Sentenza n. 63 del 1966
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SENTENZA N. 63

ANNO 1966

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO,  

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2948, nn. 4 e 5, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, del Codice civile, promosso con ordinanza emessa il 16 ottobre 1964 dal Tribunale di Ancona nel procedimento civile vertente tra Giacchetta Evaristo e Boldrini Cesira ed altri, iscritta al n. 28 del Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 85 del 3 aprile 1965.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione di Giacchetta Evaristo;

udita nell'udienza pubblica del 20 aprile 1966 la relazione del Giudice Giuseppe Branca;

uditi l'avv. Giuseppe Di Stefano, per il Giacchetta, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Michele Savarese, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - In una causa promossa per rivendicazione salariali contro la signora Cesira Boldrini e altri, presso il Tribunale di Ancona, l'attore Evaristo Giacchetta sollevava eccezione di legittimità costituzionale degli artt. 2948, nn. 4 e 5, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, del Codice civile in riferimento agli artt. 3, 4 e 36 della Costituzione.

Il Tribunale, dubitando della compatibilità della prescrizione, prevista in quegli articoli, con la natura del diritto alla retribuzione quale risulta dai principi costituzionali, accoglieva la eccezione proponendo questione di legittimità costituzionale con ordinanza del 16 ottobre 1964.

2. - Il Giacchetta, costituitosi con atto depositato presso questa Corte il 15 marzo 1965, ricorda che la dottrina moderna considera il "diritto alla retribuzione sufficiente", garantito dall'art. 36 della Costituzione, come un diritto della personalità: se ne dovrebbe dedurre che per volontà del costituente esso é indisponibile, opponibile erga omnes e imprescrittibile e che quindi le norme denunciate, poiché lo sottopongono a prescrizione "presuntiva o sostanziale", sono incostituzionali. La giurisprudenza della Corte costituzionale e quella della Cassazione avvalorerebbero questo rilievo poiché hanno affermato la natura immediatamente precettiva dell'art. 36 della Costituzione e l'indisponibilità di quel diritto intesa nel senso che le leggi ordinarie possano disciplinarne l'esercizio ma non possono sopprimerlo. Si tratterebbe in sostanza d'uno di quei diritti "dell'uomo" che l'art. 2 della Costituzione dichiara inviolabili e che dunque non possono mai "essere perduti". É come disconoscere questa inviolabilità - si chiarisce in una memoria depositata, fuori termine, l'8 aprile 1966 - ammettere con la Cassazione che il diritto al salario, una volta sorto e acquisito al patrimonio del lavoratore, sia soggetto a prescrizione: con ciò lo si rende di fatto violabile e disponibile vanificando la garanzia derivante dalla Costituzione come per ogni altro diritto sociale.

Durante il rapporto di lavoro il lavoratore non é in condizioni materiali di difendersi, mentre la prescrizione decorre regolarmente. Perciò il datore di lavoro, che ha retribuito con salario insufficiente il lavoratore, sfuggirà alla norma costituzionale per tutti quegli anni che sono coperti dalla prescrizione: cioè le norme impugnate gli consentono - conclude il Giacchetta - di violare impunemente un diritto che invece, per la Costituzione, é inviolabile.

Le norme denunciate contrasterebbero infine con l'art. 3 della Costituzione: trattano diversamente il datore di lavoro dal lavoratore poiché la "prestazione" del primo é prescrittibile, mentre non lo é materialmente quella del secondo; di più non consentono al lavoratore un'adeguata difesa contro la prescrizione presuntiva: se é deceduto il datore di lavoro, si deferirà il giuramento all'erede, ma questi giurerà normalmente l'avvenuta estinzione del debito poiché, estraneo al rapporto di lavoro, non potrà essere incolpato di spergiuro.

3. - Il Presidente del Consiglio dei Ministri, intervenendo con atto depositato l'11 marzo 1965, osserva innanzi tutto che l'art. 3 della Costituzione non viene certamente violato da norme contenenti sulla prescrizione una disciplina uniforme per tutti i titolari d'un medesimo diritto.

Rileva inoltre che l'art. 4 della Costituzione, garantendo il diritto al lavoro, costituisce un prius rispetto al rapporto di lavoro, di cui la retribuzione é parte essenziale, e perciò non é in questo caso adducibile.

Quanto, infine, all'art. 36 della Costituzione, esso, esigendo una retribuzione giusta e sufficiente, non é tale che il relativo diritto venga sottratto ai limiti, come quello della prescrizione (sentenza n. 57 del 1962 della Corte costituzionale), che sono normalmente propri di tutti i diritti.

L'imprescrittibilità d'alcuni di questi - prosegue l'Avvocatura dello Stato - deriva non da norme costituzionali, ma dalla loro stessa natura (diritti indisponibili) o dalla legge: cosa che non può dirsi del diritto alla retribuzione, la cui indisponibilità non risulta né dalla sua speciale natura né dalle norme costituzionali né da quelle del Codice civile (se ne veda anzi l'art. 2113); del resto esso, secondo la memoria depositata dall'Avvocatura il 28 marzo 1966, non é un diritto della personalità, poiché non attribuisce uno status protetto erga omnes, e, se lo fosse, non sarebbe per ciò solo imprescrittibile: anche taluni diritti relativi allo status delle persone sono soggetti a prescrizione (artt. 117, 120, 121 ecc. del Codice civile).

Quanto, poi, alla prescrizione presuntiva disciplinata nella seconda e nella terza delle tre norme impugnate (artt. 2955 e segg. del Codice civile), i suoi effetti possono essere evitati (oltre che con l'"ammissione" dello stesso debitore) con la delazione del giuramento consentita dalla legge al creditore: diritto di cui non avrebbe tenuto conto il giudice a quo e che invece toglierebbe ogni rilevanza alla proposta questione di legittimità costituzionale. Del resto - conclude l'Avvocatura dello Stato - se il debitore, a cui é stato deferito il giuramento, giura il falso, egli può essere perseguito penalmente e civilmente (art. 2738 del Codice civile) anche oltre il termine della prescrizione presuntiva: con ciò sarebbe esclusa l'incostituzionalità delle norme poiché esse nell'insieme offrirebbero al creditore un'efficace tutela sulla cui intensità non sarebbe ammissibile il sindacato della Corte costituzionale (citata sentenza n. 57 del 1962 della Corte costituzionale).

4. - Nella discussione orale si sono svolti i punti essenziali della controversia.

 

Considerato in diritto

 

1. - Sono stati denunciati gli artt. 2948, nn. 4 e 5, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, del Codice civile per contrasto con gli artt. 3, 4 e 36 della Costituzione: la prescrizione quinquennale e quella presuntiva, previste per le retribuzioni corrisposte a periodi non superiori o superiori al mese, sarebbero incompatibili con la natura del diritto al salario qual é garantito dalla Costituzione.

Presa nella sua assolutezza la denuncia non può essere accolta. Dato che la prescrizione é modo generale d'estinzione dei diritti, la garanzia costituzionale d'un diritto non vieta, di per sé, che esso si estingua per il decorso del tempo: la tutela costituzionale dà al diritto soggettivo una forza maggiore di quella che gli deriverebbe dalla legge ordinaria; ma non lo rende necessariamente perpetuo poiché, se alla base della prescrizione sta un'esigenza di certezza dei rapporti giuridici, questa tocca di regola qualunque diritto, compresi quelli costituzionalmente garantiti.

La parte privata nelle sue deduzioni si richiama a una dottrina che qualifica il diritto alla retribuzione "sufficiente" come diritto della personalità: ne deriverebbe che, alla pari di tutti questi diritti, esso sarebbe imprescrittibile; ma, accettata la premessa, non se ne può sottoscrivere la deduzione, una cosa essendo il diritto al salario, che secondo questa dottrina spetterebbe erga omnes, ed altra il diritto alle prestazioni salariali dovute periodicamente dal datore di lavoro: il diritto della personalità é imprescrittibile solo nel senso che le facoltà, di cui si compone, potranno sempre esercitarsi per un lunghissimo periodo di tempo; non nel senso che anche le pretese patrimoniali, derivanti di volta in volta dalla lesione di quel diritto, possano farsi valere in perpetuo. Dissociazione, questa, che si produce anche in altri rapporti, come accade per il diritto agli alimenti, che é imprescrittibile mentre si prescrivono in un quinquennio le singole annualità delle prestazioni alimentari.

2. - Vero é che nel nostro ordinamento non sono soggetti a prescrizione i diritti indisponibili (art. 2934 del Codice civile); ma l'indisponibilità del diritto alle prestazioni salariali non é sancita nell'art. 36 né si ricava da altre norme della Costituzione: ad esso il lavoratore non può rinunciare, come si desume a fortiori dall'ultimo comma dello stesso art. 36, che stabilisce l'irrinunciabilità del diritto alle ferie e al riposo settimanale; ma l'irrinunciabilità, essendo concetto meno ampio dell'indisponibilità richiamata dal Codice civile, non basta a rendere perpetuo un diritto soggettivo.

Infine la denuncia contenuta nell'ordinanza di rinvio non trova conforto neanche nell'art. 4 della Costituzione, che garantisce il diritto al lavoro ma, alla pari dell'art. 3, non contiene precetti od insegnamenti sulla sorte delle singole prestazioni salariali; né lo trova nell'art. 2 poiché l'inviolabilità dei diritti dell'uomo non esclude che il tempo consumi le pretese di carattere patrimoniale ad essi collegati.

3. - Però, se il diritto alle prestazioni salariali può prescriversi, non tutto il regime della prescrizione é compatibile colla speciale garanzia che deriva dall'art. 36 della Costituzione.

In un rapporto non dotato di quella resistenza, che caratterizza invece il rapporto d'impiego pubblico, il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti; di modo che la rinuncia, quando é fatta durante quel rapporto, non può essere considerata una libera espressione di volontà negoziale e la sua invalidità é sancita dall'art. 36 della Costituzione: lo stesso art. 2113 del Codice civile, che la giurisprudenza ha già inquadrato nei principi costituzionali, ammette l'annullamento della rinuncia proprio se questa é intervenuta prima della cessazione del rapporto di lavoro o subito dopo. In sostanza si é voluto proteggere il contraente più debole contro la sua propria debolezza di soggetto interessato alla conservazione del rapporto.

Le norme impugnate, in verità, non si riferiscono al negozio di rinuncia; però consentono che la prescrizione prenda inizio dal momento in cui matura il diritto a ogni singola prestazione salariale: se si eccettua il n. 5 dell'art. 2948, il termine prescrizionale decorre fatalmente anche durante il rapporto di lavoro poiché non vi sono ostacoli giuridici che impediscano di farvi valere il diritto al salario. Vi sono tuttavia ostacoli materiali, cioè la situazione psicologica del lavoratore, che può essere indotto a non esercitare il proprio diritto per lo stesso motivo per cui molte volte é portato a rinunciarvi, cioè per timore del licenziamento; cosicché la prescrizione, decorrendo durante il rapporto di lavoro, produce proprio quell'effetto che l'art. 36 ha inteso precludere vietando qualunque tipo di rinuncia: anche quella che, in particolari situazioni, può essere implicita nel mancato esercizio del proprio diritto e pertanto nel fatto che si lasci decorrere la prescrizione.

Entro questi limiti la questione é fondata: il precetto costituzionale, pur ammettendo la prescrizione del diritto al salario, non ne consente il decorso finché permane quel rapporto di lavoro durante il quale essa maschera spesso una rinuncia.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la illegittimità costituzionale degli artt. 2948 n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, del Codice civile limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2948, n. 5, del Codice civile proposta, in riferimento agli artt. 3, 4 e 36 della Costituzione, con l'ordinanza citata in epigrafe.

 Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1 giugno 1966.

 

Gaspare AMBROSINI - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO  

 

Depositata in cancelleria il 10 giugno 1966.