SENTENZA N. 226
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Sabino CASSESE Presidente
- Giuseppe TESAURO Giudice
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), come interpretato autenticamente dall’art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), promosso dal Tribunale ordinario di Velletri nel procedimento civile vertente tra B.L. e la ASP – Azienda servizi pubblici spa con ordinanza del 21 dicembre 2012 iscritta al n. 130 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti gli atti di costituzione di B.L., della ASP – Azienda servizi pubblici spa nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica dell’8 luglio 2014 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;
uditi gli avvocati Vittorio Angiolini e Stefano Muggia per B.L., Nicola Petracca per la ASP – Azienda servizi pubblici spa e l’avvocato dello Stato Vincenzo Rago per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Il Tribunale ordinario di Velletri, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, con ordinanza del 21 dicembre 2012 iscritta al n. 130 del registro ordinanze 2013, questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), come interpretato autenticamente dall’art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita).
Il rimettente denuncia la violazione degli artt. 11 e 117 della Costituzione, in relazione alla clausola 8.3 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) sostenendo che la disposizione censurata determinerebbe un arretramento del livello generale di tutela previsto per i lavoratori nel caso di successive stipulazioni di contratti a tempo determinato.
Il Tribunale premette, in punto di fatto, di essere chiamato a decidere sul ricorso presentato da B.L. con cui si chiede l’accertamento dell’illegittimità del termine di durata apposto al contratto di lavoro stipulato con decorrenza dal 7 aprile 2008, nonché della successiva proroga, l’accertamento della «sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ed il pagamento del trattamento retributivo dovuto, a decorrere dall’estromissione dal rapporto sino alla riammissione in servizio».
Nelle more del giudizio – osserva il rimettente – è intervenuta la legge n. 183 del 2010, che, all’art. 32, comma 5, ha limitato l’ammontare del risarcimento del danno dovuto a seguito della illegittima apposizione del termine ad un contratto di lavoro, fissando «un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604».
Tale disposizione è stata successivamente oggetto di interpretazione autentica ad opera dell’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012 il quale stabilisce che «La disposizione di cui al comma 5 dell’articolo 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro».
Poiché tali disposizioni troverebbero applicazione anche ai procedimenti in corso, il rimettente ritiene rilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010 eccepita dalla parte ricorrente. Tale disposizione inciderebbe, infatti, sulla determinazione dell’ammontare del danno spettante al lavoratore, tenuto conto del fatto che dall’attività istruttoria svolta nel giudizio a quo non sarebbero emerse ragioni idonee a giustificare la clausola negoziale di apposizione del termine e che la stipulazione della proroga, formalizzata solo dopo la scadenza del termine precedentemente pattuito, e la prosecuzione di fatto del rapporto, darebbe luogo ad una successione di contratti a termine.
In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale rimettente afferma che la normativa concernente il contratto a tempo determinato è di derivazione europea in quanto emanata in attuazione della direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) che a sua volta ha recepito l’accordo quadro tra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale del 18 marzo 1999.
Gli obiettivi cui mirava tale accordo erano due: migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il principio di non discriminazione rispetto al lavoro a tempo indeterminato; creare un quadro normativo di prevenzione degli abusi derivanti dalla successione di contratti o rapporti a tempo determinato. Con specifico riferimento a questo secondo aspetto, l’accordo quadro stabiliva l’introduzione negli Stati membri di misure di prevenzione di detti abusi e vietava che l’applicazione dell’accordo stesso potesse costituire motivo per ridurre il livello generale di tutela che era offerto ai lavoratori nell’ambito da esso coperto (clausola 8.3).
Sostiene il giudice a quo che nell’ordinamento interno, prima della legge n. 183 del 2010, era del tutto pacifico in giurisprudenza che il dipendente, dopo la scadenza del termine illegittimamente apposto al contratto, avesse diritto a percepire la retribuzione dal momento in cui provvedeva ad offrire le sue prestazioni lavorative, determinando una situazione di mora accipiendi del datore di lavoro. Ciò in quanto il diritto alla retribuzione si riteneva sinallagmaticamente correlato all’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa. Come corollario, si affermava che nel caso in cui non vi fosse stata offerta della prestazione lavorativa, le retribuzioni perdute non potevano essere riconosciute al lavoratore neppure a titolo di risarcimento del danno, in quanto l’interruzione di fatto del rapporto di lavoro non conseguiva ad un’iniziativa del datore di lavoro.
L’unico punto controverso era costituito dal titolo dell’attribuzione patrimoniale, discutendosi se gli importi corrisposti dal datore di lavoro avessero natura retributiva, come riteneva parte della giurisprudenza, ovvero natura risarcitoria, secondo altro orientamento giurisprudenziale.
Sostiene il Tribunale rimettente che per effetto dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, come interpretato autenticamente dall’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012, tali consolidati principi non potrebbero più trovare applicazione.
Ciò, a suo avviso, determinerebbe un arretramento del livello generale di tutela previsto per i lavoratori, come tale vietato dall’accordo quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CE. La citata clausola 8.3 dell’accordo stabilisce infatti che «L’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso» (cosiddetta clausola di non regresso).
Il rimettente richiama la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea la quale, nel chiarire il significato di «ambito coperto dall’accordo», ha affermato che la verifica della esistenza di una reformatio in peius deve essere effettuata in rapporto all’insieme delle disposizioni di diritto interno di uno Stato membro relative alla tutela dei lavoratori e pertanto con riguardo all’intera disciplina del contratto a termine (sono citate la sentenza 23 aprile 2009, Angelidaki ed altri, nelle cause riunite da C-378/07 a C-380/07, e la sentenza 24 giugno 2010, Sorge, C-98/09).
Con riferimento al concetto di «applicazione del presente accordo», contenuto nella clausola 8.3, la giurisprudenza comunitaria, ad avviso del rimettente, avrebbe chiarito che esso coinvolge non solo l’iniziale trasposizione della disciplina europea, ma anche ogni altra successiva modifica o integrazione.
Il Tribunale, inoltre, dopo aver richiamato la giurisprudenza della Corte di giustizia, nonché della Corte di cassazione (è citata la sentenza n. 1931 del 27 gennaio 2011) con riguardo al concetto di «arretramento della tutela», afferma che l’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, come interpretato autenticamente dall’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012, nel ridurre «l’ammontare degli importi spettanti al lavoratore illegittimamente assunto a termine per il periodo successivo alla costituzione in mora della parte datoriale, tanto più con l’accessoria privazione del trattamento previdenziale», rientrerebbe nell’ambito del divieto sancito dall’accordo quadro.
La disposizione censurata, in sostanza, sarebbe diretta in modo univoco a modificare la regolamentazione del profilo patrimoniale connesso all’abuso della stipulazione di un contratto a termine e, adottando un criterio sostitutivo, si tradurrebbe in un arretramento di tutela, tale da coinvolgere tutti i lavoratori assunti a tempo determinato. D’altra parte, l’ampiezza della portata applicativa della disposizione sarebbe stata evidenziata, secondo il Tribunale rimettente, da questa Corte nella sentenza n. 303 del 2011 secondo cui la disciplina in questione è di carattere generale e concerne tutti i rapporti di lavoro subordinato a termine.
Pertanto, la predetta disciplina, eliminando le conseguenze patrimoniali gravanti sul datore di lavoro secondo il diritto comune e stabilendo effetti economici entro margini prefissati «di gran lunga inferiori al trattamento economico che sarebbe spettato in forza del regime previgente – anche per la correlata privazione del trattamento previdenziale», e addossando sul lavoratore le conseguenze negative della durata del processo, ridurrebbe in modo consistente il livello di tutela dei lavoratori.
Tale arretramento di tutela non sarebbe compensato in alcun modo, ed anzi il legislatore avrebbe introdotto quale ulteriore limite la previsione di un termine di decadenza per l’impugnazione dell’illegittima stipulazione del contratto a tempo determinato.
Il rimettente sostiene, inoltre, che «l’adeguatezza astratta» della disciplina introdotta dal legislatore, e, in particolare, la circostanza che la previsione di un indennizzo fino alla sentenza che statuisce la conversione del rapporto a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato sia stata ritenuta da questa Corte, nella citata sentenza n. 303 del 2011, tutela adeguata a sanzionare l’abuso, sarebbe irrilevante a fronte del fatto che la disposizione censurata determinerebbe un effettivo e sostanziale arretramento di tutela rispetto alla normativa previgente, vietato dall’accordo quadro.
Quanto agli effetti della violazione della clausola di non regresso, il giudice a quo, dopo aver dato atto che la clausola 8.3 dell’accordo non è direttamente produttiva di effetti nell’ordinamento interno, secondo quanto chiarito dalla Corte di giustizia, sostiene che la norma di interpreazione autentica contenuta nell’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012 precluderebbe qualsiasi tipo di interpretazione conforme «giacché avalla in modo ineludibile una opzione ermeneutica che direttamente si pone in contrasto con la clausola di non regresso contenuta al punto 8.3 dell’accordo quadro, nell’accezione alla stessa fornita dalla Corte di Lussemburgo». Pertanto, attesa l’impossibilità di disapplicare la norma interna, il giudice a quo ritiene di dover sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 11 e 117 Cost.
2.– È intervenuta in giudizio la ASP – Azienda servizi pubblici spa chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile ovvero infondata.
Sostiene la parte privata che il Tribunale avrebbe sollevato la questione partendo dall’erroneo presupposto interpretativo per cui nel giudizio a quo ricorrerebbe un’ipotesi di successione di contratti a termine. In realtà così non sarebbe dal momento che tra la ASP e il B.L. sarebbe stato stipulato un unico contratto a termine successivamente prorogato. È ben vero che tale proroga sarebbe stata formalizzata dopo la scadenza del termine; tuttavia il lavoratore non avrebbe mai interrotto la sua attività lavorativa, ed avrebbe continuato a percepire la retribuzione senza soluzione di continuità.
Conseguentemente, la questione sollevata sarebbe irrilevante e comunque ipotetica non dovendo la norma censurata trovare applicazione.
Ulteriore profilo di inammissibilità discenderebbe dal mancato tentativo da parte del rimettente di dare della disposizione censurata un’interpretazione conforme a Costituzione.
In particolare, il giudice a quo avrebbe trascurato di considerare gli aspetti vantaggiosi che l’art. 32, comma 5, legge n. 183 del 2010 avrebbe introdotto per il lavoratore evidenziati anche dalla sentenza n. 303 del 2011 di questa Corte costituzionale, ed in particolare l’irrilevanza della costituzione in mora del creditore, l’irrilevanza dell’aliunde perceptum e del percipiendum sull’entità del risarcimento, la conversione a tempo indeterminato del contratto a termine.
Secondo l’ASP, la questione nel merito sarebbe non fondata. In particolare, l’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 esulerebbe dall’ambito di applicazione della direttiva e dell’accordo. La clausola 8.3, che sancisce il principio di non regresso, sarebbe infatti volta ad impedire che gli Stati membri approfittino della attuazione della direttiva per ridurre il livello di tutela già offerto ai lavoratori. Essi tuttavia sarebbero liberi di introdurre riforme che riducano le tutele preesistenti laddove giustificate da esigenze oggettive diverse dalla mera applicazione della normativa comunitaria. La stessa Corte di giustizia avrebbe escluso che la clausola in parola imponga una cristallizzazione delle tutele (è richiamata la sentenza della Corte di giustizia Ue, terza sezione, 23 aprile 2009 – cause riunite da C-378/07 a 380/07, Angelidaki ed altri).
La legge n. 183 del 2010 non potrebbe considerarsi finalizzata alla attuazione della direttiva né dell’accordo, non costituendo essa una trasposizione, diretta o indiretta, di tali atti né emergendo alcun collegamento con essi.
In subordine la difesa della ASP sostiene che la disposizione censurata, anche laddove rientrasse nell’ambito di applicazione dell’accordo, sarebbe comunque conforme alla disciplina comunitaria. Si osserva, al riguardo, che tanto questa Corte (nella sentenza n. 303 del 2011) quanto la Corte di giustizia (nella sentenza 24 giugno 2010, causa C-98/09, Sorge) hanno affermato che la verifica di una reformatio in peius deve essere effettuata con riguardo all’insieme delle norme e delle tutele apprestate complessivamente dall’ordinamento. Sulla base di tale premessa questa Corte ha ritenuto che la disciplina dettata dall’art. 32, comma 5, legge n. 183 del 2010, confrontata con quella previgente, risulta certamente più favorevole al lavoratore. Essa infatti, oltre a prevedere la conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, prevedrebbe la corresponsione automatica di una somma di denaro a titolo risarcitorio sulla base del solo accertamento della illegittimità del termine apposto al contratto, affrancando il lavoratore da qualsiasi onere probatorio, a prescindere dall’esistenza di un danno effettivo e senza che abbia rilevanza la messa in mora del datore di lavoro. L’indennità fissata dal legislatore, dunque, garantirebbe maggior certezza.
Quanto poi al termine di decadenza introdotto dall’art. 32, comma 3, della legge n. 183 del 2010 esso costituisce misura che si allinea a tutte le altre modifiche che hanno accelerato e/o semplificato il rito lavoristico e risponde ad esigenze di certezza e celerità. In tal modo il legislatore avrebbe voluto assicurare che il risarcimento del danno liquidato in giudizio sia il più possibile conforme a quello effettivamente subito dal lavoratore.
Sostiene infine la difesa della ASP che la norma di interpretazione autentica contenuta nell’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012 non avrebbe alterato tale situazione dal momento che essa non avrebbe efficacia innovativa, ma si sarebbe limitata a codificare gli approdi della dottrina e della giurisprudenza, nel senso che l’indennità ivi prevista è destinata a rifondere i pregiudizi sofferti dal lavoratore nel periodo compreso tra la scadenza del termine apposto al contratto di lavoro e la sentenza che ne accerta la nullità. Solo dopo tale sentenza il lavoratore maturerà il diritto alla corresponsione delle retribuzioni dovute.
3.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato la quale ha chiesto, innanzitutto, che la questione prospettata sia dichiarata inammissibile dal momento che il giudice che ritenga una disposizione interna in contrasto con la normativa comunitaria dovrebbe disapplicare la disposizione nazionale ovvero, qualora nutra dubbi sulla portata della disposizione comunitaria, dovrebbe sollevare questione pregiudiziale avanti alla Corte di giustizia.
Nel merito l’Avvocatura sostiene che la questione sarebbe manifestamente infondata.
La rimodulazione dei criteri in base ai quali corrispondere il risarcimento al lavoratore, operata dal legislatore nazionale, non sarebbe avvenuta in base all’accordo quadro che non contiene alcuna disposizione al riguardo, bensì per fronteggiare, in base a criteri di equità sostanziale, l’orientamento giurisprudenziale eccessivamente oneroso per il datore di lavoro che si era formato al riguardo. Le norme censurate, inoltre, fornirebbero adeguata e piena tutela al lavoratore assicurando la conversione del rapporto di lavoro in rapporto a tempo indeterminato.
Le disposizioni censurate, inoltre, sarebbero «giustificate da superiori ragioni di rispetto dei parametri della contabilità pubblica» e dall’esigenza di riequilibrio dei conti pubblici.
Non sussisterebbe, dunque, l’asserito arretramento di tutela dal momento che le disposizioni in questione sarebbero rispettose dei principi di diritto comunitario in quanto – come chiarito da questa Corte con la sentenza n. 303 del 2011 – sarebbero volte a introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione. Inoltre, la limitazione dell’entità del risarcimento rientrerebbe nell’esigenza di riequilibrare le opposte posizioni del datore di lavoro e del lavoratore.
Neppure rilevante sarebbe la apposizione di un termine di decadenza ai fini della impugnazione della illegittima stipulazione del contratto a tempo determinato, in quanto sarebbe misura volta a dare certezza alla regolamentazione dei rapporti sociali.
Ad avviso dell’Avvocatura la questione sollevata sarebbe infondata anche sotto altro profilo.
La giurisprudenza europea avrebbe infatti chiarito che la riduzione della tutela offerta ai lavoratori a tempo determinato non sarebbe preclusa in quanto tale dall’accordo quadro, ma che essa sarebbe vietata solo laddove fosse collegata all’applicazione di tale accordo ed avesse, inoltre, ad oggetto il livello generale di tutela dei lavoratori a tempo determinato. Pertanto non rientrerebbe nel divieto una normativa diretta a promuovere un altro obiettivo rispetto a quello della applicazione dell’accordo.
L’introduzione dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, avvenuta a distanza di circa dieci anni dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), che ha dato applicazione all’accordo quadro, non sarebbe in alcun modo collegata con l’attuazione della normativa comunitaria, ma sarebbe ispirata dalla volontà del legislatore di rimodulare la tutela del lavoratore a tempo determinato, peraltro entro limiti compatibili con l’ordinamento sovranazionale.
Questa Corte, nella richiamata sentenza n. 303 del 2011, avrebbe chiarito come la disciplina in questione sarebbe stata adottata al fine di promuovere la certezza del diritto in punto di determinazione delle conseguenze patrimoniali sanzionatorie a carico del datore di lavoro.
4.– È intervenuto in giudizio anche B.L. il quale ha chiesto che sia accolta la questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale ordinario di Velletri.
5.– In prossimità dell’udienza la medesima parte privata ha depositato una memoria nella quale ha chiesto il rigetto dell’eccezione di inammissibilità prospettata dalla ASP sostenendo che la questione sarebbe rilevante. Infatti, l’istruttoria svolta nel giudizio a quo avrebbe consentito di accertare che il termine apposto al contratto di lavoro sarebbe privo di ragioni e dunque nullo, ed inoltre che la proroga sarebbe stata stipulata dopo la scadenza del contratto, integrando dunque una nuova pattuizione e perciò un’ipotesi di successione di contratti.
Infondata sarebbe altresì l’eccezione di inammissibilità per omesso tentativo di interpretazione conforme avendo il rimettente illustrato le ragioni per cui ha ritenuto che ciò non sarebbe possibile.
Nel merito, la questione sollevata dal Tribunale ordinario di Velletri sarebbe diversa da quelle esaminate da questa Corte nella sentenza n. 303 del 2011 dal momento che, nel caso di specie, il Giudice delle leggi sarebbe chiamato a verificare il rispetto del divieto di reformatio in peius sancito dall’accordo quadro.
Le disposizioni censurate, oltre ad avere portata generale tale da incidere sul livello complessivo di tutela dei lavoratori, introdurrebbero un regime peggiorativo rispetto alla precedente disciplina. Infatti, a fronte di «importanti elementi negativi», quali la probabile minore entità del risarcimento e la negazione di qualsiasi ulteriore voce di danno, tra cui quello contributivo, pochi sarebbero gli elementi positivi (automaticità del diritto, non necessità della mora e non deducibilità dell’aliunde perceptum).
Le innovazioni introdotte, tuttavia, si porrebbero comunque nell’ambito di attuazione della direttiva europea, non essendo ravvisabili obiettivi di politica sociale o del lavoro, e dunque non potrebbero superare il principio di non regresso.
Infine, la difesa della parte privata sostiene che l’interpretazione costituzionalmente orientata accolta nella citata sentenza n. 303 del 2011 faceva leva, oltre al fatto che il danno forfettizzato copriva solo il periodo «intermedio» tra la scadenza del termine apposto al contratto e la sentenza che ne accertava la nullità e dichiarava la conversione del rapporto, altresì sulla possibilità del rimedio cautelare inteso ad evitare che il protrarsi del pregiudizio andasse a scapito delle ragioni del lavoratore. Sennonché i giudici comuni sarebbero restii ad accordare la tutela cautelare, di tal che le conseguenze della durata del processo graverebbero esclusivamente sul lavoratore, infrangendosi così quell’equilibrio tra la posizione di costui e quella del datore di lavoro sottolineato dalla sentenza n. 303 del 2011.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Velletri, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, con ordinanza del 21 dicembre 2012 iscritta al n. 130 del registro ordinanze 2013, questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), come interpretato autenticamente dall’art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), il quale limita l’ammontare del risarcimento del danno dovuto a seguito della illegittima apposizione del termine ad un contratto di lavoro fissandolo nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto e disponendo che esso ristora per intero il pregiudizio subìto dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro.
Ad avviso del rimettente, sarebbero violati gli artt. 11 e 117 della Costituzione in quanto le disposizioni individuate determinerebbero un arretramento del livello generale di tutela previsto per i lavoratori a fronte di successive stipulazioni di un contratto a tempo determinato in contrasto con il «principio di non regresso» sancito dalla clausola 8.3 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato).
2.– La società ASP – Azienda servizi pubblici spa, intervenuta in giudizio, ha eccepito l’inammissibilità della questione sollevata dal Tribunale ordinario di Velletri per difetto di rilevanza in quanto il rimettente avrebbe erroneamente ritenuto che la controversia oggetto del giudizio principale attenga ad un’ipotesi di successione di contratti a termine, mentre, in realtà, ricorrerebbe un caso di proroga legittima del contratto di tal che la normativa censurata non dovrebbe trovare applicazione.
2.1.– Tale eccezione è priva di fondamento.
Il giudice del lavoro di Velletri ha, infatti, spiegato che dall’istruttoria svolta non sarebbe emersa l’esistenza delle ragioni dedotte dal datore di lavoro per giustificare la stipula di un contratto a tempo determinato e che la proroga di tale contratto era stata formalizzata dopo la scadenza del termine pattuito. Conseguentemente, ha ritenuto che la fattispecie rientrasse nell’ipotesi di successione di contratti a termine. In tal modo, il rimettente ha illustrato in modo esauriente e non implausibile le ragioni per cui ritiene di dover fare applicazione della normativa censurata per risolvere la controversia al suo esame.
2.2.– La stessa parte privata ha, altresì, eccepito l’inammissibilità della questione in ragione del fatto che il giudice avrebbe omesso di esperire il doveroso tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate, non tenendo conto degli aspetti vantaggiosi per il lavoratore contenuti nella disciplina in questione ed evidenziati da questa Corte nella sentenza n. 303 del 2011.
2.3.– Anche tale eccezione non merita accoglimento.
A differenza di quanto sostenuto dalla ASP, il Tribunale ordinario di Velletri ha espressamente verificato la possibilità di sperimentare un’interpretazione conforme a Costituzione dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, ma ha ritenuto che tale operazione gli fosse preclusa proprio dall’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012 il quale – a suo avviso – espressamente accoglie un’interpretazione che si porrebbe in contrasto con la clausola 8.3 dell’accordo quadro e, dunque, con gli artt. 11 e 117 Cost.
3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, è intervenuto in giudizio eccependo l’inammissibilità della questione in considerazione del fatto che il rimettente, a fronte dell’asserito contrasto delle disposizioni censurate con la normativa comunitaria, avrebbe dovuto disapplicare tali disposizioni, ovvero, ove avesse nutrito dubbi sull’interpretazione della norma comunitaria, avrebbe dovuto sollevare la questione pregiudiziale avanti alla Corte di giustizia.
3.1.– Anche tale eccezione è priva di fondamento.
Questa Corte ha più volte chiarito che «qualora si tratti di disposizione del diritto dell’Unione europea direttamente efficace, spetta al giudice nazionale comune valutare la compatibilità comunitaria della normativa interna censurata, utilizzando – se del caso – il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, e nell’ipotesi di contrasto provvedere egli stesso all’applicazione della norma comunitaria in luogo della norma nazionale; mentre, in caso di contrasto con una norma comunitaria priva di efficacia diretta – contrasto accertato eventualmente mediante ricorso alla Corte di giustizia – e nell’impossibilità di risolvere il contrasto in via interpretativa, il giudice comune deve sollevare la questione di legittimità costituzionale, spettando poi a questa Corte valutare l’esistenza di un contrasto insanabile in via interpretativa e, eventualmente, annullare la legge incompatibile con il diritto comunitario» (ordinanza n. 207 del 2013; nello stesso senso si vedano le sentenze n. 75 del 2012, n. 28 e n. 227 del 2010 e n. 284 del 2007).
Ebbene, nel caso in esame, il Tribunale, richiamando la giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza 24 giugno 2010, C-98/09, Sorge, punto 50; sentenza 23 aprile 2009, C-378/07, Angelidaki ed altri, punti 209-211), ha ritenuto che la clausola 8.3 dell’accordo quadro non sia direttamente produttiva di effetti nell’ordinamento interno. Ha precisato di essere ben consapevole che in tal caso grava sul giudice nazionale l’onere di interpretare il diritto interno, per quanto possibile, in senso conforme alle norme europee e tuttavia ha ritenuto che proprio l’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012 gli precluderebbe una tale opzione ermeneutica. Pertanto, correttamente il giudice a quo ha sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 11 e 117 Cost.
4.– Nel merito, la questione non è fondata.
L’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 dispone che «Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604».
L’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012 stabilisce: «La disposizione di cui al comma 5 dell’articolo 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro».
La questione prospettata dal Tribunale ordinario di Velletri differisce da quelle che sono già state scrutinate da questa Corte nella sentenza n. 303 del 2011. Mentre in quell’occasione oggetto delle censure era soltanto l’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, ed i parametri evocati erano individuati negli artt. 3, 24, 101, 102 e 111 Cost., nonché negli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 5 agosto 1955, n. 848 (CEDU), l’odierno rimettente censura l’art. 32, comma 5 della legge n. 183 del 2010 come interpretato dall’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012 per violazione degli artt. 11 e 117 Cost. in relazione alla clausola 8.3 dell’accordo quadro europeo sul lavoro a tempo determinato. Il Tribunale lamenta che tali disposizioni, limitando l’entità del risarcimento del danno spettante al lavoratore per il caso di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro, ridurrebbero la tutela già riconosciuta nel regime previgente, in violazione del divieto di reformatio in peius sancito dalla normativa comunitaria.
4.1.– La disamina della questione di costituzionalità richiede in via preliminare di verificare quale sia l’ambito di applicazione della clausola di non regresso al fine di stabilire se – come affermato dal rimettente – le disposizioni censurate rientrino o meno nell’ambito di applicazione della suddetta clausola.
L’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, cui la direttiva n. 1999/70/CE è volta a dare attuazione, enuncia i principi generali e i requisiti minimi relativi al lavoro a tempo determinato stabilendo, in particolare, due obiettivi, quello di garantire la parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato, proteggendoli dalle discriminazioni, e quello di prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di rapporti di lavoro a tempo determinato. L’accordo, peraltro, lascia agli Stati membri l’individuazione delle modalità dettagliate di applicazione di detti principi e prescrizioni, al fine di tener conto delle specifiche realtà nazionali.
La clausola 8.3 precisa tuttavia che «l’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso».
La Corte di giustizia dell’Unione europea ha chiarito che tale clausola non preclude ogni riduzione di tutela dei lavoratori nel settore dei contratti a tempo determinato, ma che per rientrare nel divieto di cui alla clausola in esame, tale riduzione «da un lato, dev’essere collegata con la “applicazione” dell’accordo quadro e, dall’altro, deve avere ad oggetto il “livello generale di tutela” dei lavoratori a tempo determinato» (Corte di giustizia, ordinanza 11 novembre 2010, C-20/10, Vino, punti 31- 32; sentenza Angelidaki, punto 126; sentenza 22 novembre 2005, C-144/04, Mangold, punto 52; ordinanza 24 aprile 2009, C-519-08, Koukou, punto 114).
Una normativa interna può ritenersi collegata con la «applicazione» dell’accordo quadro, non soltanto nel caso dell’iniziale recepimento della direttiva n. 1999/70/CE e del suo allegato contenente l’accordo quadro, ma anche nel caso di «ogni misura nazionale intesa a garantire che l’obiettivo da questa perseguito possa essere raggiunto, comprese le misure che, successivamente al recepimento propriamente detto, completino o modifichino le norme nazionali già adottate» (ordinanza Vino, punto 36; sentenza Mangold, punto 51; sentenza Angelidaki, punto 131; ordinanza Koukou, punto 115).
Tuttavia, una «normativa nazionale non può essere considerata contraria a detta clausola nel caso in cui la reformatio in peius che essa comporta non sia in alcun modo collegata con l’applicazione dell’accordo quadro. Ciò potrebbe avvenire qualora detta reformatio in peius fosse giustificata non già dalla necessità di applicare l’accordo quadro, bensì da quella di promuovere un altro obiettivo, distinto da detta applicazione» (ordinanza Vino, punto 37).
Al fine di valutare se una norma interna rientri o meno nel campo di applicazione dell’accordo quadro, in ogni caso, «è irrilevante il fatto che lo scopo perseguito» dalla nuova disposizione «sia eventualmente meno degno di tutela di quello perseguito dall’accordo quadro, ossia la protezione dei lavoratori assunti a tempo determinato» (ordinanza Vino, punto 44).
In definitiva, dunque, la clausola 8.3 dell’accordo quadro, nell’interpretazione fornita dal giudice europeo, non preclude in via generale modifiche che possano essere ritenute peggiorative del trattamento dei lavoratori a tempo determinato allorché attraverso di esse il legislatore nazionale persegua obiettivi diversi dalla attuazione dell’accordo quadro.
4.2.– Così ricostruito l’ambito di applicazione della clausola di non regresso, ritiene questa Corte che le disposizioni censurate esulino da tale ambito non essendo collegate alla attuazione dell’accordo quadro, ma perseguendo scopi distinti.
Nella sentenza n. 303 del 2011 questa Corte ha individuato la ratio dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 nella volontà di «introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione» a fronte delle «obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente, con l’esito di risarcimenti ingiustificatamente differenziati in misura eccessiva». In essa è stato, inoltre, chiarito che l’art. 32, comma 5, citato «non si limita a forfettizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine», ma va ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato che costituisce la «protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario».
La scelta di prevedere un’indennità forfettaria proporzionata risponde all’esigenza di «tutela economica dei lavoratori a tempo determinato più adeguata al bisogno di certezza dei rapporti giuridici tra tutte le parti coinvolte nei processi produttivi anche al fine di superare le inevitabili divergenze applicative cui aveva dato luogo il sistema previgente».
La finalità perseguita con l’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, dunque, non era quella di recepire ed attuare l’accordo quadro in materia di contratto a tempo determinato, bensì quella di assicurare la certezza dei rapporti giuridici, imponendo un meccanismo semplificato e di più rapida definizione di liquidazione del danno (evitando accertamenti probatori in ordine alla mora accipiendi, all’aliunde perceptum, al percipiendum, ecc.) a fronte della illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro.
Analogo obiettivo è alla base della norma di interpretazione autentica contenuta nell’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012.
Tale disposizione, emanata all’indomani della sentenza n. 303 del 2011, sostanzialmente recepisce l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 che quella pronuncia conteneva. Questa Corte ha infatti affermato che il danno forfettizzato dall’indennità in esame «copre soltanto il periodo cosiddetto “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto. A partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva».
A fronte delle divergenze interpretative che pur dopo tale pronuncia erano emerse nella giurisprudenza di merito, il legislatore è intervenuto accogliendo e rendendo vincolante l’interpretazione data da questa Corte all’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, allo scopo di «scoraggiare ulteriore contenzioso» (così la relazione al disegno di legge 3249 presentato al Senato il 5 aprile 2012).
Questi elementi consentono di ravvisare l’obiettivo perseguito dal legislatore, ancora una volta, nella esigenza di assicurare certezza nella quantificazione del risarcimento del danno spettante al lavoratore in caso di illegittima apposizione del termine al contratto, rendendo cogente la soluzione, già prevista, che bilanciava le opposte pretese del lavoratore e del datore di lavoro, nonché nello scoraggiare ulteriore contenzioso.
Se, dunque, l’intento perseguito da entrambe le disposizioni è quello di stabilire un criterio uniforme e certo per la quantificazione del danno allo scopo di semplificare il contenzioso, allora ne consegue che esse si collocano fuori dall’ambito di applicazione della clausola 8.3 dell’accordo quadro e che pertanto non sussiste alcuna violazione di detta clausola e, conseguentemente, degli evocati parametri costituzionali.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), come interpretato autenticamente dall’art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), sollevata, in riferimento agli artt. 11 e 117 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Velletri, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 luglio 2014.
F.to:
Sabino CASSESE, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2014.