ORDINANZA N. 282
ANNO 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Aldo CAROSI;
Giudici: Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), promosso dal Giudice di pace di Venezia nel procedimento penale a carico di M. B., con ordinanza del 16 ottobre 2018, iscritta al n. 11 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 novembre 2019 il Giudice relatore Francesco Viganò.
Ritenuto che il Giudice di pace di Venezia, con ordinanza del 16 ottobre 2018, ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 10 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e agli artt. 8 e 10 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) e 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), nella parte in cui dispongono l’abrogazione del reato di ingiuria di cui all’art. 594 del codice penale, trasformando la relativa fattispecie in un illecito civile sottoposto a sanzioni pecuniarie civili;
che il giudice rimettente premette di essere chiamato a procedere penalmente nei confronti di un soggetto imputato dei reati di ingiuria e diffamazione, ai sensi degli artt. 594 e 595 cod. pen., per aver proferito in più occasioni una serie di espressioni offensive nei confronti di altro soggetto, e per aver offeso la reputazione dello stesso mediante missiva inviata a mezzo fax;
che il giudice a quo ha ritenuto, d’ufficio, rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di costituzionalità degli artt. 2, comma 3, della legge n. 67 del 2014, e 1, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 7 del 2016, come sopra formulate;
che la rilevanza delle questioni risiederebbe, secondo il rimettente, nel fatto che, avendo il giudizio principale ad oggetto – tra l’altro – un’imputazione per il delitto di ingiuria di cui all’art. 594 cod. pen., per effetto dell’abrogazione operata dalle norme censurate egli sarebbe «tenuto a dichiarare di non doversi procedere ex art. 129 codice procedura penale» in quanto il fatto non è più previsto dalla legge come reato, così che dall’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni denunciate si realizzerebbe invece «la riespansione della rilevanza penale del comportamento oggetto del reato di ingiurie», con conseguente possibilità di proseguire il processo, al fine di verificare in dibattimento la sussistenza del reato contestato all’imputato;
che, quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente premette che «[l’]onore costituisce uno dei beni fondamentali della persona umana riconosciuto tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione», come riconosciuto da questa Corte (sono citate le sentenze n. 86 del 1974 e n. 38 del 1973);
che, sempre ad avviso del rimettente, le disposizioni censurate determinerebbero «la fuoriuscita del bene dell’onore e del decoro dal sistema di tutela pubblicistica dei diritti fondamentali»; ciò nel contesto di un ordinamento in cui non vi sarebbero «diritti inviolabili di cui all’art. 2 della Costituzione che non siano protetti anche dalle norme penali, proprio in virtù della massima tutela che ad essi viene garantita»;
che, per il giudice a quo, i concetti di onore, decoro e reputazione sarebbero ricompresi in quello della dignità di ogni essere umano, la quale «è tutelata come diritto fondamentale nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea», fonte normativa recepita – ad avviso del rimettente – «nella nostra Costituzione in forza degli artt. 10 e 117»;
che la stessa dignità, per il rimettente, troverebbe «implicita affermazione» nel riconoscimento operato dall’art. 2 Cost. dei diritti inviolabili dell’uomo, diritti i quali potrebbero essere tutelati soltanto attraverso norme penali, per essere queste «poste, ontologicamente, a difesa dei diritti inviolabili dell’essere umano»; e ciò «sia per l’efficacia deterrente della sanzione penale, che per l’inadeguatezza delle sanzioni amministrative o civili che appaiono inconciliabili a prevenire, ricomporre o reprimere le condotte lesive dei diritti fondamentali»;
che per il giudice a quo la depenalizzazione operata dalle disposizioni censurate, degradando «il reato che tutela un bene di rilevanza costituzionale ad un illecito civile sottoposto unicamente al nuovo istituto della sanzione pecuniaria civile (art. 4 del D. Lgs. n. 7/2016)», risulterebbe incompatibile sia con gli artt. 2 e 3 Cost., sia con «i principi costituzionali espressi nell’art. 10 e nell’art. 117 della Carta costituzionale poiché la potestà legislativa è stata esercitata dallo Stato con legge ordinaria senza rispettare i vincoli e i principi derivanti dagli obblighi internazionali e dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tanto da violare apertamente il principio fondamentale della dignità umana espresso nell’art. 1 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e gli artt. 8 e 10 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo»;
che, secondo il rimettente, le norme censurate sarebbero contrarie anche all’art. 3 Cost., in quanto la depenalizzazione del reato di ingiuria avrebbe determinato una irragionevole disparità di trattamento rispetto al reato di diffamazione di cui all’art. 595 cod. pen., delitto riconducibile «alla stessa medesima ratio e allo stesso diritto fondamentale», distinguendosi solamente per la presenza o meno dell’offeso al momento della condotta, il che risulterebbe con evidenza in riferimento all’abrogazione dell’ipotesi aggravata di cui all’art. 594, quarto comma, cod. pen., che disponeva un aumento di pena qualora l’offesa fosse commessa «in presenza di più persone», risultando del tutto irragionevole «[l]a scelta di perseguire un fatto “comunicando con più persone” in assenza dell’offeso (diffamazione) e di non punire il medesimo fatto “commesso in presenza di più persone” quindi in presenza dell’offeso (ingiuria)»;
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o, comunque, per l’infondatezza delle questioni sollevate;
che, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, le questioni sarebbero inammissibili, posto che rientrerebbero in una materia che «attiene all’esercizio della discrezionalità legislativa, sottratta al sindacato della Corte costituzionale», senza che i precedenti di questa Corte su norme penali di favore o, comunque, abrogative di fattispecie penali (sono citate le sentenze n. 215 del 2017, n. 81 e n. 5 del 2014, n. 394 del 2006, nonché l’ordinanza n. 175 del 2001) possano ritenersi pertinenti rispetto alle censure sollevate nel giudizio a quo;
che, sempre secondo l’Avvocatura generale dello Stato, l’intervenuta depenalizzazione non sarebbe né arbitraria, né manifestamente irragionevole, «perseguendo anzi chiari fini di deflazione del sistema penale, in funzione della sua efficienza e della ragionevole durata del processo, costituenti altrettanti beni tutelati dalla Costituzione, secondo un ragionevole equilibrio di interessi», non potendosi condividere l’assunto del rimettente secondo cui «l’offesa a beni giuridici “costituzionalmente rilevanti” debba necessariamente avere tutela penale»;
che, infine, le censure sollevate in riferimento agli artt. 2, 10 e 117 Cost. sarebbero, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, del tutto immotivate, posto che «la circostanza che la dignità dell’uomo assurga a bene costituzionale non comporta necessariamente che l’ingiuria debba essere punita penalmente piuttosto che con sanzione pecuniaria», neppure per il diritto europeo, e che la «contrarietà delle norme impugnate agli obblighi internazionali è meramente postulata», senza alcuna illustrazione dei motivi, con conseguente inammissibilità delle censure per «assoluta genericità ed indeterminatezza».
Considerato che l’ordinanza del giudice rimettente solleva plurime censure miranti a ripristinare il delitto di ingiuria di cui all’art. 594 del codice penale, abrogato per effetto dell’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), fondate sull’assunto che dalla natura inviolabile dei diritti presidiati dalla norma penale abrogata deriverebbero obblighi di incriminazione, oltre che sull’asserita irragionevole disparità di trattamento tra la fattispecie dell’ingiuria e quella della diffamazione, di cui all’art. 595 cod. pen.;
che le censure proposte in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione e quelle proposte in riferimento agli artt. 10 e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, sono sostanzialmente identiche a quelle sollevate dallo stesso rimettente con precedenti plurime ordinanze e incorrono nelle medesime ragioni di inammissibilità – basate sulla richiesta di un intervento in malam partem in materia penale, al di fuori dalle eccezioni desumibili dal sistema – e, rispettivamente, di manifesta inammissibilità – per radicale assenza di motivazione sulla loro non manifesta infondatezza – rilevate rispetto ad esse dalla sentenza n. 37 del 2019;
che l’ulteriore profilo di censura formulato dal rimettente nell’odierna ordinanza, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 8 e 10 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, è sfornito di qualsiasi sviluppo argomentativo, ciò che rende manifestamente inammissibile anche tale censura.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 10 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e agli artt. 8 e 10 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Giudice di pace di Venezia con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 novembre 2019.
F.to:
Aldo CAROSI, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 dicembre 2019.