SENTENZA N. 17
ANNO 2021
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giancarlo CORAGGIO;
Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 54, comma 3, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Tribunale di sorveglianza di Bologna nel procedimento di sorveglianza nei confronti di M. F., con ordinanza del 22 ottobre 2019, iscritta al n. 26 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2020.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 13 gennaio 2021 il Giudice relatore Nicolò Zanon;
deliberato nella camera di consiglio del 14 gennaio 2021.
1.– Con ordinanza del 22 ottobre 2019 (r.o. n. 26 del 2020) il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 54, comma 3, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che la revoca della liberazione anticipata possa essere disposta, oltre che per la sopravvenuta condanna per un delitto non colposo commesso nel corso dell’esecuzione, successivamente alla concessione del beneficio, anche nei casi di sopravvenuta assoluzione e di contestuale applicazione di una misura di sicurezza per un fatto qualificato ex art. 115 del codice penale.
1.1.– Il Collegio rimettente è chiamato a valutare una richiesta del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Bologna, volta ad ottenere la revoca del beneficio della liberazione anticipata applicato nei confronti di M. F., avuto riguardo a periodi di detenzione sofferti tra il marzo del 2010 e l’ottobre del 2018, con esecuzione della pena conseguentemente cessata al 29 luglio 2019.
Nel corso dell’esecuzione della condanna per un delitto di tentato omicidio, una nuova ed analoga imputazione era stata elevata nei confronti dell’interessato. Questi, secondo l’accusa, aveva attentato per una seconda volta alla vita della stessa persona, commettendo il fatto, in epoca antecedente e prossima al 18 marzo 2016, mediante l’istigazione rivolta a un altro detenuto affinché provvedesse all’esecuzione materiale del delitto.
Nondimeno, con sentenza di primo grado del 22 dicembre 2017, confermata in appello con sentenza del 7 febbraio 2019 (divenuta irrevocabile il 23 giugno 2019), l’interessato era stato assolto dalla nuova imputazione perché il fatto non costituisce reato, sul presupposto che la sua istigazione ad uccidere non fosse stata accolta dal compagno di detenzione. I giudici avevano comunque applicato nei suoi confronti, secondo il disposto dell’art. 115 cod. pen., la misura di sicurezza della libertà vigilata.
Al momento della condotta di istigazione, M. F. aveva già due volte ottenuto, dal competente giudice di sorveglianza, riduzioni di pena per 300 giorni complessivi (provvedimenti del 3 settembre e del 19 novembre 2015, riguardo all’esecuzione maturata fino al 17 ottobre 2015). Due provvedimenti analoghi sono poi stati adottati dopo il “quasi reato”, così da portare a 570 il numero complessivo dei giorni di liberazione anticipata (in particolare, ordinanze del 29 agosto e del 7 dicembre 2018).
1.2.– Il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Bologna ha sollecitato la revoca con riguardo all’intera riduzione di pena, invocando il disposto del comma 3 dell’art. 54 ordin. penit., a mente del quale «[l]a condanna per delitto non colposo commesso nel corso dell’esecuzione successivamente alla concessione del beneficio ne comporta la revoca».
Il Tribunale, considerato che la legge prevede la revoca solo con riguardo a fatti commessi dopo la concessione del beneficio, osserva che la richiesta potrebbe in astratto essere accolta solo per i più risalenti tra i provvedimenti in favore del condannato (e dunque relativamente ai primi 300 giorni di liberazione anticipata). E tuttavia, anche per tali provvedimenti, osterebbe alla revoca la mancanza dell’ulteriore condizione posta dalla norma censurata, cioè l’intervenuta condanna per un delitto non colposo. Nella specie – osserva ancora il rimettente – è intervenuta infatti una assoluzione, sia pure pronunciata a norma dell’art. 115 cod. pen., e dunque sul presupposto della commissione di un fatto sintomatico di pericolosità sociale.
La nozione di “condanna”, nella disciplina in questione, non potrebbe che essere intesa in termini letterali, e perciò restrittivamente, trattandosi fra l’altro di disposizione derogatoria – a parere del rimettente – al principio di stabilità dei provvedimenti applicativi di benefici penitenziari. Il Tribunale richiama altresì un prolungato contrasto di giurisprudenza riguardo all’idoneità della sentenza di applicazione della pena su richiesta a supportare la revoca della liberazione anticipata: un contrasto a suo dire risolto positivamente, ma solo per l’espressa equiparazione tra la sentenza di “patteggiamento” e quella di condanna, come stabilita al comma 1-bis dell’art. 445 del codice di procedura penale; equiparazione che manca, invece, riguardo alla sentenza assolutoria ex art. 115 cod. pen.
1.3.– La chiara lettera della norma censurata non potrebbe essere superata, secondo il rimettente, mediante un riferimento alla sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 1995, come suggerito dal Procuratore generale che ha promosso il procedimento di revoca. Con detta sentenza, il comma 3 dell’art. 54 ordin. penit. era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevedeva la revoca della liberazione anticipata nel caso di condanna per delitto non colposo commesso nel corso dell’esecuzione, anziché stabilire che il beneficio dovesse essere revocato quando la condanna subìta risultasse incompatibile con il relativo mantenimento. Secondo il Tribunale di sorveglianza, l’intervento della Corte era valso a superare l’automatismo insito nella norma, subordinando la revoca ai casi di concreta ed effettiva incompatibilità della liberazione anticipata con il delitto medio tempore commesso, con effetto dunque di restrizione, e non di ampliamento, del potere giudiziale in proposito.
1.4.– Ferma restando dunque la rilevanza delle questioni sollevate, il Tribunale rimettente dubita della legittimità costituzionale di una disciplina che non equipari, ai fini che interessano, la sentenza per il cosiddetto “quasi reato” alla sentenza di condanna. L’art. 115 cod. pen. avrebbe la funzione di delimitare la figura tipica del tentativo, escludendo la punibilità dei fatti inidonei o non univoci, e tuttavia tali fatti non potrebbero dirsi penalmente irrilevanti. Alle condotte in questione, infatti, può far seguito l’applicazione di una misura di sicurezza ove ricorra una situazione di pericolosità sociale, che il giudice – sempre secondo il rimettente – è chiamato a valutare mediante gli stessi criteri stabiliti per la determinazione della pena (art. 133 cod. pen.), e deve fronteggiare con le stesse misure di sicurezza previste per gli imputati condannati. In caso di applicazione della liberazione anticipata, le analogie con la condanna si farebbero dunque particolarmente stringenti, anche alla luce dell’asserita contiguità dei modelli di condotta.
Il rimettente osserva, a tale ultimo proposito, che il confine tra tentativo punibile e istigazione non accolta può essere assai labile (nella specie vi erano già stati versamenti di denaro e sopralluoghi sul luogo del programmato omicidio), e che l’intenzionalità della condotta di istigazione è identica a quella espressa commettendo quel «delitto non colposo» per il quale, nell’eventualità della condanna, la liberazione anticipata è suscettibile di revoca. Nei casi in questione – si aggiunge – l’evento antigiuridico non si verifica «unicamente a causa di fattori indipendenti dalla volontà del soggetto».
Di qui, secondo il Tribunale, il dubbio non manifestamente infondato di violazione dell’art. 3 Cost.
La disciplina censurata contrasterebbe poi con il principio di finalizzazione rieducativa della pena, presidiato dal terzo comma dell’art. 27 Cost. L’attuazione di tale principio, a fronte di fatti espressivi dell’attuale ricorrenza d’una condizione di pericolosità sociale, «non può prescindere, in generale, dalla possibilità per la Magistratura di Sorveglianza di valutare eventuali sopravvenienze, sintomatiche, in misura significativa, della mancata adesione, del condannato, al trattamento o al progetto risocializzante avviato nei suoi confronti».
2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 17 marzo 2020, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili.
Richiamato il principio per il quale possono essere dichiarate costituzionalmente illegittime solo norme delle quali non risulti possibile una interpretazione costituzionalmente orientata, l’Avvocatura generale assume che il Tribunale rimettente non avrebbe verificato, come invece avrebbe dovuto, la possibilità di dare applicazione alla norma censurata facendone discendere la revoca (almeno parziale) della liberazione anticipata a suo tempo disposta in favore del condannato.
Non basterebbe infatti il mero argomento letterale – sempre secondo l’Avvocatura generale – ad escludere che il terzo comma dell’art. 54 ordin. penit. possa essere applicato alle ipotesi di “quasi reato”.
Il dato veramente rilevante, nella sostanza, consisterebbe nella manifestazione di pericolosità quale sintomo dell’insuccesso del condannato nel percorso di risocializzazione durante l’esecuzione della pena. Ciò che si desumerebbe, tra l’altro, dalla sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 1995, che ha fortemente valorizzato l’elemento della pericolosità sociale, tanto da eliminare il pregresso automatismo e da subordinare la revoca della liberazione anticipata ad una verifica, appunto, dell’attualità del rischio di nuovi comportamenti antisociali.
L’inammissibilità delle questioni sollevate dovrebbe dunque conseguire alla circostanza che il rimettente avrebbe eluso il dovere di sperimentare la ricordata soluzione adeguatrice.
1.– Il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 54, comma 3, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione.
La disposizione censurata disciplina la revoca della misura della liberazione anticipata, stabilendo che tale revoca sia disposta in seguito a condanna per un delitto non colposo, commesso nel corso dell’esecuzione, successivamente alla concessione del beneficio.
Il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Bologna aveva rivolto al Collegio rimettente domanda di revoca di più provvedimenti di concessione del beneficio, in favore di persona condannata per un reato di tentato omicidio. A quest’ultimo era stato infatti addebitato un nuovo e analogo tentativo di omicidio, sempre in danno della stessa vittima, asseritamente commesso durante l’esecuzione della pena per il primo delitto. Nel nuovo giudizio, il fatto era stato qualificato come “quasi reato”, ai sensi dell’art. 115 del codice penale, con la conseguente pronuncia di una sentenza assolutoria, accompagnata dall’applicazione di una misura di sicurezza personale, sul presupposto della ritenuta pericolosità sociale dell’autore.
Il giudice a quo lamenta che il tenore della disposizione censurata non consente in simile fattispecie la revoca del beneficio, poiché si riferisce testualmente al sopravvenire di una sentenza di «condanna». L’art. 54, comma 3, ordin. penit. non sarebbe del resto suscettibile di alcuna applicazione analogica, poiché introdurrebbe una eccezione alla «regola generale, che sancisce con carattere di definitività l’attribuzione del beneficio al condannato che dia prova di partecipazione all’opera rieducativa».
Nondimeno, sempre a parere del rimettente, la disciplina della revoca del beneficio, nell’ipotesi di “quasi reato”, e particolarmente nel caso dell’applicazione di una misura di sicurezza, dovrebbe essere analoga a quella della condanna per un delitto non colposo, anche tentato, data l’identità dei fatti, sia sotto il profilo dell’intenzione criminale che della pericolosità criminale rispettivamente espresse dagli autori. L’impossibilità di procedere in tal senso determinerebbe la lesione dell’art. 3 Cost.
Risulterebbe violato anche il principio di necessaria finalizzazione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.). L’attuazione di tale principio dovrebbe infatti consentire alla magistratura di sorveglianza di valutare – anche riconsiderando l’applicazione del beneficio accordato – eventuali sopravvenienze, sintomatiche in misura significativa della mancata adesione del condannato al trattamento o al progetto di risocializzazione, ed espressive, al pari di un delitto tentato, dell’intenzione criminosa e della pericolosità sociale dell’autore.
Per queste ragioni, il rimettente dubita che l’art. 54, comma 3, ordin. penit. sia costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede che la revoca della liberazione anticipata possa essere disposta – oltre che per la sopravvenuta condanna per un delitto non colposo commesso nel corso dell’esecuzione successivamente alla concessione del beneficio – anche nei casi di sopravvenuta assoluzione e di contestuale applicazione di una misura di sicurezza per un fatto qualificato ex art. 115 cod. pen.
2.– Ricompreso tra le misure alternative alla detenzione, l’istituto della liberazione anticipata è regolato nell’ambito del Capo VI del Titolo II della legge sull’ordinamento penitenziario, stabilendo, in particolare, che in favore del condannato sia disposta la detrazione di quarantacinque giorni per ogni semestre di pena detentiva eseguita. Ciò non implica soltanto che l’esecuzione intramuraria cessi con un corrispondente anticipo rispetto alla durata della pena stabilita in fase di cognizione. In linea generale, l’applicazione del beneficio comporta anche che i quarantacinque giorni in parola si considerino scontati, il che rileva, ad esempio, quando si debba stabilire se il condannato abbia superato le quote di pena necessarie per accedere a benefici ulteriori (comma 4 dell’art. 54 ordin. penit.), e spiega la ragione per cui la liberazione anticipata può essere concessa anche ai condannati all’ergastolo, i quali se ne avvalgono per l’accesso alla semilibertà (che può avvenire, ai sensi del comma 5 dell’art. 50, ordin. penit., dopo venti anni dall’inizio dell’esecuzione) o alla liberazione condizionale (possibile dopo una detenzione per ventisei anni, come disposto al terzo comma dell’art. 176 cod. pen.).
Il presupposto sostanziale per l’applicazione del beneficio è la comprovata «partecipazione all’opera di rieducazione», cui viene appunto dato un «riconoscimento» «ai fini del […] più efficace reinserimento nella società» del condannato (art. 54, comma 1, ordin. penit.).
La giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito, mettendo in luce la ratio del frazionamento semestrale introdotto dal legislatore, che la detrazione non esige il comprovato conseguimento dell’obiettivo di rieducazione, ma solo la prova di una seria e costante partecipazione al relativo percorso, che va incentivata fin dalle fasi iniziali di esecuzione della pena (ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 febbraio 2013, n. 5877; da ultimo, in senso analogo, sezione prima penale, sentenza 20 maggio 2019, n. 27573).
Anche questa Corte ha posto in luce l’importanza d’una tempestiva valutazione del comportamento tenuto dal condannato, fin dai periodi iniziali della sua detenzione, affinché si consolidino stabili atteggiamenti di partecipazione all’offerta rieducativa, in termini di vera e propria abitudine, immediatamente produttiva di effetti favorevoli (sentenza n. 276 del 1990). Ancora di recente – richiamando nell’occasione i rilievi già svolti (sentenza n. 274 del 1983) affinché fosse estesa agli ergastolani la possibilità di accedere alla liberazione anticipata, estensione poi ribadita dal legislatore in sede di riforma dell’art. 54 ordin. penit. (art. 18 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, recante «Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà») – si è sottolineata la centralità del beneficio in questione lungo tutto il percorso di rieducazione dei condannati: e anche da tale premessa sono scaturite le dichiarazioni di illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, ordin. penit., norma che precludeva la considerazione della liberazione anticipata nel computo della soglia minima di pena scontata per l’accesso ai benefici penitenziari dei condannati, a pena perpetua o temporanea, per i delitti di cui agli artt. 289-bis e 630 cod. pen., con morte conseguente del sequestrato (sentenze n. 229 del 2019 e n. 149 del 2018).
Della logica qui richiamata è partecipe anche la disciplina della revoca della liberazione anticipata, che il Tribunale rimettente vorrebbe estendere al caso del “quasi reato” commesso da soggetto pericoloso. Infatti, come accennato, la revoca interessa solo detrazioni disposte prima del «delitto non colposo» che la legittima, restando impregiudicati gli effetti, pur eventualmente negativi, che l’episodio può determinare nella valutazione di meritevolezza del beneficio per i periodi successivi.
3.– A proposito della revoca del beneficio, è da considerare l’incidenza esercitata dalla sentenza n. 186 del 1995 di questa Corte, al cui dispositivo e alla cui motivazione l’Avvocatura generale dello Stato – nonché, nel giudizio principale, il Procuratore generale della Repubblica – attribuiscono una sorta di portata estensiva.
L’Avvocatura generale dello Stato, in particolare, eccepisce l’inammissibilità delle questioni sollevate, per l’asserita omissione del tentativo di interpretare la disposizione censurata sulla base di una lettura costituzionalmente conforme, ispirata al contenuto e al dispositivo della appena citata sentenza.
Non sarebbe sufficiente, infatti, il solo argomento letterale ad escludere che il comma 3 dell’art. 54 ordin. penit. possa essere applicato alle ipotesi di “quasi reato” (cui consegue un dispositivo assolutorio, e non la decisione di condanna testualmente richiesta dalla disposizione censurata). Il dato realmente rilevante consisterebbe, invece, nella manifestazione di pericolosità sociale connessa al fatto, pur qualificato ex art. 115 cod. pen., quale sintomo dell’insuccesso del percorso di risocializzazione nell’esecuzione della pena. Ciò dovrebbe dedursi, appunto, dalla ratio ispiratrice della sentenza n. 186 del 1995, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 54, comma 3, ordin. penit.
In realtà, dalla motivazione come dal dispositivo della decisione, emerge con chiarezza che l’intervento di questa Corte era mirato a neutralizzare l’automatismo che costringeva il giudice, a fronte di una condanna sopravvenuta per delitto non colposo, a disporre comunque la revoca. Essa doveva seguire a prescindere dalla qualificazione e dalla concreta gravità dell’episodio delittuoso (anche se, in ipotesi, punito mediante la sola pena pecuniaria), e dal suo reale valore sintomatico, nel caso concreto, di non meritevolezza della detrazione in precedenza accordata. Per questo, la disposizione, oggi nuovamente sottoposta a censura, fu dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non stabiliva «che la liberazione anticipata è revocata se la condotta del soggetto, in relazione alla condanna subita, appare incompatibile con il mantenimento del beneficio».
L’intervento di questa Corte, dunque, non è valso ad espungere dalla fattispecie la condizione necessaria per l’attivazione della procedura di revoca – cioè una sentenza di condanna – ma solo a stabilirne l’insufficienza, dovendosi anche valutare le implicazioni del fatto nel caso concreto. Permane, perciò, l’indice legale di non meritevolezza del beneficio, già selezionato ab origine dal legislatore, e cioè la commissione di un delitto non colposo, appunto accertata con sentenza irrevocabile di condanna.
In altre parole – così come correttamente ha rilevato il Collegio rimettente – la sentenza n. 186 del 1995 non ha prodotto un effetto di allargamento, bensì una restrizione dei casi di revoca. Se pur sussista una rilevanza in concreto del fatto commesso durante l’esecuzione della pena, quale manifestazione dell’inefficacia della pratica rieducativa già intervenuta, parimenti dovrà sussistere la condizione ulteriore, e cioè che il fatto stesso consista di un delitto non colposo per il quale sia intervenuta una sentenza di «condanna».
3.1.– Alla luce dei rilievi fin qui svolti, l’eccezione di inammissibilità proposta dall’Avvocatura generale dello Stato deve essere respinta.
Il Tribunale di sorveglianza ha in effetti esaminato, escludendone la praticabilità, la soluzione interpretativa che dovrebbe legittimare l’applicazione della disposizione censurata alle ipotesi di “quasi reato” con accertata condizione di pericolosità sociale dell’interessato.
Non rileva tanto, a questo fine, la tesi (pure espressa dal rimettente) secondo cui la disposizione censurata non potrebbe essere applicata estensivamente per il suo carattere eccezionale, in quanto «derogatrice» di un’asserita «regola generale, che sancisce con carattere di definitività l’attribuzione del beneficio al condannato che dia prova di partecipazione all’opera rieducativa»: giacché – fermo restando il sistema delle preclusioni endoprocedimentali, che subordina l’attivazione di nuove procedure sul medesimo oggetto alla sopravvenienza di fattori non già valutati in precedenza – le misure di modifica o attenuazione del regime carcerario sono generalmente suscettibili di revoca, quando ricorrono le condizioni di volta in volta stabilite dal legislatore (si vedano l’art. 177 cod. pen., nonché gli artt. 47, comma 11, 47-ter, comma 6, 47-quater, comma 6, 47-quinquies, comma 6, 47-sexies, comma 1, e 51, primo comma, ordin. penit.).
Conta, invece, che il rimettente abbia espresso e sottolineato la corretta portata della sentenza n. 186 del 1995 di questa Corte: quella cioè di consentire una valutazione discrezionale del giudice di sorveglianza, in precedenza preclusa, così da evitare che il beneficio debba essere revocato anche quando l’interruzione del percorso rieducativo avviato con la liberazione anticipata non appaia giustificata nel caso concreto; non, invece, quella di allargare le ipotesi di revoca a casi nei quali manchi l’ulteriore condizione della sentenza di «condanna» (in assenza tra l’altro di una norma – come l’art. 445, comma 1-bis, cod. proc. pen., relativo all’applicazione di pena su richiesta – che valga ad “equiparare” espressamente il relativo provvedimento «a una pronuncia di condanna»).
L’esperimento del tentativo di interpretazione adeguatrice, di cui l’Avvocatura generale lamenta l’omissione, è stato quindi puntualmente operato, con esito negativo. E la costante giurisprudenza di questa Corte chiarisce che, laddove il rimettente abbia considerato la possibilità di una interpretazione idonea a eliminare il dubbio di legittimità costituzionale e l’abbia motivatamente scartata, la valutazione sulla correttezza, o meno, dell’opzione ermeneutica prescelta riguarda non già l’ammissibilità della questione sollevata, bensì il merito di essa (ex multis, sentenze n. 50 del 2020, n. 241 e n. 189 del 2019, n. 135 del 2018 e n. 255 del 2017).
3.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, l’ordinanza dà sufficiente conto, come s’è visto, delle ragioni di asserito contrasto tra la disposizione censurata e i parametri costituzionali invocati.
Con riferimento, infine alla rilevanza, il rimettente precisa opportunamente che – prevedendo la disposizione censurata la revoca per i soli fatti commessi dopo la concessione del beneficio – la richiesta di revoca avanzata nel giudizio a quo potrebbe in ipotesi essere accolta, all’esito dell’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata, solo in relazione ai più risalenti tra i provvedimenti in favore del condannato, quindi relativamente ai primi 300 giorni di liberazione anticipata (provvedimenti del 3 settembre e del 19 novembre 2015, riguardo all’esecuzione maturata fino al 17 ottobre 2015).
4.– Le questioni sollevate devono, nondimeno, essere dichiarate inammissibili, a causa del “verso” della richiesta addizione. È d’immediata evidenza che l’ordinanza di rimessione sollecita questa Corte a operare sulla disposizione censurata un intervento additivo, affinché una nuova causa di revoca della liberazione anticipata si aggiunga a quella già stabilita dal legislatore, con un tipico effetto in malam partem.
Infatti, data la specifica natura del beneficio qui in discussione, risulta chiara l’incidenza sfavorevole del provvedimento adottabile in caso di accoglimento della questione sollevata: l’esecuzione della pena detentiva potrebbe durare ben oltre il termine finale computato a seguito della concessione della liberazione anticipata, o potrebbe addirittura determinarsi una nuova carcerazione dell’interessato, ove nel frattempo fosse effettivamente intervenuta la liberazione “anticipata” (come, parrebbe, nel caso di specie).
L’accoglimento delle questioni determinerebbe, in definitiva, l’ampliamento dei casi in cui può essere compresso il diritto del singolo alla propria libertà personale.
Il rimettente non ha svolto, in proposito, alcuna osservazione.
4.1.– Per quanto in epoca non recente, e con formulazioni sintetiche, questa Corte ha già stabilito che non sono ammissibili questioni di legittimità costituzionale che sollecitino interventi additivi come quello proposto nel caso di specie.
In questo senso, negli anni successivi all’entrata in vigore della legge n. 354 del 1975, devono essere ricordate alcune pronunce, in risposta a questioni di legittimità costituzionale miranti ad allargare l’elenco dei reati ostativi all’applicazione dell’istituto della semilibertà. Trattando, in particolare, di censure relative agli artt. 48, comma terzo, e 47, comma 2, ordin. penit. (nel testo allora vigente), questa Corte aveva infatti affermato e ribadito «la propria incompetenza ad “emettere sentenze additive che rendano deteriore la posizione del condannato in ordine all’esecuzione della pena” […]», traendone la conclusione della inammissibilità (manifesta) delle questioni così sollevate (ordinanza n. 167 del 1983, ripresa e citata nella sentenza n. 29 del 1984).
È bensì vero che, in epoca successiva, nelle (non molte) occasioni in cui sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale dall’analoga struttura, il principio non è stato ripreso, essendosi data prevalenza ad altre ragioni di inammissibilità (ordinanze n. 300 del 2002 e n. 9 del 1994), o essendosi preferita una soluzione di non fondatezza nel merito delle questioni sollevate (sentenza n. 352 del 1991 e ordinanza n. 367 del 1995). Non è mancata neppure – a fronte di una fattispecie peraltro assai particolare, che introduceva un automatismo favorevole in punto di sospensione dell’esecuzione della pena (art. 1, comma 1, della legge 1° agosto 2003, n. 207, recante «Sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di due anni») – una decisione di accoglimento della questione, con effetto di restrizione delle possibilità di accesso al beneficio considerato (sentenza n. 255 del 2006, seguita dalle ordinanze di restituzione degli atti n. 443 e n. 326 del 2006).
Ritiene, tuttavia, questa Corte di conformarsi ai (soli) precedenti puntualmente espressi sull’inammissibilità di sentenze additive in malam partem nel campo dell’ordinamento penitenziario, soprattutto alla luce dell’evoluzione della propria giurisprudenza in materia, per le ragioni e nei limiti che saranno appresso chiariti.
4.2.– Così come ha rilevato di recente la sentenza n. 32 del 2020, è «ricco di sfumature» il quadro della giurisprudenza costituzionale concernente i rapporti tra i principi stabiliti nel secondo comma dell’art. 25 Cost. e la disciplina delle misure concernenti l’esecuzione delle pene detentive.
L’attenzione si è concentrata soprattutto sul regime intertemporale di applicazione delle norme di nuova introduzione. Più volte, essenzialmente in ragione della natura processuale attribuita alle disposizioni dell’ordinamento penitenziario (con connessa applicazione del principio tempus regit actum), si è ritenuto che l’applicazione di esse fosse consentita, anche con riguardo a fatti commessi prima della loro entrata in vigore, benché si trattasse di norme con effetti sfavorevoli sul trattamento dei destinatari (sentenza n. 376 del 1997; ordinanze n. 108 del 2004 e n. 10 del 1981). Il principio si era radicato anche nel diritto vivente, grazie ad uno stabile orientamento della giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 luglio 2006, n. 24561, nonché, da ultimo, sezione prima penale, sentenza 30 settembre 2019, n. 39984).
L’incidenza negativa sui percorsi di risocializzazione potenzialmente interrotti da modifiche di segno restrittivo era stata comunque prevenuta, facendo leva sul primo e sul terzo comma dell’art. 27 Cost., deducendone l’illegittimità costituzionale di nuove norme restrittive qualora non fosse esclusa, dal relativo ambito di applicazione, la posizione di coloro che avessero già raggiunto un livello di rieducazione adeguato ai benefici richiesti (sentenze n. 32 del 2020, n. 79 del 2007, n. 257 del 2006, n. 137 del 1999, n. 445 del 1997, n. 504 del 1995 e n. 306 del 1993).
Nondimeno, nella stessa giurisprudenza costituzionale, sempre in riferimento agli eventuali limiti all’applicazione retroattiva delle modifiche in peius, si era già manifestata l’esigenza di distinguere tra interventi normativi di carattere procedurale in tema di esecuzione e variazioni relative invece ai profili sostanziali delle misure di ordinamento penitenziario.
Questa Corte, ad esempio, aveva bensì dichiarato non fondata (sentenza n. 273 del 2001) una questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., su una disposizione che limitava ai soli collaboratori di giustizia, con effetti retroattivi, l’accesso al beneficio della liberazione condizionale. Ma in tale pronuncia aveva dato esplicito spazio alla distinzione tra dimensione processuale e sostanziale delle regole concernenti l’esecuzione delle pene detentive, tanto da specificare che la questione era da rigettare in quanto «la disciplina censurata non comporta una modificazione degli elementi costitutivi della liberazione condizionale e, quindi, rimane estranea alla sfera di applicazione del principio di irretroattività della legge penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.». La questione era stata dichiarata non fondata, insomma, perché la disciplina in esame si limitava a interessare l’accertamento dei presupposti utili per l’accesso alla misura.
La stessa logica era stata seguita in ulteriori occasioni, con riguardo alle preclusioni in materia di permessi premio per i detenuti non collaboranti (sentenza n. 273 del 2001 e ordinanza n. 280 del 2001, richiamate e confermate nell’ordinanza n. 108 del 2004).
4.3.– In epoca più recente, la riflessione sul tema è proseguita alla luce della dimensione che il principio costituzionale di legalità penale ha assunto in virtù del raffronto tra l’art. 25, secondo comma, Cost., e l’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla giurisprudenza sovranazionale.
Per un verso, infatti, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha fatto ampio ricorso, come noto, alla nozione di norma “sostanzialmente penale”, soggetta in quanto tale alla garanzia convenzionale del divieto di applicazione retroattiva, a prescindere dalla qualificazione che del relativo oggetto sia fatta nel singolo ordinamento nazionale (grande camera, sentenza 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi, successivamente confermata e ribadita, fino alla recente sentenza della grande camera 8 luglio 2019, Mihalache contro Romania).
Per altro verso, sullo specifico terreno dell’esecuzione penale, si è manifestata l’esigenza di assicurare le garanzie tradizionalmente inerenti al principio di non retroattività, cioè quelle della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie a monte della condotta programmata dall’agente, della possibilità di esercitare la difesa in vista degli esiti prevedibili del processo penale (anche nella sua fase esecutiva), di prevenire possibili abusi del potere legislativo, volti a modificare in peius gli effetti delle statuizioni espresse da decisioni giurisdizionali. Basti qui menzionare la sentenza della Corte EDU, grande camera 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna: nel confermare che la norma convenzionale non osta all’applicazione “retroattiva” delle norme sull’esecuzione, la Corte europea ha però fatto eccezione per le disposizioni che implichino una «ridefinizione o modificazione della portata applicativa della “pena” imposta dal giudice». Eccezione in mancanza della quale «gli Stati resterebbero liberi – ad esempio modificando la legge o reinterpretando i regolamenti esistenti – di adottare misure che retroattivamente ridefiniscano la portata della pena inflitta, a svantaggio della persona condannata, quando quest’ultima non avrebbe potuto immaginare tale sviluppo al momento in cui è stato commesso il reato o è stata inflitta la pena. In tali condizioni l’articolo 7 § 1 sarebbe privo di qualsiasi effetto utile per le persone condannate a pene delle quali è stata modificata la portata ex post facto a loro svantaggio».
4.4.– In un contesto siffatto, questa Corte, con la già menzionata sentenza n. 32 del 2020, ha sottolineato che l’applicazione generalizzata delle disposizioni di ordinamento penitenziario che contengano «mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato» risponde al principio tempus regit actum ed è talvolta addirittura necessaria, anche al fine di tutelare l’eguale trattamento dei detenuti e di mantenere la loro pacifica convivenza in carcere. Devono essere invece valutate diversamente le disposizioni sopravvenute che non comportino mere modifiche di quelle modalità esecutive, bensì implichino «una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato»: per esse sussistono le esigenze di garanzia assicurate dal secondo comma dell’art. 25 Cost. e, perciò, il divieto della loro applicazione retroattiva.
Questo, paradigmaticamente, si verifica – come rilevato nella sentenza n. 32 del 2020 – allorché al momento del fatto fosse prevista una pena suscettibile di essere eseguita (in tutto od in parte) “fuori” del carcere, ed essa risulti però trasformata – per effetto di una modifica normativa sopravvenuta al fatto – in una sanzione da eseguire di norma, e pur non mutando formalmente il proprio nomen juris, “dentro” il carcere.
In base a tale criterio, questa Corte ha potuto riferire alla dimensione procedimentale la disciplina dei permessi premio e del lavoro all’esterno, ed affermare nel contempo la necessaria esclusione dell’efficacia retroattiva per il «regime di accesso alle misure alternative alla detenzione disciplinate dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, e in particolare all’affidamento in prova al servizio sociale, alla detenzione domiciliare nelle sue varie forme e alla semilibertà».
L’omessa menzione della liberazione anticipata – istituto che pure è compreso nel Capo VI del Titolo I della legge n. 354 del 1975 – non è certo dipesa dalla volontà di differenziarne la natura o il trattamento rispetto alle altre misure alternative. Semplicemente, in quel caso, era in valutazione la compatibilità costituzionale, rispetto a fatti antecedenti, degli effetti preclusivi derivanti dall’inserimento di nuove fattispecie nell’elenco dei reati ostativi alla concessione delle «misure alternative alla detenzione», attuato mediante l’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), di modifica dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., cioè di una disposizione che espressamente esclude la liberazione anticipata dal novero dei benefici interessati dal regime preclusivo.
È certo vero che, nell’ambito della stessa sentenza n. 32 del 2020, questa Corte ha valutato misure ulteriori, non comprese nella disciplina preclusiva posta dal comma 1 dell’art. 4-bis ordin. penit. Ma si trattava, non a caso, di istituti espressamente parificati nel trattamento a quelli elencati nella norma appena citata. È così per la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva, disciplinata dal comma 5 dell’art. 656 del codice di procedura penale, che non può essere disposta in favore dei condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis ordin. penit. (comma 9, lettera a, dello stesso articolo). Ed è così quanto alla liberazione condizionale, per la cui applicazione sono disposti gli stessi limiti fissati – sempre dall’art. 4-bis – con riguardo alle misure alternative regolate dalla legge di ordinamento penitenziario (art. 2, comma 1, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, recante «Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa», convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203).
È palese, peraltro, la comunanza di natura, sotto il profilo che qui rileva, tra la liberazione anticipata e gli istituti che valgono a evitare l’ingresso in carcere o da esso comportano un’uscita prima del momento previsto dalla pena inflitta in sede di cognizione (com’è proprio, in particolare, della liberazione condizionale). In tutti questi casi, eventuali modifiche normative in peius, successive alla commissione del fatto di reato, comportano, per ciascuno dei destinatari, il rischio di un prolungamento della sanzione “carceraria” rispetto alle prospettive valutabili sulla base della legge vigente al momento della condotta criminosa: con conseguente impossibilità, alla luce dell’art. 25, secondo comma, Cost., dell’applicazione retroattiva della relativa disciplina.
Nella sentenza n. 32 del 2020, dalle premesse indicate, è così derivata la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto prima della novella, in «riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale».
Giova infine osservare, ai fini qui rilevanti, che il dispositivo di tale sentenza, nell’operare un rinvio omnicomprensivo al Capo VI della legge sull’ordinamento penitenziario, non indica alcuna eccezione, utile a dedurre che la liberazione anticipata debba essere esclusa dalla ratio decidendi che regge la pronuncia.
5.– Quale istituto che rientra tra le misure di ordinamento penitenziario suscettibili di provocare una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato, la liberazione anticipata è dunque soggetta alla disciplina consacrata nel secondo comma dell’art. 25 Cost.
Ne consegue che, nel caso di specie, all’adozione di una pronuncia di accoglimento da parte di questa Corte osta non già una ragione meramente processuale – l’irrilevanza della questione, nel senso che una tale pronuncia non potrebbe comunque trovare applicazione nel giudizio a quo – ma una ragione sostanziale, strettamente connessa al principio della riserva di legge sancito dal medesimo art. 25, secondo comma, Cost.
La disposizione costituzionale in parola demanda il potere di normazione in materia penale, in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo (e, in particolare, sulla libertà personale), a una legge di diretta matrice parlamentare, oppure a un atto avente forza di legge, comunque connesso all’intervento parlamentare, giacché proprio al «soggetto-Parlamento» (sentenze n. 5 del 2014, n. 394 del 2006), che incarna la rappresentanza politica della Nazione (sentenze n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), spettano le scelte di politica criminale, con i relativi delicati bilanciamenti tra diritti e interessi contrapposti.
Come del resto chiarisce una costante giurisprudenza costituzionale (tra le molte, sentenze n. 46 del 2014 e, ancora, n. 394 del 2006), questo principio impedisce alla Corte costituzionale sia di creare nuove fattispecie criminose o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque attinenti alla punibilità (di recente, ex multis, sentenza n. 37 del 2019; ordinanze n. 219 del 2020, n. 282 e n. 59 del 2019), salve specifiche eccezioni, che assicurano la dovuta ampiezza del controllo di legittimità costituzionale, ma non vulnerano il principio costituzionale della riserva di legge (tra le più recenti, sentenze n. 189 e n. 155 del 2019).
Sicché, una volta stabilito che anche le norme concernenti variazioni in peius del trattamento in fase di esecuzione della pena possono attenere alla “sostanza” della sanzione penale, deve riconoscersi che tali norme – senza effetto retroattivo – possono essere adottate unicamente mediante il ricorso alla legge in senso formale, o agli atti aventi forza di legge. Per quel che qui direttamente rileva, non possono perciò derivare da interventi di questa Corte.
Saranno naturalmente riferibili anche alla materia in esame le eccezioni al divieto di interventi in malam partem, che la giurisprudenza costituzionale ha progressivamente individuato, nella prospettiva di superare l’esistenza, nell’ordinamento, di “zone franche” dal controllo di legittimità costituzionale. Perciò, anche in quanto sollevate in relazione alle disposizioni di ordinamento penitenziario dotate delle specifiche qualità ora in esame, non sono in principio inammissibili questioni di legittimità costituzionale incentrate sull’asserita irregolarità del loro procedimento di produzione (in relazione alle norme penali, ex multis, sentenze n. 189 e n. 37 del 2019), così come non sussistono ostacoli alla sindacabilità, anche nel settore dell’ordinamento penitenziario, di “norme di favore” (analogamente, ex multis, sentenze n. 155 e n. 40 del 2019) e di norme che contravvengono ad obblighi di matrice sovranazionale (sentenza n. n. 37 del 2019 e ordinanza n. 219 del 2020).
L’ammissibilità di questioni del genere, sotto il particolare profilo della rilevanza, deriverebbe, anche riguardo alla materia in esame, dai rilievi che questa Corte ha da tempo sviluppato, a partire dalla sentenza n. 148 del 1983, nel trattare dei rapporti tra decisioni in malam partem e concreta applicabilità della disciplina di risulta nell’ambito del giudizio principale.
6.– Alla luce di tutto quanto detto, emerge con nettezza la soluzione delle questioni sollevate nel presente caso.
La disciplina della liberazione anticipata è istituto del diritto penitenziario riconducibile alla dimensione sostanziale del trattamento punitivo, poiché incide direttamente sulla durata della pena detentiva, e la riduce in misura rilevante, comportando un’anticipata scarcerazione del condannato ammesso ad avvalersene. La stessa conclusione vale con riferimento alla disciplina della revoca del beneficio, che, finanche dopo l’effettiva liberazione, può trasformare in un prolungamento dell’esecuzione carceraria la condizione di libertà conseguita, in precedenza, mediante la concessione del beneficio stesso.
Mentre sarebbe concepibile un intervento legislativo volto ad ampliare il novero dei casi di revoca della liberazione anticipata – salvi i limiti imposti allo stesso legislatore dal divieto di applicazione retroattiva di una disposizione con effetti deteriori sul trattamento punitivo – altrettanto non può dirsi per l’intervento additivo di questa Corte, che l’ordinanza di rimessione in esame sollecita.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 54, comma 3, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 gennaio 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria l'11 febbraio 2021.