SENTENZA N. 352
ANNO 1991
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. Ettore GALLO Presidente
Dott. Aldo CORASANITI Giudice
Dott. Francesco GRECO “
Prof. Gabriele PESCATORE “
Avv. Ugo SPAGNOLI “
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA “
Prof. Antonio BALDASSARRE “
Prof. Vincenzo CAIANIELLO “
Avv. Mauro FERRI “
Prof. Luigi MENGONI “
Prof. Enzo CHELI “
Dott. Renato GRANATA “
Prof. Giuliano VASSALLI “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 54, primo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), modificato dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promossi con n. 3 ordinanze emesse il 5 ottobre 1990 dal Tribunale di sorveglianza presso la Corte d'appello di Torino, iscritte ai nn. 129, 130 e 131 del registro ordinanze 1991 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell'anno 1991;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 5 giugno 1991 il Giudice relatore Giuliano Vassalli;
Ritenuto in fatto
1. - Con tre ordinanze di identico contenuto, pronunciate il 5 ottobre 1990, il Tribunale di sorveglianza di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 54, primo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), così come sostituito dall'art. 18 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui, stabilendo che ai fini della liberazione anticipata "è valutato anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare", consente il computo della custodia trascorsa nella forma degli arresti domiciliari (art. 284 del codice di procedura penale).
Osserva il rimettente che, in base alla elaborazione giurisprudenziale formatasi in tema di liberazione anticipata, possono enuclearsi i seguenti princìpi: 1) il detenuto, se vuole ottenere la riduzione di pena, deve attivarsi rispetto alle occasioni trattamentali che gli sono offerte durante la detenzione; 2) la decisione del tribunale di sorveglianza deve basarsi esclusivamente sui risultati acquisiti nel periodo in cui si è sviluppato il trattamento rieducativo del detenuto; 3) deve escludersi che il comportamento puramente passivo di supina e disciplinata osservanza delle norme che regolano la vita carceraria legittimi il detenuto ad ottenere la riduzione di pena. Tutto ciò, rileva il giudice a quo, conduce a risultati coerenti rispetto a quanto sancito dagli artt. 3 e 27 della Costituzione, giacché le opportunità trattamentali sono offerte a tutte le persone detenute in istituti di pena; il coinvolgimento dei detenuti in tale attività è una delle massime espressioni della funzione rieducativa della pena; la pace sociale negli istituti di pena è un dato di fatto incontrovertibile da molti anni; sicché - conclude il rimettente - è possibile affermare che l'istituto della liberazione anticipata è legato indefettibilmente al regime penitenziario.
Ma tale disciplina, il cui fulcro è rappresentato dalla adesione del detenuto alle attività trattamentali del carcere, è stata modificata dalla legge n. 663 del 1986 che ha previsto la riduzione anche per il periodo trascorso in stato di custodia cautelare e, quindi, anche nella forma degli arresti domiciliari. L'innovazione, a parere del rimettente, vulnera gli artt. 3 e 27 della Costituzione, in quanto la novella ha introdotto una disciplina unitaria per situazioni soggettivamente ed oggettivamente diverse ed avulsa da qualsiasi funzione rieducativa. Si rileva, infatti, che gli elementi acquisibili dalla autorità di polizia ai fini della valutazione della condotta tenuta nel corso degli arresti domiciliari, si limitano ad enunciati stereotipi i quali attestano esclusivamente che la persona "non ha dato luogo a rilievi con la sua condotta in genere"; sicché, mentre per pacifica giurisprudenza l'art. 54 della legge e l'art. 94 del regolamento sono interpretati nel senso che la regolare condotta tenuta nel corso della espiazione della pena non giustifica da sola la concessione della liberazione anticipata, con la novella del 1986 la regolare condotta durante gli arresti domiciliari è sufficiente per ottenere la riduzione di pena. Risulta così evidente - si assume nelle ordinanze - che l'innovazione legislativa ha introdotto una disciplina discriminatoria nei confronti dei detenuti che espiano la pena in carcere, privilegiando coloro che espiano la pena agli arresti domiciliari.
D'altra parte, osserva il rimettente, i principi enunciati da questa Corte nella ordinanza n. 327 del 1989 in tema di liberazione anticipata con riferimento alla detenzione domiciliare, non possono applicarsi agli arresti domiciliari: mentre, infatti, la detenzione domiciliare postula un costante controllo del detenuto da parte del centro del servizio sociale e del magistrato di sorveglianza, nel corso degli arresti domiciliari i saltuari controlli effettuati dalla autorità di polizia si limitano a verificare se la persona si trovi in casa. Il che, conclude il rimettente, consente di affermare che durante gli arresti domiciliari non si garantiscono "le finalità rieducative della pena" e un trattamento identico a quello previsto per coloro che espiano la pena in carcere o in detenzione domiciliare.
2. - Nei giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata. Negli atti di intervento l'Avvocatura ha osservato che le considerazioni poste a fondamento della ordinanza di questa Corte richiamata dal giudice a quo sono estensibili agli arresti domiciliari, trattandosi di istituto ontologicamente identico alla detenzione domiciliare, mentre nessun rilievo rivestirebbe, ai fini della dedotta censura, il fatto che, nel caso degli arresti domiciliari, al controllo del servizio sociale, previsto per la detenzione domiciliare, si sostituisca quello della polizia giudiziaria.
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale di sorveglianza di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 54, primo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sostituito dall'art. 18 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui stabilisce che ai fini della concessione della liberazione anticipata è valutato anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare, pur se nella forma degli arresti domiciliari. Più in particolare, il giudice a quo denuncia la violazione dell'art. 3 della Costituzione sul presupposto che, non potendo applicarsi alle persone che si trovano agli arresti domiciliari il principio, valido per quanti si trovano in fase di espiazione della pena, secondo il quale la regolare condotta da sola non giustifica la concessione della liberazione anticipata, si determina "una disciplina discriminatoria nei confronti dei detenuti che espiano la pena in carcere, privilegiando coloro che espiano la pena agli arresti domiciliari". Viene denunciata, poi, la violazione del principio sancito dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto, ad avviso del rimettente, nel corso degli arresti domiciliari "non si garantiscono le finalità rieducative della pena ed un trattamento identico a quello previsto per coloro che espiano la pena in carcere o in detenzione domiciliare".
2. - Le ordinanze di rimessione, pronunciate dallo stesso giudice in tre distinti procedimenti di sorveglianza, sottopongono all'esame della Corte questioni identiche fondate sui medesimi motivi: i relativi giudizi, pertanto, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.
3. - Il nucleo centrale della tesi sostenuta dal rimettente trae alimento da una premessa di incontrovertibile esattezza, non potendosi certo revocare in dubbio l'esistenza di grandi diversità sul piano strutturale e funzionale, tra il regime che caratterizza lo status delle persone sottoposte alla misura degli arresti domiciliari rispetto alla condizione in cui versano i soggetti che si trovano in vinculis negli istituti penitenziari per espiare la pena. Diversità che necessariamente si proiettano anche sul piano dei "controlli" che l'ordinamento appresta per soddisfare le finalità, per molti aspetti antinomiche, che caratterizzano le due "situazioni" poste a raffronto. Nel caso degli arresti domiciliari, infatti, ci si trova in presenza di una fra le diverse misure coercitive che il giudice può adottare nel corso del procedimento, sicché le uniche esigenze che, da un lato ne legittimano l'adozione e, dall'altro, giustificano il necessario potere di verifica circa l'osservanza dei contenuti precettivi insiti nella specifica misura, non possono che essere i pericula libertatis tipizzati nell'art. 274 del codice di procedura penale. Al di là della funzione cautelare, dunque, e della correlativa possibilità offerta dall'art. 284, quarto comma, del codice di rito, di "controllare in ogni momento l'osservanza delle prescrizioni imposte all'imputato", non possono intravedersi finalità diverse, cosicché non residua spazio per ipotizzare una "osservazione" del comportamento dell'imputato che non sia consona al soddisfacimento delle esigenze che sottostanno alla misura. I controlli che accompagnano l'applicazione della misura degli arresti domiciliari si pongono, quindi, su di un piano di contrasto funzionale rispetto a quelli intesi ad acquisire la "prova" che il condannato a pena detentiva abbia partecipato "all'opera di rieducazione" ai fini di quanto previsto dall'art. 54 dell'ordinamento penitenziario, posto che affiancare una funzione rieducativa alle finalità cautelari, tipiche ed esclusive della misura, equivarrebbe ad introdurre un elemento antagonista rispetto alla presunzione di non colpevolezza che per definizione assiste l'imputato che a quella misura si trova sottoposto.
4. - Tutto ciò, peraltro, non incide in alcun modo - come invece mostra di ritenere il rimettente - sulla valutazione dei presupposti ai quali l'ordinamento condiziona il riconoscimento del beneficio della liberazione anticipata. Come questa Corte ha già avuto modo di rilevare (sentenza n. 276 del 1990), la detrazione di pena prevista dall'art. 54 della legge 26 luglio 1975, n. 354, nel testo sostituito dall'art. 18 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, oltre a rappresentare il riconoscimento della partecipazione del condannato all'opera rieducativa, è accordata allo specifico fine di consentire il più efficace reinserimento del condannato stesso nella società. "Ma è evidente" rileva ancora la Corte "che questa è l'enunciazione della finalità dell'istituto, e della sua stessa ratio; la legge, in altri termini, vuol mettere subito bene in chiaro che la riduzione di pena non ha gratuito carattere pietistico o paternalistico, ma rappresenta un premio allo sforzo che il condannato va facendo per adeguarsi all'opera dell'Istituzione che, mediante la rieducazione, lo avvia al reinserimento sociale". Poiché, dunque, è proprio ed esclusivamente "a tal fine" che la norma denunciata consente di "valutare" anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare, a prescindere dalla diversa tipologia delle misure (custodia cautelare in carcere, custodia cautelare in luogo di cura, arresti domiciliari) atte a generare quello stato, è evidente, allora, come il contenuto di "meritorietà" della condotta suscettibile di dar luogo alla riduzione di pena, sia riguardato dal legislatore in termini di sostanziale omogeneità quanto ai relativi parametri di valutazione, pur se ampiamente diversificate possono in concreto apparire le situazioni di fatto alla cui stregua operare un simile apprezzamento. Il giudice a quo, infatti, appunta le sue censure prendendo genericamente a riferimento la sola ipotesi degli arresti domiciliari, ma la natura dei "problemi" lumeggiati nelle ordinanze di rimessione si riflette, in realtà, su di una gamma ben più ampia di situazioni che possono scaturire dal complesso quadro normativo che disciplina - ai fini che qui interessano - il tema della libertà personale. Va anzitutto rilevato, in proposito, come le misure che generano la custodia cautelare siano fra loro normativamente graduate sul piano della afflittività, in stretta aderenza ai princìpi di adeguatezza e proporzionalità enunciati dall'art. 275 del codice di procedura penale. Ed è, anzi, proprio facendo leva su tale premessa che la giurisprudenza è pervenuta alla conclusione di ritenere computabile agli effetti della liberazione anticipata anche il periodo trascorso dall'interessato agli arresti domiciliari, giacché l'opposta tesi avrebbe determinato una ingiustificata disparità di trattamento tra chi è stato ammesso agli arresti domiciliari e chi non lo è stato, con un trattamento deteriore nei confronti di coloro che, per una minore pericolosità, sono stati ritenuti meritevoli della meno afflittiva misura degli arresti domiciliari. Se, quindi, tra le diverse forme di custodia cautelare è possibile intravedere un differenziato livello di compressione della libertà personale e se, ancora, nell'ambito della stessa misura degli arresti domiciliari sono ammesse modalità esecutive che restringono o ampliano la sfera della libertà dell'imputato a norma dell'art. 284, secondo e terzo comma, del codice di rito, è evidente, allora, come risulti corrispondentemente differenziata la tipologia dei "controlli" apprestati dall'ordinamento e, soprattutto, come agli stessi non possa annettersi - per i rilievi già svolti - il valore di "presupposto" indispensabile ai fini della applicazione della norma denunciata. D'altra parte, anche nei confronti dell'imputato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere possono profilarsi, seppure in misura ridotta, le stesse carenze di elementi valutativi sulle quali il giudice a quo fonda, in buona sostanza, le proprie censure di illegittimità costituzionale, dal momento che l'ordinamento penitenziario - e per ragioni fin troppo evidenti - distingue nettamente le disposizioni che disciplinano il trattamento dei condannati rispetto a quello degli imputati.
5. - Il nucleo della disposizione oggetto di denuncia, quindi, deve essere rinvenuto nelle finalità alle quali è rivolta la detrazione di pena per il periodo trascorso in custodia cautelare, anche se nella forma degli arresti domiciliari, e nell'apprezzamento "qualitativo" della condotta tenuta in quel periodo, a prescindere dalla fonte da cui promanino gli elementi conoscitivi sulla cui base viene formulato un simile giudizio. Essendo la detrazione di pena rivolta al fine di consentire un più efficace reinserimento del condannato nella società, e dovendo questi offrire la prova di partecipazione all'opera di rieducazione, starà al giudice valutare se nel comportamento serbato dall'interessato nel corso della custodia cautelare possano essere rinvenuti quegli elementi che la giurisprudenza indica come sintomatici della evoluzione della personalità verso modelli socialmente validi, del ravvedimento improntato alla revisione delle motivazioni che avevano indotto il condannato a perseguire scelte criminali ed, infine, del progressivo abbandono dei disvalori sui quali tali scelte si fondavano. Positivamente accertata la ricorrenza di tali presupposti, dunque, la riduzione di pena si giustifica quale riconoscimento della partecipazione all'opera rieducativa, la quale, anche se attuata "spontaneamente" ed al di fuori del circuito penitenziario, non per questo cessa di essere riguardata dal legislatore come parametro unitario e concettualmente indifferenziato, alla cui stregua la concessione del beneficio può concretamente volgersi a soddisfare la funzione tipica dell'istituto.
6. - Inquadrata nei riferiti termini, la questione sottoposta all'esame di questa Corte si appalesa, pertanto, priva di fondatezza. Il giudice a quo, infatti, muove dalla erronea premessa di ritenere che, essendo l'attività svolta dagli organi incaricati di controllare la condotta dell'imputato sottoposto alla misura degli arresti domiciliari destinata a garantire il rispetto delle prescrizioni imposte con la misura, e poiché tale "osservazione" si postula, seppure in forma implicita, come equivalente a quella che concerne il trattamento riservato ai condannati nel corso della esecuzione della pena, la semplice mancanza di "elementi negativi" attestata dalla autorità di polizia sarebbe in sé sufficiente ai fini del computo di quel periodo agli effetti della liberazione anticipata, con un correlativo "affievolimento" dei presupposti di concedibilità del beneficio rispetto a quelli stabiliti per la fase della espiazione della pena. Ma la legge, si è già detto, facendo leva sulla "prova" che l'interessato deve fornire circa la propria partecipazione all'opera di rieducazione, non consente di graduare i presupposti in funzione del tipo di "custodia" al quale la detrazione di pena si riferisce; sicché, i medesimi criteri di valutazione e gli stessi parametri di riferimento alla cui stregua il giudice ritiene provata la partecipazione del condannato alle opportunità offertegli nel corso del trattamento penitenziario, devono valere anche agli effetti della omologa delibazione che il giudice stesso è chiamato a compiere circa la condotta mantenuta dall'interessato nel corso della custodia cautelare, restando comunque salva la più ampia possibilità di acquisizione degli elementi di fatto sui quali tale apprezzamento deve oggettivamente fondarsi.
Né l'uno né l'altro dei parametri costituzionali invocati dal rimettente può ritenersi, quindi, in alcun modo vulnerato dalla disposizione oggetto di denuncia, posto che, per ciò che attiene al principio di uguaglianza, alla identità dei presupposti per la concessione del beneficio corrisponde la parità di trattamento fra le diverse situazioni poste a raffronto, mentre, sotto il profilo della dedotta violazione dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione, è proprio la "meritorietà" della condotta serbata nel corso degli arresti domiciliari a giustificare la detrazione di pena che - secondo la mens della norma - è destinata a facilitare un "più efficace reinserimento nella società" (v. sentenza n. 276 del 1990).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi.
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 54, primo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sostituito dall'art. 18 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Torino con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 1991.
Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.
Depositata in cancelleria il 16 luglio 1991.