Sentenza n. 86 del 2012

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SENTENZA N. 86

ANNO 2012

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Alfonso                       QUARANTA                                   Presidente

-           Franco                         GALLO                                              Giudice

-           Luigi                            MAZZELLA                                            ”

-           Sabino                         CASSESE                                                ”

-           Giuseppe                     TESAURO                                               ”

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                       ”

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     ”

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          ”

-           Paolo                           GROSSI                                                   ”

-           Giorgio                        LATTANZI                                              ”

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 21 della legge della Regione Marche 29 aprile 2011, n. 7 (Attuazione della Direttiva 2006/123/CE sui servizi nel mercato interno e altre disposizioni per l’applicazione di norme dell’Unione Europea e per la semplificazione dell’azione amministrativa. Legge comunitaria regionale 2011), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 7-8 luglio 2011, depositato in cancelleria il 14 luglio 2011, ed iscritto al n. 70 del registro ricorsi 2011.

Visto l’atto di costituzione della Regione Marche;

udito nell’udienza pubblica del 22 febbraio 2012 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

uditi l’avvocato dello Stato Angelo Venturini per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Stefano Grassi per la Regione Marche.

Ritenuto in fatto

1.— Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato l’8 luglio 2011, depositato il 14 luglio 2011, ha impugnato: a) l’articolo 21 della legge della Regione Marche 29 aprile 2011, n. 7 (Attuazione della Direttiva 2006/123/CE sui servizi nel mercato interno e altre disposizioni per l’applicazione di norme dell’Unione europea e per la semplificazione dell’azione amministrativa. Legge comunitaria regionale 2011), norma che ha sostituito l’art. 34 della legge della Regione Marche 28 ottobre 2003, n. 20 (Testo unico delle norme in materia industriale, artigiana e dei servizi alla produzione); b) l’art. 2 della citata legge reg. n. 7 del 2011, nella parte in cui inserisce i commi 6 e 7 del novellato art. 29 della legge della stessa Regione Marche 23 gennaio 1996, n. 4 (Disciplina delle attività professionali nei settori del turismo e del tempo libero).

2.— Il ricorrente, quanto al punto sub a) osserva che l’art. 21 della legge della Regione Marche n. 7 del 2011 – rubricato «Art. 21 Sostituzione dell’art. 34 della L. R. n. 20/2003» – violerebbe gli artt. 117, primo comma, e 120, primo comma, della Costituzione. Infatti, esso stabilirebbe che la Giunta regionale, per ciascuna delle lavorazioni artigianali, approvi appositi disciplinari di produzione che descrivano e determinino i materiali impiegati, oltre alle tecniche produttive da utilizzare. Le diverse imprese, svolgenti tale attività secondo i dettami stabiliti, potrebbero avvalersi del marchio di origine e qualità appositamente creato, che individuerebbe la provenienza del prodotto con le prescritte qualità dalla Regione Marche (marchio di origine e qualità denominato:«MEA-Marche Eccellenza Artigiana»). La Giunta regionale avrebbe il compito di definire la forma e le caratteristiche estetiche del marchio e di vigilare sulla corretta applicazione dei disciplinari.

Orbene, il censurato art. 21 si porrebbe in contrasto con le disposizioni del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), in materia di libera circolazione delle merci (artt. da 34 a 36) e, per l’effetto, con l’art. 117, primo comma, Cost., che impone al legislatore regionale il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.

La Corte di giustizia dell’Unione europea, più volte intervenuta sulla questione, avrebbe da tempo chiarito che la legislazione nazionale, diretta a regolare o applicare misure di marcatura di origine, siano i marchi di natura obbligatoria o volontaria, sarebbe contraria agli obiettivi di mercato interno, poiché la presenza di un marchio potrebbe avere effetti restrittivi sulla vendita in uno Stato membro di una merce prodotta in un altro Stato membro, ostacolando così gli scambi comunitari e i benefici del mercato interno.

In particolare, l’art. 21 sarebbe in contrasto con gli artt. 34 e 35 del TFUE, che farebbero divieto agli Stati membri di porre in essere restrizioni quantitative alle importazioni e alle esportazioni, nonché qualsiasi misura di effetto equivalente.

L’istituzione di un marchio di qualità da parte di uno Stato o di una Regione integrerebbe una «misura ad effetto equivalente», contraria al disposto delle dette norme comunitarie.

Invero, se gli stessi Stati membri, o al loro interno le Regioni, sostenessero una etichetta di qualità ed origine, tale attività (come chiarito dalla Corte di giustizia) avrebbe potenzialmente effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci, perché mirerebbe a promuovere e a privilegiare la commercializzazione di prodotti realizzati in taluni paesi o Regioni, inducendo i consumatori ad acquistare tali prodotti, anziché quelli importati o di provenienza da altri Stati membri o Regioni.

Quando titolare del marchio è un soggetto privato, quali che siano le regole previste dal relativo disciplinare (ivi comprese le regole sull’origine dei prodotti), non sussisterebbero implicazioni rispetto ai principi comunitari. La situazione sarebbe diversa, invece, qualora titolare del marchio sia un ente pubblico, come nella specie.

Invero, per la Corte di giustizia sarebbe incompatibile con il mercato unico, proprio in base agli artt. 34 e 35 del TFUE, la presunzione di qualità legata alla localizzazione nel territorio nazionale o regionale di tutto o di parte del processo produttivo, la quale perciò stesso limiterebbe o recherebbe svantaggio ad una produzione le cui fasi si svolgerebbero in tutto o in parte in altri Stati membri (a tale principio farebbero eccezione unicamente le regole relative alle denominazioni di origine e alle indicazioni di provenienza).

Nel caso in esame, non vi sarebbe dubbio che il marchio «MEA–Marche Eccellenza Artigiana» debba essere considerato un marchio di qualità, con la precisa funzione d’indicare anche l’origine del prodotto (la stessa legge lo definisce «marchio di origine e qualità»), facendo così discendere dall’origine marchigiana caratteristiche di migliore qualità, proprio per promuovere la vendita dei prodotti artigianali della Regione.

Né assumerebbe rilievo il fatto che detto marchio sia attribuito su base volontaria ai prodotti artigianali realizzati nella Regione Marche, che rispettino appositi disciplinari di produzione.

Infatti, il carattere volontario del marchio per la Corte di giustizia sarebbe del tutto irrilevante, perché comunque potenzialmente lesivo per la libera circolazione delle merci (sono all’uopo richiamate alcune pronunzie della Corte di giustizia dell’Unione europea: causa C-325/2000, sentenza 5 novembre 2002; cause riunite da C-321/1994 a C-324/1994, sentenza 7 maggio 1997; causa C-6/2002, sentenza 6 marzo 2003).

Nella fattispecie, non si potrebbe fondatamente sostenere che il marchio «MEA» rappresenti una semplice indicazione di «regioni o luoghi» e, pertanto, rientri nella deroga di cui all’art. 36 TFUE, relativa alla tutela della proprietà industriale e commerciale.

Infatti, la norma regionale in questione non rientrerebbe in tale ambito, poiché l’art. 21 istituirebbe un vero e proprio marchio di qualità, «dove l’indicazione dell’origine intende garantire non solo la provenienza geografica, ma anche che la produzione è stata realizzata secondo requisiti di qualità fissati in un atto predisposto dalla regione medesima». Nelle denominazioni di origine, marchi di qualità regolamentati, la provenienza di un prodotto, generalmente agro-alimentare, da un determinato territorio, ne condizionerebbe i caratteri e garantirebbe la presenza di alcune qualità in virtù di fattori sia naturali che umani.

In sostanza, presupposto della tutela riconosciuta alla denominazione di origine sarebbe sempre l’esistenza di un collegamento dimostrabile tra una determinata caratteristica di un particolare prodotto e un determinato, delimitato luogo di produzione.

Pertanto, proprio sulla base di tali premesse, la tutela prevista dalla Regione non sarebbe giustificata, facendo riferimento, come zona di origine, a tutto il territorio regionale e, come tipologia, indistintamente a tutti i prodotti dell’artigianato che rispettino un determinato disciplinare di produzione.

Infine, per quanto concerne l’Italia, andrebbe ricordato che la Commissione europea in passato avrebbe contestato l’esistenza di marchi di qualità regionali, avviando procedure d’infrazione relativamente a marchi della Regione siciliana e della Regione Abruzzo, procedure poi cancellate dal ruolo soltanto a seguito dell’abrogazione, da parte delle Regioni stesse, delle disposizioni censurate.

Alla luce di tali considerazioni, dunque, si dovrebbe ritenere che il citato art. 21 violi l’art. 117, primo comma, Cost., non rispettando i vincoli posti dall’ordinamento comunitario.

2.1.— Del pari sarebbe sussistente la violazione dell’art. 120, primo comma, Cost., sulla base dei rilievi già esposti, con riferimento alla disciplina comunitaria.

Alla stregua di tali rilievi, l’istituzione del marchio «MEA» varrebbe ad ostacolare il libero scambio delle merci in seno al mercato comunitario interno, contravvenendo alle menzionate disposizioni comunitarie. Ebbene, la predetta istituzione produrrebbe effetti analoghi all’interno del mercato nazionale, violando il libero scambio delle merci tra le diverse Regioni, tutelato dall’art. 120 Cost. I consumatori, attratti da un particolare marchio legato a una specifica Regione (nella specie, la Regione Marche), sarebbero portati ad escludere i prodotti da esso non contrassegnati, provenienti da altre Regioni, così pregiudicando la circolazione delle merci.

Un sistema di marcatura, ancorché facoltativo, nel momento in cui è imputabile ad un ente pubblico, potrebbe avere effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci, perché l’uso del marchio favorirebbe, o sarebbe idoneo a favorire, lo smercio dei prodotti in questione rispetto ai prodotti che non potrebbero fregiarsene.

Il ricorrente, dunque, censura l’art. 21 della legge della Regione Marche n. 7 del 2011, ritenendo che esso violi il menzionato art. 120, primo comma, Cost., perché ostacolerebbe la libera circolazione delle merci tra le Regioni.

3.— Quanto al punto sub b), il Presidente del Consiglio dei ministri ha censurato l’art. 2 della legge della Regione Marche n. 7 del 2011, nella parte in cui inserisce i commi 6 e 7 del novellato art. 29 della legge regionale n. 4 del 1996, concernente la disciplina delle attività professionali nei settori del turismo e del tempo libero. Ad avviso del ricorrente, tali disposizioni violerebbero l’art. 117, terzo comma, Cost.

Infatti, esse regolerebbero il possesso di specifici requisiti, dei quali dovrebbero essere in possesso i cittadini non comunitari che volessero esercitare, saltuariamente o stabilmente, la professione di maestro di sci nel territorio regionale.

Le citate disposizioni, però, si porrebbero in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., perché violerebbero il principio fondamentale che riserva allo Stato non soltanto l’individuazione delle figure professionali, ma anche la definizione e la disciplina dei requisiti e dei titoli necessari per l’esercizio delle attività professionali (è richiamata, in proposito, la giurisprudenza di questa Corte).

Del resto, proprio secondo la lettura dell’art. 117 Cost. effettuata da questa Corte, il riconoscimento di titoli professionali posseduti da cittadini non appartenenti agli Stati membri sarebbe disciplinata dalla normativa statale, prevista dall’articolo 49 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286), che individua nell’Autorità statale vigilante – nella specie, l’Ufficio per lo sport presso la Presidenza del Consiglio dei ministri – l’organo nazionale all’uopo competente.

4.— La Regione Marche, in persona del legale rappresentante pro tempore, si è costituita in giudizio con memoria depositata il 9 agosto 2011.

L’ente ha dedotto che, qualche giorno dopo la notificazione del ricorso introduttivo del presente giudizio, «è entrata in vigore la legge reg. 6 luglio 2011, n. 13, approvata dall’assemblea legislativa regionale nella seduta n. 48 del 28 giugno 2011 e pubblicata nel Bollettino ufficiale della Regione Marche n. 59 del 14 luglio 2011, con la quale – all’art. 7 – il legislatore regionale ha provveduto a sostituire integralmente l’art. 2 censurato in questa sede, disponendo una nuova sostituzione del menzionato art. 29 della legge reg. n. 4 del 1996. In tale attuale versione della disposizione in esame gli impugnati commi 6 e 7 non compaiono più, risultando essi sostituiti da un nuovo comma 6 che si limita a disporre quanto segue: “6. Ai cittadini dei paesi terzi che vogliano esercitare la professione di maestro di sci, si applicano le disposizioni di cui al D. P. R. 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286)”».

Al riguardo, la Regione, nel rimarcare di essersi prontamente conformata alle doglianze formulate nel ricorso governativo, segnala che è da escludere ogni ipotesi di applicazione medio tempore della disciplina regionale oggetto dell’impugnazione in parte qua. Pertanto, chiede che sul punto sia dichiarata la cessazione della materia del contendere.

4.1.— Quanto alla questione concernente l’art. 21 della legge regionale n. 7 del 2011, la Regione Marche, dopo aver trascritto il testo della norma e riassunto le censure della difesa erariale, sostiene di essere «ben consapevole della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea richiamata nel ricorso introduttivo in ordine all’interpretazione delle disposizioni attualmente contenute negli artt. da 34 a 36 del TFUE e agli effetti che ne discendono in relazione alla valutazione di conformità delle discipline statali o regionali che introducano i cosiddetti “sistemi di marcatura”dei prodotti di cui siano titolari enti pubblici anziché soggetti privati».

Tuttavia, la Regione prosegue, andrebbe rilevato che proprio sulla base di quella giurisprudenza non potrebbe affatto considerarsi vietata, in termini assoluti e incondizionati, l’istituzione di marchi “di origine” o “di qualità” ad opera di enti pubblici. Il divieto sarebbe configurabile soltanto in relazione alla sussistenza di precise caratteristiche o requisiti concreti del marchio in questione, tali da determinare un illegittimo ostacolo alla libertà di concorrenza e alla libera circolazione dei prodotti all’interno dell’Unione.

Nel caso in esame, la disciplina regionale di cui all’impugnato art. 21 rivelerebbe soltanto tre elementi certi: la denominazione ufficiale del marchio «Marche Eccellenza Artigiana (MEA)»; la sua istituzione da parte dell’ente Regione; la sua generica riferibilità alle lavorazioni dell’artigianato artistico, tradizionale e tipico. Per il resto, mancherebbe nella disposizione qualunque elemento di certezza circa la natura, l’ambito soggettivo e oggettivo di applicazione, nonché l’efficacia che tale marchio dovrebbe assumere in concreto.

In particolare, la normativa impugnata lascerebbe impregiudicate almeno le seguenti questioni: a) se il marchio de quo sia riferito all’origine, alla qualità o ad entrambi tali profili dei prodotti cui sia attribuito e, soprattutto, se ed in quali termini la qualità sia o meno ricondotta, di per sé, all’origine esclusivamente “marchigiana” dei prodotti medesimi; b) a quali specifiche “lavorazioni artigiane” il marchio sia potenzialmente attribuibile e secondo quali specifici requisiti di produzione; c) se debbano considerarsi pregiudizialmente esclusi o meno i produttori o gli operatori economici di altri Stati dell’Unione europea – o di altre Regioni italiane – che soddisfino i requisiti previsti nei disciplinari.

In effetti, la definizione in concreto di tali profili resterebbe affidata, per esplicita previsione della stessa disposizione impugnata, a futuri atti attuativi di competenza della Giunta regionale. In particolare, a quest’ultima spetterebbe l’individuazione, ai sensi del novellato art. 33 della legge regionale n. 20 del 2003, delle «lavorazioni dell’artigianato artistico, tradizionale e tipico», cui riferire il marchio in questione, nonché, e soprattutto, l’approvazione degli «appositi disciplinari di produzione» che le imprese dovrebbero impegnarsi a rispettare e dai quali soltanto sarebbe possibile ricavare la conformazione definitiva della natura e delle caratteristiche del marchio medesimo.

Quanto al profilo soggettivo, ad avviso della Regione Marche, oltre all’ovvia condizione del rispetto del disciplinare di produzione, la normativa impugnata si limiterebbe a chiedere la semplice iscrizione ad una apposita sezione dell’albo provinciale delle imprese artigiane, regolato dall’art. 28 della legge regionale n. 20 del 2003, i cui requisiti di accesso sarebbero fissati mediante il semplice rinvio alla disciplina nazionale contenuta nella legge 8 agosto 1985, n. 443 (Legge-quadro per l’artigianato).

In un simile contesto, non sarebbe sostenibile che l’art. 21 della legge regionale n. 7 del 2011 si ponga in contrasto con i parametri evocati dal ricorrente, se non ritenendo che quest’ultimo in realtà abbia voluto “anticipare” censure che, in assenza del necessario e futuro completamento della disciplina, risulterebbero ad oggi del tutto prive degli indispensabili requisiti dell’attualità e della concretezza.

Infatti, le considerazioni esposte dimostrerebbero che i contenuti della detta norma regionale sarebbero “neutri” rispetto alle doglianze sollevate dalla difesa dello Stato. Soltanto la emanazione, da parte della Regione, degli atti attuativi di tale normativa sarebbe in grado di rivelare se il marchio «Marche Eccellenza Artigiana (MEA)» risulti in concreto conforme o meno ai vincoli costituzionali e del diritto dell’Unione europea; e, nella denegata ipotesi di eventuali violazioni, non mancherebbero i rimedi giurisdizionali per accertarle e sanzionarle nelle sedi adeguate.

Pertanto, la questione di legittimità costituzionale promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri in parte qua sarebbe inammissibile o infondata.

4.2.— In prossimità dell’udienza di discussione la difesa dello Stato ha depositato una memoria illustrativa.

Quanto alla questione concernente l’art. 2 della legge della Regione Marche n. 7 del 2011, sostitutivo dell’art. 29 della legge regionale n. 4 del 1996, nella parte relativa ai commi 6 e 7 di detto articolo, l’Avvocatura generale dello Stato prende atto delle deduzioni della Regione circa l’avvenuta abrogazione di tali commi e circa l’affermazione che, nel periodo di vigenza, essi non hanno trovato applicazione.

Pertanto, ha aderito alla declaratoria di cessazione della materia del contendere sul punto.

Quanto alla questione relativa all’art. 21 della legge regionale n. 7 del 2011, la difesa erariale insiste nelle proprie deduzioni e richieste.

Considerato in diritto

1.— Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso depositato il 14 luglio 2011 (reg. ric. n. 70 del 2011), ha impugnato: a) l’articolo 21 della legge della Regione Marche 29 aprile 2011, n. 7 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE sui servizi nel mercato interno e altre disposizioni per l’applicazione di norme dell’Unione Europea e per la semplificazione dell’azione amministrativa. Legge comunitaria regionale 2011), norma che ha sostituito l’art. 34 della legge della Regione Marche 28 ottobre 2003, n. 20 (Testo unico delle norme in materia industriale, artigiana e dei servizi alla produzione); b) l’art. 2 della citata legge regionale n. 7 del 2011, nella parte in cui inserisce i commi 6 e 7 del novellato articolo 29 della legge della stessa Regione Marche 23 gennaio 1996, n. 4 (Disciplina delle attività professionali nei settori del turismo e del tempo libero).

2.— Quanto alla questione sub a) il citato art. 21, sotto la rubrica «Sostituzione dell’art. 34 della L. R. n. 20/2003», così dispone: «1. L’articolo 34 della L. R. n. 20/2003 è sostituito dal seguente: art. 34 Disciplinari di produzione e marchio di origine e qualità.

1. Per ognuna delle lavorazioni dell’artigianato artistico, tradizionale e tipico individuate ai sensi dell’articolo 33, comma 2, la Giunta regionale approva appositi disciplinari di produzione, che descrivono e definiscono sia i materiali impiegati sia le particolarità delle tecniche produttive, nonché qualunque altro elemento atto a  caratterizzare le lavorazioni considerate.

2. Le deliberazioni di cui al comma 1 sono adottate su proposta di apposite commissioni, nominate dalla Giunta regionale medesima. Ai componenti delle commissioni spettano le indennità e i rimborsi spese di cui all’art. 30, comma 3.

3. Le imprese artigiane che svolgono la propria attività secondo i disciplinari di cui al comma 1 e risultano iscritte alla sezione di cui all’articolo 28, comma 1, lettera b), hanno diritto di avvalersi del marchio di origine e di qualità denominato “Marche Eccellenza Artigiana (MEA)”.

4. La Giunta regionale, sentita la CRA, definisce la forma e le caratteristiche tecniche ed estetiche del marchio di origine e qualità di cui al comma 3.

5. La Giunta regionale promuove il marchio d’origine e qualità con le modalità individuate nelle disposizioni annuali di attuazione di cui all’articolo 4.

6. La Giunta regionale vigila sull’applicazione dei disciplinari di cui al comma 1 e sull’uso del marchio di cui al comma 4, adottando, previa diffida, i necessari provvedimenti per il ripristino della corretta gestione degli stessi.

7. È vietata l’apposizione del marchio su prodotti finiti acquistati da soggetti terzi».

Secondo la difesa dello Stato, la norma ora trascritta violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., per inosservanza dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea, in quanto si porrebbe in netto contrasto con le disposizioni dettate dagli artt. da 34 a 36 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) in materia di libera circolazione delle merci, disposizioni che vietano agli Stati membri di porre in essere restrizioni quantitative all’importazione e all’esportazione, nonché qualsiasi altra misura di effetto equivalente. L’istituzione di un marchio di origine e qualità da parte di uno Stato o di una Regione costituirebbe, per l’appunto, una «misura ad effetto equivalente».

Inoltre, sarebbe violato l’art. 120, primo comma, Cost., perché l’istituzione di un marchio con le modalità sopra indicate sarebbe di ostacolo al libero scambio delle merci anche all’interno del mercato nazionale, in quanto i consumatori sarebbero attratti dal particolare marchio legato ad una specifica Regione rispetto alle merci provenienti da altre Regioni.

3.— La questione è ammissibile.

Si deve premettere che, come più volte affermato da questa Corte, l’art. 11 Cost., prevedendo che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni», ha permesso di riconoscere alle norme comunitarie efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento (ex plurimis: sentenze n. 102 del 2008; n. 349 e 284 del 2007; n. 170 del 1984). Il testo dell’art. 117, primo comma, Cost., introdotto dalla legge costituzionale del 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) – nel disporre che «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario (….)» – ha ribadito che tali vincoli si impongono al legislatore nazionale (statale, regionale e delle Province autonome).

Da tale quadro normativo costituzionale consegue che, con la ratifica dei Trattati comunitari, l’Italia è entrata a far parte di un ordinamento giuridico autonomo e coordinato con quello interno, ed ha trasferito, in base al citato art. 11 Cost., l’esercizio di poteri, anche normativi, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi. Le norme dell'Unione europea vincolano in vario modo il legislatore interno, con il solo limite dell’intangibilità dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili dell’uomo, garantiti dalla Costituzione (ex plurimis: sentenze n. 102 del 2008; nn. 349, 348 e 284 del 2007; n. 170 del 1984).

Nella fattispecie, che qui interessa, di leggi regionali della cui compatibilità col diritto dell’Unione europea (come interpretato e applicato dalle istituzioni e dagli organi di detta Unione) si dubita, va rilevato che l’inserimento dell’ordinamento italiano in quello comunitario comporta due diverse conseguenze, a seconda che il giudizio in cui si fa valere tale dubbio penda davanti al giudice comune ovvero davanti alla Corte costituzionale a seguito di ricorso proposto in via principale.

Nel primo caso, le norme dell’Unione, se munite di efficacia diretta, impongono al giudice di disapplicare le norme interne statali e regionali, ove le ritenga non compatibili. Nel secondo caso, le medesime norme «rendono concretamente operativo il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, Cost. (come chiarito, in generale, dalla sentenza n. 348 del 2007), con conseguente declaratoria d’illegittimità costituzionale delle norme regionali che siano giudicate incompatibili con il diritto comunitario» (sentenza n. 102 del 2008, citata).

Alla luce di tali principi, le censure mosse all’art. 21 della legge regionale n. 7 del 2011 devono essere dichiarate ammissibili, perché le norme dell’Unione europea sono state correttamente evocate dal ricorrente nel presente giudizio per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., quale elemento integrante il parametro di legittimità costituzionale.

4.— La questione è, altresì, fondata.

Ai sensi dell’art. 34 del TFUE (già art. 28 del TCE), «Sono vietate tra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente».

Il successivo art. 35 (già articolo 29 del TCE) dispone che «Sono vietate tra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’esportazione e qualsiasi misura di effetto equivalente».

L’art. 36 del TFUE (già art. 30 del TCE), infine, stabilisce che «Le disposizioni degli articoli 34 e 35 lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, o di tutela della proprietà industriale e commerciale. Tuttavia, tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri».

Dalle suddette disposizioni si evince il rilievo centrale che, nella disciplina del mercato comune delle merci, ha il divieto di restrizioni quantitative degli scambi e di misure di effetto equivalente, concernente sia le importazioni, sia le esportazioni. In particolare, la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha elaborato una nozione ampia di “misura di effetto equivalente”, nozione riassunta nel principio secondo cui «ogni normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari va considerata come una misura di effetto equivalente a restrizioni quantitative» (Corte di giustizia, sentenza 11 luglio 1974, in causa 8/1974, Dassonville contro Belgio).

Nel quadro di tale principio, la Corte suddetta ha affermato che la concessione, da parte di uno Stato membro, di un marchio di qualità a prodotti finiti fabbricati in quello Stato, comportava per esso il venir meno agli obblighi derivanti dall’art. 30 del Trattato CE, divenuto, in seguito a modifica, art. 28 CE (Corte di giustizia, sentenza 5 novembre 2002 in causa C-325/2000, Commissione contro Repubblica Federale di Germania).

Ad avviso della Corte, la disciplina controversa aveva, quanto meno potenzialmente, effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci fra Stati membri. Infatti una simile disciplina, introdotta al fine di promuovere la commercializzazione dei prodotti agroalimentari realizzati in Germania ed il cui messaggio pubblicitario sottolineava la provenienza tedesca dei prodotti interessati, poteva indurre i consumatori ad acquistare i prodotti recanti il marchio CMA, escludendo i prodotti importati.

A conclusioni analoghe la stessa Corte è pervenuta con sentenza 6 marzo 2003 in causa C-6/2002, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica Francese, relativa alla protezione giuridica nazionale concessa ad alcuni marchi regionali.

Orbene, la norma in questa sede censurata introduce un marchio «di origine e di qualità», denominato «Marche Eccellenza Artigiana (MEA)», che, con la chiara indicazione di provenienza territoriale («Marche»), mira a promuovere i prodotti artigianali realizzati in ambito regionale, garantendone per l’appunto l’origine e la qualità. Quanto meno la possibilità di produrre effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci tra Stati membri è, dunque, innegabile, alla luce della nozione comunitaria di «misura ad effetto equivalente» elaborata dalla Corte di giustizia e dalla giurisprudenza dianzi richiamata.

Pertanto, sussiste la denunziata violazione dei vincoli posti dall’ordinamento dell’Unione europea e, per conseguenza, dell’art. 117, primo comma, Cost.

La Regione Marche, del resto, non contesta i principi sopra enunciati, dichiarandosi ben consapevole della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e degli effetti che ne discendono, in relazione alla valutazione di conformità delle discipline statali o regionali dirette ad introdurre i cosiddetti “sistemi di marcatura” dei prodotti, di cui siano titolari enti pubblici anziché soggetti privati. Tuttavia, l’ente sostiene che, proprio sulla base di quella giurisprudenza, non si potrebbe considerare vietata, in termini assoluti e incondizionati, l’istituzione di marchi di “origine” o di “qualità” ad opera di enti pubblici. A suo avviso, il divieto sarebbe configurabile soltanto in relazione alla sussistenza di precise caratteristiche o requisiti concreti del marchio in questione, tali da determinare un illegittimo ostacolo alla libertà di concorrenza e alla libera circolazione dei prodotti all’interno dei confini dell’Unione.

Questa tesi non può essere condivisa.

Ferme le considerazioni dianzi svolte, da aversi qui per ribadite, si deve osservare che non è esatto l’assunto, secondo cui la normativa impugnata lascerebbe impregiudicata la questione se il marchio de quo sia riferito all’origine, alla qualità o ad entrambi tali profili dei prodotti cui sia attribuito e, soprattutto, se ed in quali termini la qualità sia ricondotta all’origine esclusivamente “marchigiana” dei prodotti medesimi.

In realtà, il testuale tenore della norma rende palese che il marchio in questione è riferito sia all’origine sia alla qualità (art. 21, commi 3 e 5, della legge regionale), mentre l’origine “marchigiana” dei prodotti è rimarcata con analoga chiarezza dalla denominazione della Regione inserita nel marchio.

È poi irrilevante che nella norma censurata non sia indicato a quali “lavorazioni artigiane” il marchio sia potenzialmente attribuito, trattandosi di disposizioni di dettaglio che la norma stessa demanda alla Giunta regionale.

Infine, quanto al quesito «se debbano considerarsi pregiudizialmente esclusi o meno i produttori o gli operatori economici di altri Stati dell’Unione europea – o di altre Regioni italiane che soddisfino i requisiti previsti nei disciplinari», va rilevato che si tratta di un profilo ipotetico, peraltro privo di riscontri nel dettato della norma e comunque inidoneo ad escludere il carattere potenzialmente lesivo per la libera circolazione delle merci, sopra evidenziato.

Conclusivamente, alla stregua delle considerazioni che precedono, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 21 della legge della Regione Marche n. 7 del 2011, che ha sostituito l’art. 34 della legge della stessa Regione n. 20 del 2003, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.

La declaratoria d’illegittimità costituzionale comprende l’intera disposizione, avuto riguardo alla stretta connessione delle norme che la compongono.

Ogni altro profilo resta assorbito.

5.— Sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge della Regione Marche n. 7 del 2011, sostitutivo dell’art. 29 della legge regionale n. 4 del 1996, nella parte relativa ai commi 6 e 7, deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere.

Infatti, la Regione ha dedotto che, pochi giorni dopo la notificazione del ricorso introduttivo del presente giudizio, è entrata in vigore la legge regionale 6 luglio 2011, n. 13 (Modifiche alle leggi regionali: 1° giugno 1999, n. 17 “Costituzione società regionale di sviluppo”; 2 settembre 1997, n. 60 “Istituzione dell'agenzia regionale per la protezione ambientale delle Marche (ARPAM)”; 29 aprile 2011, n. 7 “Legge comunitaria regionale 2011”) con la quale, all’art. 7, il legislatore regionale ha provveduto a sostituire integralmente il censurato art. 2, operando una nuova sostituzione dell’art. 29 della legge regionale n. 4 del 1996. Nella nuova versione della norma gli impugnati commi 6 e 7 non compaiono, risultando sostituiti da un nuovo comma 6, che si limita a disporre quanto segue: «6. Ai cittadini dei paesi terzi che vogliano esercitare la professione di maestro di sci, si applicano le disposizioni di cui al D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286)».

La Regione ha anche escluso ogni ipotesi di applicazione medio tempore della disciplina oggetto dell’impugnazione.

La difesa dello Stato, preso atto di quanto sopra, ha dichiarato di non opporsi alla declaratoria di cessazione della materia del contendere. Pertanto, va disposto in conformità, come da dispositivo.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 21 della legge della Regione Marche 29 aprile 2011, n. 7 (Attuazione della Direttiva 2006/123/CE sui servizi nel mercato interno e altre disposizioni per l’applicazione di norme dell’Unione Europea e per la semplificazione dell’azione amministrativa. Legge comunitaria regionale 2011), articolo che sostituisce l’articolo 34 della legge della Regione Marche 28 ottobre 2003, n. 20 (Testo unico delle norme in materia industriale, artigiana e dei servizi alla produzione);

2) dichiara cessata la materia del contendere relativamente alla questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2 della legge della Regione Marche n. 7 del 2011, che ha sostituito l’articolo 29 della legge della Regione Marche 23 gennaio 1996, n. 4 (Disciplina delle attività professionali nel settore del turismo e del tempo libero), nella parte in cui ha inserito i commi 6 e 7, questione sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 2012.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 aprile 2012.