Sentenza n. 37 del 2019

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SENTENZA N. 37

ANNO 2019

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), promossi dal Giudice di pace di Venezia, con ordinanze del 24 gennaio, del 27 giugno, del 20 giugno, del 4 luglio, del 17 ottobre 2017 e del 30 gennaio 2018, iscritte rispettivamente ai nn. 70, 150 e 151 del registro ordinanze 2017 e ai nn. 80, 81, 112 e 113 del registro ordinanze 2018, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 21 e 44, prima serie speciale, dell’anno 2017 e nn. 22 e 36, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visti l’atto di costituzione di G. D. e R. F. nella qualità di eredi di G. D., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella udienza pubblica del 22 gennaio e nella camera di consiglio del 23 gennaio 2019 il Giudice relatore Francesco Viganò;

uditi l’avvocato Renzo Fogliata per G. D. e R. F. nella qualità di eredi di G. D. e l’avvocato dello Stato Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 24 gennaio 2017 (r. o. n. 70 del 2017), il Giudice di pace di Venezia ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell'articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), nella parte in cui dispongono l’abrogazione dell’art. 594 del codice penale.

1.1.– In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che il giudizio principale ha ad oggetto un’imputazione per il delitto di ingiuria di cui all’art. 594 cod. pen., abrogato – in epoca successiva alla commissione del fatto contestato – in forza dell’art. 1, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 7 del 2016. Per effetto di tale abrogazione, egli sarebbe dunque tenuto a dichiarare di «non doversi procedere ex art. 129 codice procedura penale» in quanto il fatto non è più previsto dalla legge come reato. Laddove questa Corte dichiarasse l’illegittimità costituzionale delle disposizioni denunciate, si realizzerebbe invece «la riespansione della rilevanza penale del comportamento oggetto del reato di ingiurie»; il che consentirebbe la prosecuzione del processo, al fine di verificare in dibattimento la sussistenza del reato contestato all’imputato.

Secondo il rimettente, «la rilevanza della questione appare sussistere anche se l’oggetto riguarda norme penali di favore e precisamente norme abrogative di ipotesi delittuose come nel caso di specie», non potendosi a suo avviso concepire che le norme penali di favore sfuggano al controllo di costituzionalità, precludendosi in tal modo ogni possibilità di garantire la preminenza della Costituzione sulla legislazione statale ordinaria.

Sul punto, il rimettente richiama l’orientamento di questa Corte (e in particolare le sentenze n. 394 del 2006 e n. 148 del 1983), secondo cui sarebbe possibile esperire il sindacato di costituzionalità anche su norme di favore, nonché la sentenza n. 5 del 2014, in cui è stata dichiarata l’incostituzionalità della legge abrogativa del reato di associazione paramilitare, con conseguente reviviscenza della previgente norma incriminatrice.

1.2.– Circa la non manifesta infondatezza delle questioni prospettate, il giudice a quo rileva anzitutto che «l’onore costituisce uno dei beni fondamentali della persona umana riconosciuto tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione», tanto che «la stessa Corte costituzionale […] lo annovera tra i beni e gli interessi inviolabili in quanto essenzialmente connessi con la persona umana (Corte costituzionale n. 86/1972 [recte: 1974] e n. 38/1973)».

Si tratterebbe, in particolare, di «un bene giuridico ascritto nel rango dei diritti essenziali, assoluti, personali, non patrimoniali, inalienabili, intrasmissibili, imprescrittibili, originari e innati»; un diritto da ritenere quale «estrinsecazione, nelle società democratiche, del fondamentale principio di uguaglianza di tutti gli essere umani che trova le sue profonde radici nel principio del rispetto per ogni persona, per ogni essere umano, senza alcuna distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

Il rimettente osserva che le disposizioni censurate «determinano la fuoriuscita del bene dell’onore e del decoro dal sistema di tutela pubblicistica dei diritti fondamentali»; ciò nel contesto di un ordinamento in cui non vi sarebbero «diritti inviolabili di cui all’art. 2 della Costituzione che non siano protetti anche dalle norme penali, proprio in virtù della massima tutela che ad essi viene garantita».

La stessa Corte costituzionale avrebbe ritenuto che gli artt. 2, 3 e 13, primo comma, Cost. «riconoscano e garantiscano i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali rientrano quelli del proprio decoro, del proprio onore, della propria rispettabilità, riservatezza, intimità e reputazione, sanciti espressamente negli artt. 8 e 10 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (cfr. Corte costituzionale n. 38/1973)».

Tali diritti potrebbero essere tutelati soltanto attraverso norme incriminatrici «poiché sono proprio le norme penali che sono poste, ontologicamente, a difesa dei diritti inviolabili dell’essere umano»; e ciò «sia per l’efficacia deterrente della sanzione penale che per l’inadeguatezza delle sanzioni amministrative o civili che appaiono inconciliabili a prevenire, ricomporre o reprimere le condotte lesive dei diritti fondamentali».

1.3.– Un secondo aspetto di non manifesta infondatezza si apprezzerebbe in relazione all’art. 3 Cost., in quanto la depenalizzazione del reato di ingiuria avrebbe determinato una irragionevole disparità di trattamento rispetto al reato di diffamazione di cui all’art. 595 cod. pen., delitto riconducibile «alla stessa medesima ratio e allo stesso diritto fondamentale», distinguendosi solamente per la presenza o meno dell’offeso al momento della condotta.

Tale discriminazione sarebbe particolarmente evidente in riferimento all’abrogazione dell’ipotesi aggravata di cui all’art. 594, quarto comma, cod. pen., che disponeva un aumento di pena qualora l’offesa fosse commessa «in presenza di più persone». Secondo il rimettente, sarebbe del tutto irragionevole «[l]a scelta di perseguire un fatto “comunicando con più persone” in assenza dell’offeso (diffamazione) e di non punire il medesimo fatto “commesso in presenza di più persone” con la presenza dell’offeso (ingiurie)».

1.4.– Un terzo aspetto di non manifesta infondatezza andrebbe, infine, apprezzato in relazione alla «difforme tutela processuale garantita al medesimo diritto fondamentale nell’abrogato reato di ingiuria rispetto al reato di diffamazione».

In particolare, la deposizione testimoniale della persona offesa, che ben potrebbe essere posta a fondamento della decisione nel processo penale a quo, non potrebbe esserlo nel giudizio civile, poiché in quella sede la parte non può testimoniare a favore di sé stessa.

Ciò condurrebbe alla conseguenza per cui un’ingiuria commessa in assenza di testimoni sarebbe destinata a restare impunita, così determinandosi un’irragionevole disparità di trattamento rispetto alle vittime della diffamazione, le quali hanno la possibilità di costituirsi parte civile e deporre come testimoni nel processo penale.

2.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.

L’Avvocatura generale dello Stato osserva anzitutto come questa Corte nella sentenza (recte: ordinanza) n. 175 del 2001, in tema di oltraggio a pubblico ufficiale, abbia già affermato che la questione «tendente ad ottenere una sentenza con la quale venga reintrodotta una fattispecie criminosa prevista da una disposizione espressamente abrogata […] eccede i compiti di questa Corte», trattandosi di una «scelta discrezionale riservata al legislatore».

L’Avvocatura rammenta altresì che questa Corte, nella sentenza n. 81 del 2014, affermò di non potere rimodulare liberamente le sanzioni degli illeciti penali perché, se lo facesse, invaderebbe un campo riservato alla discrezionalità del legislatore, il cui esercizio è censurabile, sul piano della legittimità costituzionale, solo ove trasmodi nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene quando si sia di fronte a sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione.

Le sentenze citate dal rimettente a sostegno della tesi relativa alla «necessità di “penalizzare” una condotta in senso contrario a quanto ritenuto dal legislatore» non sarebbero dunque conferenti, l’intervento ablativo della Corte giustificandosi solamente «quando l’area della penalità è esclusa per categorie determinate di soggetti», come ad esempio avvenuto in tema di falso in materia elettorale nella sentenza n. 394 del 2006.

Sarebbe del resto «[i]ncongruo» il riferimento operato dal rimettente alla sentenza n. 5 del 2014, in quanto relativa a un caso in cui l’illegittimità dell’avvenuta depenalizzazione, nella fattispecie in materia di associazioni paramilitari, era stata riscontrata sotto il profilo dell’assenza di delega legislativa, e dunque per contrarietà all’art. 76 Cost.

Resterebbe fermo, in altri termini, il principio per cui alla Corte «è preclusa ogni pronuncia che ripristini un reato laddove si contesti la mera ragionevolezza delle scelte discrezionali del legislatore, con conseguente inammissibilità della relativa questione, come sostenuto ripetutamente dalla stessa Corte».

Mentre la discrezionalità del legislatore potrebbe essere censurata soltanto nel caso di «uso distorto o arbitrario così da confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza» (ordinanza n. 23 del 2009), nella fattispecie in esame «il perdurante rilievo penale della diffamazione si giustifica sulla base dell’aggressione pubblica dell’onore, contrariamente a quanto avviene per l’ingiuria rispetto alla quale il legislatore ha perseguito lo scopo della sua rimessione alla composizione tra privati, facendone un illecito civile».

L’Avvocatura generale dello Stato, infine, osserva che l’argomento del rimettente che fa leva sul diverso regime probatorio in sede civile, in base al quale sarebbe impedito alla parte offesa di deporre come teste, sarebbe parimenti infondato, «in considerazione al fatto che esistono mezzi (es. 228/230-233 cpc) che possono portare all’accertamento della fattispecie».

3.– Con atto depositato in data 13 giugno 2017, si sono costituiti nel giudizio incidentale il signor G. D. e la signora R. F., rispettivamente figlio e moglie del defunto G. D., parte civile nel procedimento penale a quo.

Nell’atto di costituzione si ribadisce anzitutto la centralità del bene dell’onore, quale diritto fondamentale della persona umana, avente rango costituzionale nell’art. 2 Cost. e presentante «un costitutivo connotato pubblicistico», al quale solo il diritto penale sarebbe in grado di assicurare tutela; e ciò anche nell’ottica della prevenzione speciale e generale, che sarebbero invece estranee al diritto civile. Solamente «il timore della sanzione penale, per il reo, e la prospettiva di un’adeguata tutela penale, per l’offeso» sarebbero in grado di frenare la «progressione criminosa» cui può dar luogo un «reato-innesco di una serie di altre condotte delittuose», quale l’ingiuria.

Le parti costituite osservano, inoltre, come intraprendere un’azione civile sia economicamente più gravoso rispetto alla mera presentazione di una querela, «con l’immediata conseguenza della disparità di trattamento tra cittadini più o meno abbienti».

Per effetto della novella legislativa, d’altra parte, il bene dell’onore sarebbe stato artificiosamente «frantumato», rimanendo la tutela penale confinata al bene della reputazione grazie all’incriminazione della diffamazione ex art. 595 cod. pen.: fattispecie, quest’ultima, che non potrebbe però dirsi, in astratto, più grave dell’ingiuria, dovendo l’offensività essere apprezzata in concreto.

Le parti costituite rilevano inoltre che la Corte avrebbe nel tempo superato l’iniziale «self restraint al proprio intervento» incarnato nel principio di riserva di legge di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., giungendo ad ammettere un sindacato sulla lex mitior a partire dalla sentenza n. 148 del 1983, e successivamente nelle sentenze n. 394 del 2006, n. 5 del 2014 e n. 32 del 2014.

Le disposizioni censurate dovrebbero, pertanto, essere dichiarate costituzionalmente illegittime per contrasto con l’art. 2 Cost., avendo determinato il venir meno dell’indispensabile tutela pubblicistica rispetto a una delle condotte con cui è possibile ledere il bene fondamentale dell’onore; e con l’art. 3 Cost., in relazione all’irragionevole discriminazione da esse creata rispetto al reato di diffamazione di cui all’art. 595 cod. pen.

4.– Con sei ulteriori ordinanze – del 27 giugno 2017 (r. o. n. 150 e n. 151 del 2017), del 20 giugno 2017 (r. o. n. 80 del 2018), del 4 luglio 2017 (r. o. n. 81 del 2018), del 17 ottobre 2017 (r. o. n. 112 del 2018) e del 30 gennaio 2018 (r. o. n. 113 del 2018) – il medesimo Giudice di pace di Venezia ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., nonché agli artt. 10 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge n. 67 del 2014 e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 7 del 2016, nella parte in cui dispongono l’abrogazione dell’art. 594 cod. pen.

Le ordinanze presentano motivazioni tra loro coincidenti e originano tutte da procedimenti penali, pendenti dinanzi al Giudice di pace di Venezia, per fatti di ingiuria ex art. 594 cod. pen., contestati talora singolarmente (r. o. n. 150 del 2017), in altri casi in concorso con altri delitti, quali le lesioni personali ex art. 582 cod. pen. (r. o. n. 151 del 2017 e n. 113 del 2018), la minaccia ex art. 612 cod. pen. (r. o. n. 80, n. 81 e n. 113 del 2018), la diffamazione ex art. 595 cod. pen. (r. o. n. 112 del 2018).

4.1.– In punto di rilevanza, le argomentazioni spese in queste sei ordinanze sono identiche a quelle espresse nell’ordinanza r. o. n. 70 del 2017, già sopra ripercorse.

4.2.– Anche in punto di non manifesta infondatezza le motivazioni coincidono con quelle spese nell’ordinanza r. o. n. 70 del 2017, salvi i due profili differenziali di seguito segnalati.

In primo luogo, tra i parametri costituzionali evocati figurano – oltre agli artt. 2 e 3 Cost. – anche gli artt. 10 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 CDFUE (il quale statuisce: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata»). Le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto anche con tali parametri «poiché la potestà legislativa è stata esercitata dallo Stato con legge ordinaria senza rispettare i vincoli e i principi derivanti dagli obblighi internazionali e dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tanto da violare apertamente il principio fondamentale della dignità umana espresso nell’art. 1 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea».

In secondo luogo, fra gli argomenti spesi dal giudice a quo nell’ordinanza r. o. n. 70 del 2017, non viene in queste ordinanze ribadito quello attinente alla difformità di disciplina processuale relativa alla deposizione del testimone persona offesa.

5.– In tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibili o comunque infondate le questioni.

Gli argomenti spesi dall’Avvocatura generale sono identici a quelli espressi nell’atto di intervento nel giudizio di cui all’ordinanza r. o. n. 70 del 2017, già sopra illustrati. Viene tuttavia aggiunto che l’ordinanza appare «del tutto immotivata con riguardo ai parametri invocati di cui agli articoli 2, 10 e 117 della Costituzione», non essendo in particolare illustrati i motivi della contrarietà delle norme denunciate con le norme dell’Unione europea. Il fatto poi che la dignità dell’uomo riceva tutela e riconoscimento costituzionale – osserva l’Avvocatura generale – «non comporta necessariamente che l’ingiuria debba essere punita penalmente piuttosto che con sanzione pecuniaria, né che il diritto europeo imponga al legislatore l’adozione di particolari forme».

Richiamando sul punto la giurisprudenza di questa Corte (e in particolare la sentenza n. 223 del 2015), l’Avvocatura generale dello Stato conclude – anche sotto tale aspetto – per l’inammissibilità delle questioni sollevate, in ragione della carenza di motivazioni sull’asserito contrasto tra le norme censurate e i parametri costituzionali evocati.

Considerato in diritto

1.– Il Giudice di pace di Venezia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), nella parte in cui hanno abrogato il delitto di ingiuria in precedenza previsto dall’art. 594 del codice penale.

2.– Con sei ulteriori ordinanze, il medesimo Giudice di pace ha sollevato analoghe questioni di legittimità costituzionale sulle stesse disposizioni, sospettandone il contrasto con gli artt. 2, 3, 10 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, nella parte in cui hanno abrogato il delitto di ingiuria in precedenza previsto dall’art. 594 cod. pen.

3.– Stante la larghissima sovrapponibilità delle questioni prospettate, deve preliminarmente essere disposta la riunione dei predetti giudizi.

4.– Come correttamente eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato, tutte le questioni prospettate sono inammissibili.

5.– Manifestamente inammissibili sono, anzitutto, le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento all’art. 10 Cost., per radicale assenza di motivazione sulla loro non manifesta infondatezza. Il rimettente non ha, infatti, chiarito in alcun modo in che senso debba ritenersi esistente una norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta la quale imponga la criminalizzazione delle offese all’onore individuale.

6.– Del pari manifestamente inammissibili sono le questioni sollevate in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 1 CDFUE. Il rimettente non ha infatti chiarito in che senso la tutela dell’onore individuale dovrebbe ritenersi materia ricadente entro l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea: condizione dalla quale dipende la stessa applicabilità della Carta negli ordinamenti degli Stati membri, ai sensi di quanto disposto dall’art. 51 della Carta medesima (ex multis, sentenze n. 194 del 2018, n. 111 del 2017, n. 63 del 2016 e n. 80 del 2011).

7.– Inammissibili sono, infine, le questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni censurate in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.

7.1.– In linea di principio, sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale che concernano disposizioni abrogative di una previgente incriminazione, e che mirino al ripristino nell’ordinamento della norma incriminatrice abrogata (così, ex plurimis, sentenze n. 330 del 1996 e n. 71 del 1983; ordinanze n. 413 del 2008, n. 175 del 2001 e n. 355 del 1997), dal momento che a tale ripristino osta, di regola, il principio consacrato nell’art. 25, secondo comma, Cost., che riserva al solo legislatore la definizione dell’area di ciò che è penalmente rilevante. Principio, quest’ultimo, che determina in via generale l’inammissibilità di questioni volte a creare nuove norme penali, a estenderne l’ambito applicativo a casi non previsti (o non più previsti) dal legislatore (ex multis, sentenze n. 161 del 2004 e n. 49 del 2002; ordinanze n. 65 del 2008 e n. 164 del 2007), ovvero ad aggravare le conseguenze sanzionatorie o la complessiva disciplina del reato (ex multis, ordinanze n. 285 del 2012, n. 204 del 2009, n. 66 del 2009 e n. 5 del 2009).

Come ribadito anche di recente da questa Corte (sentenze n. 236 del 2018 e n. 143 del 2018), peraltro, tali principi non sono senza eccezioni.

Anzitutto, può venire in considerazione la necessità di evitare la creazione di “zone franche” immuni dal controllo di legittimità costituzionale, laddove il legislatore introduca, in violazione del principio di eguaglianza, norme penali di favore, che sottraggano irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero prevedano per detto sottoinsieme – altrettanto irragionevolmente – un trattamento sanzionatorio più favorevole (sentenza n. 394 del 2006).

Un controllo di legittimità con potenziali effetti in malam partem deve altresì ritenersi ammissibile quando a essere censurato è lo scorretto esercizio del potere legislativo: da parte dei Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare le scelte di criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (sentenza n. 46 del 2014, e ulteriori precedenti ivi citati); da parte del Governo, che abbia abrogato mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega (sentenza n. 5 del 2014); ovvero anche da parte dello stesso Parlamento, che non abbia rispettato i principi stabiliti dalla Costituzione in materia di conversione dei decreti-legge (sentenza n. 32 del 2014). In tali ipotesi, qualora la disposizione dichiarata incostituzionale sia una disposizione che semplicemente abrogava una norma incriminatrice preesistente (come nel caso deciso dalla sentenza n. 5 del 2014), la dichiarazione di illegittimità costituzionale della prima non potrà che comportare il ripristino della seconda, in effetti mai (validamente) abrogata.

Un effetto peggiorativo della disciplina sanzionatoria in materia penale conseguente alla pronuncia di illegittimità costituzionale è stato, altresì, ritenuto ammissibile allorché esso si configuri come «mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma processuale», derivante «dall’eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale» (sentenza n. 236 del 2018).

Un controllo di legittimità costituzionale con potenziali effetti in malam partem può, infine, risultare ammissibile ove si assuma la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost. (sentenza n. 28 del 2010; nonché sentenza n. 32 del 2014, ove l’effetto di ripristino della vigenza delle disposizioni penali illegittimamente sostituite in sede di conversione di un decreto-legge, con effetti in parte peggiorativi rispetto alla disciplina dichiarata illegittima, fu motivato anche con riferimento alla necessità di non lasciare impunite «alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che l’Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.»).

7.2.– Nessuna di queste condizioni sussiste, tuttavia, rispetto alle questioni di legittimità costituzionale oggi sottoposte all’esame di questa Corte.

La disciplina abrogata non si atteggiava a “norma penale di favore” rispetto ad altra disciplina penale di carattere generale coesistente, sottraendo a quest’ultima un sottoinsieme di ipotesi che altrimenti sarebbero ricadute nella normativa generale, come era accaduto nel caso deciso dalla sentenza n. 394 del 2006 (nonché in quello deciso dalla sentenza n. 28 del 2010). L’abrogata disposizione che criminalizzava l’ingiuria aveva invece a oggetto condotte diverse da quelle costitutive del delitto di diffamazione, le quali presuppongono tutte che la manifestazione offensiva dell’onore altrui sia diretta non alla vittima, ma a terze persone.

Né viene in considerazione, nel caso in esame, uno scorretto esercizio del potere legislativo, avendo il Governo depenalizzato il delitto di ingiuria, con il decreto legislativo n. 7 del 2016, in puntuale adempimento della delega conferitagli con la legge n. 67 del 2014.

Né, ancora, oggetto delle presenti questioni di legittimità costituzionale è una disciplina processuale, la cui reductio ad legitimitatem potrebbe determinare, in via collaterale e indiretta, effetti in malam partem, come nel caso deciso dalla sentenza n. 236 del 2018.

Né infine, come poc’anzi sottolineato, il giudice a quo ha dimostrato che l’abrogazione del delitto di ingiuria si ponga di per sé in contrasto con gli obblighi sovranazionali che gravano sul nostro Paese.

7.3.– Il rimettente ha, invero, giustamente sottolineato il carattere fondamentale del diritto all’onore, come tale ascrivibile non solo al novero del «diritti inviolabili» riconosciuti dall’art. 2 Cost. (sentenze n. 379 del 1996, n. 86 del 1974 e n. 38 del 1973), ma anche all’art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, che espressamente tutela i diritti all’onore e alla reputazione, nonché all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e, nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea, all’art. 7 CDFUE, i quali ultimi tutelano il più ampio diritto al rispetto della vita privata, al cui perimetro i diritti all’onore e alla reputazione vengono tradizionalmente ricondotti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU, sezione terza, sentenza 6 novembre 2018, Vicent del Campo contro Spagna; sezione terza, sentenza 20 giugno 2017, Bogomolova contro Russia; sezione prima, sentenza 9 aprile 2009, A. contro Norvegia; sezione prima, sentenza 15 novembre 2007, Pfeifer contro Austria; sezione prima, sentenza 4 ottobre 2007, Sanchez Cardenas contro Norvegia). Ma dal riconoscimento di un diritto come “fondamentale” non discende, necessariamente e automaticamente, l’obbligo per l’ordinamento di assicurarne la tutela mediante sanzioni penali: tanto la Costituzione quanto il diritto internazionale dei diritti umani lasciano, di regola, il legislatore (e più in particolare il Parlamento, naturale depositario delle scelte in materia penale in una società democratica) libero di valutare se sia necessario apprestare tutela penale a un determinato diritto fondamentale, o se – invece – il doveroso obiettivo di proteggere il diritto stesso dalle aggressioni provenienti dai terzi possa essere efficacemente assicurato mediante strumenti alternativi, e a loro volta meno incidenti sui diritti fondamentali del trasgressore, nella logica di ultima ratio della tutela penale che ispira gli ordinamenti contemporanei.

Ciò accade, segnatamente, in relazione al diritto all’onore: diritto fondamentale rispetto al quale non sono ravvisabili obblighi di incriminazione, di origine costituzionale o sovranazionale, che limitino la discrezionalità del legislatore nella determinazione delle modalità della sua tutela. Quest’ultima, pertanto, ben potrà restare affidata – oltre che ai tradizionali rimedi aquiliani – a sanzioni pecuniarie di carattere civile, come quelle apprestate dal decreto legislativo n. 7 del 2016, sulla base di scelte non censurabili da parte di questa Corte.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), sollevate, in riferimento agli artt. 10 e 117, primo comma, della Costituzione, dal Giudice di pace di Venezia con le ordinanze indicate in epigrafe;

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge n. 67 del 2014 e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 7 del 2016, sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., dal Giudice di pace di Venezia con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 6 marzo 2019.