SENTENZA N. 111
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
-
Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
-
Giancarlo CORAGGIO ”
-
Giuliano AMATO ”
-
Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
-
Nicolò ZANON ”
-
Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
-
Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale del combinato disposto dell’art. 24, comma 3, primo periodo, del
decreto-legge
6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge
22 dicembre 2011, n. 214, come interpretato dall’art. 2, comma 4, del decreto-legge
31 agosto 2013, n. 101 (Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi
di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni), convertito, con modificazioni,
dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, e dell’art. 2, comma 21, della legge
8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e
complementare), promosso dal Tribunale ordinario di Roma, nel procedimento
vertente tra A. C. e il Ministero dei beni e delle attività culturali e del
turismo, con ordinanza
del 7 aprile 2016, iscritta al n. 207 del registro ordinanze 2016 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale,
dell’anno 2016.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio
dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 5 aprile 2017 il
Giudice relatore Silvana Sciarra.
Ritenuto in fatto
1.– Il Tribunale ordinario di Roma, in
composizione monocratica e in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del
7 aprile 2016, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 11, 37, primo comma, e 117, primo comma, della
Costituzione – l’art. 11 Cost. in relazione all’art. 141 (recte: art. 157) del Trattato
sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea (CDFUE) e l’art. 117, primo comma,
Cost., in relazione all’art. 2 della direttiva
5 luglio 2006, n. 2006/54/CE, recante «Direttiva del Parlamento europeo e del
Consiglio riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della
parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego
(rifusione)» – questioni di legittimità costituzionale del combinato
disposto dell’art. 24, comma 3 (recte: 24, comma 3,
primo periodo), del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti
per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito,
con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, come interpretato
dall’art. 2, comma 4, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101 (Disposizioni
urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche
amministrazioni), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013,
n. 125, e dell’art. 2, comma 21, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del
sistema pensionistico obbligatorio e complementare), «nella misura in cui detto
combinato disposto impone il collocamento a riposo al raggiungimento del 65°
anno di età delle impiegate che abbiano maturato i requisiti per il
conseguimento della pensione con il raggiungimento del 61° anno di età e di
venti anni di contribuzione alla data del 31 dicembre 2011, laddove gli
impiegati, che si trovino nella medesima condizione lavorativa, sono collocati
a riposo al raggiungimento dell’età di 66 anni e tre mesi/sette mesi».
1.1.– Il Tribunale rimettente riferisce
in punto di fatto che, con ricorso depositato il 7 maggio 2015, la ricorrente
A. C., nata il 28 gennaio 1950, esponeva di avere prestato servizio alle
dipendenze del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, con
incarico di funzionario bibliotecario e che, con provvedimento del 17 dicembre
2014, detto Ministero aveva disposto il suo collocamento a riposo dal 1°
febbraio 2015, nonostante ella avesse diffidato l’amministrazione a trattenerla
in servizio fino al raggiungimento dell’età di sessantasei anni e tre mesi;
sosteneva che, non avendo maturato, alla data del 31 dicembre 2011, alcuno dei
requisiti per il pensionamento dei dipendenti pubblici, aveva diritto, a norma
dell’art. 24 del decreto-legge n. 201 del 2011, a rimanere in servizio fino al
compimento dell’età di sessantasei anni e tre mesi, come previsto, per tutti i
dipendenti, a decorrere dal 1° gennaio 2012; chiedeva pertanto che fosse
accertato il proprio diritto a essere trattenuta in servizio fino al
raggiungimento dell’età di sessantasei anni e tre mesi e che, conseguentemente,
il convenuto Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo fosse
condannato a trattenerla in servizio e, per l’effetto, a reintegrarla
nell’incarico di funzionario bibliotecario. Lo stesso rimettente riferisce
altresì che il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo si
era costituito in giudizio il 30 ottobre 2015, sostenendo che la ricorrente non
rientrasse tra i soggetti che maturano i requisiti per il pensionamento a
decorrere dal 1° gennaio 2012, giacché la stessa, alla data del 31 dicembre
2011, avendo trentatré anni e due mesi di contribuzione e avendo raggiunto il
sessantunesimo anno di età, aveva già maturato i requisiti per il pensionamento
di anzianità.
1.2.– Il rimettente ricostruisce poi il
complesso quadro normativo in cui le disposizioni censurate si inseriscono.
1.2.1.– Il Tribunale ordinario di Roma
espone anzitutto la normativa dettata, nel regime dell’assicurazione generale
obbligatoria e per le forme di previdenza sostitutive ed esclusive di tale
assicurazione, in tema di età e di requisiti assicurativi e contributivi per il
pensionamento di vecchiaia.
Quanto all’età, l’art. 1, comma 1, del
decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del
sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo
3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), stabilisce che «Il diritto alla
pensione di vecchiaia a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per
l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti è
subordinato al compimento dell’età indicata, per ciascun periodo, nella tabella
A allegata»; tabella che, come sostituta, ai sensi dell’art. 11, comma 1, della
legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza
pubblica), dalla tabella A allegata a tale legge, a decorrere dal 1° gennaio
2000, fissava l’età richiesta per il pensionamento di vecchiaia in 65 anni per
gli uomini e in 60 anni per le donne. Quanto ai requisiti assicurativi e
contributivi, l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 503 del 1992 stabilisce che «Nel
regime dell’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti ed
i lavoratori autonomi il diritto alla pensione di vecchiaia è riconosciuto
quando siano trascorsi almeno venti anni dall’inizio dell’assicurazione e
risultino versati o accreditati in favore dell’assicurato almeno venti anni di
contribuzione, fermi restando i requisiti previsti dalla previgente normativa
per le pensioni ai superstiti».
Tale regime dell’assicurazione generale
obbligatoria è stato esteso, dagli artt. 5, comma 1, e 6, comma 1, dello stesso
d.lgs. n. 503 del 1992, anche alle forme di previdenza diverse da quella
generale per i lavoratori subordinati privati e, quindi, anche alla previdenza
dei dipendenti pubblici.
1.2.2.– Il rimettente richiama poi
l’art. 2, comma 21, della legge n. 335 del 1995, nel suo testo originario –
secondo cui, «Con effetto dal 1°(gradi) gennaio 1996, le lavoratrici iscritte
alle forme esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità,
la vecchiaia e i superstiti al compimento del sessantesimo anno di età, possono
conseguire il trattamento pensionistico secondo le regole previste dai singoli
ordinamenti di appartenenza per il pensionamento di vecchiaia ovvero per il
collocamento a riposo per raggiunti limiti di età» – osservando come tale
disposizione non avesse modificato la disciplina del collocamento a riposo per
raggiunti limiti di età, previsto, per gli impiegati, dall’art. 4, comma 1, del
decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione
del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili
e militari dello Stato), al compimento del sessantacinquesimo anno di età,
senza distinzione tra uomini e donne.
1.2.3.– Il giudice a quo afferma quindi
che le impiegate, fermo restando il loro collocamento a riposo al
raggiungimento del detto limite massimo di sessantacinque anni di età, avevano
la facoltà, purché avessero maturato anche i requisiti assicurativo e
contributivo ventennali, di accedere, a domanda, al trattamento pensionistico
di vecchiaia al compimento del sessantesimo anno di età.
1.2.4.– Tanto esposto, il Tribunale
ordinario di Roma passa a esaminare la sentenza
della Corte di giustizia 13 novembre 2008, in causa C-46/07, Commissione delle
Comunità europee contro Repubblica italiana, nonché le misure
successivamente adottate dal legislatore al fine di adeguare l’ordinamento
italiano a tale pronuncia.
Il rimettente rammenta che la citata
sentenza della Corte di giustizia aveva statuito che la normativa italiana in
forza della quale i dipendenti pubblici avevano diritto a percepire la pensione
di vecchiaia a età diverse, a seconda che fossero uomini o donne, violava
l’art. 141 del Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE), secondo cui
«Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di
retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per
uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore» (comma 1).
Il giudice a quo ricorda quindi che, al
dichiarato fine di attuare tale sentenza, l’art. 22-ter, comma 1, del
decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di
termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102,
nell’intento di introdurre un meccanismo di progressivo adeguamento dell’età
pensionabile delle donne a quella degli uomini, aveva aggiunto alcuni periodi
al citato art. 2, comma 21, della legge n. 335 del 1995.
Poiché, peraltro, la Commissione aveva
sollecitato un più rapido adeguamento alla sentenza della Corte di giustizia,
il legislatore intervenne nuovamente con l’art. 12, comma 12-sexies, lettera
a), del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con
modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, con cui, sostituendo il
comma 1 dell’art. 22-ter del decreto-legge n. 78 del 2009, fu prevista la
parificazione dell’età pensionabile delle donne a quella degli uomini dal 1°
gennaio 2012. A seguito di tale ulteriore intervento normativo, l’art. 2, comma
21, della legge n. 335 del 1995, dispone attualmente: «Con effetto dal
1°(gradi) gennaio 1996, le lavoratrici iscritte alle forme esclusive
dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i
superstiti al compimento del sessantesimo anno di età, possono conseguire il
trattamento pensionistico secondo le regole previste dai singoli ordinamenti di
appartenenza per il pensionamento di vecchiaia ovvero per il collocamento a
riposo per raggiunti limiti di età. A decorrere dal 1º gennaio 2010, per le
predette lavoratrici il requisito anagrafico di sessanta anni di cui al primo
periodo del presente comma e il requisito anagrafico di sessanta anni di cui
all’articolo 1, comma 6, lettera b), della legge 23 agosto 2004, n. 243, e
successive modificazioni, sono incrementati di un anno. Tali requisiti
anagrafici sono ulteriormente incrementati di quattro anni dal 1º gennaio 2012
ai fini del raggiungimento dell’età di sessantacinque anni. Restano ferme la
disciplina vigente in materia di decorrenza del trattamento pensionistico e le
disposizioni vigenti relative a specifici ordinamenti che prevedono requisiti
anagrafici più elevati, nonché le disposizioni di cui all’articolo 2 del
decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 165. Le lavoratrici di cui al presente
comma, che abbiano maturato entro il 31 dicembre 2009 i requisiti di età e di
anzianità contributiva previsti alla predetta data ai fini del diritto
all’accesso al trattamento pensionistico di vecchiaia nonché quelle che abbiano
maturato entro il 31 dicembre 2011 i requisiti di età e di anzianità
contributiva previsti dalla normativa vigente alla predetta data, conseguono il
diritto alla prestazione pensionistica secondo la predetta normativa e possono
chiedere all’ente di appartenenza la certificazione di tale diritto».
1.2.5.– Il Tribunale ordinario di Roma
prosegue rappresentando che sul descritto quadro normativo si è innestata la
nuova disciplina dei trattamenti pensionistici dettata dall’art. 24 del
decreto-legge n. 201 del 2011, che ha previsto un generale aumento dell’età
pensionabile da sessantacinque a sessantasei anni a decorrere dal 1° gennaio
2012 e che ha eliminato le pensioni di vecchiaia anticipata e di anzianità.
Il rimettente cita in particolare i
commi 3, 6, lettera c), e 14 del detto art. 24.
In particolare, il comma 3 dispone che
«Il lavoratore che maturi entro il 31 dicembre 2011 i requisiti di età e di
anzianità contributiva, previsti dalla normativa vigente, prima della data di
entrata in vigore del presente decreto, ai fini del diritto all’accesso e alla
decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità, consegue
il diritto alla prestazione pensionistica secondo tale normativa e può chiedere
all’ente di appartenenza la certificazione di tale diritto. A decorrere dal
1°(gradi) gennaio 2012 e con riferimento ai soggetti che, nei regimi misto e
contributivo, maturano i requisiti a partire dalla medesima data, le pensioni
di vecchiaia, di vecchiaia anticipata e di anzianità sono sostituite dalle
seguenti prestazioni: a) "pensione di vecchiaia”, conseguita esclusivamente
sulla base dei requisiti di cui ai commi 6 e 7, salvo quanto stabilito ai commi
14, 15-bis e 18; b) "pensione anticipata”, conseguita esclusivamente sulla base
dei requisiti di cui ai commi 10 e 11, salvo quanto stabilito ai commi 14,
15-bis, 17 e 18». Il comma 14 conferma che «Le disposizioni in materia di
requisiti di accesso e di regime delle decorrenze vigenti prima della data di
entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi ai soggetti che
maturano i requisiti entro il 31 dicembre 2011». Il comma 6, lettera c),
infine, prevede che «Relativamente ai soggetti di cui al comma 5 [cioè coloro
che, a decorrere dal 1° gennaio 2012, maturano i requisiti per il pensionamento
secondo la nuova disciplina dettata dai commi da 6 a 11 dello stesso art. 24],
al fine di conseguire una convergenza verso un requisito uniforme per il
conseguimento del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia tra uomini
e donne e tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi, a decorrere dal
1°(gradi) gennaio 2012 i requisiti anagrafici per l’accesso alla pensione di
vecchiaia sono ridefiniti nei termini di seguito indicati: […] c) per i
lavoratori dipendenti e per le lavoratrici dipendenti di cui all’articolo
22-ter, comma 1, del decreto-legge 1°(gradi) luglio 2009, n. 78, convertito con
modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, e successive modificazioni e
integrazioni, la cui pensione è liquidata a carico dell’assicurazione generale
obbligatoria e delle forme sostitutive ed esclusive della medesima il requisito
anagrafico di sessantacinque anni per l’accesso alla pensione di vecchiaia nel
sistema misto e il requisito anagrafico di sessantacinque anni di cui
all’articolo 1, comma 6, lettera b), della legge 23 agosto 2004, n. 243, e
successive modificazioni, è determinato in 66 anni» (età successivamente
aumentata, dal 1° gennaio 2013, a sessantasei anni e tre mesi e, dal 1° gennaio
2016, a sessantasei anni e sette mesi, dai decreti direttoriali del Ministero
dell’economia e delle finanze emanati, ai sensi dell’art. 12, comma 12-bis, del
decreto-legge n. 78 del 2010, rispettivamente, il 6 dicembre 2011 e il 16
dicembre 2014).
Il rimettente ricorda infine che,
essendo insorti dubbi interpretativi circa le pensioni liquidabili sulla base
dei requisiti vigenti alla data del 31 dicembre 2011, il legislatore ha dettato
la norma di interpretazione autentica di cui all’art. 2, comma 4, del
decreto-legge n. 101 del 2013, secondo cui «L’art. 24, comma 3, primo periodo,
del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in legge 22 dicembre
2011, n. 214, si interpreta nel senso che il conseguimento da parte di un
lavoratore dipendente delle pubbliche amministrazioni di un qualsiasi diritto a
pensione entro il 31 dicembre 2011 comporta obbligatoriamente l’applicazione
del regime di accesso e delle decorrenze previgente rispetto all’entrata in
vigore del predetto articolo 24».
1.3.– Tornando alla controversia
sottoposta al proprio esame, il Tribunale ordinario di Roma osserva che la
ricorrente A. C., alla data del 31 dicembre 2011, aveva già compiuto sessantuno
anni di età e aveva altresì i requisiti assicurativi e contributivi ventennali,
avendo maturato – come indicato da entrambe le parti in causa – trentatré anni,
due mesi e un giorno di anzianità.
Ne deriva, sempre secondo il giudice a
quo, che, in base all’art. 2, comma 21, della legge n. 335 del 1995 (come da
ultimo modificato dall’art. 12, comma 12-sexies, del decreto-legge n. 78 del
2010), «che stabilisce in 61 anni il limite per le dipendenti pubbliche per
chiedere il trattamento di pensione di vecchiaia», nonché in base al combinato
disposto degli artt. 2 e 5 del d.lgs. n. 503 del 1992, che fissa in venti anni
i requisiti minimi di anzianità assicurativa e contributiva per la stessa
pensione, alla data del 31 dicembre 2011 la ricorrente aveva già maturato il
diritto di chiedere il trattamento pensionistico di vecchiaia.
Ne conseguirebbe che la ricorrente
doveva essere collocata a riposo d’ufficio al raggiungimento del sessantacinquesimo
anno di età, a norma dell’art. 4 del d.P.R. n. 1092 del 1973, non trovando, per
lei, applicazione le disposizioni di cui all’art. 24, commi 3 e 6, lettera c),
secondo cui, dal 1° gennaio 2012, il diritto alla pensione di vecchiaia si
acquista al raggiungimento del sessantaseiesimo anno di età.
1.4.– In punto di non manifesta
infondatezza, il rimettente ritiene che il «sistema normativo sopra indicato»
faccia sorgere dubbi di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3,
11, 37, primo comma, e 117 Cost.
In effetti, considerato che l’art. 2,
comma 4, del decreto-legge n. 101 del 2013 impone di interpretare l’art. 24,
comma 3, primo periodo, del decreto-legge n. 201 del 2011, nel senso che i lavoratori
dipendenti delle pubbliche amministrazioni che abbiano conseguito un qualsiasi
diritto a pensione entro il 31 dicembre 2011 «devono essere collocati a riposo
entro il limite di età stabilito dalle disposizioni previgenti, anche se lo
raggiungano quando è ormai in vigore il limite generale di 66 anni», il detto
«sistema normativo» determinerebbe una disparità di trattamento tra uomini e
donne rispetto alle condizioni di lavoro e alla retribuzione. Il giudice a quo
osserva in proposito che un lavoratore della stessa età e con la medesima
anzianità assicurativa e contributiva della ricorrente, non avendo maturato,
entro il 31 dicembre 2011, in quanto uomo, alcun diritto a pensione, non
sarebbe collocato a riposo d’ufficio al compimento del sessantacinquesimo anno
di età – come invece la ricorrente – ma solo al compimento dell’età di
sessantasei anni e tre mesi, secondo la disciplina vigente nel febbraio del
2015, epoca del collocamento a riposo della ricorrente, ovvero di sessantasei
anni e sette mesi, a seguito dell’ulteriore incremento operante dal 1° gennaio
2016. Ne consegue che la posizione della lavoratrice risulta deteriore rispetto
a quella del lavoratore che si trovi nelle medesime condizioni di età e di
anzianità assicurativa e contributiva, atteso che quest’ultimo potrà rimanere
in servizio per un anno e tre (o sette) mesi in più della prima, continuando a
percepire la retribuzione, anziché il (solitamente inferiore) trattamento
pensionistico, incrementando posizione contributiva e anzianità di servizio,
con il conseguente miglioramento del trattamento pensionistico, e percependo,
al termine dell’attività, un maggiore trattamento di fine rapporto, senza
trascurare i possibili sviluppi di carriera nell’arco di tempo tra il
compimento del sessantacinquesimo anno di età e il collocamento a riposo.
1.4.1.– Il deteriore trattamento della
lavoratrice rispetto al lavoratore contrasterebbe, anzitutto, con il principio
di eguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost., in assenza di ragioni idonee a
giustificare questa disparità, non potendosi, in particolare, considerare tali
i possibili vantaggi per la finanza pubblica derivanti da una riduzione del
personale femminile, collocato a riposo prima di quello maschile, con il
riconoscimento di un trattamento pensionistico inferiore.
1.4.2.– La normativa censurata
lederebbe, in secondo luogo, l’art. 37, primo comma, Cost., esplicazione del
generale principio di cui all’art. 3 Cost. Tenuto anche conto di quanto
ritenuto dalla Corte di giustizia nella menzionata sentenza
del 13 novembre 2008, il trattamento pensionistico dei dipendenti dello
Stato costituisce un regime «professionale» di previdenza sociale ed è, quindi,
soggetto al principio della parità di trattamento retributivo, senza
distinzioni di sesso. Il rimettente ribadisce quindi che, in base alla
normativa censurata, «le donne che abbiano maturato i requisiti per poter
fruire di pensione raggiungendo il 61° anno di età entro il 31.12.2011, si
trovano in posizione deteriore rispetto agli uomini che abbiano raggiunto la
medesima età entro lo stesso termine, non potendo continuare a lavorare per
almeno altri quindici mesi e perdendo quindi la relativa retribuzione con
quanto ne consegue».
1.4.3.– Il censurato combinato disposto,
ponendosi in contrasto con disposizioni del diritto primario e derivato
dell’Unione europea, violerebbe infine gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.
Il deteriore trattamento riservato alle
lavoratrici contrasterebbe, anzitutto, con il già citato art. 157 del TFUE.
Esso si porrebbe in contrasto, in
secondo luogo, con l’art. 21 della CDFUE, secondo cui «È vietata qualsiasi
forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il
colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche,
la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di
qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il
patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale» (comma
1).
Lo stesso combinato disposto colliderebbe,
infine, con l’art. 2 della direttiva n. 2006/54/CE, che considera
«discriminazione diretta» una «situazione nella quale una persona è trattata
meno favorevolmente in base al sesso di quanto un’altra persona sia, sia stata
o sarebbe trattata in una situazione analoga». Ribadisce ancora il rimettente
che ciò si verificherebbe nella fattispecie, in cui «un impiegato che si fosse
trovato nelle medesime condizioni di età e di posizione assicurativa e
contributiva della ricorrente non sarebbe stato collocato a riposo ed avrebbe
potuto continuare a lavorare almeno per altri quindici mesi».
Il Tribunale rimettente afferma
conclusivamente sul punto che il contrasto con princìpi
fondamentali dell’ordinamento dell’Unione europea si traduce in una lesione
dell’art. 11 Cost., in quanto la normativa censurata «appare impedire o
pregiudicare l’osservanza del Trattato in uno dei suoi principi essenziali,
quale quello di non discriminazione per ragioni di sesso», mentre il contrasto
con la direttiva n. 2006/54/CE si traduce in una lesione dell’art. 117, primo
comma, Cost.
1.5.– In punto di rilevanza, il
rimettente afferma che «la questione […] è certamente rilevante poiché la
domanda sulla quale si deve giudicare trova ostacolo proprio nella normativa
che impone il collocamento a riposo ad età inferiore a quella stabilita per gli
uomini».
2.– È intervenuto nel giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate
inammissibili o infondate.
2.1.– La difesa del Presidente del
Consiglio dei ministri afferma, preliminarmente, che il giudice a quo avrebbe
«erroneamente valutato positivamente il requisito della rilevanza».
Essa osserva che la ricorrente nel
giudizio principale, alla data del 31 dicembre 2011, aveva conseguito il
diritto alla pensione di vecchiaia sulla base della normativa vigente prima
della data di entrata in vigore del decreto-legge n. 201 del 2011, il che le
consentiva, con sua richiesta, di essere collocata a riposo «dopo aver
"scontato” la finestra mobile» e di godere dell’assegno pensionistico di
vecchiaia secondo quanto previsto dalla stessa (previgente) normativa.
Tale condizione esclude la ricorrente
dall’applicazione della "nuova” normativa, modificativa dei requisiti per
l’accesso al trattamento pensionistico, dettata dall’art. 24, comma 3, del
decreto-legge n. 201 del 2011, non essendo configurabile, alla luce di una
lettura «complessiva» dell’art. 24, una possibilità di «opzione» del dipendente
per il "vecchio” o per il "nuovo” regime.
Tanto precisato, l’ Avvocatura generale
dello Stato osserva che la ricorrente nel giudizio a quo è stata collocata a
riposo al raggiungimento del limite ordinamentale di
permanenza in servizio del compimento del sessantacinquesimo anno di età
previsto dall’art. 4 del d.P.R. n. 1092 del 1973 «in quanto aveva maturato il
diritto alla pensione di vecchiaia secondo la disciplina previgente e non aveva
esercitato tale diritto a pensione a partire dal compimento dei 61 anni».
La stessa difesa sottolinea ancora come
tale limite ordinamentale sia stato richiamato
dall’art. 24, comma 4, del decreto-legge n. 201 del 2011, anche nell’ambito
della "nuova” disciplina e «confermato nella sua valenza di limite». Questa conferma
comporta che il dipendente che abbia conseguito un diritto alla pensione, al
raggiungimento del limite ordinamentale, «deve essere
collocato in quiescenza, poiché le norme non consentono la prosecuzione del
rapporto».
Tale disciplina, prosegue ancora la
difesa dell’interveniente, è stata ribadita dall’art. 2, commi 4 e 5, del
decreto-legge n. 101 del 2013.
La stessa difesa conclude sul punto
affermando che la ricorrente nel giudizio principale è stata collocata a riposo
per raggiunti limiti di età al compimento del sessantacinquesimo anno «senza
nessuna disparità di trattamento rispetto alle stesse posizioni attribuite ai
dipendenti di sesso maschile».
2.2.– Secondo l’Avvocatura generale
dello Stato le questioni sarebbero, comunque, infondate.
2.2.1.– Essa afferma anzitutto che
l’art. 24 del decreto-legge n. 201 del 2011 deve essere interpretato nel senso
che, per i dipendenti pubblici, il limite ordinamentale,
previsto dai singoli settori di appartenenza per il collocamento a riposo
d’ufficio e vigente alla data di entrata in vigore dello stesso decreto-legge
n. 201 del 2011, non è stato modificato dall’elevazione dei requisiti
anagrafici per la pensione di vecchiaia e costituisce un limite non superabile,
se non per il trattenimento in servizio o per consentire all’interessato di
conseguire la prima decorrenza utile della pensione ove essa non sia immediata,
al raggiungimento del quale l’amministrazione deve far cessare il rapporto di
lavoro o di impiego se il lavoratore ha conseguito, a qualsiasi titolo, i
requisiti per il diritto a pensione.
La difesa del Presidente del Consiglio
dei ministri asserisce: «Pertanto, il limite di età anagrafica per la
permanenza in servizio dei dipendenti pubblici previsto dagli ordinamenti di
settore non è modificato dalla riforma c.d. Fornero
con il meccanismo dell’incremento a 66 anni e con le successive elevazioni,
qualora il lavoratore abbia conseguito, a qualsiasi titolo, i requisiti
contributivi minimi entro il limite di età anagrafico previsto dagli ordinamenti
vigenti nei vari settori per il diritto a pensione alla data del 31.12.2011».
La stessa difesa conclude sul punto affermando che, «[i]n altre parole,
l’elevazione del limite a 66 anni non è né fine a se stessa né assoluta e,
quindi, assume rilievo decisivo e preponderante il raggiungimento del limite
d’età ordinamentale».
2.2.2.– Con riguardo al prospettato
contrasto con il diritto dell’Unione europea, l’Avvocatura generale dello Stato
cita l’art. 7, comma 1, lettera a), della direttiva 19 dicembre 1978, n.
79/7/CEE (Direttiva del Consiglio relativa alla graduale attuazione del
principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di
sicurezza sociale), nonché l’interpretazione di tale disposizione fatta propria
dalla sentenza
della Corte di giustizia 7 luglio 1992, in causa C-9/91, The Queen contro Secretary of State for Social Security.
Ad avviso dell’Avvocatura generale dello
Stato, non sarebbe, infine, condivisibile, la tesi del rimettente secondo cui,
in base al diritto dell’Unione europea, il regime pensionistico dei lavoratori
del pubblico impiego italiano dovrebbe qualificarsi come «professionale».
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Roma, in
funzione di giudice del lavoro, dubita, in riferimento agli artt. 3, 11, 37,
primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – l’art. 11 Cost. in
relazione all’art. 141 (recte: art. 157) del Trattato
sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e all’art. 21 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e l’art. 117, primo comma,
Cost., in relazione all’art. 2 della direttiva 5 luglio 2006, n. 2006/54/CE,
recante «Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio riguardante
l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento
fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione)» – della
legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 24, comma 3 (recte: 24, comma 3, primo periodo), del decreto-legge 6
dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge
22 dicembre 2011, n. 214, come interpretato dall’art. 2, comma 4, del
decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101 (Disposizioni urgenti per il perseguimento
di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni), convertito,
con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, e dell’art. 2, comma
21, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico
obbligatorio e complementare).
La prima di tali disposizioni individua
i lavoratori per cui, ratione temporis,
resta applicabile la normativa vigente anteriormente alla riforma dei
trattamenti pensionistici dettata dall’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011. La
seconda, con interpretazione autentica della prima, chiarisce il regime
intertemporale applicabile, specificamente, ai lavoratori dipendenti delle
pubbliche amministrazioni. La terza determina la normativa vigente prima della
citata riforma, con riguardo alle lavoratrici iscritte al regime esclusivo
della previdenza per i dipendenti pubblici. Queste disposizioni stabiliscono,
in particolare, che: «Il lavoratore che maturi entro il 31 dicembre 2011 i
requisiti di età e di anzianità contributiva, previsti dalla normativa vigente,
prima della data di entrata in vigore del presente decreto, ai fini del diritto
all’accesso e alla decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia o di
anzianità, consegue il diritto alla prestazione pensionistica secondo tale
normativa e può chiedere all’ente di appartenenza la certificazione di tale
diritto» (art. 24, comma 3, primo periodo, del d.l. n. 201 del 2011). Tale
disposizione «si interpreta nel senso che il conseguimento da parte di un
lavoratore dipendente delle pubbliche amministrazioni di un qualsiasi diritto a
pensione entro il 31 dicembre 2011 comporta obbligatoriamente l’applicazione
del regime di accesso e delle decorrenze previgente rispetto all’entrata in
vigore del predetto articolo 24» (art. 2, comma 4, del decreto-legge n. 101 del
2013. «Con effetto dal 1°(gradi) gennaio 1996, le lavoratrici iscritte alle
forme esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la
vecchiaia e i superstiti al compimento del sessantesimo anno di età, possono
conseguire il trattamento pensionistico secondo le regole previste dai singoli
ordinamenti di appartenenza per il pensionamento di vecchiaia ovvero per il
collocamento a riposo per raggiunti limiti di età. A decorrere dal 1º gennaio
2010, per le predette lavoratrici il requisito anagrafico di sessanta anni di
cui al primo periodo del presente comma e il requisito anagrafico di sessanta
anni di cui all’articolo 1, comma 6, lettera b), della legge 23 agosto 2004, n.
243, e successive modificazioni, sono incrementati di un anno. […]» (art. 2,
comma 21, della legge n. 335 del 1995).
Per comprendere le ragioni delle
doglianze del rimettente, è necessario anzitutto evidenziare tre presupposti.
Il primo è che, ai sensi dell’art. 24, comma 3, primo periodo, del d.l. n. 201
del 2011, l’applicazione della normativa pensionistica vigente prima
dell’entrata in vigore di tale decreto – in luogo di quella "nuova” da esso
introdotta – dipende dal fatto che il lavoratore maturi i requisiti di età e di
anzianità contributiva previsti dalla stessa previgente normativa ai fini
dell’accesso e della decorrenza del trattamento pensionistico entro il 31
dicembre 2011. Il secondo è che, ai sensi della disposizione di interpretazione
autentica di cui all’art. 2, comma 4, del d.l. n. 101 del 2013, l’applicazione
della previgente normativa è obbligatoria nei confronti dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni che, alla menzionata data del 31 dicembre 2011,
abbiano conseguito un qualsiasi diritto a pensione. Il terzo presupposto è che,
a norma dell’art. 2, comma 21, della legge n. 335 del 1995, alla stessa data
del 31 dicembre 2011, i lavoratori di sesso femminile del settore pubblico
conseguivano il diritto alla pensione di vecchiaia all’età di sessantuno anni,
a fronte dei sessantacinque anni di età richiesti per il conseguimento della
stessa pensione da parte dei lavoratori di sesso maschile.
Muovendo da questi presupposti, il
Tribunale ordinario di Roma osserva che, in presenza dei requisiti di anzianità
assicurativa e contributiva per l’accesso a tale pensione, mentre alle
impiegate pubbliche che abbiano raggiunto l’età di sessantuno anni entro il 31
dicembre 2011, avendo esse conseguito il diritto alla pensione di vecchiaia, si
applica obbligatoriamente la normativa vigente prima dell’entrata in vigore del
d.l. n. 201 del 2011, agli impiegati pubblici di sesso maschile della stessa
età – i quali non hanno maturato, entro la stessa data, il requisito di età (di
sessantacinque anni) per l’accesso al medesimo diritto – si applica, invece, la
"nuova” disciplina dell’art. 24 del d.l. n. 101 del 2011. Da ciò discendono le
doglianze del rimettente. Mentre le impiegate pubbliche, in applicazione della
normativa vigente prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 201 del 2011, in
particolare, della regola "ordinamentale” di cui
all’art. 4, primo comma, del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del
testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e
militari dello Stato), devono essere collocate a riposo «al compimento del
sessantacinquesimo anno di età», gli impiegati pubblici di sesso maschile che
si trovino in una situazione analoga, in applicazione della "nuova” normativa
pensionistica, sono invece collocati a riposo, sempre secondo il rimettente,
all’età di sessantasei anni (successivamente elevata a sessantasei anni e tre
mesi a decorrere dal 1° gennaio 2013 e a sessantasei anni e sette mesi a
decorrere dal 1° gennaio 2016).
Ad avviso del giudice a quo, la
normativa denunciata víola dunque gli invocati
parametri «nella misura in cui […] impone il collocamento a riposo al
raggiungimento del 65° anno di età delle impiegate che abbiano maturato i
requisiti per il conseguimento della pensione con il raggiungimento del 61°
anno di età e di venti anni di contribuzione alla data del 31 dicembre 2011,
laddove gli impiegati, che si trovino nella medesima condizione lavorativa,
sono collocati a riposo al raggiungimento dell’età di 66 anni e tre mesi/sette
mesi».
In considerazione del ritenuto deteriore
trattamento delle impiegate pubbliche rispetto agli impiegati pubblici di sesso
maschile riguardo all’età del collocamento a riposo, il Tribunale rimettente
prospetta la violazione di quattro parametri costituzionali. La normativa
censurata lederebbe: l’art. 3 Cost., che sancisce il principio dell’eguaglianza
davanti alla legge, senza distinzione di sesso; l’art. 37, primo comma, Cost.,
che stabilisce il principio della parità di retribuzione, a parità di lavoro,
della donna lavoratrice rispetto al lavoratore; l’art. 11 Cost., stante il
contrasto sia con l’art. 157 TFUE, secondo cui «Ciascuno Stato membro assicura
l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di
sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un
lavoro di pari valore» (comma 1), sia con l’art. 21 CDFUE, che vieta «qualsiasi
forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso»; l’art. 117, primo
comma, Cost., atteso il contrasto con l’art. 2 della direttiva n. 2006/54/CE, là
dove definisce «discriminazione diretta», una «situazione nella quale una
persona è trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto un’altra
persona sia, sia stata o sarebbe trattata in una situazione analoga» (comma 1,
lettera a).
2.– Preliminarmente, deve essere
esaminata l’eccezione della difesa del Presidente del Consiglio dei ministri
secondo cui le questioni sollevate sarebbero inammissibili, poiché il giudice
rimettente avrebbe «erroneamente valutato positivamente il requisito della
rilevanza».
L’eccezione non è fondata.
Il rimettente riferisce di essere
investito del ricorso proposto da un’impiegata del Ministero dei beni e delle
attività culturali e del turismo che, alla data del 31 dicembre 2011, aveva già
maturato i requisiti di età e di anzianità assicurativa e contributiva per la
pensione di vecchiaia, e che la stessa lavoratrice, collocata a riposo al
compimento del sessantacinquesimo anno di età, ha chiesto l’accertamento del
suo diritto a rimanere in servizio fino all’età di sessantasei anni e tre mesi
corrispondente alla superiore età che sarebbe prevista per il collocamento a
riposo degli impiegati di sesso maschile con la stessa età anagrafica e le
stesse anzianità assicurativa e contributiva.
Lo stesso giudice a quo afferma poi che
l’accoglimento della domanda trova ostacolo nelle disposizioni impugnate, che
impongono il collocamento a riposo della ricorrente all’età di sessantacinque
anni.
A quest’ultimo proposito, alla luce del
tenore letterale di tali disposizioni, non risulta implausibile la valutazione
del rimettente secondo cui, proprio in ragione del combinato disposto delle
stesse, la ricorrente nel giudizio a quo, avendo maturato, alla data del 31
dicembre 2011, i requisiti di età e di anzianità assicurativa e contributiva
per la pensione di vecchiaia – e non avendo ancora esercitato il diritto a tale
pensione – deve essere collocata a riposo secondo le regole previste dal
proprio ordinamento di appartenenza e, quindi, ai sensi dell’art. 4, primo
comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973, all’età di sessantacinque anni. Da ciò
deriva l’impossibilità di accogliere la sua domanda di rimanere in servizio
fino all’età di sessantasei anni e tre mesi, prevista, in assunto, per il
collocamento a riposo di un impiegato pubblico di sesso maschile che si trovi
in una situazione analoga.
Tenuto conto della giurisprudenza di
questa Corte circa la sufficienza di una motivazione non implausibile sulla
rilevanza (tra le più recenti, sentenze n. 203, n. 200 e n. 133 del 2016),
l’eccezione di inammissibilità delle questioni sollevata dall’Avvocatura
generale dello Stato deve essere, quindi, rigettata.
3.– Le questioni sono tuttavia,
inammissibili per i motivi di seguito illustrati. È preliminare la
considerazione del fatto che il rimettente, nel sollevare le questioni relative
alla violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., ha prospettato il
contrasto con norme di diritto dell’Unione europea, alcune delle quali
sicuramente provviste di efficacia diretta.
In particolare, il principio di parità
retributiva tra uomini e donne, incardinato nel Trattato di Roma fin
dall’istituzione della Comunità economica europea come principio fondante del
mercato comune nonché come uno degli «scopi sociali della Comunità, […] che […]
non si limita all’unione economica» (Corte di giustizia, sentenza
8 aprile 1976, in causa C-43-75, Gabrielle Defrenne
contro Sabena, punti da 7 a 15), è stato ritenuto
dalla stessa Corte di giustizia vincolante per i soggetti pubblici e privati,
perché volto a impedire pratiche discriminatorie lesive della libera
concorrenza e dei diritti fondamentali dei lavoratori. L’efficacia diretta di
tale principio, sancita con la citata
sentenza Defrenne (punti 4/40) e ribadita nel
corso degli anni dalla Corte di Lussemburgo (ex plurimis,
sentenze: 27
marzo 1980, in causa 129/79, Macarthys LTD contro Wendy Smith, punto 10; 31
marzo 1981, in causa 96/80, J.P. Jenkins
contro Kingsgate LTD, punti da 16 a 18; 7
febbraio 1991, in causa C-184/89, Helga Nimz contro Freie und Hansestadt Hamburg, punto 17), fa nascere per il giudice nazionale
l’obbligo di non applicare la norma di diritto interno confliggente
con il diritto europeo. La stessa Corte di giustizia ha altresì precisato come
l’efficacia diretta del principio della parità di retribuzione non possa essere
intaccata da alcuna normativa di attuazione, sia essa nazionale o comunitaria
(in tale senso, le citate sentenze Defrenne, punti 61/64, e Jenkins, punto 22).
Questo principio è stato poi corroborato
dall’evolvere del quadro normativo: l’Unione «promuove» la parità tra donne e
uomini (art. 3, comma 3, del Trattato sull’Unione europea) e conferma un tale
impegno nelle sue «azioni» (art. 8 TFUE).
Anche l’art. 21 della CDFUE vieta
«qualsiasi forma di discriminazione fondata […] sul sesso», mentre l’art. 23
della stessa Carta dispone che «La parità tra donne e uomini deve essere
assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di
retribuzione». Entrambe queste norme in tanto si possono richiamare in quanto
si verta in una materia di attuazione, da parte dello Stato, del diritto
dell’Unione, secondo le rispettive competenze (art. 51, comma 1, della medesima
CDFUE).
Il giudice rimettente, ritenendo che la
normativa censurata contrasti con l’art. 157 del TFUE, anche alla luce della
citata giurisprudenza della Corte di giustizia che ha riconosciuto a tale norma
efficacia diretta, avrebbe dovuto non applicare le disposizioni in conflitto
con il principio di parità di trattamento, previo ricorso, se del caso, al
rinvio pregiudiziale, ove ritenuto necessario, al fine di interrogare la
medesima Corte di giustizia sulla corretta interpretazione delle pertinenti
disposizioni del diritto dell’Unione e, quindi, dirimere eventuali residui
dubbi in ordine all’esistenza del conflitto (sentenze n. 226 del 2014,
n. 267 del 2013,
n. 86 e n. 75 del 2012,
n. 227 e n. 28 del 2010,
n. 284 del 2007;
ordinanze n. 48
del 2017 e n.
207 del 2013). Questo percorso, una volta imboccato, avrebbe reso superflua
l’evocazione del contrasto con i parametri costituzionali in sede di incidente
di legittimità costituzionale. L’art. 157 del TFUE, direttamente applicabile
dal giudice nazionale, lo vincola all’osservanza del diritto europeo, rendendo
inapplicabile nel giudizio principale la normativa censurata e, perciò,
irrilevanti tutte le questioni sollevate.
La non applicazione delle disposizioni
di diritto interno, non equiparabile in alcun modo a ipotesi di abrogazione o
di deroga, né a forme di caducazione o di
annullamento per invalidità delle stesse (sentenza n. 389 del
1989), rientra, in effetti, tra gli obblighi del giudice nazionale,
vincolato all’osservanza del diritto dell’Unione europea e alla garanzia dei
diritti che lo stesso ha generato, con il solo limite del rispetto dei principi
fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della
persona.
4.– Si deve aggiungere che la
complessità della materia, così come emerge dalle disposizioni censurate e dal
quadro normativo in cui esse si inseriscono, avrebbe potuto tanto più
indirizzare il giudice rimettente verso la strada del rinvio pregiudiziale, al
fine di verificare l’effettiva incompatibilità della normativa interna con il
diritto a una effettiva parità di trattamento tra lavoratori uomini e donne.
In tale prospettiva, anziché muovere
dall’assunto secondo cui il limite di età per il collocamento a riposo degli
impiegati pubblici, a decorrere dal 1° gennaio 2012, sarebbe stato elevato
dall’art. 24 del decreto-legge n. 201 del 2011 a sessantasei anni, il giudice a
quo ben avrebbe potuto considerare che, come precisato dalla disposizione di
interpretazione autentica di cui all’art. 2, comma 5, del decreto-legge n. 101
del 2013, il detto limite di età continua ad assestarsi, sia per gli uomini sia
per le donne, al compimento del sessantacinquesimo anno di età, «limite ordinamentale» stabilito dall’art. 4, primo comma, del
d.P.R. n. 1092 del 1973, per il collocamento a riposo degli impiegati civili
dello Stato.
Ciò nonostante, il dipendente pubblico
che, raggiunti i sessantacinque anni, non abbia maturato i requisiti di età (o
di anzianità contributiva) per conseguire il diritto alla pensione, può,
secondo lo stesso art. 2, comma 5, del decreto-legge n. 101 del 2013, chiedere
di rimanere in servizio anche oltre l’età di collocamento a riposo, fino al
conseguimento del requisito anagrafico per il diritto alla pensione di
vecchiaia e, quindi, per i lavoratori di sesso maschile che si trovino in una
situazione analoga a quella della ricorrente nel giudizio a quo, fino all’età
di sessantasei anni e tre mesi.
La coincidenza dell’estinzione del
rapporto di lavoro con la diversa età pensionabile di uomini e donne potrebbe
lasciar intravvedere una discriminazione a danno di queste ultime e un
potenziale contrasto con disposizioni di diritto dell’Unione europea (Corte di
giustizia, sentenze 26
febbraio 1986, in causa 262/84, Vera Mia Beets-Proper
contro F. Van Lanschot Bankiers
NV, punti 34-35, e 18
novembre 2010, in causa C-356/09, Pensionversicherungsanstalt
contro Christine Kleist, punto 46).
Il diritto europeo secondario, in
particolare, la direttiva n. 2006/54/CE – che, in maniera riduttiva, il
rimettente richiama per la sola definizione di discriminazione diretta –
specifica, del resto, che nelle disposizioni contrarie al principio della
parità di trattamento sono da includere quelle che si basano sul sesso per
«stabilire limiti di età differenti per il collocamento a riposo» (art. 9,
comma 1, lettera f, inserito nel Capo 2, dedicato alla «Parità di trattamento
nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale») e che è vietata
qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto attiene «all’occupazione
e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la
retribuzione come previsto dall’art. 141 del trattato» (art. 14, comma 1,
lettera c, inserito, invece, nel Capo 3, dedicato alla «Parità di trattamento
per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione
professionali e le condizioni di lavoro»).
per
questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale del combinato disposto dell’art. 24, comma 3, primo periodo, del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita,
l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con
modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, come interpretato
dall’art. 2, comma 4, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101 (Disposizioni
urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche
amministrazioni), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013,
n. 125, e dell’art. 2, comma 21, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del
sistema pensionistico obbligatorio e complementare), sollevate dal Tribunale
ordinario di Roma, in riferimento agli artt. 3, 11, 37, primo comma, e 117,
primo comma, della Costituzione, agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in
relazione all’art. 157 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea,
all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e all’art.
2 della direttiva 5 luglio 2006, n. 2006/54/CE, recante «Direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio riguardante l’attuazione del principio delle
pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di
occupazione e impiego (rifusione)», con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 aprile 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 12 maggio
2017.