Sentenza n. 276 del 1990

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SENTENZA N.276

ANNO 1990

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Dott. Francesco SAJA, Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 54, comma primo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come sostituito dall'art. 18 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 22 febbraio 1989 dal Tribunale di sorveglianza di Roma nel procedimento di sorveglianza relativo a Calore Sergio, iscritta al n. 356 del registro ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 1989;

2) ordinanza emessa il 1° marzo 1989 dal Tribunale di sorveglianza di Roma nel procedimento di sorveglianza relativo a Maraschi Massimo, iscritta al n. 357 del registro ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 1989.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 29 novembre 1989 il Giudice relatore Ettore Gallo.

Ritenuto in fatto

Con due ordinanze, l'una datata 22 febbraio 1989 l'altra 1° marzo 1989, il Tribunale di sorveglianza di Roma sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 54, comma primo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure private della libertà), così come sostituito dall'art. 18 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), per incompatibilità della interpretazione datane dalla Corte di cassazione, con le sentenze 18 agosto 1988 (Sezione feriale) e 22 settembre 1988 (Sezione I), rispetto ai parametri di cui agli artt. 3 e 27, terzo comma, ultimo inciso, della Costituzione.

Secondo quanto riferiscono le ordinanze, in ciascun procedimento il detenuto, in espiazione di lunga pena, aveva presentato istanza di liberazione anticipata dopo aver scontato oltre due terzi della pena. Il Tribunale, considerato che ambo gli istanti avevano, nel primo periodo di detenzione, tenuto condotta per nulla partecipativa all'opera di rieducazione ed anzi addirittura conflittuale nei confronti dell'istituzione, mentre - attraverso una zona temporale intermedia di indecisioni e contraddizioni - avevano in un secondo periodo dato prove sicure di effettiva e convinta partecipazione, respingevano l'istanza per la prima fase e l'accoglievano per i semestri della seconda.

Ricorrevano gli interessati, e la Corte di cassazione, con le sentenze 18 agosto 1988 (Sezione feriale) e 22 settembre 1988 (Sezione I) annullava le ordinanze e restituiva gli atti al Tribunale di sorveglianza per il riesame, rilevando che la valutazione della partecipazione del condannato all'opera di rieducazione non può essere frazionata ma dev'essere un giudizio "finale", e perciò "globale": nel senso, cioé, che, tenendo conto della prevalenza dell'una o dell'altra condotta a seconda della sua significatività, il Tribunale di sorveglianza non avrebbe altra alternativa che respingere o accogliere in toto.

Il Tribunale, ritenendo siffatta interpretazione confliggente con i parametri invocati, sollevava la questione anzidetta riferendosi, con ampia sale posizione della dottrina e alla stessa motivazione, alla pressochè universale posizione della dottrina e alla stessa Relazione al disegno di legge sull'ordinamento penitenziario.

Fra l'altro, metteva in luce l'ordinanza di rimessione le significative differenze del testo normativo modificato nel 1986 rispetto a quello del 1975, che renderebbero ancor più evidente come il legislatore abbia inteso proprio di prendere posizione a favore della considerazione atomistica e non globale della partecipazione del condannato.

Essendo il Tribunale tenuto per legge ad uniformarsi, in sede di giudizio di rinvio, al punto di diritto deciso dalla Corte di cassazione, la rilevanza della questione appare ictu oculi.

2.- Interveniva, nel giudizio davanti a questa Corte, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, che chiedeva dichiararsi infondata la sollevata questione. Secondo l'Avvocatura "la disposizione normativa non stabilisce nessun significativo collegamento fra la partecipazione del detenuto all'opera rieducativa e le detrazioni di pena correlata ad ogni singolo semestre di pena scontata". Anzi, il rapporto con tale detrazione sarebbe "letteralmente e logicamente evidenziato in sede successiva e, cioé, al solo fine di calcolare la totale riduzione della pena inflitta".

Considerato in diritto

1.-Il Tribunale di sorveglianza di Roma, con le ordinanze di rimessione di cui all'epigrafe, si oppone all'interpetrazione che la Corte di cassazione ha dato della norma denunciata, fin dalle prime sentenze del 1977.

Interpetrazione peraltro confermata anche dopo le modifiche intervenute con la legge n. 663 del 1986.

Secondo il Tribunale, l'interpetrazione globale, o unitaria, che la Cassazione suggerisce per la valutazione della condotta adesiva da parte del condannato all'opera rieducativa, contrasterebbe con il principio di uguaglianza perchè determinerebbe trattamenti discriminatori fra i detenuti, a seconda che il giudice attribuisca prevalenza decisiva all'uno o all'altro periodo nel corso dell'intera opera di rieducazione. Inoltre una siffatta discriminazione sarebbe pregiudizievole proprio alle finalità di risocializzazione che il legislatore si propone, in quanto il timore di una svalutazione finale anche dei comportamenti adesivi finirebbe per scoraggiare e disincentivare ogni buon proposito.

L'Avvocatura generale dello Stato, invece, intervenuta in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, ritiene che l'interpetrazione proposta dal Tribunale, secondo cui si dovrebbe valutare semestre per semestre la condotta del condannato, non trova riscontro nella formulazione della norma denunciata, che avrebbe un unico generale riferimento al riconoscimento della partecipazione del condannato all'azione rieducativa: mentre il rapporto ai periodi semestrali di pena rappresenterebbe soltanto un parametro per il calcolo della riduzione.

La questione sollevata, perciò, ad avviso dell'Avvocatura, sarebbe infondata.

2. - Le ordinanze di rimessione sollevano identica questione negli stessi termini e con riferimento ad uguali parametri costituzionali.

Esse possono, pertanto, essere riunite nello stesso giudizio per essere decise con unica sentenza.

3. - L'interpetrazione che la Corte di cassazione ha costantemente dato dell'art. 54 in esame, già prima della modifica operata dall'art. 18 della legge 10 ottobre 1986 n. 663, aveva fin d'allora incontrato il netto dissenso della dottrina penalistica.

Era stato rilevato, infatti, che la Relazione al disegno di legge aveva chiaramente indicato quale fosse la natura dell'istituto e quale, di conseguenza, il criterio interpetrativo che da quella natura discendeva. La liberazione anticipata è istituto nuovo per la nostra tradizione giuridica, ed è stato inserito nell'ordinamento penitenziario con l'intento di sollecitare l'adesione e la partecipazione all'azione di rieducazione dei soggetti sottoposti a trattamento. A tal fine, viene promesso un modesto abbuono per ogni semestre di pena detentiva espiata, durante il quale il detenuto abbia dato prova di volere concretamente partecipare all'opera di rieducazione. Una tale escogitazione non rappresenta affatto-come si è ripetuto dalla giurisprudenza di legittimità-la mera indicazione di un parametro di calcolo per effettuare la riduzione di pena, ma al contrario sostanzia il punto di forza dello strumento rieducativo, che si ricollega alle esperienze ed agli insegnamenti della terapia criminologica. Come esattamente la detta Relazione aveva messo in luce, l'aspetto sintomatico del comportamento delinquenziale è dato dall'incapacità del soggetto a risolvere i problemi della sua vita attraverso mezzi e per vie socialmente accettabili: e ciò soprattutto perchè non ha attitudine a sopportare sacrifici e fatiche nella prospettiva di un bene futuro. Questo aspetto negativo della personalità, ovviamente presente quando il condannato viene sottoposto a trattamento rieducativo, gli preclude ogni incentivo a prestare una per lui sacrificante partecipazione all'azione di risocializzazione, se il premio è rappresentato da una liberazione condizionale o da una semilibertà poste temporalmente a distanza di anni, e talvolta di molti anni.

Ecco allora lo strumento di grande valore psicologico rappresentato da una sollecitazione che impegna le energie volitive del condannato alla prospettiva di un premio da cogliere in breve lasso di tempo, purchè in quel tempo egli riesca a dare adesione all'azione rieducativa.

Certo, nei primi semestri la spinta psicologica sarà necessariamente eteronoma. Il condannato potrà nutrire scarsa convinzione nell'utilità etica del suo comportamento, ma intanto presterà la sua partecipazione in vista del premio a portata di mano. Poi, via via che, di semestre in semestre, moltiplicherà i suoi sforzi per accumulare benefici l'uno sull'altro, la perseveranza finirà per formare lentamente un comportamento abitudinario, su cui è possibile lo sviluppo di un diverso modo di essere, conseguente alla soddisfazione per i risultati raggiunti e alla fiducia acquisita nelle forze del proprio impegno.

Ebbene, è proprio rispetto a questa ratio dell'istituto che la contraria interpretazione della norma denunziata appare radicalmente incompatibile.

Perchè se si dovesse riservare ad un giudizio lontano, finale e globale, l'effettiva valutazione della partecipazione semestrale del condannato all'azione rieducativa, da una parte ogni incentivo psicologico resterebbe frustrato a causa dell'incertezza che il futuro riserverebbe agli sforzi adesivi degli interessati e, dall'altra, resterebbero maggiormente penalizzati coloro che fin dall'inizio avevano messo a disposizione tutta la loro buona volontà: e ciò a causa della possibilità che una cattiva prova finale, per qualsiasi motivo verificatasi, abbia a vanificare anni di sforzi compiuti semestre per semestre, e viceversa una furbesca condotta di adesione nell'ultima fase abbia ingiustamente a premiare, per l'intera durata della pena, colui che per anni s'era mostrato refrattario ad ogni partecipazione.

Gli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione ne riceverebbero grave offesa: non senza ragione questa Corte, già in anni meno vicini, sottolineando i <forti dissensi> che suscitava la tesi della Cassazione, aveva esplicitamente affermato, sia pure ad altro proposito, che <un periodo minimo di sei mesi trascorso in detenzione è di consistenza tale da dare credibilità al comportamento avuto dal condannato nel corso della detenzione stessa> (confronta sentenza 28 aprile 1983, n. 137).

4. -In realtà, a differenza della contraria tesi, è proprio la riferita interpretazione che trova riscontri obbiettivi nel testo normativo, e particolarmente in quello vigente dopo la sostituzione dell'art . 54 ad opera dell'art. 18 della legge 10 ottobre 1986 n. 663: il quale ha introdotto nel testo precedente modificazioni significative.

Intanto va rilevata la notevole limitazione della discrezionalità del giudice, derivante dalla sostituzione dell'espressione <può essere concessa>, che si leggeva nel primo comma dell'art. 54 formulato dalla legge n. 354 del 1975, con quella attuale che recita <è concessa>. Ovviamente il Tribunale di sorveglianza, ora come prima, è libero di valutare discrezionalmente la condotta del condannato: ma, una volta che l'abbia ritenuta di partecipazione all 'opera rieducativa, ogni discrezionalità cessa per far luogo al dovere di accordare la detrazione di pena.

Ebbene, già questa modifica non è priva di significato in ordine al problema in esame. Solo, infatti, un giudizio finale e globale avrebbe potuto giustificare un diverso apprezzamento discrezionale nonostante il riconoscimento che per alcuni semestri l'adesione del detenuto all'opera rieducativa si era verificata. Mentre contraddice a quella possibilità la categorica volontà del legislatore che la riduzione debba essere necessariamente concessa ogniqualvolta il giudizio su quella partecipazione semestrale risulti positivo.

Ma c'è di più. Non è affatto vero che il testo normativo - come anche l'Avvocatura generale sostiene-consenta di ritenere che il riconoscimento della partecipazione non sia in relazione ai periodi semestrali di pena detentiva (che avrebbero soltanto valore di parametro di calcolo), mentre sarebbe in rapporto con un unico generale riferimento di carattere globale.

Al contrario, se si deve stare all'enunciazione letterale, è proprio la teoria atomistica della valutazione che vi trova fondamento: infatti, la norma pone proprio in diretto rapporto conseguenziale il .riconoscimento di tale partecipazione> con <una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata>.

Si tratta di una relazione strettissima che, oltre ad essere manifestamente sintattica, è anche topografica perchè ha un collegamento immediato nello stesso comma e nello stesso inciso.

Se davvero il legislatore-come si vorrebbe-avesse inteso soltanto indicare un parametro di calcolo, avrebbe benissimo potuto collo care la quantificazione commisurativa della detenzione nel quarto comma, là dove appunto di <computo> si parla, come fra poco si vedrà.

É vero, peraltro, che in quel contesto del primo inciso del primo comma, il legislatore ha anche precisato che la concessione della detrazione, oltre a rappresentare <riconoscimento della partecipazione> del condannato all'opera rieducativa, è data anche <ai fini del suo più efficace reinserimento nella società>. Ma è evidente che questa è l'enunciazione della finalità dell'istituto, e della sua stessa ratio; la legge, in altri termini, vuol mettere subito bene in chiaro che la riduzione di pena non ha gratuito carattere pietistico o paternalistico, ma rappresenta un premio allo sforzo che il condannato va facendo per adeguarsi all'opera diuturna dell'Istituzione che, mediante la rieducazione, lo avvia al reinserimento sociale.

Ma la riduzione di pena riguarda, comunque, pur sempre e soltanto il riconoscimento della partecipazione, che non è subordinato al conseguimento della finalità; è la detrazione semmai a facilitare - secondo la mens della norma - un <più efficace reinserimento nella società>.

5. -Ma da ciò deriva anche l'inesattezza della pretesa che l'istituto della liberazione anticipata sia preordinato a quello della liberazione condizionale, sicchè troverebbe giustificazione una considerazione globale e finale della partecipazione del condannato all 'opera di rieducazione. In realtà, qualche vago elemento a sostegno di questa tesi sembrava adombrato nel quarto comma dell'art. 54, così come enunciato nella legge n. 354 del 1975, anche se va ricordato che già in allora una tale interpetrazione era avversata dall'unanime dottrina. Infatti, l'avvertimento del legislatore, secondo cui la parte di pena detratta ai sensi dell'art. 54 doveva considerarsi come espiata <nel computo della quantità di pena scontata per l'ammissione alla liberazione condizionale>, non soltanto non affermava alcuna preordinazione dell'uno all'altro istituto, ma dimostrava, anzi, a proposito di quanto sopra si è sostenuto, che quando il legislatore intende fare soltanto questione di computo di calcolo, lo dichiara esplicitamente, come appunto si verifica in questo comma.

D'altra parte, è proprio la natura stessa dei due istituti che esclude ogni idea di preordinazione, dato che-come si è visto-nella liberazione anticipata ciò che conta, ai fini del riconoscimento, è <la partecipazione> del condannato detenuto all'opera rieducativa: la quale potrebbe anche non attingere quel <sicuro ravvedimento>, che invece esige l'art. 176 codice penale per la concessione della liberazione condizionale.

E, tuttavia, la detrazione di pena dovrebbe comunque essere concessa per il solo fatto del riconoscimento di quella partecipazione.

Ebbene, tutto questo trova poi ampia conferma nella modifica apportata dalla legge n. 663 del 1986 che, nel quarto comma dell'art. 45, aggiunge alla liberazione condizionale anche altri benefici, come quelli dei permessi premio e della semilibertà.

Per ottenere i primi - come risulta dall'art. 9 della stessa legge di modifica, diventato art. 30 ter dell'Ordinamento-non occorre, infatti, partecipazione all'opera rieducativa, essendo sufficiente soltanto avere <tenuto regolare condotta> nei sensi di cui all'ottavo comma: e, per la semilibertà, il comma quarto dell'art. 50 dell'Ordinamento penitenziario prevede che l'ammissione al regime sia disposta <in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento, quando vi sono le condizioni di un graduale reinserimento del soggetto nella società>.

Situazioni, dunque, del tutto diverse da quelle che si esigono per la liberazione anticipata, e dalle quali trova conferma ciò che la norma, del resto, apertamente dice: che <la detrazione di pena ottenuta ai fini della liberazione anticipata viene in causa, in relazione ai detti benefici, esclusivamente agli effetti del computo della misura di pena che occorre avere espiato per esservi ammessi>, senza alcuna influenza, perciò, sui criteri di valutazione della partecipazione del condannato all'opera rieducativa, che restano quelli di cui al primo comma dell'art. 45 riformato, descritti nel paragrafo che precede.

6.-Ed, infine, è il comma terzo dell'articolo in esame che completa il quadro dei riscontri normativi alla tesi dell'interpetrazione atomistica. Se il legislatore prevede, infatti, che la condanna per delitto non colposo, commesso nel corso dell'esecuzione e successivamente alla concessione del beneficio, ne comporti la revoca, vuol dire che considera legittima e reale, e non soltanto simbolica, l'acquisizione di riduzioni di pena per ogni singolo semestre nel corso dell'esecuzione.

E vuol dire altresì che non potrebbe bastare una semplice valutazione negativa finale di carattere disciplinare per vanificare benefici già acquisiti, se la legge prevede che solo il delitto possa legittimare la revoca.

Ma , se così è, per sostenere tuttavia la validità della valutazione globale bisognerebbe anche ritenere che questa dipenda da circostanze estrinseche: a seconda che il detenuto si sia attivato per ottenere un provvedimento formale semestre per semestre, acquisendo benefici non più modificabili sul piano disciplinare, oppure abbia presentato un'unica istanza in epoca prossima alla fine della pena: il che sarebbe manifestamente iniquo già nei riguardi dell'art. 3 della Costituzione, oltre che incompatibile con l'intento del legislatore di incentivare una condotta partecipativa, nella prospettiva delle finalità di cui all'ultimo inciso del terzo comma dell'art. 27 della Costituzione.

Anche prescindendo dalla natura del provvedimento del giudice che, se non è di accertamento mero, è al più di accertamento costitutivo, sembra ormai chiaro che, anche quando la valutazione si verifichi di fatto in un momento finale, essa vada sempre riferita <ai singoli semestri>, senza che la negativa valutazione di uno o più di essi possa comportare la decadenza dal diritto di vedere riconosciuto il beneficio per quello o quelli nei quali le condizioni di legge si siano verificate.

É questa, dunque, l'interpretazione conforme ai principi dei parametri costituzionali invocati, come la stessa Corte di cassazione ha stabilito in successiva sua sentenza, affermando che dev'essere <affidata all'Autorità giurisdizionale la possibilità di valutare differentemente la partecipazione del condannato al programma rieducativo, in relazione alle diverse fasi in cui esso si articola> (Sezione I, 12 aprile 1989, n. 701).

Nella disposizione denunziata dal Tribunale di sorveglianza di Roma, però, non c'è nulla che contraddica-come si è visto-una tale interpretazione, che è proprio quella proposta dal giudice rimettente: e ciò sia nell'autonoma lettura letterale, sia in quella logico sistematica che deriva dalla interpretazione della norma nel suo articolato complesso. Non può essere, pertanto, dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 54 impugnato perchè, specie nella versione vigente, esso salvaguarda sia il principio d'uguaglianza sia le finalità di rieducazione che l'art. 27, terzo comma, contempla nell'ultimo inciso.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 54, comma primo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), così come sostituito dall'art. 18 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Roma con le ordinanze 22 febbraio e 1° marzo 1989, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, ultimo inciso, della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23/05/90.

Francesco SAJA, PRESIDENTE

Ettore GALLO, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 31/05/90.