguatezza, effettività e dissuasività
(nei confronti del datore di lavoro).
Il carattere universale del diritto sociale
affermato dal Comitato europeo dei diritti sociali sarebbe alla base della
valutazione dello stesso che, ai fini della tutela, non rilevano le dimensioni
dell’azienda (la parte cita, in proposito, le Conclusioni 2003 del Comitato,
riguardanti l’art. 24 della Carta sociale europea in riferimento alla
Bulgaria). A maggior ragione, si dovrebbe ritenere che «il "valore” del diritto
universale fondamentale non può […] variare, sulla base di tetti prestabiliti,
in ragione dell’anzianità lavorativa», dovendo, invece, la tutela assicurata a
un tale diritto «garantire un valore in sé che nella sua assolutezza non può
essere limitata da aspetti estranei al suo riconoscimento».
In tale prospettiva, un sistema caratterizzato
da un «plafond» progressivo legato all’anzianità di servizio, come quello
imposto dalla legge di delegazione e attuato dal d.lgs. n. 23 del 2015, sarebbe
incompatibile con la Carta sociale europea atteso che il Comitato europeo dei
diritti sociali avrebbe ritenuto che «ogni risarcimento per licenziamento
illegittimo deve essere proporzionale alla perdita subita dal danneggiato e
sufficientemente dissuasivo per il datore di lavoro. È vietato qualunque tetto
nella misura della compensazione che precluda la valutazione di danni e renda
non dissuasiva la sanzione si ponga come ostacolo alla valutazione del danno».
È infine citata la decisione del 31 gennaio
2017, emessa sul reclamo collettivo proposto dalla Finnish
Society of Social Rights contro la Finlandia (reclamo
n. 106/2014), nella quale il Comitato avrebbe affermato l’incompatibilità con
la Carta sociale europea di una normativa che preveda la reintegrazione nel
posto di lavoro solo nel caso di licenziamenti discriminatori e che – come
quella censurata – introduca un meccanismo sanzionatorio indennitario
caratterizzato da un tetto e dall’esclusione dell’azione contrattuale generale
civilistica.
Secondo la parte costituita, i rapporti del
Comitato europeo dei diritti sociali – sia quelli sui rapporti periodici
presentati dagli Stati contraenti sull’applicazione della Carta, sia quelli sui
reclami collettivi – costituirebbero atti interpretativi del contenuto
materiale, vivente e dinamico, della Carta, vincolanti per gli stessi Stati con
riguardo all’ampiezza e ai contenuti dei diritti sociali previsti dalla Carta.
La parte ricorda ancora che, ai sensi dell’art.
151 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), i diritti definiti
nella Carta sociale europea sono «tenuti presenti» dall’Unione europea e dagli
Stati membri nell’ambito della politica sociale dell’Unione.
La stessa parte rappresenta poi che il sistema
sanzionatorio previsto dal d.lgs. n. 23 del 2015, in particolare, quello
stabilito dalle disposizioni censurate dal giudice a quo, è stato oggetto di un
reclamo collettivo – presentato ai sensi del Protocollo addizionale alla Carta
sociale europea che prevede un sistema di reclami collettivi, fatto a
Strasburgo il 9 novembre 1995, ratificato e reso esecutivo con la legge 28
agosto 1997, n. 298 – ai fini della verifica della sua compatibilità con la
Carta.
Il principio di adeguatezza della tutela avverso
il licenziamento illegittimo sarebbe poi sancito, nell’ordinamento dell’Unione
europea, dall’art. 30 CDFUE.
Né si potrebbe negare la sussistenza, nelle
disposizioni denunciate, di una «fattispecie europea», atteso che esse
costituiscono l’attuazione del modello di flexsecurity
promosso dall’Unione europea e oggetto di numerose raccomandazioni e «trovano
applicazione anche con riferimento ai licenziamenti economici comprensivi di
quelli collettivi, attuativi della direttiva comunitaria 98/59/CE».
Infine, anche la Convenzione OIL n. 158 del 1982
sul licenziamento, come interpretata dal Consiglio di amministrazione
dell’Organizzazione, nel privilegiare la reintegrazione nel posto di lavoro,
stabilisce il principio di effettività della misura risarcitoria, in quanto
idonea a garantire un ristoro effettivo e adeguato del danno subito dal
lavoratore in conseguenza della lesione del suo diritto fondamentale.
La necessaria adeguatezza della sanzione
assumerebbe «diretta rilevanza come obbligo per lo Stato di non attuare, nelle
more della ratifica [della Convenzione], una legislazione in contrasto con
l’obbligazione assunta a livello internazionale».
La parte afferma quindi che il «combinato
disposto degli art. 3 e 4 [del d.lgs. n. 23 del 2015] letti autonomamente anche
in concorso con la legge delega» introduce un sistema di tutela inadeguato, che
contrasta con l’obbligo internazionale, sancito dalle tre fonti invocate, di
«assicurare la piena tutela satisfattiva di un diritto sociale fondamentale
assicurando al contempo una adeguata funzione deterrente».
3.– È intervenuta la Confederazione generale
italiana del lavoro (CGIL), chiedendo che le questioni sollevate siano
dichiarate fondate.
3.1.– La CGIL afferma anzitutto la rilevanza e
l’idoneità del petitum delle questioni sollevate.
3.2.– La stessa Confederazione argomenta poi la
propria legittimazione a intervenire nel giudizio di legittimità
costituzionale, ancorché non sia stata parte del giudizio a quo.
Essa asserisce, in particolare, che l’interesse
qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in
giudizio, idoneo a legittimare tale intervento, ben può consistere in un
interesse che si distingue da quelli di cui sono titolari le parti del giudizio
a quo, per il suo carattere collettivo o comunque sopra individuale, di rilievo
pubblicistico e costituzionale; interesse che, come tale, viene a essere
direttamente inciso dall’esito del giudizio davanti alla Corte costituzionale.
Tanto premesso, la CGIL riporta il contenuto
dagli artt. 4 e 13 del proprio statuto, approvato l’8 maggio 2014, nonché la
delibera 10, attuativa dello stesso.
In aggiunta, l’interveniente sottolinea che una
disciplina vincolistica dei licenziamenti e un’efficace sanzione dei recessi
illegittimi, oltre a garantire l’effettività dei diritti individuali afferenti
al rapporto di lavoro, consente il libero dispiegarsi dell’azione sindacale
senza i severi condizionamenti datoriali che sono propri dei rapporti resolubili ad nutum. Il tema
posto all’attenzione della Corte costituzionale dall’ordinanza di rimessione
presenterebbe dunque un «indissolubile intreccio tra diritti individuali e
diritti collettivi».
La CGIL rappresenta ancora come lo Stato sociale
riconosca ai gruppi non solo la dignità di formazioni sociali, ai sensi
dell’art. 2 Cost., ma anche il «diritto alla autotutela come il potere di agire
non solo per la promozione degli interessi del gruppo (collettivi) ma,
attraverso la contrapposizione e la composizione degli interessi delle
collettività professionali, anche per la modificazione dei rapporti di
organizzazione economica e sociale interne allo stato-comunità». Ciò
costituirebbe una ragione in più per ammettere l’intervento adesivo.
3.3.– Quanto al merito delle questioni, la CGIL
prospetta deduzioni identiche a quelle della parte costituita.
4.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate non fondate.
L’interveniente deduce che, con la tutela
prevista all’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 per il caso in cui
venga accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo, il legislatore ha inteso «riequilibrare i
rapporti tra datore di lavoro e lavoratore con il ridimensionamento della
tutela c.d. reale della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro».
Il Presidente del Consiglio dei ministri nega
che, in tale quadro, siano riscontrabili i vizi di legittimità costituzionale
denunciati dal rimettente, atteso che rientrerebbe nella sfera di
discrezionalità del legislatore la determinazione dell’indennità risarcitoria,
da porre a carico del datore di lavoro, nella misura compresa tra un minimo e
un massimo.
Il Presidente del Consiglio dei ministri
sottolinea che la Corte costituzionale ha affermato, da un lato, che la regola
generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al
pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale (è citata
la sentenza n.
148 del 1999), purché sia garantita l’adeguatezza del risarcimento (sono
citate le sentenze
n. 303 del 2011, n. 199 del 2005
e n. 420 del
1991); dall’altro, che la tutela reintegratoria
non costituisce l’unico paradigma attuativo degli artt. 4 e 35 Cost. (è
nuovamente citata la sentenza n. 303 del
2011).
L’interveniente passa poi a esaminare le singole
censure mosse dal giudice a quo alle disposizioni denunciate.
Egli esamina anzitutto la censura basata sul
fatto che l’indennità risarcitoria da queste prevista in misura fissa non
avrebbe carattere compensativo perché l’assunzione della ricorrente nel
giudizio a quo ha consentito al datore di lavoro di fruire dello sgravio
contributivo previsto dalla legge n. 190 del 2014. Il Presidente del Consiglio
dei ministri osserva anzitutto che, nel caso di specie, il beneficio goduto
dalla società resistente nel giudizio a quo, corrispondente ai contributi
previdenziali per il periodo di sette mesi dal cui versamento è stata
esonerata, non è superiore all’indennizzo dovuto alla lavoratrice ai sensi
dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, che ammonta a quattro mensilità. In ogni
caso, il rapporto tra lo sgravio contributivo usufruito dal datore di lavoro e
l’indennizzo da lui eventualmente dovuto per il licenziamento ingiustificato
non assumerebbe alcuna rilevanza ai fini della valutazione della
costituzionalità delle disposizioni impugnate, atteso che detto sgravio è stato
previsto in misura piena solo per i rapporti di lavoro costituiti nel 2015
(art. 1, commi 118 e 119, della legge n. 190 del 2014) e nella misura ridotta
del 40 per cento per i rapporti di lavoro costituiti nel 2016 (art. 1, comma
178, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità
2016)»).
Quanto alla censura della disparità di
trattamento tra lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 e lavoratori
assunti prima di tale data, l’interveniente richiama l’orientamento della
giurisprudenza costituzionale secondo cui non contrasta con il principio di
eguaglianza la previsione di un trattamento differenziato applicato alle stesse
fattispecie ma in momenti temporalmente diversi, dato che il fluire del tempo
può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni
giuridiche.
Infine, quanto alla denunciata inadeguatezza –
anche in relazione alla CDFUE, alla Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul
licenziamento e alla Carta sociale europea – della forma e della misura della
riparazione prevista dalle disposizioni censurate, l’interveniente rappresenta
che l’indennità da queste stabilita «è superiore rispetto a quanto previsto
nella maggior parte degli altri Paesi Europei».
5.– In prossimità dell’udienza pubblica, la
ricorrente nel giudizio a quo ha depositato una memoria con la quale, dopo
avere argomentato l’ammissibilità delle questioni sollevate, ne ribadisce la
fondatezza sotto tutti i profili prospettati nel proprio atto di costituzione
in giudizio.
La stessa parte costituita evidenzia che, nelle
more del giudizio di legittimità costituzionale, è intervenuto il decreto-legge
12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e
delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n.
96, il cui art. 3, comma 1, ha modificato il censurato art. 3, comma 1, del
d.lgs. n. 23 del 2015, in particolare, elevando le misure minima e massima
dell’indennità prevista da tale disposizione, rispettivamente, da quattro a sei
e da ventiquattro a trentasei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento
per il calcolo del trattamento di fine rapporto (TFR).
Ad avviso della parte, peraltro, tale ius superveniens non «incide […]
ai fini del giudizio di legittimità costituzionale» atteso che, da un lato,
«[l]a fattispecie rimessa al giudice a quo dovrà […] essere […] decisa ratione temporis sulla base della
disciplina oggetto del giudizio di rimessione», dall’altro, che «la struttura
anelastica e per tetti […] propria del d.lgs. 23/2015 […] rimane invariata
nella "filosofia” del d.l. 87/18 mentre la tutela massima di 36 mensilità
troverà attuazione solo nei confronti di rapporti di lavoro instaurati nel 2015
e cessati nel 2030».
6.– In prossimità della pubblica udienza, anche
la CGIL ha depositato una memoria con la quale, dopo avere ribadito la propria
legittimazione a intervenire nel giudizio di legittimità costituzionale e
ulteriormente argomentato l’ammissibilità delle questioni sollevate, ne
riafferma la fondatezza sotto tutti i profili prospettati nel proprio atto di
intervento, precisandoli ulteriormente.
Anche ad avviso della CGIL l’emanazione del
decreto-legge n. 87 del 2018 «è irrilevante per il caso in discussione in
ragione dell’applicabilità del decreto ai licenziamenti comminati
successivamente alla data della sua pubblicazione».
Considerato
in diritto
1.− Il Tribunale ordinario di Roma, terza
sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: dell’art.
1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al
Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il
lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina
dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione
delle esigenze di cura, di vita e di lavoro); e degli artt. 2, 3 e 4 del
decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto
di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge
10 dicembre 2014, n. 183).
1.1.− L’art. 1, comma 7, lettera c), della
legge n. 183 del 2014, al dichiarato «scopo di rafforzare le opportunità di
ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di
occupazione», delegò il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi, «in
coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni
internazionali», nel rispetto dei principi e criteri direttivi della
«previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a
tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i
licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel
posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con
l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai
licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di
licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per
l’impugnazione del licenziamento».
Gli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 −
adottato dal Governo nell’esercizio di tale delega − dettano il regime di
tutela del lavoratore contro i licenziamenti, rispettivamente,
«discriminatorio, nullo e intimato in forma orale» (art. 2), «per giustificato
motivo e giusta causa» quando si accerti che non ricorrono gli estremi di tali
causali (art. 3) e affetto da «[v]izi formali e
procedurali» (art. 4).
Come previsto, in generale, per il regime di
tutela contro i licenziamenti illegittimi introdotto dal d.lgs. n. 23 del 2015,
anche i denunciati artt. 2, 3 e 4 si applicano ai lavoratori, con «qualifica di
operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del […] decreto»
(art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015); quindi, ai rapporti di lavoro a
tempo indeterminato instaurati a decorrere dal 7 marzo 2015. Ai lavoratori
assunti prima di tale data continua pertanto ad applicarsi il "precedente”
regime dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela
della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività
sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato
dall’art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in
materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita).
1.2.− Ad avviso del rimettente, le
disposizioni denunciate, prevedendo che, nei casi di licenziamento illegittimo,
al lavoratore assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato
a decorrere dal 7 marzo 2015 spetta un’indennità «in misura […] modesta»,
stabilita in modo «automati[co]» − con
esclusione, quindi, di «qualsiasi discrezionalità valutativa del giudice» −
e, in particolare, «crescente solo in base alla anzianità di servizio», contrastano
con gli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della
Costituzione.
1.2.1.− Con riferimento all’art. 3 Cost.,
il giudice a quo prospetta quattro distinti profili di illegittimità
costituzionale.
Con il primo, lamenta che le disposizioni
denunciate violano il principio di eguaglianza perché tutelano i lavoratori
assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 in modo ingiustificatamente deteriore
rispetto a quelli assunti, anche nella stessa azienda, prima di tale data −
i quali continuano a godere del più favorevole regime di tutela previsto
dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma
42, della legge n. 92 del 2012 −, considerato che «la data di assunzione
appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che in nulla è
idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni altro profilo
sostanziale».
Con il secondo profilo, deduce che le stesse
disposizioni violano il principio di eguaglianza anche perché, nell’ambito
degli assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, tutelano i lavoratori privi di
qualifica dirigenziale in modo ingiustificatamente deteriore rispetto ai
dirigenti, i quali, «non soggetti alla nuova disciplina, continueranno a godere
di indennizzi di importo minimo e massimo ben più consistente».
Con il terzo profilo, viene dedotto che le
disposizioni censurate violano, ancora una volta, il principio di eguaglianza
perché il carattere «fiss[o] e crescente solo in base
all’anzianità di servizio» dell’indennità da esse prevista comporta anche che
«situazioni molto dissimili nella sostanza» (quanto, in particolare, alla
gravità del pregiudizio subito dal lavoratore) vengano tutelate in modo
ingiustificatamente identico.
Con il quarto profilo, è dedotta
l’irragionevolezza delle disposizioni censurate perché l’indennità da esse
prevista, in quanto «modesta, fissa e crescente solo in base all’anzianità di
servizio», non costituisce né un adeguato ristoro del concreto pregiudizio
subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo né un’adeguata
dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente, sicché «non
[è] soddisfa[tto] il test del bilanciamento dei
contrapposti interessi in gioco».
1.2.2.− Con riferimento agli artt. 4,
primo comma, e 35, primo comma, Cost., il giudice a quo deduce che la normativa
denunciata non può ritenersi rispettosa del valore attribuito al lavoro da tali
parametri costituzionali giacché «sostanzialmente "valuta” il diritto al lavoro
[…] con una quantificazione […] modesta ed evanescente […] ed oltretutto fissa
e crescente in base al parametro della mera anzianità» e considerato anche che
«[l]e tutele dei licenziamenti […] sostengono la forza contrattuale del
lavoratore nella relazione quotidiana sul luogo di lavoro» e «protegg[ono] le libertà
fondamentali di lavoratrici e lavoratori» in tale luogo.
1.2.3.− Con riferimento, infine, agli
artt. 76 e 117, primo comma, Cost., il rimettente deduce che le disposizioni
denunciate non rispettano, quanto all’art. 76 Cost., il criterio direttivo,
dettato dall’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014, della «coerenza con
la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali» e, quanto
all’art. 117, primo comma, Cost., i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario
e dagli obblighi internazionali», perché si pongono in contrasto con le norme
dell’Unione europea e internazionali che sanciscono il diritto del lavoratore
«a una tutela efficace nei confronti di un licenziamento […] ingiustificato».
I suddetti parametri costituzionali sarebbero
violati, in particolare, per il tramite di tre norme interposte.
Anzitutto, per il tramite dell’art. 30 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza
il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, che, con lo
stabilire che «[o]gni lavoratore ha il diritto alla
tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto
dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali», «impone agli Stati membri
di garantire una adeguata tutela in caso di licenziamento ingiustificato».
In secondo luogo, per il tramite dell’art. 10
della Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 (Convenzione sulla
cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro), adottata
a Ginevra dalla Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del
lavoro (OIL) il 22 giugno 1982 (e non ratificata dall’Italia), là dove
stabilisce che se il giudice o l’organismo arbitrale competenti che abbiano
reputato ingiustificato il licenziamento non hanno il potere di annullarlo, e/o
di ordinare o di proporre la reintegrazione del lavoratore, o non ritengono che
ciò sia possibile nella situazione data, «dovranno essere abilitati ad ordinare
il versamento di un indennizzo adeguato o ogni altra forma di riparazione
considerata come appropriata».
In terzo luogo, per il tramite dell’art. 24
della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3
maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30,
secondo cui, «[p]er assicurare l’effettivo esercizio
del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le Parti s’impegnano a
riconoscere: a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un
valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle
necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio; b)
il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo
indennizzo o altra adeguata riparazione» (primo paragrafo).
2.− Per prima cosa, deve essere confermata
la dichiarazione di inammissibilità dell’intervento spiegato dalla
Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), per le ragioni esposte
nell’ordinanza letta nel corso dell’udienza pubblica e allegata alla presente sentenza.
3.− In linea preliminare, occorre rilevare
che, successivamente all’ordinanza di rimessione, è entrato in vigore il
decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei
lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9
agosto 2018, n. 96. Tale decreto, all’art. 3, comma 1, ha modificato una delle
disposizioni oggetto del presente giudizio, e cioè l’art. 3, comma 1, del
d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alla parte in cui stabilisce il limite
minimo e il limite massimo entro cui è possibile determinare l’indennità da
corrispondere al lavoratore ingiustamente licenziato. Il citato art. 3, comma
1, del d.l. n. 87 del 2018 ha innalzato tali limiti, rispettivamente, da
quattro a sei mensilità (limite minimo) e da ventiquattro a trentasei mensilità
(limite massimo) dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto (TFR).
Il rimettente denuncia l’art. 3, comma 1, del
d.lgs. n. 23 del 2015, in quanto dispone che il giudice, una volta accertato
che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, condanna il
datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non assoggettata a contribuzione
previdenziale, che deve essere di importo pari a due mensilità dell’ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio,
entro una soglia minima e una soglia massima.
Non è dunque il quantum delle soglie minima e
massima entro cui può essere stabilita l’indennità al cuore delle doglianze, ma
il meccanismo di determinazione dell’indennità, configurato dalla norma
censurata. Il rimettente lamenta, infatti, che la norma in esame introduce un
criterio rigido e automatico, basato sull’anzianità di servizio, tale da
precludere qualsiasi «discrezionalità valutativa del giudice», in violazione
dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, in quanto in contrasto con
l’esigenza di assicurare un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subìto
dal lavoratore, nonché un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal
licenziare ingiustamente.
Poiché il contenuto della novella legislativa è
circoscrivibile entro questi confini, ben può questa Corte autonomamente
valutare in che misura lo ius superveniens
incida sul presente giudizio incidentale e se si spinga fino a modificare «la
norma censurata quanto alla parte oggetto delle censure di legittimità
costituzionale» (sentenza
n. 125 del 2018). Nel caso in esame non è stato intaccato il meccanismo
contestato, sicché non mutano i termini essenziali della questione posta dal
giudice a quo.
Tanto basta per escludere la necessità di
restituire gli atti al giudice rimettente perché valuti la permanenza o no dei
dubbi di legittimità costituzionale espressi nell’ordinanza di rimessione.
4.− Prima di esaminare le questioni di
legittimità costituzionale sollevate, va rilevato che, nel proprio atto di
costituzione in giudizio, Francesca Santoro ha dedotto l’irragionevolezza delle
disposizioni censurate sotto il profilo, ulteriore rispetto a quelli indicati
nell’ordinanza di rimessione, che esse sarebbero inidonee a conseguire lo scopo
dichiarato di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da
parte di coloro che sono in cerca di occupazione».
Tale censura si traduce in una questione non
sollevata dal giudice rimettente ed è, perciò, inammissibile.
Infatti, in base alla costante giurisprudenza di
questa Corte, «”l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via
incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle
ordinanze di rimessione. Pertanto, non possono essere presi in considerazione
ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia
eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o
modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze” (ex plurimis, sentenze n. 251 del
2017, n. 214
del 2016, n.
231 e n. 83
del 2015)» (sentenza
n. 4 del 2018, punto 2. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 29 del
2017).
5.− Sempre in via preliminare, devono
essere esaminati, d’ufficio, alcuni profili che attengono all’ammissibilità
delle questioni sollevate dal giudice rimettente.
5.1.− Anzitutto, è necessario verificare,
alla luce di quanto risulta dall’ordinanza di rimessione, l’effettiva
applicabilità nel giudizio a quo delle diverse disposizioni denunciate e,
conseguentemente, l’effettiva rilevanza delle questioni di costituzionalità
delle stesse.
Va osservato che, nel descrivere la fattispecie
al suo esame, il giudice rimettente espone che la lavoratrice ricorrente era
stata licenziata, il 15 dicembre 2015, «per giustificato motivo oggettivo ai
sensi dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966 n. 604» e aveva impugnato il
licenziamento «invoca[ndo] la tutela di cui all’art.
3 del D.Lgs. 23/2015». Lo stesso rimettente afferma
poi di ritenere che, «a fronte della estrema genericità della motivazione
addotta e della assoluta mancanza di prova della fondatezza di alcune delle
circostanze laconicamente accennate nell’espulsione, il vizio ravvisabile sia
il più grave fra quelli indicati, vale a dire la "non ricorrenza degli estremi
del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”» e che, poiché la
lavoratrice ricorrente è stata assunta a decorrere dal 7 marzo 2015, «ha
diritto soltanto a quattro mensilità».
Dall’esposizione del giudice a quo si evince in
modo inequivocabile che il giudizio principale ha a oggetto un licenziamento
per giustificato motivo oggettivo, che la lavoratrice ricorrente ha chiesto la
tutela prevista dall’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 per i casi in cui non
ricorrono gli estremi, tra le altre, di tale causale e che anche il rimettente
ritiene che il caso sottoposto al suo esame sia inquadrabile in tale
fattispecie e comporti la tutela («quattro mensilità») di cui all’art. 3 (comma
1) del d.lgs. n. 23 del 2015, nel testo originario.
5.1.1.− Alla luce di questi elementi,
quali emergono dalla stessa ordinanza di rimessione, è del tutto evidente
l’inapplicabilità nel giudizio a quo dell’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015.
Quest’ultimo, infatti, stabilisce la tutela per
i casi di licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale,
completamente estranei allo stesso giudizio.
Da ciò l’irrilevanza delle questioni aventi a
oggetto l’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015.
5.1.2.− Parimenti inapplicabile nel
giudizio a quo è l’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015.
Questo articolo, infatti, stabilisce la tutela
per le ipotesi, in esso indicate, di vizi formali e procedurali del recesso
datoriale, anch’esse estranee al medesimo giudizio.
È lo stesso rimettente a considerare il vizio
formale di motivazione del licenziamento in termini di mera ipotesi, ipotesi
che egli stesso però scarta, in favore del vizio sostanziale della «non
ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».
Da ciò l’irrilevanza anche delle questioni
aventi a oggetto l’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015.
5.1.3.− Passando all’art. 3 del d.lgs. n.
23 del 2015, nonostante il rimettente lo censuri nella sua interezza, risulta
evidente che egli non deve fare applicazione né del comma 2 né del comma 3 di
tale articolo. Comunque, egli non fornisce alcuna motivazione sul perché debba
fare applicazione degli stessi.
5.1.3.1.− Quanto al comma 2, esso
stabilisce la tutela per i casi di «licenziamento per giustificato motivo
soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio
l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore», cioè per
fattispecie diverse da quella oggetto del giudizio a quo. Inoltre, il comma 2
dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 prevede una tutela che consiste
nell’annullamento del licenziamento e nella condanna del datore di lavoro alla
reintegrazione del lavoratore, oltre che al pagamento di un’indennità. Si
tratta di una tutela completamente diversa da quella, meramente monetaria, che
lo stesso rimettente afferma di dovere applicare, prevista non dal comma 2 ma
dal comma 1 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.
Da ciò l’irrilevanza delle questioni aventi a
oggetto il comma 2 di tale articolo.
5.1.3.2.− Quanto al comma 3, esso
stabilisce che al licenziamento dei lavoratori che, a norma dell’art. 1 del
d.lgs. n. 23 del 2015, rientrano nel campo di applicazione di tale decreto,
«non trova applicazione l’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e
successive modificazioni».
Questo articolo, come sostituito dall’art. 1,
comma 40, della legge n. 92 del 2012, prevede che il licenziamento per
giustificato motivo oggettivo disposto dai datori di lavoro che hanno i
requisiti dimensionali di cui all’art. 18, ottavo comma, della legge n. 300 del
1970, deve essere preceduto da una procedura preventiva conciliativa
obbligatoria. Il comma 3 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 dispone dunque
che tale procedura non si applica ai licenziamenti per giustificato motivo
oggettivo, rientranti nel campo di applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015.
Sul perché debba fare applicazione di tale
comma, il rimettente nulla dice.
Sotto altro profilo, non spiega neppure perché
dubiti che esso contrasti con i parametri costituzionali invocati. Nulla si
eccepisce, in effetti, a proposito dell’esclusione dell’applicazione dell’art.
7 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) ai
licenziamenti per giustificato motivo oggettivo che rientrano nel campo di
applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015, prevista dal comma 3 dell’art. 3 di
tale decreto.
Da ciò l’inammissibilità, per difetto di
motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza, delle questioni
aventi a oggetto il comma 3 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.
5.1.4.− Da quanto sin qui esposto risulta
che, tra le disposizioni del d.lgs. n. 23 del 2015 denunciate, l’unica che il
rimettente deve effettivamente applicare è l’art. 3, comma 1.
Esso stabilisce che «[s]alvo quanto disposto dal
comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo
soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro
alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di
un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a
due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non
inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità».
Del resto, le censure e le relative
argomentazioni dell’ordinanza di rimessione riguardano tutte il contrasto con
gli invocati parametri costituzionali dell’indennità disciplinata da tale
disposizione.
5.2.− Quest’ultimo rilievo consente di
valutare un ulteriore profilo di inammissibilità che riguarda le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183
del 2014.
L’unico specifico riferimento che l’ordinanza di
rimessione fa all’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014,
quale oggetto del giudizio di legittimità costituzionale (nella stessa
ordinanza, l’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 è anche, come si è
visto, parametro interposto delle questioni sollevate in riferimento agli artt.
76 e 117, primo comma, Cost.), è costituito dall’affermazione che le tutele
previste dagli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 sono «frutto della delega
contenuta nella legge n. 183/2014»
Questa laconica frase non fornisce,
all’evidenza, un’argomentazione sufficiente del contrasto del denunciato art.
1, comma 7, lettera c), con i parametri costituzionali invocati.
Del resto, si deve osservare che, ancorché non
intenda chiaramente censurare tutti i principi e criteri direttivi dettati
dall’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 – si pensi, oltre
a quello «generale», invocato come parametro interposto, della «coerenza con la
regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali», all’«esclu[sione] per i licenziamenti
economici [del]la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di
lavoro», che nell’ordinanza di rimessione si nega espressamente di voler
contestare – il giudice a quo omette finanche di specificare quali di essi
ritenga possano recare un vulnus ai parametri costituzionali invocati.
Da ciò l’inammissibilità delle questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183
del 2014 per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza.
5.3.− Dalle argomentazioni che precedono
consegue, pertanto, che le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1,
comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 e degli artt. 2, 3, commi 2 e
3, e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 devono essere dichiarate inammissibili per
difetto, rispettivamente, di rilevanza (artt. 2, 3, comma 2, e 4 del d.lgs. n.
23 del 2015), di motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza
(art. 3, comma 3) e di motivazione sulla non manifesta infondatezza (art. 1,
comma 7, lettera c, della legge n. 183 del 2014).
5.4.− Il giudizio di legittimità
costituzionale resta, dunque, circoscritto al solo art. 3, comma 1, del d.lgs.
n. 23 del 2015.
Prima di scrutinare il merito delle questioni
aventi a oggetto tale disposizione, occorre verificare l’ammissibilità di
quella sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in
relazione allo specifico parametro interposto dell’art. 10 della Convenzione
OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento.
Questa convenzione internazionale, che ha
vocazione costituzionale, nello spirito dell’art. 35, terzo comma, Cost., non è
stata ratificata dall’Italia, pertanto non è da ritenersi vincolante, né può
integrare il parametro costituzionale evocato, poiché l’art. 117, primo comma,
Cost., fa riferimento al rispetto dei «vincoli» derivanti dagli «obblighi
internazionali».
Non si può pervenire a diversa conclusione
neanche con riguardo alla possibile idoneità di tale Convenzione a integrare il
parametro dell’art. 76 Cost. Se è vero, infatti, che l’alinea dell’art. 1,
comma 7, della legge di delegazione n. 183 del 2014 fa riferimento, senza
ulteriori specificazioni, alle «convenzioni internazionali», da tale generica
dicitura non si può certamente far discendere l’obbligo per il legislatore
delegato del rispetto di convenzioni cui l’Italia, non avendo inteso
ratificarle, non è vincolata.
Dall’inidoneità della Convenzione OIL n. 158 del
1982 sul licenziamento, in quanto non ratificata dall’Italia, a integrare i
parametri degli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., discende l’inammissibilità
della questione sollevata dal rimettente in relazione all’art. 10 della stessa.
Tale conclusione deve essere ribadita anche con
riferimento a quanto sembrerebbe ritenere la parte costituita Francesca
Santoro., secondo cui la Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 «assume
diretta rilevanza come obbligo per lo Stato di non attuare, nelle more della
ratifica, una legislazione in contrasto con l’obbligazione assunta a livello
internazionale».
L’obbligo di buona fede stabilito dall’art. 18
della Convenzione sul diritto dei trattati, adottata a Vienna il 23 maggio
1969, ratificata e resa esecutiva con la legge 12 febbraio 1974, n. 112, che si
sostanzia, tra l’altro, nell’astensione degli Stati dal compiere atti
suscettibili di privare un trattato del suo oggetto e del suo scopo, non può
spingersi fino a escludere la discrezionalità della ratifica e l’ineludibilità
di essa ai fini dell’obbligatorietà del trattato − per l’Italia −
sul piano internazionale. Si conferma, pertanto, l’inidoneità dell’invocata
Convenzione OIL a integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost.
6.− Si può ora passare allo scrutinio
della prima delle questioni sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., con la
quale il rimettente deduce che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015
viola il principio di eguaglianza, perché tutela i lavoratori assunti a
decorrere dal 7 marzo 2015 in modo ingiustificatamente deteriore rispetto a
quelli assunti, anche nella stessa azienda, prima di tale data.
La questione non è fondata.
Va anzitutto dato atto della correttezza del
presupposto – da cui il rimettente muove nel sollevarla − secondo cui il
regime di tutela dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, applicabile
agli assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, è meno favorevole di quello
dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, applicabile ai lavoratori assunti
prima di tale data. Infatti, quando sia accertata l’insussistenza degli estremi
del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo
soggettivo o per giusta causa, il censurato art. 3, comma 1, prevede, in ogni
caso, la tutela solo economica costituita dall’indennità di importo pari a due
mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per
ogni anno di servizio, col minimo di quattro (ora sei) e il massimo di
ventiquattro (ora trentasei) mensilità. L’art. 18 della legge n. 300 del 1970
prevede invece la tutela specifica della reintegrazione nel posto di lavoro,
oltre alla tutela per equivalente del risarcimento del danno fino a un massimo
di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, nei casi di
«manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo» (settimo comma, secondo periodo, prima frase,
secondo cui il giudice «[p]uò» applicare tale
disciplina), nonché, nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per
giusta causa, nei casi di «insussistenza del fatto contestato» e nei casi in
cui tale fatto «rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa
sulla base […] dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari
applicabili» (quarto comma, primo periodo). Negli altri casi prevede la tutela
per equivalente del risarcimento del danno tra un minimo di dodici e un massimo
di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (quinto
comma, cui pure rinvia il settimo comma, secondo periodo, seconda frase).
Si deve osservare che, denunciando la disparità
di trattamento tra nuovi assunti (cui si applica il meno favorevole regime di
tutela del d.lgs. n. 23 del 2015) e vecchi assunti (cui si applica il più
favorevole regime di tutela dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970), il
rimettente, diversamente che nelle altre questioni sollevate, non censura la
disciplina sostanziale del primo di tali regimi, ma il criterio di applicazione
temporale della stessa, costituito dalla data di assunzione del lavoratore a
decorrere dall’entrata in vigore del decreto. L’asserita irragionevolezza del
deteriore trattamento dei nuovi assunti è infatti motivata censurando non tanto
il regime di tutela per essi dettato dal d.lgs. n. 23 del 2015, quanto, piuttosto,
il criterio di applicazione temporale di tale regime. Si afferma che «la data
di assunzione appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto
che in nulla è idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni
altro profilo sostanziale».
Se questo è il contenuto della censura in esame,
occorre ricordare che, a proposito della delimitazione della sfera di
applicazione ratione temporis
di normative che si succedono nel tempo, nella giurisprudenza di questa Corte è
costante l’affermazione – nota anche al giudice rimettente – che «non
contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento
differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel
tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di
diversificazione delle situazioni giuridiche (ordinanze n. 25 del
2012, n. 224
del 2011, n.
61 del 2010, n.
170 del 2009, n.
212 e n. 77
del 2008)» (sentenza
n. 254 del 2014, punto 3. del Considerato in diritto). Questa Corte ha al
riguardo argomentato che «[s]petta difatti alla
discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza,
delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme […] (sentenze n. 273 del
2011, punto 4.2. del Considerato in diritto, e n. 94 del 2009,
punto 7.2. del Considerato in diritto)» (sentenza n. 104 del
2018, punto 7.1. del Considerato in diritto).
È proprio tale «canone di ragionevolezza» che il
rimettente mostra di ritenere violato, quando afferma che «la data di
assunzione appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che
in nulla è idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni
altro profilo sostanziale».
La modulazione temporale dell’applicazione del
d.lgs. n. 23 del 2015, censurata dal rimettente, non contrasta con il «canone
di ragionevolezza» e, quindi, con il principio di eguaglianza, se a essa si
guarda alla luce della ragione giustificatrice – del tutto trascurata dal
giudice rimettente – costituita dallo «scopo», dichiaratamente perseguito dal
legislatore, «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da
parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (alinea dell’art. 1, comma 7,
della legge n. 183 del 2014).
Lo scopo dell’intervento, così esplicitato,
mostra come la predeterminazione e l’alleggerimento delle conseguenze del
licenziamento illegittimo dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato
siano misure dirette a favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro per chi
di un lavoro fosse privo, e, in particolare, a favorire l’instaurazione di
rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Il regime temporale di applicazione del d.lgs.
n. 23 del 2015 si rivela coerente con tale scopo. Poiché l’introduzione di
tutele certe e più attenuate in caso di licenziamento illegittimo è diretta a
incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, appare coerente limitare
l’applicazione delle stesse tutele ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla
loro entrata in vigore, quelli, cioè, la cui assunzione avrebbe potuto essere
da esse favorita.
Pertanto, l’applicazione del d.lgs. n. 23 del
2015 ai lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato a
decorrere dalla data della sua entrata in vigore, in quanto conseguente allo
scopo che il legislatore si è prefisso, non può ritenersi irragionevole. Di
conseguenza, il deteriore trattamento di tali lavoratori rispetto a quelli
assunti prima di tale data non viola il principio di eguaglianza.
Tanto chiarito circa la non irragionevolezza del
contestato regime temporale, non spetta a questa Corte addentrarsi in
valutazioni sui risultati che la politica occupazionale perseguita dal
legislatore può aver conseguito.
7.− Con la seconda delle questioni
sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., il rimettente deduce che l’art. 3,
comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 viola il principio di eguaglianza perché,
nell’ambito degli assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, tutela i lavoratori
privi di qualifica dirigenziale in modo ingiustificatamente deteriore rispetto
ai dirigenti, i quali, «non soggetti alla nuova disciplina, continueranno a
godere di indennizzi di importo minimo e massimo ben più consistente».
La questione non è fondata.
Questa Corte ha da tempo chiarito che il
dirigente, pur rientrando, per espressa previsione dell’art. 2095, primo comma,
del codice civile, tra i lavoratori subordinati, «si caratterizza per alcune
significative diversità rispetto alle altre figure dei quadri, impiegati ed
operai» (sentenza
228 del 2001, punto 2. del Considerato in diritto). Sicché «le due
categorie non sono affatto omogenee ed i due rapporti di lavoro sono nettamente
differenziati» (sentenza
309 del 1992, punto 3. del Considerato in diritto).
La diversità del lavoro dei dirigenti ha indotto
questa Corte a più riprese a ribadire che non contrasta con l’art. 3 Cost.
l’esclusione degli stessi dall’applicazione della generale disciplina
legislativa sui licenziamenti individuali, compresa la regola della necessaria
giustificazione del licenziamento (sentenze n. 228 del
2001, n. 309
del 1992 e n.
121 del 1972, ordinanza
n. 404 del 1992; queste ultime due pronunce riguardano, in particolare,
l’art. 10 della legge n. 604 del 1966, che esclude i dirigenti dall’applicazione,
tra l’altro, dell’art. 1 di tale legge, cioè della disposizione che richiede
l’esistenza di una «giusta causa» o di un «giustificato motivo» di
licenziamento).
In ragione di questa perdurante esclusione si
deve confermare che, anche nel sistema vigente, i dirigenti non sono
comparabili alle altre categorie dei prestatori di lavoro di cui all’art. 2095,
primo comma del codice civile.
8.− Del pari non fondata è la prima delle
questioni sollevate in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., con
cui il giudice rimettente deduce che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del
2015 viola tali disposizioni costituzionali per il tramite del parametro
interposto dell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea.
A norma dell’art. 51 CDFUE, «[l]e disposizioni
della presente Carta si applicano […] agli Stati membri esclusivamente
nell’attuazione del diritto dell’Unione» (comma 1, primo periodo). Sulla base
di tale disposizione, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha costantemente
asserito che le disposizioni della CDFUE sono applicabili agli Stati membri
«quando agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione» (ex plurimis, Grande
sezione, sentenza 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Åklagaren
contro Hans Åkerberg Fransson
e, più recentemente, Ottava
sezione, ordinanza 26 ottobre 2017, causa C-333/17, Caixa
Económica Montepio Geral contro Carlos Samuel Pimenta Marinh
e altri). Questa Corte ha perciò affermato che, «perché la Carta dei
diritti UE sia invocabile in un giudizio di legittimità costituzionale,
occorre, dunque, che la fattispecie oggetto di legislazione interna "sia
disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad
atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione,
ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura
nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da
sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto” (sentenza n. 80 del
2011)» (sentenza
n. 63 del 2016, punto 7. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 111 del
2017 e ordinanza
n. 138 del 2011).
Nessun elemento consente di ritenere che la
censurata disciplina dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sia stata
adottata in attuazione del diritto dell’Unione, in particolare, per attuare
disposizioni nella materia dei licenziamenti individuali.
Più nel dettaglio, ai fini dell’applicabilità
della CDFUE, l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 dovrebbe rientrare
nell’ambito di applicazione di una norma del diritto dell’Unione diversa da
quelle della Carta stessa (ex plurimis, Corte
di giustizia, terza sezione, sentenza 1° dicembre 2016, causa C-395/15, Mohamed
Daouidi contro Bootes Plus
SL e altri, punto 64; ottava
sezione, ordinanze 8 dicembre 2016, causa C-27/16, Angel Marinkov
contro Predsedatel na Darzhavna agentsia za balgarite v chuzhbina, punto 49,
e 16
gennaio 2014, causa C-332/13, Ferenc Weigl contro Nemzeti Innovációs Hivatal, punto 14;
terza
sezione, ordinanza 12 luglio 2012, causa C-466/11, Gennaro Currà
e altri contro Bundesrepublik Deutschland,
punto 26).
Il solo fatto che l’art. 3, comma 1, del d.lgs.
n. 23 del 2015 ricada in un settore nel quale l’Unione è competente ai sensi
dell’art. 153, paragrafo 2, lettera d), del Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea (TFUE) non può comportare l’applicabilità della Carta dato
che, riguardo alla disciplina dei licenziamenti individuali (e, tanto meno, nella
situazione specificamente regolata dall’art. 3, comma 1), l’Unione non ha in
concreto esercitato tale competenza, né ha adottato, mediante direttive,
prescrizioni minime (ex plurimis, Corte
di giustizia, decima sezione, sentenza 5 febbraio 2015, causa C-117/14, Grima Janet Nisttahuz Poclava contro Jose María Ariza Toledano, punto 41; quinta
sezione, sentenza 10 luglio 2014, causa C-198/13, Víctor
Manuel Julian Hernández e altri contro Regno di
Spagna e altri, punti 36 e 46; settima
sezione, ordinanza 16 gennaio 2008, causa C-361/07, Olivier Polier
contro Najar EURL, punto 13).
Contrariamente a quanto mostra di reputare la
difesa della parte costituita, non si può ritenere che la normativa censurata
sia stata adottata in attuazione della direttiva 20 luglio 1998, n. 98/59/CE
(Direttiva del Consiglio concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli
Stati membri in materia di licenziamenti collettivi), poiché, come è chiaro,
l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 disciplina i licenziamenti individuali.
Al fine di sostenere la sussistenza, nelle
disposizioni denunciate, di una «fattispecie europea», la parte costituita ha
argomentato – in verità, in modo assai generico − che esse ricadrebbero
nell’ambito della politica dell’occupazione dell’Unione e, in particolare,
nell’ambito delle misure adottate in risposta alle raccomandazioni del
Consiglio. Tali raccomandazioni, previste dall’art. 148, paragrafo 4, TFUE
all’esito dell’esame annuale svolto dalle istituzioni europee circa la
situazione dell’occupazione nell’Unione, rientrano nella discrezionalità del
Consiglio e sono prive di forza vincolante.
Non vi sono dunque disposizioni del diritto
dell’Unione che impongano specifici obblighi agli Stati membri – né all’Italia
in particolare − nella materia disciplinata dal censurato art. 3, comma
1, del d.lgs. n. 23 del 2015. Si deve pertanto escludere che la CDFUE sia
applicabile alla fattispecie e che l’art. 30 della stessa Carta possa essere
invocato, quale parametro interposto, nella presente questione di legittimità
costituzionale. Da ciò la non fondatezza della stessa.
9.− Le ulteriori questioni, con cui il
rimettente lamenta che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, prevedendo
una tutela contro i licenziamenti ingiustificati rigida e inadeguata, viola gli
artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, e 76 e 117, primo comma, Cost. –
questi ultimi due articoli in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea
– sono fondate nei limiti che saranno ora indicati.
Prima di esaminarle singolarmente, è utile
prendere le mosse dalla giurisprudenza di questa Corte che, sin da epoca
risalente, si è soffermata sugli aspetti peculiari della disciplina dei
licenziamenti per delineare i confini della giustificazione, da un lato, e
della tutela avverso quelli illegittimi, dall’altro.
9.1.− Nel dichiarare non fondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 2118 cod. civ., sollevata in
riferimento all’art. 4 Cost., questa Corte affermò che il diritto al lavoro,
«fondamentale diritto di libertà della persona umana», pur non garantendo «il
diritto alla conservazione del lavoro», tuttavia «esige che il legislatore […]
adegui […] la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo
di assicurare a tutti la continuità del lavoro, e circondi di doverose garanzie
[…] e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a
licenziamenti» (sentenza
n. 45 del 1965, punti 3. e 4. del Considerato in diritto). Questa
esortazione, come è noto, fu accolta con l’approvazione della legge n. 604 del
1966, che sancì, all’art. 1, il principio della necessaria giustificazione del
licenziamento, da considerarsi illegittimo se non sorretto da una «giusta
causa» o da un «giustificato motivo».
Si è in seguito affermato il «diritto [garantito
dall’art. 4 Cost.] a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o
irragionevolmente» (sentenza n. 60 del
1991, punto 9. del Considerato in diritto) e si è poi ribadita la «garanzia
costituzionale [del] diritto di non subire un licenziamento arbitrario» (sentenza n. 541 del
2000, punto 2. del Considerato in diritto e ordinanza n. 56 del
2006).
L’«indirizzo di progressiva garanzia del diritto
al lavoro previsto dagli artt. 4 e 35 Cost., che ha portato, nel tempo, a
introdurre temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro» (sentenza n. 46 del
2000, punto 5. del Considerato in diritto), si riscontra in una successiva
pronuncia, in cui si afferma che «la materia dei licenziamenti individuali è
oggi regolata, in presenza degli artt. 4 e 35 della Costituzione, in base al
principio della necessaria giustificazione del recesso» (sentenza n. 41 del
2003, punto 2.1. del Considerato in diritto).
L’affermazione sempre più netta del «diritto al
lavoro» (art. 4, primo comma, Cost.), affiancata alla «tutela» del lavoro «in
tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.), si sostanzia
nel riconoscere, tra l’altro, che i limiti posti al potere di recesso del
datore di lavoro correggono un disequilibrio di fatto esistente nel contratto
di lavoro. Il forte coinvolgimento della persona umana – a differenza di quanto
accade in altri rapporti di durata – qualifica il diritto al lavoro come
diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare per apprestare
specifiche tutele.
9.2.− Al percorso della giurisprudenza
costituzionale ora evocato, si è affiancato quello – parallelo e qui più
direttamente rilevante – concernente la tutela del lavoratore nel caso di
licenziamento illegittimo.
Questa giurisprudenza ha valorizzato la
discrezionalità del legislatore in materia.
Già la sentenza n. 194 del
1970, dopo avere affermato che i principi cui si ispira l’art. 4 della
Costituzione «esprimono l’esigenza di un contenimento della libertà del recesso
del datore di lavoro dal contratto di lavoro, e quindi dell’ampliamento della
tutela del lavoratore, quanto alla conservazione del posto di lavoro», precisò
che «[l]’attuazione di questi principi resta tuttavia affidata alla
discrezionalità del legislatore ordinario, quanto alla scelta dei tempi e dei
modi, in rapporto ovviamente alla situazione economica generale» (punto 4. del
Considerato in diritto).
Nello stesso senso si sono successivamente
espresse le sentenze
n. 55 del 1974, n. 189 del 1975
e n. 2 del 1986.
Più di recente, questa Corte ha espressamente
negato che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., terreno
su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore, imponga un
determinato regime di tutela (sentenza n. 46 del
2000, punto 5. del Considerato in diritto).
Il legislatore ben può, nell’esercizio della sua
discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo
risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del
2011), purché un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di
ragionevolezza. Il diritto alla stabilità del posto, infatti, «non ha una
propria autonomia concettuale, ma è nient’altro che una sintesi terminologica
dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall’invalidità dell’atto non
conforme» (sentenza
n. 268 del 1994, punto 5. del Considerato in diritto).
10.− Questa breve disamina dell’evoluzione
della giurisprudenza costituzionale in materia di licenziamenti serve a
enucleare l’ambito delle tutele fondate sugli artt. 4, primo comma, e 35, primo
comma, Cost., interpretati congiuntamente. Su questo sfondo si deve collocare
l’analisi della tutela prevista dal censurato art. 3, comma 1.
Si tratta di una tutela non specifica
dell’interesse del lavoratore all’adempimento del contratto di lavoro a tempo
indeterminato – la reintegrazione è, infatti, preclusa – ma per equivalente e,
quindi, soltanto economica.
È necessario fin da ora chiarire che questo
meccanismo di tutela sorregge l’intero impianto della disciplina delineata dal
legislatore, anche nei casi in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento
per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa (salve le ipotesi,
disciplinate dal comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, in cui «sia
direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale
contestato al lavoratore»). Questa Corte non può dunque esimersi da uno
scrutinio complessivo del denunciato art. 3, comma 1, entro cui rientra anche
il caso in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, fattispecie quest’ultima che ricorre nel giudizio a quo.
La qualificazione come «indennità»
dell’obbligazione prevista dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 non
ne esclude la natura di rimedio risarcitorio, a fronte di un licenziamento.
Quest’ultimo, anche se efficace, in quanto idoneo a estinguere il rapporto di
lavoro, costituisce pur sempre un atto illecito, essendo adottato in violazione
della preesistente non modificata norma imperativa secondo cui «il
licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai
sensi dell’art. 2119 del Codice civile o per giustificato motivo» (art. 1 della
legge n. 604 del 1966).
Quanto alla misura della stessa indennità – e,
quindi, del risarcimento riconosciuto al lavoratore per il danno causato dal
licenziamento illegittimo, che specularmente incide nella sfera economica del
datore di lavoro – essa è interamente prestabilita dal legislatore in due
mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per
ogni anno di servizio.
Il meccanismo di quantificazione indicato
connota l’indennità come rigida, in quanto non graduabile in relazione a
parametri diversi dall’anzianità di servizio, e la rende uniforme per tutti i
lavoratori con la stessa anzianità. L’indennità assume così i connotati di una
liquidazione legale forfetizzata e standardizzata, proprio perché ancorata
all’unico parametro dell’anzianità di servizio, a fronte del danno derivante al
lavoratore dall’illegittima estromissione dal posto di lavoro a tempo
indeterminato.
Il meccanismo di quantificazione dell’indennità
opera entro limiti predefiniti sia verso il basso sia verso l’alto. Verso il
basso la previsione di una misura minima dell’indennità è pari a quattro (ora
sei) mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR,
verso l’alto la previsione di una misura massima dell’indennità è pari a
ventiquattro (ora trentasei) mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento
per il calcolo del TFR.
Una tale predeterminazione forfetizzata del
risarcimento del danno da licenziamento illegittimo non risulta incrementabile,
pur volendone fornire la relativa prova. Nonostante il censurato art. 3, comma
1 – diversamente dal vigente art. 18, quinto comma, della legge n. 300 del 1970
– non definisca l’indennità «onnicomprensiva», è in effetti palese la volontà del
legislatore di predeterminare compiutamente le conseguenze del licenziamento
illegittimo, in conformità al principio e criterio direttivo dettato dalla
legge di delegazione di prevedere un indennizzo economico «certo».
11.− Ricostruite le caratteristiche della
tutela prevista dal denunciato art. 3, comma 1, tale disposizione, nella parte
in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per
ogni anno di servizio», contrasta, anzitutto, con il principio di eguaglianza,
sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse (terzo
dei profili di violazione dell’art. 3 Cost. prospettati dal rimettente).
Come si è visto, nel prestabilirne interamente
il quantum in relazione all’unico parametro dell’anzianità di servizio, la
citata previsione connota l’indennità, oltre che come rigida, come uniforme per
tutti i lavoratori con la stessa anzianità.
È un dato di comune esperienza, ampiamente comprovato
dalla casistica giurisprudenziale, che il pregiudizio prodotto, nei vari casi,
dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori.
L’anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è dunque solo uno dei tanti.
Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 23
del 2015 il legislatore ha ripetutamente percorso la strada che conduce
all’individuazione di tali molteplici fattori.
L’art. 8 della legge n. 604 del 1966 (come
sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge n. 108 del 1990), ad esempio,
lascia al giudice determinare l’obbligazione alternativa indennitaria, sia pure
all’interno di un minimo e un massimo di mensilità dell’ultima retribuzione
globale di fatto, «avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle
dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al
comportamento e alle condizioni delle parti». Inoltre, a conferma dell’esigenza
di scrutinare in modo accurato l’entità della misura risarcitoria e di calarla
nell’organizzazione aziendale, la stessa disposizione dà rilievo all’anzianità
di servizio per ampliare ulteriormente la discrezionalità del giudice,
relativamente ai datori di lavoro che occupano più di quindici prestatori di
lavoro. L’anzianità di servizio superiore a dieci o a venti anni consente,
infatti, la maggiorazione dell’indennità fino, rispettivamente, a dieci e a
quattordici mensilità. Anche l’art. 18, quinto comma, della legge n. 300 del
1970 (come sostituito dall’art. 1, comma 42, lettera b, della legge n. 92 del
2012) prevede che l’indennità risarcitoria sia determinata dal giudice tra un
minimo e un massimo di mensilità, seguendo criteri in larga parte analoghi a
quelli indicati in precedenza, avuto riguardo anche alle «dimensioni
dell’attività economica».
Il legislatore ha dunque, come appare evidente,
sempre valorizzato la molteplicità dei fattori che incidono sull’entità del
pregiudizio causato dall’ingiustificato licenziamento e conseguentemente sulla
misura del risarcimento.
Da tale percorso si discosta la disposizione
censurata. Ciò accade proprio quando viene meno la tutela reale, esclusa, come
già detto, per i lavoratori assunti dopo il 6 marzo 2015, salvo che nei casi di
cui al comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.
In una vicenda che coinvolge la persona del
lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela
risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di
servizio. Non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale
valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia. Tale
discrezionalità si esercita, comunque, entro confini tracciati dal legislatore
per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una
soglia minima e una massima.
All’interno di un sistema equilibrato di tutele,
bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde,
infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore,
pure essa imposta dal principio di eguaglianza.
La previsione di una misura risarcitoria
uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei
licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita
omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza
concreta – diverse.
12.− L’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23
del 2015, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due
mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», contrasta altresì con
il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità
medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal
lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del
datore di lavoro dal licenziare illegittimamente (quarto dei profili di
violazione dell’art. 3 Cost. prospettati dal rimettente).
12.1.− Quanto al primo aspetto, si è detto
che la previsione denunciata, nel prestabilire interamente la misura
dell’indennità, la connota, oltre che come «certa», anche come rigida, perché
non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio.
Inoltre, l’impossibilità di incrementare l’indennità, fornendo la relativa
prova, la configura come una liquidazione legale forfetizzata, in relazione,
appunto, all’unico parametro prefissato dell’anzianità di servizio.
In occasione dell’esame di disposizioni
introduttive di forfetizzazioni legali limitative del risarcimento del danno,
questa Corte ha più volte affermato che «”la regola generale di integralità
della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al
danneggiato non ha copertura costituzionale” (sentenza n. 148 del
1999), purché sia garantita l’adeguatezza del risarcimento (sentenze n. 199 del
2005 e n.
420 del 1991)» (sentenza n. 303 del
2011, punto 3.3.1. del Considerato in diritto). Il risarcimento, dunque,
ancorché non necessariamente riparatorio dell’intero pregiudizio subito dal
danneggiato, deve essere necessariamente equilibrato.
Dalle stesse pronunce emerge altresì che
l’adeguatezza del risarcimento forfetizzato richiede che esso sia tale da
realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto (sentenze n. 235 del
2014, n. 303
del 2011, n.
482 del 2000, n.
132 del 1985).
Non contrasta con tale nozione di adeguatezza il
limite di ventiquattro (ora trentasei) mensilità, fissato dal legislatore quale
soglia massima del risarcimento.
Si deve infine osservare che la rigida
dipendenza dell’aumento dell’indennità dalla sola crescita dell’anzianità di
servizio mostra la sua incongruenza soprattutto nei casi di anzianità di
servizio non elevata, come nel giudizio a quo. In tali casi, appare ancor più
inadeguato il ristoro del pregiudizio causato dal licenziamento illegittimo,
senza che a ciò possa sempre ovviare la previsione della misura minima
dell’indennità di quattro (e, ora, di sei) mensilità.
12.2.− Quanto al secondo aspetto,
l’inadeguatezza dell’indennità forfetizzata stabilita dalla previsione
denunciata rispetto alla sua primaria funzione riparatorio-compensativa del
danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato è suscettibile di
minare, in tutta evidenza, anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti
del datore di lavoro, allontanandolo dall’intento di licenziare senza valida
giustificazione e di compromettere l’equilibrio degli obblighi assunti nel
contratto.
12.3.− Sulla base di quanto argomentato,
si deve dunque concludere che il denunciato art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23
del 2015, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due
mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», non realizza un equilibrato
componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione
dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato
dall’altro. Con il prevedere una tutela economica che può non costituire un
adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né
un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, la
disposizione censurata comprime l’interesse del lavoratore in misura eccessiva,
al punto da risultare incompatibile con il principio di ragionevolezza.
Il legislatore finisce così per tradire la
finalità primaria della tutela risarcitoria, che consiste nel prevedere una
compensazione adeguata del pregiudizio subito dal lavoratore ingiustamente
licenziato.
13.− Dalla ritenuta irragionevolezza del
censurato art. 3, comma 1, nella parte in cui determina l’indennità in un
«importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il
calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», discende
anche il vulnus recato da tale previsione agli artt. 4, primo comma, e 35,
primo comma, Cost. (lesione che il rimettente prospetta, in effetti, come
dipendente dal vizio, denunciato come principale, di violazione dell’art. 3
Cost.).
Alla luce di quanto si è sopra argomentato circa
il fatto che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte appena
citata, prevede una tutela economica che non costituisce né un adeguato ristoro
del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata
dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, risulta evidente
che una siffatta tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità
dell’occupazione non può ritenersi rispettosa degli artt. 4, primo comma, e 35,
primo comma, Cost., che tale interesse, appunto, proteggono.
L’irragionevolezza del rimedio previsto
dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 assume, in realtà, un rilievo
ancor maggiore alla luce del particolare valore che la Costituzione attribuisce
al lavoro (artt. 1, primo comma, 4 e 35 Cost.), per realizzare un pieno
sviluppo della personalità umana (sentenza n. 163 del
1983, punto 6. del Considerato in diritto).
Il «diritto al lavoro» (art. 4, primo comma,
Cost.) e la «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art.
35, primo comma, Cost.) comportano la garanzia dell’esercizio nei luoghi di
lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Il nesso che
lega queste sfere di diritti della persona, quando si intenda procedere a
licenziamenti, emerge nella già richiamata sentenza n. 45 del
1965, che fa riferimento ai «principi fondamentali di libertà sindacale,
politica e religiosa» (punto 4. del Considerato in diritto), oltre che nella sentenza n. 63 del
1966, là dove si afferma che «il timore del recesso, cioè del
licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a
una parte dei propri diritti» (punto 3. del Considerato in diritto).
14.− L’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23
del 2015, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due
mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», viola anche gli artt.
76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 24 della Carta sociale
europea.
Tale articolo prevede che, per assicurare
l’effettivo esercizio del diritto a una tutela in caso di licenziamento, le
Parti contraenti si impegnano a riconoscere «il diritto dei lavoratori
licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata
riparazione» (primo comma, lettera b).
Nella decisione resa a seguito del reclamo
collettivo n. 106/2014, proposto dalla Finnish
Society of Social Rights contro la Finlandia, il
Comitato europeo dei diritti sociali ha chiarito che l’indennizzo è congruo se
è tale da assicurare un adeguato ristoro per il concreto pregiudizio subito dal
lavoratore licenziato senza un valido motivo e da dissuadere il datore di
lavoro dal licenziare ingiustificatamente.
Il filo argomentativo che guida il Comitato si
snoda dunque attraverso l’apprezzamento del sistema risarcitorio in quanto
dissuasivo e, al tempo stesso, congruo rispetto al danno subito (punto 45).
Questa Corte ha già affermato l’idoneità della
Carta sociale europea a integrare il parametro dell’art. 117, primo comma,
Cost. e ha anche riconosciuto l’autorevolezza delle decisioni del Comitato,
ancorché non vincolanti per i giudici nazionali (sentenza n. 120 del
2018).
A ben vedere, l’art. 24, che si ispira alla già
citata Convenzione OIL n. 158 del 1982, specifica sul piano internazionale, in
armonia con l’art. 35, terzo comma, Cost. e e con
riguardo al licenziamento ingiustificato, l’obbligo di garantire l’adeguatezza
del risarcimento, in linea con quanto affermato da questa Corte sulla base del
parametro costituzionale interno dell’art. 3 Cost. Si realizza, in tal modo,
un’integrazione tra fonti e – ciò che più rileva – tra le tutele da esse
garantite (sentenza
n. 317 del 2009, punto 7. del Considerato in diritto, secondo cui «[i]l
risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve
essere di segno positivo»).
Per il tramite dell’art. 24 della Carta Sociale
Europea, risultano pertanto violati sia l’art. 76 – nel riferimento operato
dalla legge di delegazione al rispetto delle convenzioni internazionali – sia
l’art. 117, primo comma, Cost..
15.− In conclusione, in parziale
accoglimento delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 (in
relazione sia al principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata
omologazione di situazioni diverse, sia al principio di ragionevolezza), 4,
primo comma, 35, primo comma, e 76 e 117, primo comma, Cost. (questi ultimi due
articoli in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea), il denunciato
art. 3, comma 1, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo
limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per
ogni anno di servizio,».
Le «mensilità», cui fa ora riferimento l’art. 3,
comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sono da intendersi relative all’ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, così come si evince dal
d.lgs. n. 23 del 2015 nel suo complesso, con riguardo alla commisurazione dei
risarcimenti.
Nel rispetto dei limiti, minimo e massimo,
dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore
illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto
dell’anzianità di servizio – criterio che è prescritto dall’art. 1, comma 7,
lett. c) della legge n. 184 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del
d.lgs. n.23 del 2015 – nonché degli altri criteri già prima richiamati,
desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa
dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività
economica, comportamento e condizioni delle parti).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni
in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in
attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183) – sia nel testo originario sia
nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n.
87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese),
convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96 – limitatamente
alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di
riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di
servizio,»;
2) dichiara inammissibili le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10
dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli
ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive,
nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e
dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di
vita e di lavoro) e degli artt. 2, 3, commi 2 e 3, e 4 del d.lgs. n. 23 del
2015, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma,
76 e 117, primo comma, della Costituzione – questi ultimi due articoli in
relazione all’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
(CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12
dicembre 2007, alla Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 (Convenzione
sulla cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro),
adottata a Ginevra dalla Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale
del lavoro (OIL) il 22 giugno 1982, e all’art. 24 della Carta sociale europea,
riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa
esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30 –, dal Tribunale ordinario di
Roma, terza sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015,
sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione
all’art. 10 della Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento, dal
Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in
epigrafe;
4) dichiara non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015,
sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione
all’art. 30 CDFUE, dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Cosí deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 settembre
2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'8 novembre 2018.
Allegato:
Ordinanza letta
all'udienza del 25 settembre 2018