Sentenza n. 111 del 2017

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SENTENZA N. 111

ANNO 2017

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Paolo                       GROSSI                                                         Presidente

- Giorgio                    LATTANZI                                                     Giudice

- Aldo                        CAROSI                                                               

- Marta                      CARTABIA                                                         

- Mario Rosario         MORELLI                                                            

- Giancarlo                CORAGGIO                                                        

- Giuliano                  AMATO                                                               

- Silvana                    SCIARRA                                                            

- Daria                       de PRETIS                                                           

- Nicolò                     ZANON                                                               

- Franco                     MODUGNO                                                        

- Augusto Antonio    BARBERA                                                          

- Giulio                      PROSPERETTI                                                    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 24, comma 3, primo periodo, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, come interpretato dall’art. 2, comma 4, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101 (Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, e dell’art. 2, comma 21, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), promosso dal Tribunale ordinario di Roma, nel procedimento vertente tra A. C. e il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, con ordinanza del 7 aprile 2016, iscritta al n. 207 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 aprile 2017 il Giudice relatore Silvana Sciarra.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale ordinario di Roma, in composizione monocratica e in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 7 aprile 2016, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 11, 37, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – l’art. 11 Cost. in relazione all’art. 141 (recte: art. 157) del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2 della direttiva 5 luglio 2006, n. 2006/54/CE, recante «Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione)» – questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 24, comma 3 (recte: 24, comma 3, primo periodo), del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, come interpretato dall’art. 2, comma 4, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101 (Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, e dell’art. 2, comma 21, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), «nella misura in cui detto combinato disposto impone il collocamento a riposo al raggiungimento del 65° anno di età delle impiegate che abbiano maturato i requisiti per il conseguimento della pensione con il raggiungimento del 61° anno di età e di venti anni di contribuzione alla data del 31 dicembre 2011, laddove gli impiegati, che si trovino nella medesima condizione lavorativa, sono collocati a riposo al raggiungimento dell’età di 66 anni e tre mesi/sette mesi».

1.1.– Il Tribunale rimettente riferisce in punto di fatto che, con ricorso depositato il 7 maggio 2015, la ricorrente A. C., nata il 28 gennaio 1950, esponeva di avere prestato servizio alle dipendenze del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, con incarico di funzionario bibliotecario e che, con provvedimento del 17 dicembre 2014, detto Ministero aveva disposto il suo collocamento a riposo dal 1° febbraio 2015, nonostante ella avesse diffidato l’amministrazione a trattenerla in servizio fino al raggiungimento dell’età di sessantasei anni e tre mesi; sosteneva che, non avendo maturato, alla data del 31 dicembre 2011, alcuno dei requisiti per il pensionamento dei dipendenti pubblici, aveva diritto, a norma dell’art. 24 del decreto-legge n. 201 del 2011, a rimanere in servizio fino al compimento dell’età di sessantasei anni e tre mesi, come previsto, per tutti i dipendenti, a decorrere dal 1° gennaio 2012; chiedeva pertanto che fosse accertato il proprio diritto a essere trattenuta in servizio fino al raggiungimento dell’età di sessantasei anni e tre mesi e che, conseguentemente, il convenuto Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo fosse condannato a trattenerla in servizio e, per l’effetto, a reintegrarla nell’incarico di funzionario bibliotecario. Lo stesso rimettente riferisce altresì che il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo si era costituito in giudizio il 30 ottobre 2015, sostenendo che la ricorrente non rientrasse tra i soggetti che maturano i requisiti per il pensionamento a decorrere dal 1° gennaio 2012, giacché la stessa, alla data del 31 dicembre 2011, avendo trentatré anni e due mesi di contribuzione e avendo raggiunto il sessantunesimo anno di età, aveva già maturato i requisiti per il pensionamento di anzianità.

1.2.– Il rimettente ricostruisce poi il complesso quadro normativo in cui le disposizioni censurate si inseriscono.

1.2.1.– Il Tribunale ordinario di Roma espone anzitutto la normativa dettata, nel regime dell’assicurazione generale obbligatoria e per le forme di previdenza sostitutive ed esclusive di tale assicurazione, in tema di età e di requisiti assicurativi e contributivi per il pensionamento di vecchiaia.

Quanto all’età, l’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), stabilisce che «Il diritto alla pensione di vecchiaia a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti è subordinato al compimento dell’età indicata, per ciascun periodo, nella tabella A allegata»; tabella che, come sostituta, ai sensi dell’art. 11, comma 1, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), dalla tabella A allegata a tale legge, a decorrere dal 1° gennaio 2000, fissava l’età richiesta per il pensionamento di vecchiaia in 65 anni per gli uomini e in 60 anni per le donne. Quanto ai requisiti assicurativi e contributivi, l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 503 del 1992 stabilisce che «Nel regime dell’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti ed i lavoratori autonomi il diritto alla pensione di vecchiaia è riconosciuto quando siano trascorsi almeno venti anni dall’inizio dell’assicurazione e risultino versati o accreditati in favore dell’assicurato almeno venti anni di contribuzione, fermi restando i requisiti previsti dalla previgente normativa per le pensioni ai superstiti».

Tale regime dell’assicurazione generale obbligatoria è stato esteso, dagli artt. 5, comma 1, e 6, comma 1, dello stesso d.lgs. n. 503 del 1992, anche alle forme di previdenza diverse da quella generale per i lavoratori subordinati privati e, quindi, anche alla previdenza dei dipendenti pubblici.

1.2.2.– Il rimettente richiama poi l’art. 2, comma 21, della legge n. 335 del 1995, nel suo testo originario – secondo cui, «Con effetto dal 1°(gradi) gennaio 1996, le lavoratrici iscritte alle forme esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti al compimento del sessantesimo anno di età, possono conseguire il trattamento pensionistico secondo le regole previste dai singoli ordinamenti di appartenenza per il pensionamento di vecchiaia ovvero per il collocamento a riposo per raggiunti limiti di età» – osservando come tale disposizione non avesse modificato la disciplina del collocamento a riposo per raggiunti limiti di età, previsto, per gli impiegati, dall’art. 4, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), al compimento del sessantacinquesimo anno di età, senza distinzione tra uomini e donne.

1.2.3.– Il giudice a quo afferma quindi che le impiegate, fermo restando il loro collocamento a riposo al raggiungimento del detto limite massimo di sessantacinque anni di età, avevano la facoltà, purché avessero maturato anche i requisiti assicurativo e contributivo ventennali, di accedere, a domanda, al trattamento pensionistico di vecchiaia al compimento del sessantesimo anno di età.

1.2.4.– Tanto esposto, il Tribunale ordinario di Roma passa a esaminare la sentenza della Corte di giustizia 13 novembre 2008, in causa C-46/07, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica italiana, nonché le misure successivamente adottate dal legislatore al fine di adeguare l’ordinamento italiano a tale pronuncia.

Il rimettente rammenta che la citata sentenza della Corte di giustizia aveva statuito che la normativa italiana in forza della quale i dipendenti pubblici avevano diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse, a seconda che fossero uomini o donne, violava l’art. 141 del Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE), secondo cui «Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore» (comma 1).

Il giudice a quo ricorda quindi che, al dichiarato fine di attuare tale sentenza, l’art. 22-ter, comma 1, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, nell’intento di introdurre un meccanismo di progressivo adeguamento dell’età pensionabile delle donne a quella degli uomini, aveva aggiunto alcuni periodi al citato art. 2, comma 21, della legge n. 335 del 1995.

Poiché, peraltro, la Commissione aveva sollecitato un più rapido adeguamento alla sentenza della Corte di giustizia, il legislatore intervenne nuovamente con l’art. 12, comma 12-sexies, lettera a), del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, con cui, sostituendo il comma 1 dell’art. 22-ter del decreto-legge n. 78 del 2009, fu prevista la parificazione dell’età pensionabile delle donne a quella degli uomini dal 1° gennaio 2012. A seguito di tale ulteriore intervento normativo, l’art. 2, comma 21, della legge n. 335 del 1995, dispone attualmente: «Con effetto dal 1°(gradi) gennaio 1996, le lavoratrici iscritte alle forme esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti al compimento del sessantesimo anno di età, possono conseguire il trattamento pensionistico secondo le regole previste dai singoli ordinamenti di appartenenza per il pensionamento di vecchiaia ovvero per il collocamento a riposo per raggiunti limiti di età. A decorrere dal 1º gennaio 2010, per le predette lavoratrici il requisito anagrafico di sessanta anni di cui al primo periodo del presente comma e il requisito anagrafico di sessanta anni di cui all’articolo 1, comma 6, lettera b), della legge 23 agosto 2004, n. 243, e successive modificazioni, sono incrementati di un anno. Tali requisiti anagrafici sono ulteriormente incrementati di quattro anni dal 1º gennaio 2012 ai fini del raggiungimento dell’età di sessantacinque anni. Restano ferme la disciplina vigente in materia di decorrenza del trattamento pensionistico e le disposizioni vigenti relative a specifici ordinamenti che prevedono requisiti anagrafici più elevati, nonché le disposizioni di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 165. Le lavoratrici di cui al presente comma, che abbiano maturato entro il 31 dicembre 2009 i requisiti di età e di anzianità contributiva previsti alla predetta data ai fini del diritto all’accesso al trattamento pensionistico di vecchiaia nonché quelle che abbiano maturato entro il 31 dicembre 2011 i requisiti di età e di anzianità contributiva previsti dalla normativa vigente alla predetta data, conseguono il diritto alla prestazione pensionistica secondo la predetta normativa e possono chiedere all’ente di appartenenza la certificazione di tale diritto».

1.2.5.– Il Tribunale ordinario di Roma prosegue rappresentando che sul descritto quadro normativo si è innestata la nuova disciplina dei trattamenti pensionistici dettata dall’art. 24 del decreto-legge n. 201 del 2011, che ha previsto un generale aumento dell’età pensionabile da sessantacinque a sessantasei anni a decorrere dal 1° gennaio 2012 e che ha eliminato le pensioni di vecchiaia anticipata e di anzianità.

Il rimettente cita in particolare i commi 3, 6, lettera c), e 14 del detto art. 24.

In particolare, il comma 3 dispone che «Il lavoratore che maturi entro il 31 dicembre 2011 i requisiti di età e di anzianità contributiva, previsti dalla normativa vigente, prima della data di entrata in vigore del presente decreto, ai fini del diritto all’accesso e alla decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità, consegue il diritto alla prestazione pensionistica secondo tale normativa e può chiedere all’ente di appartenenza la certificazione di tale diritto. A decorrere dal 1°(gradi) gennaio 2012 e con riferimento ai soggetti che, nei regimi misto e contributivo, maturano i requisiti a partire dalla medesima data, le pensioni di vecchiaia, di vecchiaia anticipata e di anzianità sono sostituite dalle seguenti prestazioni: a) "pensione di vecchiaia”, conseguita esclusivamente sulla base dei requisiti di cui ai commi 6 e 7, salvo quanto stabilito ai commi 14, 15-bis e 18; b) "pensione anticipata”, conseguita esclusivamente sulla base dei requisiti di cui ai commi 10 e 11, salvo quanto stabilito ai commi 14, 15-bis, 17 e 18». Il comma 14 conferma che «Le disposizioni in materia di requisiti di accesso e di regime delle decorrenze vigenti prima della data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi ai soggetti che maturano i requisiti entro il 31 dicembre 2011». Il comma 6, lettera c), infine, prevede che «Relativamente ai soggetti di cui al comma 5 [cioè coloro che, a decorrere dal 1° gennaio 2012, maturano i requisiti per il pensionamento secondo la nuova disciplina dettata dai commi da 6 a 11 dello stesso art. 24], al fine di conseguire una convergenza verso un requisito uniforme per il conseguimento del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia tra uomini e donne e tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi, a decorrere dal 1°(gradi) gennaio 2012 i requisiti anagrafici per l’accesso alla pensione di vecchiaia sono ridefiniti nei termini di seguito indicati: […] c) per i lavoratori dipendenti e per le lavoratrici dipendenti di cui all’articolo 22-ter, comma 1, del decreto-legge 1°(gradi) luglio 2009, n. 78, convertito con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, e successive modificazioni e integrazioni, la cui pensione è liquidata a carico dell’assicurazione generale obbligatoria e delle forme sostitutive ed esclusive della medesima il requisito anagrafico di sessantacinque anni per l’accesso alla pensione di vecchiaia nel sistema misto e il requisito anagrafico di sessantacinque anni di cui all’articolo 1, comma 6, lettera b), della legge 23 agosto 2004, n. 243, e successive modificazioni, è determinato in 66 anni» (età successivamente aumentata, dal 1° gennaio 2013, a sessantasei anni e tre mesi e, dal 1° gennaio 2016, a sessantasei anni e sette mesi, dai decreti direttoriali del Ministero dell’economia e delle finanze emanati, ai sensi dell’art. 12, comma 12-bis, del decreto-legge n. 78 del 2010, rispettivamente, il 6 dicembre 2011 e il 16 dicembre 2014).

Il rimettente ricorda infine che, essendo insorti dubbi interpretativi circa le pensioni liquidabili sulla base dei requisiti vigenti alla data del 31 dicembre 2011, il legislatore ha dettato la norma di interpretazione autentica di cui all’art. 2, comma 4, del decreto-legge n. 101 del 2013, secondo cui «L’art. 24, comma 3, primo periodo, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in legge 22 dicembre 2011, n. 214, si interpreta nel senso che il conseguimento da parte di un lavoratore dipendente delle pubbliche amministrazioni di un qualsiasi diritto a pensione entro il 31 dicembre 2011 comporta obbligatoriamente l’applicazione del regime di accesso e delle decorrenze previgente rispetto all’entrata in vigore del predetto articolo 24».

1.3.– Tornando alla controversia sottoposta al proprio esame, il Tribunale ordinario di Roma osserva che la ricorrente A. C., alla data del 31 dicembre 2011, aveva già compiuto sessantuno anni di età e aveva altresì i requisiti assicurativi e contributivi ventennali, avendo maturato – come indicato da entrambe le parti in causa – trentatré anni, due mesi e un giorno di anzianità.

Ne deriva, sempre secondo il giudice a quo, che, in base all’art. 2, comma 21, della legge n. 335 del 1995 (come da ultimo modificato dall’art. 12, comma 12-sexies, del decreto-legge n. 78 del 2010), «che stabilisce in 61 anni il limite per le dipendenti pubbliche per chiedere il trattamento di pensione di vecchiaia», nonché in base al combinato disposto degli artt. 2 e 5 del d.lgs. n. 503 del 1992, che fissa in venti anni i requisiti minimi di anzianità assicurativa e contributiva per la stessa pensione, alla data del 31 dicembre 2011 la ricorrente aveva già maturato il diritto di chiedere il trattamento pensionistico di vecchiaia.

Ne conseguirebbe che la ricorrente doveva essere collocata a riposo d’ufficio al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età, a norma dell’art. 4 del d.P.R. n. 1092 del 1973, non trovando, per lei, applicazione le disposizioni di cui all’art. 24, commi 3 e 6, lettera c), secondo cui, dal 1° gennaio 2012, il diritto alla pensione di vecchiaia si acquista al raggiungimento del sessantaseiesimo anno di età.

1.4.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene che il «sistema normativo sopra indicato» faccia sorgere dubbi di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3, 11, 37, primo comma, e 117 Cost.

In effetti, considerato che l’art. 2, comma 4, del decreto-legge n. 101 del 2013 impone di interpretare l’art. 24, comma 3, primo periodo, del decreto-legge n. 201 del 2011, nel senso che i lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni che abbiano conseguito un qualsiasi diritto a pensione entro il 31 dicembre 2011 «devono essere collocati a riposo entro il limite di età stabilito dalle disposizioni previgenti, anche se lo raggiungano quando è ormai in vigore il limite generale di 66 anni», il detto «sistema normativo» determinerebbe una disparità di trattamento tra uomini e donne rispetto alle condizioni di lavoro e alla retribuzione. Il giudice a quo osserva in proposito che un lavoratore della stessa età e con la medesima anzianità assicurativa e contributiva della ricorrente, non avendo maturato, entro il 31 dicembre 2011, in quanto uomo, alcun diritto a pensione, non sarebbe collocato a riposo d’ufficio al compimento del sessantacinquesimo anno di età – come invece la ricorrente – ma solo al compimento dell’età di sessantasei anni e tre mesi, secondo la disciplina vigente nel febbraio del 2015, epoca del collocamento a riposo della ricorrente, ovvero di sessantasei anni e sette mesi, a seguito dell’ulteriore incremento operante dal 1° gennaio 2016. Ne consegue che la posizione della lavoratrice risulta deteriore rispetto a quella del lavoratore che si trovi nelle medesime condizioni di età e di anzianità assicurativa e contributiva, atteso che quest’ultimo potrà rimanere in servizio per un anno e tre (o sette) mesi in più della prima, continuando a percepire la retribuzione, anziché il (solitamente inferiore) trattamento pensionistico, incrementando posizione contributiva e anzianità di servizio, con il conseguente miglioramento del trattamento pensionistico, e percependo, al termine dell’attività, un maggiore trattamento di fine rapporto, senza trascurare i possibili sviluppi di carriera nell’arco di tempo tra il compimento del sessantacinquesimo anno di età e il collocamento a riposo.

1.4.1.– Il deteriore trattamento della lavoratrice rispetto al lavoratore contrasterebbe, anzitutto, con il principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost., in assenza di ragioni idonee a giustificare questa disparità, non potendosi, in particolare, considerare tali i possibili vantaggi per la finanza pubblica derivanti da una riduzione del personale femminile, collocato a riposo prima di quello maschile, con il riconoscimento di un trattamento pensionistico inferiore.

1.4.2.– La normativa censurata lederebbe, in secondo luogo, l’art. 37, primo comma, Cost., esplicazione del generale principio di cui all’art. 3 Cost. Tenuto anche conto di quanto ritenuto dalla Corte di giustizia nella menzionata sentenza del 13 novembre 2008, il trattamento pensionistico dei dipendenti dello Stato costituisce un regime «professionale» di previdenza sociale ed è, quindi, soggetto al principio della parità di trattamento retributivo, senza distinzioni di sesso. Il rimettente ribadisce quindi che, in base alla normativa censurata, «le donne che abbiano maturato i requisiti per poter fruire di pensione raggiungendo il 61° anno di età entro il 31.12.2011, si trovano in posizione deteriore rispetto agli uomini che abbiano raggiunto la medesima età entro lo stesso termine, non potendo continuare a lavorare per almeno altri quindici mesi e perdendo quindi la relativa retribuzione con quanto ne consegue».

1.4.3.– Il censurato combinato disposto, ponendosi in contrasto con disposizioni del diritto primario e derivato dell’Unione europea, violerebbe infine gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.

Il deteriore trattamento riservato alle lavoratrici contrasterebbe, anzitutto, con il già citato art. 157 del TFUE.

Esso si porrebbe in contrasto, in secondo luogo, con l’art. 21 della CDFUE, secondo cui «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale» (comma 1).

Lo stesso combinato disposto colliderebbe, infine, con l’art. 2 della direttiva n. 2006/54/CE, che considera «discriminazione diretta» una «situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto un’altra persona sia, sia stata o sarebbe trattata in una situazione analoga». Ribadisce ancora il rimettente che ciò si verificherebbe nella fattispecie, in cui «un impiegato che si fosse trovato nelle medesime condizioni di età e di posizione assicurativa e contributiva della ricorrente non sarebbe stato collocato a riposo ed avrebbe potuto continuare a lavorare almeno per altri quindici mesi».

Il Tribunale rimettente afferma conclusivamente sul punto che il contrasto con princìpi fondamentali dell’ordinamento dell’Unione europea si traduce in una lesione dell’art. 11 Cost., in quanto la normativa censurata «appare impedire o pregiudicare l’osservanza del Trattato in uno dei suoi principi essenziali, quale quello di non discriminazione per ragioni di sesso», mentre il contrasto con la direttiva n. 2006/54/CE si traduce in una lesione dell’art. 117, primo comma, Cost.

1.5.– In punto di rilevanza, il rimettente afferma che «la questione […] è certamente rilevante poiché la domanda sulla quale si deve giudicare trova ostacolo proprio nella normativa che impone il collocamento a riposo ad età inferiore a quella stabilita per gli uomini».

2.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o infondate.

2.1.– La difesa del Presidente del Consiglio dei ministri afferma, preliminarmente, che il giudice a quo avrebbe «erroneamente valutato positivamente il requisito della rilevanza».

Essa osserva che la ricorrente nel giudizio principale, alla data del 31 dicembre 2011, aveva conseguito il diritto alla pensione di vecchiaia sulla base della normativa vigente prima della data di entrata in vigore del decreto-legge n. 201 del 2011, il che le consentiva, con sua richiesta, di essere collocata a riposo «dopo aver "scontato” la finestra mobile» e di godere dell’assegno pensionistico di vecchiaia secondo quanto previsto dalla stessa (previgente) normativa.

Tale condizione esclude la ricorrente dall’applicazione della "nuova” normativa, modificativa dei requisiti per l’accesso al trattamento pensionistico, dettata dall’art. 24, comma 3, del decreto-legge n. 201 del 2011, non essendo configurabile, alla luce di una lettura «complessiva» dell’art. 24, una possibilità di «opzione» del dipendente per il "vecchio” o per il "nuovo” regime.

Tanto precisato, l’ Avvocatura generale dello Stato osserva che la ricorrente nel giudizio a quo è stata collocata a riposo al raggiungimento del limite ordinamentale di permanenza in servizio del compimento del sessantacinquesimo anno di età previsto dall’art. 4 del d.P.R. n. 1092 del 1973 «in quanto aveva maturato il diritto alla pensione di vecchiaia secondo la disciplina previgente e non aveva esercitato tale diritto a pensione a partire dal compimento dei 61 anni».

La stessa difesa sottolinea ancora come tale limite ordinamentale sia stato richiamato dall’art. 24, comma 4, del decreto-legge n. 201 del 2011, anche nell’ambito della "nuova” disciplina e «confermato nella sua valenza di limite». Questa conferma comporta che il dipendente che abbia conseguito un diritto alla pensione, al raggiungimento del limite ordinamentale, «deve essere collocato in quiescenza, poiché le norme non consentono la prosecuzione del rapporto».

Tale disciplina, prosegue ancora la difesa dell’interveniente, è stata ribadita dall’art. 2, commi 4 e 5, del decreto-legge n. 101 del 2013.

La stessa difesa conclude sul punto affermando che la ricorrente nel giudizio principale è stata collocata a riposo per raggiunti limiti di età al compimento del sessantacinquesimo anno «senza nessuna disparità di trattamento rispetto alle stesse posizioni attribuite ai dipendenti di sesso maschile».

2.2.– Secondo l’Avvocatura generale dello Stato le questioni sarebbero, comunque, infondate.

2.2.1.– Essa afferma anzitutto che l’art. 24 del decreto-legge n. 201 del 2011 deve essere interpretato nel senso che, per i dipendenti pubblici, il limite ordinamentale, previsto dai singoli settori di appartenenza per il collocamento a riposo d’ufficio e vigente alla data di entrata in vigore dello stesso decreto-legge n. 201 del 2011, non è stato modificato dall’elevazione dei requisiti anagrafici per la pensione di vecchiaia e costituisce un limite non superabile, se non per il trattenimento in servizio o per consentire all’interessato di conseguire la prima decorrenza utile della pensione ove essa non sia immediata, al raggiungimento del quale l’amministrazione deve far cessare il rapporto di lavoro o di impiego se il lavoratore ha conseguito, a qualsiasi titolo, i requisiti per il diritto a pensione.

La difesa del Presidente del Consiglio dei ministri asserisce: «Pertanto, il limite di età anagrafica per la permanenza in servizio dei dipendenti pubblici previsto dagli ordinamenti di settore non è modificato dalla riforma c.d. Fornero con il meccanismo dell’incremento a 66 anni e con le successive elevazioni, qualora il lavoratore abbia conseguito, a qualsiasi titolo, i requisiti contributivi minimi entro il limite di età anagrafico previsto dagli ordinamenti vigenti nei vari settori per il diritto a pensione alla data del 31.12.2011». La stessa difesa conclude sul punto affermando che, «[i]n altre parole, l’elevazione del limite a 66 anni non è né fine a se stessa né assoluta e, quindi, assume rilievo decisivo e preponderante il raggiungimento del limite d’età ordinamentale».

2.2.2.– Con riguardo al prospettato contrasto con il diritto dell’Unione europea, l’Avvocatura generale dello Stato cita l’art. 7, comma 1, lettera a), della direttiva 19 dicembre 1978, n. 79/7/CEE (Direttiva del Consiglio relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale), nonché l’interpretazione di tale disposizione fatta propria dalla sentenza della Corte di giustizia 7 luglio 1992, in causa C-9/91, The Queen contro Secretary of State for Social Security.

Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, non sarebbe, infine, condivisibile, la tesi del rimettente secondo cui, in base al diritto dell’Unione europea, il regime pensionistico dei lavoratori del pubblico impiego italiano dovrebbe qualificarsi come «professionale».

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, dubita, in riferimento agli artt. 3, 11, 37, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – l’art. 11 Cost. in relazione all’art. 141 (recte: art. 157) del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2 della direttiva 5 luglio 2006, n. 2006/54/CE, recante «Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione)» – della legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 24, comma 3 (recte: 24, comma 3, primo periodo), del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, come interpretato dall’art. 2, comma 4, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101 (Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, e dell’art. 2, comma 21, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare).

La prima di tali disposizioni individua i lavoratori per cui, ratione temporis, resta applicabile la normativa vigente anteriormente alla riforma dei trattamenti pensionistici dettata dall’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011. La seconda, con interpretazione autentica della prima, chiarisce il regime intertemporale applicabile, specificamente, ai lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni. La terza determina la normativa vigente prima della citata riforma, con riguardo alle lavoratrici iscritte al regime esclusivo della previdenza per i dipendenti pubblici. Queste disposizioni stabiliscono, in particolare, che: «Il lavoratore che maturi entro il 31 dicembre 2011 i requisiti di età e di anzianità contributiva, previsti dalla normativa vigente, prima della data di entrata in vigore del presente decreto, ai fini del diritto all’accesso e alla decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità, consegue il diritto alla prestazione pensionistica secondo tale normativa e può chiedere all’ente di appartenenza la certificazione di tale diritto» (art. 24, comma 3, primo periodo, del d.l. n. 201 del 2011). Tale disposizione «si interpreta nel senso che il conseguimento da parte di un lavoratore dipendente delle pubbliche amministrazioni di un qualsiasi diritto a pensione entro il 31 dicembre 2011 comporta obbligatoriamente l’applicazione del regime di accesso e delle decorrenze previgente rispetto all’entrata in vigore del predetto articolo 24» (art. 2, comma 4, del decreto-legge n. 101 del 2013. «Con effetto dal 1°(gradi) gennaio 1996, le lavoratrici iscritte alle forme esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti al compimento del sessantesimo anno di età, possono conseguire il trattamento pensionistico secondo le regole previste dai singoli ordinamenti di appartenenza per il pensionamento di vecchiaia ovvero per il collocamento a riposo per raggiunti limiti di età. A decorrere dal 1º gennaio 2010, per le predette lavoratrici il requisito anagrafico di sessanta anni di cui al primo periodo del presente comma e il requisito anagrafico di sessanta anni di cui all’articolo 1, comma 6, lettera b), della legge 23 agosto 2004, n. 243, e successive modificazioni, sono incrementati di un anno. […]» (art. 2, comma 21, della legge n. 335 del 1995).

Per comprendere le ragioni delle doglianze del rimettente, è necessario anzitutto evidenziare tre presupposti. Il primo è che, ai sensi dell’art. 24, comma 3, primo periodo, del d.l. n. 201 del 2011, l’applicazione della normativa pensionistica vigente prima dell’entrata in vigore di tale decreto – in luogo di quella "nuova” da esso introdotta – dipende dal fatto che il lavoratore maturi i requisiti di età e di anzianità contributiva previsti dalla stessa previgente normativa ai fini dell’accesso e della decorrenza del trattamento pensionistico entro il 31 dicembre 2011. Il secondo è che, ai sensi della disposizione di interpretazione autentica di cui all’art. 2, comma 4, del d.l. n. 101 del 2013, l’applicazione della previgente normativa è obbligatoria nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni che, alla menzionata data del 31 dicembre 2011, abbiano conseguito un qualsiasi diritto a pensione. Il terzo presupposto è che, a norma dell’art. 2, comma 21, della legge n. 335 del 1995, alla stessa data del 31 dicembre 2011, i lavoratori di sesso femminile del settore pubblico conseguivano il diritto alla pensione di vecchiaia all’età di sessantuno anni, a fronte dei sessantacinque anni di età richiesti per il conseguimento della stessa pensione da parte dei lavoratori di sesso maschile.

Muovendo da questi presupposti, il Tribunale ordinario di Roma osserva che, in presenza dei requisiti di anzianità assicurativa e contributiva per l’accesso a tale pensione, mentre alle impiegate pubbliche che abbiano raggiunto l’età di sessantuno anni entro il 31 dicembre 2011, avendo esse conseguito il diritto alla pensione di vecchiaia, si applica obbligatoriamente la normativa vigente prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 201 del 2011, agli impiegati pubblici di sesso maschile della stessa età – i quali non hanno maturato, entro la stessa data, il requisito di età (di sessantacinque anni) per l’accesso al medesimo diritto – si applica, invece, la "nuova” disciplina dell’art. 24 del d.l. n. 101 del 2011. Da ciò discendono le doglianze del rimettente. Mentre le impiegate pubbliche, in applicazione della normativa vigente prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 201 del 2011, in particolare, della regola "ordinamentale” di cui all’art. 4, primo comma, del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), devono essere collocate a riposo «al compimento del sessantacinquesimo anno di età», gli impiegati pubblici di sesso maschile che si trovino in una situazione analoga, in applicazione della "nuova” normativa pensionistica, sono invece collocati a riposo, sempre secondo il rimettente, all’età di sessantasei anni (successivamente elevata a sessantasei anni e tre mesi a decorrere dal 1° gennaio 2013 e a sessantasei anni e sette mesi a decorrere dal 1° gennaio 2016).

Ad avviso del giudice a quo, la normativa denunciata víola dunque gli invocati parametri «nella misura in cui […] impone il collocamento a riposo al raggiungimento del 65° anno di età delle impiegate che abbiano maturato i requisiti per il conseguimento della pensione con il raggiungimento del 61° anno di età e di venti anni di contribuzione alla data del 31 dicembre 2011, laddove gli impiegati, che si trovino nella medesima condizione lavorativa, sono collocati a riposo al raggiungimento dell’età di 66 anni e tre mesi/sette mesi».

In considerazione del ritenuto deteriore trattamento delle impiegate pubbliche rispetto agli impiegati pubblici di sesso maschile riguardo all’età del collocamento a riposo, il Tribunale rimettente prospetta la violazione di quattro parametri costituzionali. La normativa censurata lederebbe: l’art. 3 Cost., che sancisce il principio dell’eguaglianza davanti alla legge, senza distinzione di sesso; l’art. 37, primo comma, Cost., che stabilisce il principio della parità di retribuzione, a parità di lavoro, della donna lavoratrice rispetto al lavoratore; l’art. 11 Cost., stante il contrasto sia con l’art. 157 TFUE, secondo cui «Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore» (comma 1), sia con l’art. 21 CDFUE, che vieta «qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso»; l’art. 117, primo comma, Cost., atteso il contrasto con l’art. 2 della direttiva n. 2006/54/CE, là dove definisce «discriminazione diretta», una «situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto un’altra persona sia, sia stata o sarebbe trattata in una situazione analoga» (comma 1, lettera a).

2.– Preliminarmente, deve essere esaminata l’eccezione della difesa del Presidente del Consiglio dei ministri secondo cui le questioni sollevate sarebbero inammissibili, poiché il giudice rimettente avrebbe «erroneamente valutato positivamente il requisito della rilevanza».

L’eccezione non è fondata.

Il rimettente riferisce di essere investito del ricorso proposto da un’impiegata del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo che, alla data del 31 dicembre 2011, aveva già maturato i requisiti di età e di anzianità assicurativa e contributiva per la pensione di vecchiaia, e che la stessa lavoratrice, collocata a riposo al compimento del sessantacinquesimo anno di età, ha chiesto l’accertamento del suo diritto a rimanere in servizio fino all’età di sessantasei anni e tre mesi corrispondente alla superiore età che sarebbe prevista per il collocamento a riposo degli impiegati di sesso maschile con la stessa età anagrafica e le stesse anzianità assicurativa e contributiva.

Lo stesso giudice a quo afferma poi che l’accoglimento della domanda trova ostacolo nelle disposizioni impugnate, che impongono il collocamento a riposo della ricorrente all’età di sessantacinque anni.

A quest’ultimo proposito, alla luce del tenore letterale di tali disposizioni, non risulta implausibile la valutazione del rimettente secondo cui, proprio in ragione del combinato disposto delle stesse, la ricorrente nel giudizio a quo, avendo maturato, alla data del 31 dicembre 2011, i requisiti di età e di anzianità assicurativa e contributiva per la pensione di vecchiaia – e non avendo ancora esercitato il diritto a tale pensione – deve essere collocata a riposo secondo le regole previste dal proprio ordinamento di appartenenza e, quindi, ai sensi dell’art. 4, primo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973, all’età di sessantacinque anni. Da ciò deriva l’impossibilità di accogliere la sua domanda di rimanere in servizio fino all’età di sessantasei anni e tre mesi, prevista, in assunto, per il collocamento a riposo di un impiegato pubblico di sesso maschile che si trovi in una situazione analoga.

Tenuto conto della giurisprudenza di questa Corte circa la sufficienza di una motivazione non implausibile sulla rilevanza (tra le più recenti, sentenze n. 203, n. 200 e n. 133 del 2016), l’eccezione di inammissibilità delle questioni sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato deve essere, quindi, rigettata.

3.– Le questioni sono tuttavia, inammissibili per i motivi di seguito illustrati. È preliminare la considerazione del fatto che il rimettente, nel sollevare le questioni relative alla violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., ha prospettato il contrasto con norme di diritto dell’Unione europea, alcune delle quali sicuramente provviste di efficacia diretta.

In particolare, il principio di parità retributiva tra uomini e donne, incardinato nel Trattato di Roma fin dall’istituzione della Comunità economica europea come principio fondante del mercato comune nonché come uno degli «scopi sociali della Comunità, […] che […] non si limita all’unione economica» (Corte di giustizia, sentenza 8 aprile 1976, in causa C-43-75, Gabrielle Defrenne contro Sabena, punti da 7 a 15), è stato ritenuto dalla stessa Corte di giustizia vincolante per i soggetti pubblici e privati, perché volto a impedire pratiche discriminatorie lesive della libera concorrenza e dei diritti fondamentali dei lavoratori. L’efficacia diretta di tale principio, sancita con la citata sentenza Defrenne (punti 4/40) e ribadita nel corso degli anni dalla Corte di Lussemburgo (ex plurimis, sentenze: 27 marzo 1980, in causa 129/79, Macarthys LTD contro Wendy Smith, punto 10; 31 marzo 1981, in causa 96/80, J.P. Jenkins contro Kingsgate LTD, punti da 16 a 18; 7 febbraio 1991, in causa C-184/89, Helga Nimz contro Freie und Hansestadt Hamburg, punto 17), fa nascere per il giudice nazionale l’obbligo di non applicare la norma di diritto interno confliggente con il diritto europeo. La stessa Corte di giustizia ha altresì precisato come l’efficacia diretta del principio della parità di retribuzione non possa essere intaccata da alcuna normativa di attuazione, sia essa nazionale o comunitaria (in tale senso, le citate sentenze Defrenne, punti 61/64, e Jenkins, punto 22).

Questo principio è stato poi corroborato dall’evolvere del quadro normativo: l’Unione «promuove» la parità tra donne e uomini (art. 3, comma 3, del Trattato sull’Unione europea) e conferma un tale impegno nelle sue «azioni» (art. 8 TFUE).

Anche l’art. 21 della CDFUE vieta «qualsiasi forma di discriminazione fondata […] sul sesso», mentre l’art. 23 della stessa Carta dispone che «La parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione». Entrambe queste norme in tanto si possono richiamare in quanto si verta in una materia di attuazione, da parte dello Stato, del diritto dell’Unione, secondo le rispettive competenze (art. 51, comma 1, della medesima CDFUE).

Il giudice rimettente, ritenendo che la normativa censurata contrasti con l’art. 157 del TFUE, anche alla luce della citata giurisprudenza della Corte di giustizia che ha riconosciuto a tale norma efficacia diretta, avrebbe dovuto non applicare le disposizioni in conflitto con il principio di parità di trattamento, previo ricorso, se del caso, al rinvio pregiudiziale, ove ritenuto necessario, al fine di interrogare la medesima Corte di giustizia sulla corretta interpretazione delle pertinenti disposizioni del diritto dell’Unione e, quindi, dirimere eventuali residui dubbi in ordine all’esistenza del conflitto (sentenze n. 226 del 2014, n. 267 del 2013, n. 86 e n. 75 del 2012, n. 227 e n. 28 del 2010, n. 284 del 2007; ordinanze n. 48 del 2017 e n. 207 del 2013). Questo percorso, una volta imboccato, avrebbe reso superflua l’evocazione del contrasto con i parametri costituzionali in sede di incidente di legittimità costituzionale. L’art. 157 del TFUE, direttamente applicabile dal giudice nazionale, lo vincola all’osservanza del diritto europeo, rendendo inapplicabile nel giudizio principale la normativa censurata e, perciò, irrilevanti tutte le questioni sollevate.

La non applicazione delle disposizioni di diritto interno, non equiparabile in alcun modo a ipotesi di abrogazione o di deroga, né a forme di caducazione o di annullamento per invalidità delle stesse (sentenza n. 389 del 1989), rientra, in effetti, tra gli obblighi del giudice nazionale, vincolato all’osservanza del diritto dell’Unione europea e alla garanzia dei diritti che lo stesso ha generato, con il solo limite del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona.

4.– Si deve aggiungere che la complessità della materia, così come emerge dalle disposizioni censurate e dal quadro normativo in cui esse si inseriscono, avrebbe potuto tanto più indirizzare il giudice rimettente verso la strada del rinvio pregiudiziale, al fine di verificare l’effettiva incompatibilità della normativa interna con il diritto a una effettiva parità di trattamento tra lavoratori uomini e donne.

In tale prospettiva, anziché muovere dall’assunto secondo cui il limite di età per il collocamento a riposo degli impiegati pubblici, a decorrere dal 1° gennaio 2012, sarebbe stato elevato dall’art. 24 del decreto-legge n. 201 del 2011 a sessantasei anni, il giudice a quo ben avrebbe potuto considerare che, come precisato dalla disposizione di interpretazione autentica di cui all’art. 2, comma 5, del decreto-legge n. 101 del 2013, il detto limite di età continua ad assestarsi, sia per gli uomini sia per le donne, al compimento del sessantacinquesimo anno di età, «limite ordinamentale» stabilito dall’art. 4, primo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973, per il collocamento a riposo degli impiegati civili dello Stato.

Ciò nonostante, il dipendente pubblico che, raggiunti i sessantacinque anni, non abbia maturato i requisiti di età (o di anzianità contributiva) per conseguire il diritto alla pensione, può, secondo lo stesso art. 2, comma 5, del decreto-legge n. 101 del 2013, chiedere di rimanere in servizio anche oltre l’età di collocamento a riposo, fino al conseguimento del requisito anagrafico per il diritto alla pensione di vecchiaia e, quindi, per i lavoratori di sesso maschile che si trovino in una situazione analoga a quella della ricorrente nel giudizio a quo, fino all’età di sessantasei anni e tre mesi.

La coincidenza dell’estinzione del rapporto di lavoro con la diversa età pensionabile di uomini e donne potrebbe lasciar intravvedere una discriminazione a danno di queste ultime e un potenziale contrasto con disposizioni di diritto dell’Unione europea (Corte di giustizia, sentenze 26 febbraio 1986, in causa 262/84, Vera Mia Beets-Proper contro F. Van Lanschot Bankiers NV, punti 34-35, e 18 novembre 2010, in causa C-356/09, Pensionversicherungsanstalt contro Christine Kleist, punto 46).

Il diritto europeo secondario, in particolare, la direttiva n. 2006/54/CE – che, in maniera riduttiva, il rimettente richiama per la sola definizione di discriminazione diretta – specifica, del resto, che nelle disposizioni contrarie al principio della parità di trattamento sono da includere quelle che si basano sul sesso per «stabilire limiti di età differenti per il collocamento a riposo» (art. 9, comma 1, lettera f, inserito nel Capo 2, dedicato alla «Parità di trattamento nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale») e che è vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto attiene «all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione come previsto dall’art. 141 del trattato» (art. 14, comma 1, lettera c, inserito, invece, nel Capo 3, dedicato alla «Parità di trattamento per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro»).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 24, comma 3, primo periodo, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, come interpretato dall’art. 2, comma 4, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101 (Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, e dell’art. 2, comma 21, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), sollevate dal Tribunale ordinario di Roma, in riferimento agli artt. 3, 11, 37, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 157 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e all’art. 2 della direttiva 5 luglio 2006, n. 2006/54/CE, recante «Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione)», con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 aprile 2017.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Silvana SCIARRA, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 maggio 2017.