Ordinanza n. 56 del 2006

                                              

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ORDINANZA N. 56

ANNO 2006

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME  DEL  POPOLO  ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Annibale             MARINI                                                     Presidente

-  Franco                 BILE                                                              Giudice

-  Giovanni Maria   FLICK                                                                ”

-  Francesco            AMIRANTE                                                      ”

-  Ugo                     DE SIERVO                                                      ”

-  Romano              VACCARELLA                                                ”

-  Paolo                   MADDALENA                                                 ”

-  Alfio                   FINOCCHIARO                                               ”

-  Alfonso               QUARANTA                                                     ”

-  Franco                 GALLO                                                              ”

-  Luigi                   MAZZELLA                                                      “

-  Gaetano              SILVESTRI                                                       “

-  Sabino                 CASSESE                                                          “

-  Maria Rita           SAULLE                                                            “

-  Giuseppe             TESAURO                                                         “

ha pronunciato la seguente                                                         

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 5, della  legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2003), promosso con ordinanza del 22 dicembre 2004 dal Tribunale di Parma, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento civile vertente tra Mengoni Bruna ed altri e il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca ed altri, iscritta al n. 261 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2005.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell’11 gennaio 2006 il giudice relatore Alfonso Quaranta.

Ritenuto che il Tribunale di Parma, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza emessa in data 22 dicembre 2004, nel corso di un giudizio – promosso da alcuni insegnanti dichiarati non idonei allo svolgimento della funzione di docente per motivi di salute ed utilizzati in altri compiti all’interno dell’amministrazione scolastica – volto all’accertamento del «diritto a conservare il posto nel quale sono collocati con le mansioni attualmente loro attribuite a tempo indeterminato, con condanna delle parti convenute a mantenere i ricorrenti nelle loro collocazioni e nell’ambito dell’organizzazione amministrativa cui sono attualmente preposti», ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 5, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2003), per violazione degli articoli 2, 3 e 35 della Costituzione;

che la disposizione in esame è sospettata di illegittimità costituzionale nella parte in cui prevede che «il personale docente collocato fuori ruolo o utilizzato in altri compiti per inidoneità permanente ai compiti di istituto può chiedere di transitare nei ruoli dell’amministrazione scolastica o di altra amministrazione statale o ente pubblico. Il predetto personale, qualora non transiti in altro ruolo, viene mantenuto in servizio per un periodo massimo di cinque anni dalla data del provvedimento di collocamento fuori ruolo o di utilizzazione in altri compiti. Decorso tale termine, si procede alla risoluzione del rapporto di lavoro sulla base delle disposizioni vigenti. Per il personale già collocato fuori ruolo o utilizzato in altri compiti, il termine di cinque anni decorre dalla data di entrata in vigore della presente legge»;

che il giudice a quo deduce che quanto previsto dalla suddetta norma osta all’accoglimento della domanda;

che il rimettente rileva come la difesa dei ricorrenti – i quali rientrerebbero, «se non si è male inteso» il ricorso (si legge nell’ordinanza), nell’ambito del personale utilizzato in altri compiti, con la conseguente applicazione nei loro confronti del suddetto termine massimo di cinque anni – ha eccepito l’illegittimità costituzionale della disposizione in questione;

che il Tribunale di Parma ritiene non manifestamente infondata la questione di costituzionalità, condividendo, con proprie argomentazioni, le relative deduzioni prospettate nel giudizio a quo;

che il rimettente assume, quindi, la violazione degli articoli 2, 3 e 35 della Costituzione;

che la norma impugnata lederebbe l’art. 2 della Costituzione, poiché la risoluzione del rapporto di lavoro può intervenire in ragione della mera valutazione fisica del lavoratore, riferita «nemmeno alle mansioni attualmente svolte», ma a quelle pregresse, senza che sia stabilita alcuna cautela per il ricollocamento del lavoratore presso altre amministrazioni, che può avvenire solamente mediante la “mobilità ordinaria”;

che sarebbe violato l’art. 3 della Costituzione, in quanto la disposizione in esame introduce, irragionevolmente, una disciplina discriminatoria per gli insegnanti dichiarati non idonei alla funzione di docente per motivi di salute, i quali risultano essere gli unici dipendenti del comparto scuola per i quali è prevista la risoluzione del rapporto di lavoro sulla base di un’incapacità lavorativa attinente ad una mansione che non è quella ricoperta attualmente;

che la disposizione censurata stabilisce, altresì, un’eccezione al principio – espressione del più generale diritto al lavoro – secondo il quale la sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore allo svolgimento delle mansioni per le quali è stato assunto non può determinare, di per se stessa, la risoluzione del rapporto di lavoro;

che, infine, secondo il giudice a quo, l’art. 35, comma 5, della legge n. 289 del 2002, nella parte impugnata, lederebbe l’art. 35 della Costituzione, dal momento che «non risulta tutelare il lavoro delle parti ricorrenti, con specifico riferimento al lavoro attualmente svolto nell’interesse dell’amministrazione di appartenenza»;

che ad avviso del rimettente, infatti, le suddette parti, qualora non riescano a transitare nei ruoli dell’amministrazione scolastica o di altra amministrazione statale o ente pubblico – non recuperando, nel frattempo, nuova idoneità all’insegnamento – sono sottoposte al rischio della risoluzione del rapporto di lavoro in essere, senza alcuna opportunità di fare valere la possibilità concreta ed effettiva di continuare a svolgere l’attività di lavoro in atto, e senza che siano valutate le reali esigenze organizzative dell’amministrazione scolastica;

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ed ha chiesto che la questione di costituzionalità sia dichiarata inammissibile e comunque non fondata;

che la difesa dello Stato osserva che il Tribunale muove da un assunto erroneo, in quanto non è condivisibile la ritenuta equiparabilità dei docenti agli altri lavoratori dipendenti del medesimo comparto scuola;

che non vi sono, infatti, mansioni equivalenti a quelle dell’insegnamento e che, a fronte di una permanente inidoneità, l’art. 113 del d.P.R. 31 maggio 1974, n. 417 (Norme sullo stato giuridico del personale docente, direttivo ed ispettivo della scuola materna, elementare, secondaria ed artistica dello Stato), consente una diversa utilizzazione del personale in questione, riconoscendo al medesimo una facoltà di scelta;

che la disposizione oggetto di impugnazione, a sua volta, contempera molteplici esigenze e prevede la risoluzione del rapporto di lavoro solo nel caso in cui il docente non scelga il transito definitivo in un altro ruolo;

che, quindi, non sarebbe ravvisabile alcuna lesione dei diritti fondamentali del lavoratore, né del principio di uguaglianza, poiché, anzi, il regime giuridico previsto per il personale docente è più favorevole rispetto a quello delle altre categorie di personale;

che, infine, la norma in esame non violerebbe il diritto al lavoro, in quanto la risoluzione del rapporto di impiego opera in via gradata.

Considerato che la questione di legittimità costituzionale investe l’art. 35, comma 5, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2003), in particolare il terzo, quarto, quinto e sesto inciso della disposizione stessa, ed è posta in riferimento agli articoli 2, 3 e 35 della Costituzione;

che questa Corte, con la sentenza n. 322 del 2005, si è pronunciata in ordine alla questione di legittimità costituzionale di tale medesima norma, sollevata dal Tribunale di Roma, in riferimento agli articoli 3, 35 e 36 della Costituzione, dichiarando non fondata la prospettata violazione dell’articolo 3 della Costituzione e inammissibile la dedotta violazione degli articoli 35 e 36 della Costituzione;

che la suddetta norma era stata denunciata, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, in quanto avrebbe dato luogo ad una disparità di trattamento del personale docente rispetto al personale dirigente e al personale amministrativo, tecnico e ausiliario (cd. personale ATA) del comparto scuola, in ragione della previsione solo per il primo della risoluzione del rapporto di lavoro, ai sensi del richiamato art. 35, comma 5, della legge n. 289 del 2002;

che il Tribunale di Parma prospetta, ex art. 3 della Costituzione, identica censura, anche sotto il profilo di un’ingiustificata eccezione al più generale principio del diritto al lavoro, da cui discenderebbe l’impossibilità di procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro;

che nella sentenza sopra richiamata si è affermato che l’art. 35, comma 5, della legge n. 289 del 2002, si inserisce nell’ambito della disciplina della dispensa dal servizio per assoluta e permanente inidoneità fisica o incapacità o persistente insufficiente rendimento del personale docente e dei dirigenti, di cui all’art. 512 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), e che, per effetto degli articoli 514 e 579 del d.lgs. n. 297 del 1994, il personale del comparto scuola, dichiarato inidoneo all’espletamento della propria funzione per motivi di salute, può, a domanda, essere utilizzato in altri compiti;

che nella medesima sentenza è stata richiamata anche la pronuncia n. 3 del 1994, secondo cui «la dispensa per motivi di salute si fonda su una situazione (lo stato di infermità) la quale (…) è ovviamente indipendente dalla volontà dell’interessato – per cui certamente esula dal provvedimento una valutazione negativa del comportamento dell’impiegato (e comunque qualsiasi profilo sanzionatorio)»;

che si è, altresì, richiamata la sentenza n. 212 del 1983, con la quale, nell’esaminare gli effetti dell’assenza dal servizio per infermità del docente non di ruolo, la Corte ha affermato che «in tutto l’ambito della pubblica amministrazione non è mai riconosciuto all’impiegato il diritto ad un’assenza illimitata dal servizio a causa d’infermità; è sempre stabilito, invece, un periodo più o meno lungo, decorso il quale, ove l’impiegato non sia in grado di riprendere servizio, si fa luogo alla cessazione del rapporto d’impiego, applicando, secondo i casi, gli istituti all’uopo preordinati (collocamento a riposo per motivi di salute, dispensa dal servizio per inabilità fisica, licenziamento, ecc.)»;

che, quindi, in ragione del quadro normativo sopra delineato, nonché delle pronunce ivi richiamate, si è riaffermato il principio generale, proprio dell’ordinamento del pubblico impiego, in forza del quale il personale inidoneo al servizio per ragioni di salute, prima di essere dispensato, deve essere posto nelle condizioni di continuare a prestare servizio nell’assolvimento di compiti e funzioni compatibili con le sue condizioni di idoneità fisica;

che solo nel caso in cui non sia possibile tale utilizzazione, o per ragioni di carattere oggettivo o per scelta dell’interessato, ne è disposto il collocamento a riposo d’autorità;

che le tre categorie di personale che operano nel mondo della scuola – personale docente, dirigente e amministrativo, tecnico, ausiliario (cd. personale ATA) – presentano discipline di stato giuridico distinte, che giustificano la differenziata valutazione operata dal legislatore – con scelta discrezionale non irragionevole – in ordine al collocamento fuori ruolo e all’assegnazione a compiti diversi da quelli inerenti alla qualifica di appartenenza originaria;

che non può, quindi, essere affermata l’esistenza di una identità di situazioni giuridiche, rispetto alle quali l’art. 35, comma 5, della legge n. 289 del 2002, sia tale da a determinare una disparità di trattamento rilevante agli effetti dell’art. 3 della Costituzione;

che, infine, la Corte ha affermato, come, in un complessivo quadro di misure volte alla razionalizzazione delle risorse finanziarie per la scuola e nell’ambito di una politica generale di contenimento della spesa, trovano giustificazione norme dirette alla più proficua utilizzazione del personale che, pur non idoneo per ragioni di salute all’espletamento della funzione di docente, può essere ancora proficuamente utilizzato in altre funzioni, previo il transito presso altre strutture organizzative pubbliche;

che, pertanto, per le stesse ragioni formulate nella citata sentenza n. 322 del 2005, la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Parma, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, deve essere dichiarata manifestamente infondata;

che il giudice a quo ha sollevato questione di legittimità costituzionale anche in riferimento agli articoli 2 e 35 della Costituzione, prospettando, rispettivamente, la violazione del diritto al lavoro e la mancata tutela «del lavoro attuale» dei ricorrenti;

che i principi generali di tutela della persona e del lavoro (cfr. sentenza n. 541 del 2000; ordinanza n. 254 del 1997) non si traducono nel diritto al conseguimento ed al mantenimento di un determinato posto di lavoro (cfr. sentenza n. 390 del 1999), né, tanto meno, garantiscono – a fronte di una scelta del legislatore non censurabile, per le argomentazioni sopra svolte, sotto il profilo della arbitrarietà o della manifesta irragionevolezza – il diritto al mantenimento di specifiche mansioni (quali quelle svolte dai ricorrenti in quanto non idonei alla funzione di docente), dovendosi piuttosto riconoscere garanzia costituzionale al solo diritto di non subire un licenziamento arbitrario;

che, alla luce delle considerazioni innanzi svolte, deve essere, pertanto, dichiarata la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 5, della legge n. 289 del 2002, sollevata dal Tribunale di Parma, in funzione di giudice del lavoro, in riferimento agli evocati parametri costituzionali.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 5, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2003), sollevata dal Tribunale di Parma, in funzione di giudice del lavoro, in riferimento agli articoli 2, 3 e 35 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 febbraio 2006.

F.to:

Annibale MARINI, Presidente

Alfonso QUARANTA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 febbraio 2006.