SENTENZA N. 236
ANNO 2018
Commento
alla decisione di
Cosimo
Emanuele Gatto
per g.c. di Diritto
Penale Contemporaneo
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI
Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de
PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
- Luca ANTONINI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art.
4, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274
(Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma
dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), come modificato
dall’art. 2, comma 4-bis, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni
urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere,
nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province),
convertito, con modificazioni, nella legge 15 ottobre 2013, n. 119, promosso
dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Teramo, nel
procedimento penale a carico di M. M., con ordinanza
del 7 marzo 2017, iscritta al n. 91 del registro ordinanze 2017 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie
speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 novembre 2018 il Giudice relatore Giovanni
Amoroso.
1.– Il Giudice per le
indagini preliminari del Tribunale di Teramo, con ordinanza del 7 marzo 2017,
ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della
Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1,
lettera a), del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla
competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24
novembre 1999, n. 468), come modificato dall’art. 2, comma 4-bis, del
decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di
sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di
protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con
modificazioni, nella legge 15 ottobre 2013, n. 119, nella parte in cui per il
delitto previsto dall’art. 582 del codice penale – limitatamente alle
fattispecie di cui al secondo comma perseguibili a querela di parte ‒ non
prevede l’esclusione della competenza del giudice di pace anche per i fatti
aggravati ai sensi dell’art. 577, primo comma, numero 1), cod. pen., commessi contro il discendente non adottivo, quale il
figlio naturale.
In particolare, il
rimettente, quanto alla non manifesta infondatezza dei dubbi di costituzionalità,
afferma che la disposizione censurata, non prevedendo l’esclusione della
competenza per materia del giudice di pace anche in relazione al reato di
lesioni perseguibile a querela, commesso in danno del figlio naturale, e
contemplandola invece per lo stesso reato in danno del figlio adottivo,
confliggerebbe con l’art. 3 Cost. per violazione del
principio di eguaglianza e per irragionevolezza intrinseca.
Ad avviso del rimettente,
si tratta di una disposizione che senza giustificazione alcuna stabilisce, per
il medesimo reato, un diverso criterio di riparto della competenza per materia,
tra giudice di pace e tribunale ordinario, incentrato sul riduttivo richiamo
alle sole ipotesi di aggravamento della fattispecie delittuosa di cui all’art.
582, secondo comma, cod. pen., previste dall’art. 577, secondo comma, cod. pen. Infatti, soltanto le condotte consumate dal genitore
nei confronti del figlio adottivo, già di competenza del giudice di pace, sono
divenute di competenza del tribunale ordinario e non anche quelle consumate in
danno del figlio naturale, ipotesi disciplinata al primo comma, numero 1),
dell’art. 577 cod. pen., pur trattandosi di fattispecie connotate da uno stesso
disvalore sociale e ispirate ad una ratio punitiva del tutto sovrapponibile.
Inoltre, la disposizione
censurata irragionevolmente comporterebbe che, se il reato di lesioni personali
«lievi» (in realtà lievissime ex art. 582, secondo comma, cod. pen.) è commesso in danno del figlio adottivo, risulta
compreso tra le fattispecie di cui all’art. 282-bis, comma 6, del codice di
procedura penale, il quale consente l’applicazione «della misura
dell’allontanamento dalla casa familiare», anche al di fuori dei limiti di pena
previsti dall’art. 280 cod. proc. pen.; mentre, là dove la medesima
condotta risulti posta in essere in danno di un discendente, qual è il figlio
naturale, sussistendo la competenza del giudice di pace, deve escludersi
l’applicabilità della citata misura cautelare personale, ai sensi dell’art. 2,
comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 274 del 2000.
Vi sarebbe, pertanto,
un’evidente incoerenza intrinseca in considerazione della piena equiparazione
della tutela giurisdizionale riservata al figlio adottivo rispetto al figlio
naturale, vittime di condotte poste in essere in ambito familiare. Né, precisa
il rimettente, sarebbe possibile un’interpretazione costituzionalmente
orientata della disposizione, atteso il suo chiaro significato letterale.
Sussisterebbe, altresì, la
violazione dell’art. 24 Cost., perché la disposizione
censurata determina un pregiudizio per i diritti dell’indagato, costituito
dalla oggettiva impossibilità per il giudice di adottare un provvedimento ex
art. 131-bis cod. pen. per
la lieve entità del fatto, trovando applicazione l’art. 4, comma 1, lettera a),
del d.lgs. n. 274 del 2000, nella parte in cui, per il reato di lesioni «lievi»
in danno del figlio naturale, individua quale giudice competente per materia il
giudice di pace, impossibilitato a definire il procedimento con un
provvedimento di archiviazione ai sensi dell’art. 131-bis citato.
2.– In punto di rilevanza della questione, il
GIP rimettente riferisce che all’udienza camerale ai sensi dell’art. 409, comma
2, cod. proc. pen., il difensore dell’indagato chiedeva l’archiviazione del
procedimento, in via principale, per l’infondatezza della notizia di reato e,
in via subordinata, per l’operatività della causa di non punibilità per la
particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen.
Osserva il rimettente come
tale epilogo decisorio risulti a lui precluso in quanto obbligato a rilevare la
propria incompetenza per materia ai sensi dell’art. 22 cod. proc.
pen.,
essendo prevista per il reato in questione la competenza del giudice di pace,
dal momento che la disposizione censurata esclude la competenza di quest’ultimo
in ordine al delitto di cui all’art. 582, secondo comma, cod. pen. per i soli fatti commessi
contro uno dei soggetti elencati dall’art. 577, secondo comma, cod. pen. e non anche per i fatti
commessi in danno del figlio naturale, che ricadono nell’ipotesi aggravata di
cui al numero 1) del primo comma dello stesso art. 577.
3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel presente
giudizio di legittimità costituzionale chiedendo a questa Corte di dichiarare
l’inammissibilità o l’infondatezza delle questioni.
In primo luogo,
l’interveniente osserva che il rimettente lamenta l’irrazionalità della norma
sulla competenza perché preclude la possibilità di applicare al caso sottoposto
al suo esame la speciale causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.,
sicché la questione non può ritenersi direttamente rilevante ai fini della
decisione del processo nel corso del quale è stata sollevata. Secondo
l’Avvocatura generale difetterebbe la pregiudizialità rispetto al giudizio a
quo, in quanto le questioni si riferirebbero all’applicazione di una norma che
presuppone la competenza del giudice di pace.
Inoltre – osserva ancora
l’Avvocatura – il rimettente non si sarebbe misurato con quella giurisprudenza
di legittimità, seppur minoritaria, che ritiene applicabile l’istituto di cui
all’art. 131-bis cod. pen. anche
nel procedimento davanti al giudice di pace.
1.– Il Giudice per le
indagini preliminari del Tribunale di Teramo, con ordinanza del 7 marzo 2017,
ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera a), del decreto
legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del
giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n.
468), come modificato dall’art. 2, comma 4-bis, del decreto-legge 14 agosto
2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto
della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di
commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, nella legge 15
ottobre 2013, n. 119, nella parte in cui per il delitto previsto dall’art. 582
del codice penale – limitatamente alle fattispecie di cui al secondo comma
perseguibili a querela di parte (lesioni lievissime) ‒ non esclude la
competenza del giudice di pace anche per i fatti aggravati ai sensi dell’art.
577, primo comma, numero 1), cod. pen., commessi
contro il discendente e segnatamente, come nella specie, contro il figlio
naturale (da ritenersi, sebbene non precisato dal rimettente, quello nato sia
in costanza di matrimonio, sia al di fuori), così come per i fatti commessi
contro il discendente adottivo.
Il rimettente lamenta
l’irragionevole previsione, per il medesimo reato, di un diverso criterio di
attribuzione della competenza per materia, tra giudice di pace e tribunale
ordinario, secondo che la parte offesa del reato di lesioni volontarie
lievissime sia, in particolare, il figlio naturale o il figlio adottivo, con
violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.).
Sussisterebbe, altresì, la
violazione dell’art. 24 Cost., perché la disposizione
censurata determina un pregiudizio per l’indagato costituito dall’impossibilità
per il giudice di adottare un provvedimento di archiviazione ai sensi degli
artt. 411, comma 1-bis, del codice di procedura penale e 131-bis cod. pen. per difetto di punibilità in
ragione della particolare tenuità del fatto.
2.– Preliminarmente, deve considerarsi che
l’art. 577 cod. pen., richiamato, limitatamente al
secondo comma, dalla disposizione censurata, è stato modificato dall’art. 2
della legge 11 gennaio 2018, n. 4 (Modifiche al codice civile, al codice
penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in favore degli
orfani per crimini domestici), che costituisce ius superveniens rispetto all’ordinanza di rimessione. In
particolare, la disposizione sopravvenuta prevede che all’art. 577 cod. pen. «sono apportate le seguenti
modificazioni: a) al primo comma, numero 1), dopo le parole "il discendente”
sono aggiunte le seguenti: "o contro il coniuge, anche legalmente separato,
contro l’altra parte dell’unione civile o contro la persona legata al colpevole
da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente”; b) al secondo comma,
dopo le parole: "il coniuge” sono inserite le seguenti: "divorziato, l’altra
parte dell’unione civile, ove cessata”».
Risulta così ampliato
l’elenco dei soggetti (persone offese) indicati dalla disposizione richiamata
dalla norma censurata per includere per alcuni (art. 577, secondo comma) o,
all’opposto, escludere per altri (art. 577, primo comma, numero 1) il reato di
lesioni lievissime dalla competenza del giudice di pace, rimanendo tuttavia
invariata la censurata regola di competenza quanto al reato di lesioni
lievissime in danno rispettivamente del figlio naturale e del figlio adottivo.
Si tratta, quindi, di un
innesto normativo che non modifica affatto i termini delle questioni di
legittimità costituzionale sollevate dal giudice rimettente.
Non vi è ragione, pertanto,
di restituire gli atti a quest’ultimo per il riesame della rilevanza delle
questioni stesse (da ultimo, sentenza n. 194 del
2018).
Non di meno, la previsione
di ulteriori ipotesi di lesioni volontarie lievissime, quali quelle in danno
del coniuge, anche legalmente separato, o dell’altra parte dell’unione civile
in corso, attribuite alla competenza del giudice di pace, al pari delle lesioni
lievissime in danno del figlio naturale, oggetto delle sollevate questioni di
legittimità costituzionale, sarà invece rilevante – come si dirà – al diverso
fine della dichiarazione di illegittimità costituzionale in via consequenziale.
3.– In via ancora preliminare, non è fondata
l’eccezione di inammissibilità formulata dall’Avvocatura generale dello Stato.
Il GIP rimettente,
all’udienza fissata ai sensi degli artt. 409, comma 2, e 411 cod. proc. pen., è chiamato a
pronunciarsi in ordine all’imputazione del reato di lesioni volontarie di un
genitore in danno del figlio naturale con conseguente malattia di durata non
superiore a venti giorni, reato previsto dall’art. 582, secondo comma, cod. pen., aggravato ex art. 585, primo comma, cod. pen., stante il concorso di una delle circostanze
aggravanti previste dall’art. 577 cod. pen., e
segnatamente quella prevista dal numero 1) del primo comma, per essere stato il
fatto commesso in danno del discendente.
Verificata la condizione di
procedibilità della querela tempestivamente proposta dalla parte offesa, il GIP
si è preliminarmente interrogato in ordine alla sua competenza stante il
disposto dell’art. 22 cod. proc. pen., secondo cui il GIP, se
riconosce la propria incompetenza per qualsiasi causa, pronuncia ordinanza o
sentenza, rispettivamente nel corso delle indagini preliminari o dopo la
chiusura delle stesse, e dispone la restituzione degli atti al pubblico
ministero.
Osserva il rimettente che
la competenza a pronunciarsi in ordine all’imputazione suddetta appartiene al
giudice di pace in ragione della regola posta dalla disposizione censurata.
Egli, quindi, in applicazione di tale regola, dovrebbe dichiarare la propria
incompetenza e restituire gli atti al pubblico ministero.
Il dubbio non
manifestamente infondato di legittimità costituzionale, espresso dal giudice
rimettente, riguarda, dunque, una disposizione di cui egli dovrebbe fare
applicazione e che censura proprio nella parte in cui non prevede, all’opposto,
la competenza del tribunale ordinario; ciò assicura la rilevanza e, dunque,
l’ammissibilità delle questioni di costituzionalità, con conseguente rigetto
dell’eccezione proposta dall’Avvocatura generale.
Né ciò può essere revocato
in dubbio – come sostiene l’Avvocatura ‒ in ragione di un’argomentazione
di supporto svolta dal giudice rimettente, il quale ha aggiunto che, ove fosse
competente, dichiarerebbe il difetto di punibilità dell’indagato per la
particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen.;
disposizione questa che – secondo un recente orientamento della Corte di
cassazione (sezioni unite penali, sentenza 22 giugno 2017-28 novembre 2017, n.
53683) – non sarebbe applicabile dal giudice di pace, ossia dal giudice
chiamato a pronunciarsi secondo la censurata regola di competenza.
Tale rilievo non inficia la
ritenuta rilevanza, e quindi l’ammissibilità, delle questioni di costituzionalità
della regola di competenza: di quest’ultima il giudice rimettente deve innanzi
tutto fare applicazione, mentre la successiva applicabilità, o no, dell’art.
131-bis cod. pen. costituisce
un posterius, ininfluente a tal fine.
Le considerazioni svolte
dal giudice rimettente in ordine alla controversa questione – recentemente
risolta dalla citata giurisprudenza di legittimità ‒ del rapporto tra la
causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis
cod. pen., di cui conosce il tribunale ordinario, e
quella di improcedibilità, anch’essa per la particolare tenuità del fatto, ex
art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000, di cui conosce il giudice di pace,
costituiscono in realtà un mero obiter dictum, inidoneo ad attrarre anche la prima disposizione
nell’oggetto del giudizio di costituzionalità, che concerne solo la censurata
regola di competenza e la cui rilevanza è assicurata dall’evidente necessità
per il giudice rimettente di fare applicazione di quest’ultima.
4.– Nel merito, la questione è fondata in
riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., con conseguente assorbimento
dell’ulteriore censura di violazione dell’art. 24 Cost.
5.– È necessario premettere il quadro normativo
in cui si colloca la questione di costituzionalità, che è fatto di plurimi
rinvii e richiami, formali e non già materiali, di disposizioni, sì da
risultare, nel complesso, alquanto tortuoso.
5.1.– Il censurato art. 4, comma 1, lettera a),
del d.lgs. n. 274 del 2000 dispone, nella parte che qui rileva, che il giudice
di pace è competente: «a) per i delitti consumati o tentati previsti dagli
articoli 581, 582, limitatamente alle fattispecie di cui al secondo comma
perseguibili a querela di parte, ad esclusione dei fatti commessi contro uno
dei soggetti elencati dall’articolo 577, secondo comma, ovvero contro il
convivente [...]».
Inizialmente, tale
disposizione – che recava il complessivo catalogo dei reati attribuiti alla
competenza del giudice di pace in deroga alla competenza del tribunale
ordinario – prevedeva il reato di lesioni volontarie cosiddette lievissime
(art. 582, secondo comma, cod. pen), ossia quelle che
comportano una malattia di durata non superiore a venti giorni, se perseguibili
a querela, ossia in assenza delle aggravanti di cui all’art. 583 cod. pen., che contempla l’ipotesi di lesioni gravi o
gravissime, e all’art. 585 cod. pen., che, oltre a
particolari modalità della condotta, richiama le circostanze aggravanti
dell’omicidio volontario, sia ex art. 576 sia ex art. 577 cod. pen.
Quindi, la competenza del
giudice di pace, quanto al reato di lesioni volontarie, era ancorata a una
duplice condizione: a) malattia di durata non superiore a venti giorni; b)
perseguibilità a querela in assenza delle aggravanti suddette, ma con
esclusione di quelle indicate nel numero 1) e nell’ultima parte dell’art. 577.
Ossia se le lesioni volontarie erano commesse in danno dell’ascendente o del
discendente (numero 1 del primo comma dell’art. 577), ovvero se il fatto era
commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre
adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta (secondo
comma dell’art. 577), la competenza era comunque del giudice di pace, pur
trattandosi di lesioni aggravate, ma in ogni caso perseguibili a querela.
Pertanto, prima della
modifica della regola di competenza contestata dal giudice rimettente, le
lesioni lievissime in danno del figlio naturale e quelle in danno del figlio
adottivo avevano lo stesso trattamento sostanziale (quanto alla ricorrenza
della circostanza aggravante) e processuale (quanto alla competenza): se punite
a querela, per essere la malattia non superiore a venti giorni, era competente
sempre il giudice di pace.
Questo assetto è rimasto
inalterato in occasione delle ripetute modifiche dell’art. 4 censurato e
inalterato era inizialmente anche a seguito del d.l. n. 93 del 2013.
È stata solo la legge di
conversione – come ora si viene meglio a dire ‒ a modificare tale regola
di competenza. Infatti, le parole «ad esclusione dei fatti commessi contro uno
dei soggetti elencati dall’articolo 577, secondo comma», nei cui confronti si
appuntano le censure del giudice rimettente, sono state inserite, nella
disposizione del citato d.lgs. n. 274 del 2000, dalla legge n. 119 del 2013, di
conversione del d.l. n. 93 del 2013.
5.2.– Tale decreto-legge reca un complessivo
intervento normativo di repressione della violenza di genere, in sintonia
peraltro con la pressoché coeva ratifica, ad opera della legge 27 giugno 2013,
n. 77, della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta
contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a
Istanbul l’11 maggio 2011. È di tutta evidenza che il decreto-legge ha avuto
come scopo principale quello di contrastare in modo più incisivo la violenza di
genere, ossia le condotte violente poste in essere nell’ambito di contesti
familiari o comunque affettivi, rafforzando la tutela delle vittime considerate
più vulnerabili, quali le donne.
Tra le novità di maggior
rilievo recate dal d.l. n. 93 del 2013 vi è, per ciò che qui interessa, la
modifica dell’art. 282-bis cod. proc. pen.,
disposizione questa introdotta nel codice di rito dall’art. 1 della legge 4
aprile 2001, n. 154 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari) con
la previsione di una speciale misura cautelare personale: l’allontanamento
dalla casa familiare. In particolare, il comma 6 dell’art. 282-bis elencava una
serie di reati – artt. 570, 571, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 609-bis,
609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies cod. pen.
– prevedendo, tra l’altro, che la misura cautelare potesse essere adottata
anche al di fuori dei limiti edittali di pena fissati dall’art. 280 cod. proc. pen.
Il d.l. n. 93 del 2013,
all’art. 2, comma 1, lettera a), ha inserito nell’elenco del comma 6 dell’art.
282-bis cod. proc. pen. anche l’art. 582 cod. pen., limitatamente alle ipotesi procedibili d’ufficio o
comunque aggravate, con l’intento di rendere applicabile la misura
dell’allontanamento dalla casa familiare anche a questi ulteriori casi di
lesioni volontarie. E, simmetricamente, ha modificato l’art. 384-bis cod. proc. pen.
quanto all’allontanamento d’urgenza dalla casa
familiare, reso anch’esso possibile in caso di lesioni volontarie.
Tale finalità di un più
incisivo contrasto della violenza domestica consistente in lesioni volontarie,
in particolare con la prevista estensione della suddetta misura cautelare,
risultava però non pienamente conseguita in quanto per le lesioni volontarie
lievissime perseguibili a querela (di cui al secondo comma dell’art. 582) era
ancora prevista la competenza del giudice di pace, al quale era – ed è –
interdetta l’adozione di misure cautelari personali (art. 2, comma 1, lettera
c, del d.lgs. n. 274 del 2000).
Sia il parere del Consiglio
superiore della magistratura del 10 ottobre 2013 sul d.l. n. 93 del 2013, che
le audizioni in Parlamento in occasione della legge di conversione (Atto
Camera, Commissioni riunite I e II, seduta del 10 settembre 2013) avevano
segnalato il problema: il giudice di pace, in caso di lesioni lievissime, non
avrebbe potuto adottare la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa
familiare (art. 282-bis).
Sicché, non sussistendo in
capo al giudice di pace il potere di applicare misure restrittive della libertà
personale, necessariamente il legislatore ha dovuto modificare il catalogo dei
reati attribuiti alla competenza di quel giudice. Occorreva modificare la
regola di competenza, se si voleva elevare il contrasto della violenza
domestica anche nel caso di lesioni lievissime.
A ciò ha rimediato la legge
di conversione n. 119 del 2013 modificando la regola di competenza (art. 4,
comma 1, lettera a) sì da portare nella competenza del tribunale ordinario
anche i reati di lesioni volontarie lievissime che prima erano esclusi.
All’art. 2 del decreto-legge è stato aggiunto – come già detto ‒ il comma
4-bis che ha sottratto alla competenza del giudice di pace il reato di lesioni
lievissime nel concorso della circostanza aggravante prevista dall’art. 585
cod. pen. per essere i fatti
commessi contro uno dei soggetti elencati dall’art. 577, secondo comma, cod. pen.
L’intervento normativo del
2013 era quindi diretto a elevare il livello di repressione della violenza
domestica con la previsione di una serie di misure di contrasto e, in
particolare, quanto alle lesioni lievissime di cui all’art. 582, secondo comma,
cod. pen., con il trasferimento della competenza al
tribunale ordinario così escludendo la preclusione all’adozione di misure
personali cautelari, quale l’allontanamento dalla casa familiare, nonché il
complessivo regime di favore di cui al Titolo II del d.lgs. n. 274 del 2000,
quanto alle sanzioni applicabili dal giudice di pace.
Chiara è la ratio della
nuova normativa, come emerge dai lavori parlamentari, nel corso dei quali si è
posto in rilievo che non di rado le condotte di lesioni, anche lievissime,
costituiscono comportamenti cosiddetti "spia”, con cui, cioè, si manifestano
fatti di prevaricazione e violenza che, spesso, sfociano in condotte ben più
gravi e connotate da abitualità: comportamenti in danno di «prossimi congiunti»
(come prevede l’art. 282-bis, comma 6, citato) e quindi – si sarebbe portati a
credere – in danno, in particolare, sia del figlio naturale che del figlio
adottivo.
Invece, il legislatore del
2013, nel modificare il catalogo dei reati attribuiti alla competenza del
giudice onorario, è intervenuto sull’art. 4 del d.lgs. n. 274 del 2000,
escludendo la competenza in relazione al reato di lesioni lievissime commesso
«in danno dei soggetti elencati dall’art. 577, secondo comma» cod. pen., talché testualmente (e inspiegabilmente) è rimasto
escluso il reato di lesioni commesso in danno dei soggetti di cui al numero 1)
del primo comma dell’art. 577, tra cui appunto il figlio naturale.
5.3.– In sintesi, il regime differenziato,
censurato dal giudice rimettente, è conseguenza del diverso utilizzo della
tecnica del "richiamo” dell’art. 577 cod. pen. a opera rispettivamente dell’art. 582, secondo comma, cod. pen., e dell’art. 4, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 274
del 2000.
Per la prima disposizione
(art. 582, secondo comma) il richiamo vale a identificare una fattispecie di
lesioni aggravate, anche lievissime (e perseguibili comunque a querela), che
sono tali se ricorrono i presupposti sia del numero 1) del primo comma, sia del
secondo comma dell’art. 577: ovvero se i fatti di lesione sono commessi in
danno di qualsivoglia soggetto previsto dall’art. 577 e quindi, in particolare,
tanto in danno del figlio naturale che del figlio adottivo, dovendo intendersi
per tale quello che abbia acquisito siffatto stato in virtù, in particolare, di
adozione legittimante. Infatti, la giurisprudenza di legittimità (Corte di
cassazione, sezione prima penale, sentenza 26 settembre 2017 - 1° marzo 2018,
n. 9427), con riguardo al reato di omicidio volontario, che vede come rilevante
la distinzione tra «discendente» e «figlio adottivo», ha ritenuto che nella
nozione di «discendente» di cui al numero 1) del primo comma dell’art. 577 cod.
pen. rilevi la filiazione
biologica, sicché la nozione di «figlio adottivo» di cui al secondo comma
dell’art. 577, pur essendo la disposizione rimasta nella formulazione
originaria del 1930, è da intendersi riferita anche all’adozione quale
regolamentata dalla disciplina successiva al codice civile del 1942 e quindi,
in particolare, a quella legittimante, di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184
(Diritto del minore ad una famiglia).
Per la seconda disposizione
(art. 4, comma 1, lettera a), invece, il richiamo è differenziato: le lesioni
lievissime in danno dei soggetti di cui al numero 1) dell’art. 577 sono rimaste
nella competenza del giudice di pace, mentre quelle in danno dei soggetti di
cui al secondo comma della stessa disposizione sono state trasferite alla
competenza del tribunale ordinario per meglio contrastare questi episodi
delittuosi.
Da ciò risulta la regola di
competenza differenziata, in particolare, quanto alle lesioni lievissime in
danno del figlio naturale ovvero del figlio adottivo.
6.– Fatta questa premessa ricostruttiva del quadro
normativo di riferimento, nel merito la questione è fondata con riguardo
all’art. 3, primo comma, Cost., sotto un duplice profilo.
Da una parte, è violato il
principio di eguaglianza non essendo giustificato il diverso trattamento
processuale riservato al reato di lesioni volontarie secondo che il fatto sia
commesso rispettivamente in danno del figlio naturale o del figlio adottivo,
stante lo stesso stato di figlio nell’uno e nell’altro caso e quindi il
carattere discriminatorio della differenziazione.
D’altra parte, non si
rinviene alcuna ragione, quale che sia, della mancata inclusione anche del
reato di lesioni volontarie commesso in danno del figlio naturale tra quelli
che, già di competenza del giudice di pace, sono stati trasferiti alla competenza
del tribunale ordinario per innalzare il livello di contrasto a tali episodi di
violenza domestica, con conseguente manifesta irragionevolezza della disciplina
differenziata.
6.1.– Quanto al principio di eguaglianza, deve
considerarsi che sotto il profilo civilistico piena è l’assimilazione di stato
tra figlio naturale e figlio adottivo e, quanto al profilo penalistico
sostanziale, lo stesso trattamento sanzionatorio ricorre per i fatti in danno
del figlio naturale e del figlio adottivo, salvo che per l’omicidio di cui si
dirà oltre.
Già l’art. 27 della citata
legge n. 184 del 1983 ha previsto che per effetto dell’adozione l’adottato
acquista lo stato di figlio nato nel matrimonio degli adottanti, dei quali
assume e trasmette il cognome. Più recentemente, a seguito del decreto
legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in
materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n.
219), la parificazione si è completata.
L’art. 74 del codice
civile, novellato dall’art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219
(Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), prevede che la
parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia
nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel
caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è
adottivo, salvo nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli
artt. 291 e seguenti cod. civ.
In termini ancora più netti
l’art. 315 cod. civ., novellato dall’art. 1, comma 7,
della medesima legge n. 219 del 2012, ha ridefinito la condizione della
filiazione prevedendo in generale che tutti i figli hanno lo stesso stato
giuridico.
Come affermato da questa
Corte nella sentenza
n. 286 del 2016, con tale revisione della disciplina della filiazione, «il
legislatore ha posto le basi per la completa equiparazione della disciplina
dello status di figlio legittimo, figlio naturale e figlio adottato,
riconoscendo l’unicità dello status di figlio».
D’altra parte, nella
materia penale parimenti si riscontra un’analoga equiparazione tra figlio
naturale e figlio adottivo.
Innanzi tutto, già il reato
di lesioni volontarie è, allo stesso modo e nella stessa misura, aggravato se
il fatto è commesso sia in danno del figlio naturale sia in danno del figlio
adottivo. Infatti, l’art. 585 cod. pen. stabilisce che la pena è aumentata fino a un terzo se
concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dall’art. 577 cod. pen.; disposizione quest’ultima che prevede sia il fatto in
danno del figlio naturale (al numero 1 del primo comma), sia il fatto in danno
del figlio adottivo (secondo comma).
Analoga equiparazione
ricorre con riferimento ad altri reati.
L’art. 602-ter cod. pen.,
quanto alle circostanze aggravanti dei reati di prostituzione minorile e di
pornografia minorile, nonché dei reati di cui agli artt. 600, 601 e 602 cod. pen., prevede che opera nella stessa misura l’aggravante se
il fatto è commesso da un ascendente o dal genitore adottivo.
Parimenti, in materia di
violenza sessuale costituisce circostanza aggravante il fatto commesso dal
genitore «anche adottivo» (artt. 609-ter e 609-quater cod. pen.);
e così anche nel caso di reato di corruzione di minorenne (art. 609-quinquies
cod. pen.).
Assume, quindi, carattere
discriminatorio la diversa regola processuale di competenza, in esame, prevista
per il figlio naturale rispetto a quella stabilita per il figlio adottivo
talché è violato, in via generale, il principio di eguaglianza, avendo essi lo
stesso stato giuridico, così come è indubitabile che sia per figli di genere
diverso.
6.2.– Ma viene in rilievo anche il principio di
ragionevolezza.
Vero è che, secondo la
giurisprudenza di questa Corte (ex multis, sentenze n. 65 del
2014 e n.
216 del 2013; ordinanze
n. 48 del 2014 e n. 190 del 2013),
nella disciplina del processo in generale, e segnatamente nel processo penale,
ampia è la discrezionalità del legislatore, con il solo limite della non
manifesta irragionevolezza delle scelte compiute.
Si è affermato, in
particolare, che non è compito di questa «Corte procedere ad aggiustamenti
delle norme processuali per mere esigenze di coerenza sistematica e simmetria,
in ossequio ad un astratto principio di razionalità del sistema normativo»;
senza che nel caso di specie siano però rilevabili «lesioni di principi o
regole contenuti nella Costituzione o di diritti costituzionalmente tutelati» (sentenza n. 182 del
2007). Parimenti, questa Corte, in relazione alla disciplina della
competenza per materia del giudice di pace, ha più volte affermato (soprattutto
con riferimento alla competenza per connessione) che essa appartiene, nei
limiti della ragionevolezza, alla discrezionalità del legislatore, e che il
discrimine posto in relazione alla competenza del giudice superiore rinviene la
propria ratio giustificatrice nelle peculiarità proprie del rito innanzi al
giudice di pace, caratterizzato da tratti di semplificazione e snellezza che ne
esaltano la funzione conciliativa, nonché nella natura delle fattispecie
criminose di ridotta gravità, devolute alla competenza del giudice di pace (sentenza n. 64 del
2009; ordinanza
n. 56 del 2010).
Non di meno può ricorrere
la irragionevolezza, quale intrinseco difetto di coerenza, anche con
riferimento a scelte delle regole di rito, come è in particolare la regola di
competenza per i reati attributi alla cognizione del giudice di pace, in deroga
a quella del tribunale ordinario.
Questa Corte, nel
dichiarare l’illegittimità costituzionale di una disposizione che prevedeva la
facoltà del querelante di opporsi alla definizione del procedimento con
l’emissione di decreto penale di condanna, ha affermato che «[l]a censurata
facoltà si pone […] in violazione del canone di ragionevolezza e del principio
di ragionevole durata del processo, costituendo un bilanciamento degli
interessi in gioco non giustificabile neppure alla luce dell’ampia
discrezionalità che la giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto al
legislatore nella conformazione degli istituti processuali» (sentenza n. 23 del
2015).
Lo scrutinio di non
manifesta irragionevolezza, in questi ambiti, impone, infatti, alla Corte
costituzionale di verificare che il bilanciamento degli interessi
costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da
determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva
e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve
svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi
prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle
esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto
conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130
del 1988). Il rispetto del canone di ragionevolezza «richiede di valutare
se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione
stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente
perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno
restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati
rispetto al perseguimento di detti obiettivi» (sentenza n. 1 del
2014).
6.3.– Sotto questo profilo, deve considerarsi che
un trattamento differenziato tra figlio naturale e figlio adottivo è,
eccezionalmente, previsto dalla disposizione richiamata da quella censurata con
riferimento al reato di omicidio volontario.
Infatti, si ha che l’art.
577 cod. pen., richiamato, limitatamente al secondo comma, appunto
dall’art. 4, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 274 del 2000, reca tale
differenziazione al primo e secondo comma nel disciplinare le circostanze
aggravanti dell’omicidio volontario.
Nel sistema rimane,
discutibilmente, ancor oggi più grave l’omicidio del figlio naturale rispetto a
quello del figlio adottivo (sentenza della Corte di cassazione n. 9427 del 2018
citata). Il diverso regime dell’aggravante si fonda sul presupposto della
"consanguineità”, risultante – in via eccezionale, quale precipitato di
concezioni antiche – dalla contrapposizione tra «discendente» e «figlio
adottivo».
A fronte di ciò, la
disposizione censurata attribuisce, all’opposto, un minor disvalore alla
condotta di lesioni lievissime in danno del figlio naturale rispetto alla
stessa condotta in danno del figlio adottivo, così rivelando una marcata
connotazione di irragionevolezza.
Non si rinviene, infatti,
nei lavori parlamentari e nella complessiva lettura della legge n. 119 del
2013, unitamente al convertito decreto-legge, alcuna specifica ragione di tale
trattamento differenziato, che anzi risulta antitetico (e quindi
contraddittorio) rispetto alla evidenziata ratio, eccezionalmente sottesa
all’art. 577 cod. pen., ossia il diverso regime delle aggravanti dell’omicidio
volontario se commesso in danno del figlio naturale o del figlio adottivo.
In mancanza di alcuna
opposta plausibile ratio, si ha che del tutto ingiustificatamente la
disposizione censurata replica, anche con riferimento alle lesioni lievissime,
la distinzione tra «discendente» e «figlio adottivo» quanto a una regola
processuale, quale è quella in esame, attributiva della competenza. Conservando
nella fattispecie la competenza del giudice di pace in luogo di prevedere
quella del tribunale ordinario, la disposizione censurata non ha elevato il
livello di contrasto nei confronti delle lesioni lievissime in danno del figlio
naturale, così come ha invece fatto per quelle in danno del figlio adottivo.
Da ciò emerge la manifesta
irragionevolezza della disposizione censurata che, invertendo l’apprezzamento
di disvalore delle condotte, ancor oggi perdurante nel sistema, utilizza non di
meno il richiamo proprio dell’art. 577, cui è sottesa una ratio opposta della
differenziazione tra «discendente» e «figlio adottivo».
Quindi, il trattamento
differenziato riservato al figlio naturale rispetto a quello del figlio
adottivo viola anche il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.).
7.– Una volta ritenuta da una parte la
violazione del principio di eguaglianza e, dall’altra, la manifesta
irragionevolezza della differenziazione della regola di competenza, la reductio
ad legitimitatem è univocamente orientata dal verso
complessivo dell’intervento del legislatore del 2013, che ha voluto reprimere
più efficacemente la violenza domestica; sicché a violare il parametro
dell’art. 3, primo comma, Cost. è la mancata
inclusione del reato di lesioni volontarie lievissime in danno del figlio
naturale nell’elenco dei reati, oggetto di un più energico contrasto, che il
censurato art. 4, comma 1, lettera a), del d. lgs. n.
274 del 2000 eccettua dalla competenza del giudice di pace, ossia nell’elenco
dei reati, di minore allarme sociale, che – come eccezione alla regola della
competenza del tribunale ordinario – radicano invece la competenza del giudice
di pace.
La parificazione di
disciplina non può realizzarsi altrimenti che "in alto”, ossia estendendo –
secondo peraltro quello che è il petitum
dell’ordinanza di rimessione ‒ la stessa regola di competenza alla
fattispecie delle lesioni lievissime commesse dal genitore in danno del figlio
naturale, e così rendendo inoperante – come nell’ipotesi di lesioni lievissime
in danno del figlio adottivo ‒ la deroga alla competenza del tribunale
ordinario, in linea con il più elevato livello di contrasto della violenza
domestica, con la conseguente possibilità, in particolare, per il giudice di
applicare, nell’uno e nell’altro caso, la misura cautelare personale
dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis cod. proc.
pen.), adottabile anche in
via d’urgenza (art. 384-bis cod. proc. pen.).
8.– A questa parificazione
"in alto” – ossia nella competenza del tribunale ordinario ‒ non è di
ostacolo l’irrigidimento della disciplina sostanziale, conseguente alla
dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata, nella
misura in cui, ripristinata la parità quanto alla regola di competenza, si ha
anche che non trovano applicazione le disposizioni speciali del Titolo II del
d.lgs. n. 274 del 2000 quanto alle sanzioni applicabili dal giudice di pace,
quale trattamento più favorevole in deroga a quello ordinario.
Per effetto della
dichiarazione di illegittimità costituzionale della regola sulla competenza, il
regime sostanziale delle pene per i fatti di lesioni lievissime commesse dal
genitore in danno del figlio naturale risulta essere quello ordinario, come
tale più rigido di quello derogatorio in bonam partem, applicabile allorché operava la competenza del
giudice di pace.
La giurisprudenza di questa
Corte, ribadita anche recentemente (sentenza n. 143 del
2018), ammette, in particolari situazioni, interventi con possibili effetti
in malam partem in materia
penale (sentenze
n. 32 e n. 5
del 2014, n.
28 del 2010, n.
394 del 2006), pur precisando che «[r]esta impregiudicata ogni ulteriore
considerazione […] circa l’ampiezza e i limiti» di tali interventi.
Il principio della riserva
di legge in materia penale «rimette al legislatore […] la scelta dei fatti da
sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare» (sentenza n. 5 del
2014), «ma non […] preclude decisioni ablative di norme che sottraggono
determinati gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una
norma comune o comunque più generale, accordando loro un trattamento più
benevolo» (sentenza
n. 394 del 2006). In tal caso – ha precisato la Corte in quest’ultima
pronuncia ‒ «l’effetto in malam partem non discende dall’introduzione di nuove norme o
dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita
a rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali; esso
rappresenta, invece, una conseguenza dell’automatica riespansione
della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già
oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria».
A maggior ragione l’effetto
in malam partem per
l’imputato (o indagato) derivante dall’eliminazione di una previsione a
carattere derogatorio di una disciplina generale, deve ritenersi ammissibile
allorché si configuri come una mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma processuale.
Rimane però che, per i
fatti commessi fino al giorno della pubblicazione della presente decisione
sulla Gazzetta Ufficiale opera il principio ‒ direttamente fondato
sull’art. 25, secondo comma, Cost. e che prevale
sull’ordinaria efficacia ex tunc della decisione di
questa Corte ai sensi dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30, terzo comma, della
legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della
Corte costituzionale) ‒ della non retroattività della disciplina
sostanziale che risulti essere peggiorativa per effetto di una pronuncia di
illegittimità costituzionale, talché innanzi al tribunale ordinario competente
anche per il reato di lesioni lievissime, di cui all’art. 582, secondo comma,
cod. pen., in danno del figlio naturale, l’imputato
(o indagato) sarà soggetto all’applicazione della più favorevole disciplina
delle sanzioni di cui al Titolo II del d.lgs. n. 274 del 2000, non diversamente
da quanto accade nell’ipotesi del tribunale ordinario che si trovi a giudicare
di un reato di competenza del giudice di pace (art. 63 del medesimo decreto
legislativo).
Vi è comunque anche, allo
stato attuale della giurisprudenza di legittimità, un effetto in bonam partem – questo invece di
immediata operatività, consistente, ove ricorra un fatto di lieve entità,
nell’applicazione della causa di non punibilità dell’art. 131-bis cod. pen.,
piuttosto che della causa di improcedibilità di cui all’art. 34 del d.lgs. n.
274 del 2000.
9.– Va, quindi, dichiarata l’illegittimità
costituzionale della disposizione censurata per violazione dell’art. 3, primo
comma, Cost., assorbita l’ulteriore censura mossa dal giudice rimettente con
riferimento all’art. 24 Cost., nella parte in cui non prevede, nella
fattispecie finora esaminata, la competenza del tribunale ordinario.
Più specificamente,
l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera a), che – come già
ricordato – include nella eccezione alla competenza del giudice di pace il
delitto di lesioni volontarie di cui all’art. 582, secondo comma, cod. pen., per fatti commessi in danno dei soggetti elencati nel
secondo comma dell’art. 577 cod. pen., comporta la
necessaria estensione, nel richiamo operato dalla disposizione censurata, anche
ai fatti in danno dei soggetti di cui al numero 1) dell’art. 577, nella
formulazione vigente al momento dell’ordinanza di rimessione, ossia ai fatti in
danno, in generale, degli ascendenti e dei discendenti, non potendo isolarsi la
sola ipotesi del genitore naturale e del figlio naturale, atteso che le
lesioni, ancorché lievissime, sono sempre aggravate (ex art. 585 cod. pen. che richiama l’art. 577 cod. pen.), allo stesso modo e nella stessa misura, in ragione
del rapporto di ascendenza e discendenza e non già soltanto di genitorialità e
filiazione.
Pertanto, la disposizione
censurata va dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non
esclude dai delitti, consumati o tentati, di competenza del giudice di pace
anche quello di lesioni volontarie lievissime, previsto dall’art. 582, secondo
comma, cod. pen., per fatti commessi contro l’ascendente o il discendente
di cui al numero 1) del primo comma dell’art. 577 cod. pen.
10.– Infine, la Corte non può non tener conto del
fatto che – essendo di natura formale e non già materiale il richiamo che la
disposizione censurata fa all’art. 577, secondo comma, cod. pen.
‒ la fattispecie illegittimamente esclusa dal richiamo contenuto nella
disposizione censurata si è ampliata recentemente con la previsione, ad opera
dell’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 4 del 2018, di altre ipotesi
incluse nel numero 1) del primo comma dell’art. 577: il coniuge, anche
legalmente separato, l’altra parte dell’unione civile o la persona legata al
colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente. La stessa
disposizione, alla lettera b), ha considerato distintamente il fatto commesso
in danno del coniuge divorziato o dell’altra parte dell’unione civile, ove
cessata.
L’intento del legislatore
del 2018 è stato quello di contrastare ulteriormente fatti di violenza estrema
sfociati in episodi di omicidio volontario, soprattutto di donne, e ha quindi
esteso l’aggravante di cui all’art. 577 cod. pen. anche alle ipotesi in cui la vittima sia stata legata all’omicida
da un rapporto coniugale, di unione civile o affettivo, però differenziando
l’ipotesi del numero 1) del primo comma di tale disposizione, che
all’aggravante collega la pena dell’ergastolo, da quella del secondo comma,
che, pur aggravando la pena rispetto a quella di cui all’art. 575 cod. pen., la prevede nella reclusione da ventiquattro a trenta
anni. Ossia il legislatore, nella sua discrezionalità, ha ritenuto più grave
l’omicidio del coniuge, anche separato, rispetto a quello del coniuge divorziato;
e analogamente più grave quello della parte di un’unione civile in corso
rispetto a quello della parte di un’unione civile cessata.
Questa novellazione
delle aggravanti del reato di omicidio ha avuto altresì l’effetto di incidere
indirettamente, in ragione del meccanismo del rinvio formale contenuto nella
disposizione censurata, anche sulla regola di competenza in esame, quanto al
reato di lesioni lievissime ex art. 582, secondo comma, cod. pen., negli stessi termini della (sopra esaminata)
differenziazione tra lesioni volontarie lievissime in danno rispettivamente del
figlio naturale e del figlio adottivo, così replicando la manifesta
irragionevolezza della differenziazione stessa.
Infatti, da una parte si ha
che, sotto l’aspetto sanzionatorio, le lesioni volontarie lievissime sono
aggravate nella stessa misura (ex art. 577 cod. pen.,
richiamato dall’art. 585 senza distinguere tra primo e secondo comma) se
commesse in danno del coniuge o della parte di un’unione civile, a prescindere
dall’eventuale cessazione degli effetti civili del matrimonio o dell’unione
civile, sicché sono pienamente parificate le due situazioni: quelle del numero
1) del primo comma e quelle del secondo comma dell’art. 577 cod. pen. Invece, sotto l’aspetto processuale opera, per il
meccanismo del rinvio formale, la stessa differenziazione introdotta per
l’omicidio volontario senza che sia identificabile alcuna ratio della stessa,
che rimane oscura, e anzi risulta una palese contraddittorietà rispetto alla
ratio – questa sì ben chiara ‒ che ispira la differenziazione quanto
all’aggravamento del reato di omicidio volontario. Altrimenti detto, mentre
l’omicidio del coniuge, anche separato, è considerato più grave dell’omicidio
del coniuge divorziato, invece le lesioni volontarie lievissime in danno del
primo vedono, all’opposto, un contrasto meno energico rispetto a quelle in
danno del secondo, perché la competenza del giudice di pace esclude l’adozione
di misure cautelari personali quali l’allontanamento dalla casa familiare a
tutela del coniuge, anche separato, che subisca tale violenza domestica.
Analoga considerazione vale per la parte di un’unione civile che subisca una
violenza domestica in costanza dell’unione o dopo la cessazione della stessa.
Pertanto, la dichiarazione
di illegittimità costituzionale della disposizione censurata nella parte in cui
non richiama anche i fatti di lesioni volontarie lievissime in danno dei
soggetti indicati nel numero 1) dell’art. 577 non può essere limitata soltanto
a quelli previsti da tale ultima disposizione nella formulazione vigente al
momento dell’ordinanza di rimessione, ma si estende, in via consequenziale, ai
sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, anche a quelli successivamente
inclusi, con la tecnica della novellazione della
disposizione oggetto di rinvio formale, dall’art. 2, comma 1, lettera a), della
legge n. 4 del 2018.
LA
CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1,
lettera a), del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla
competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24
novembre 1999, n. 468), come modificato dall’art. 2, comma 4-bis, del
decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di
sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di
protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con
modificazioni, nella legge 15 ottobre 2013, n. 119, nella parte in cui non
esclude dai delitti, consumati o tentati, di competenza del giudice di pace
anche quello di lesioni volontarie, previsto dall’art. 582, secondo comma, del
codice penale, per fatti commessi contro l’ascendente o il discendente di cui
al numero 1) del primo comma dell’art. 577 cod. pen.;
2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge
11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera
a), del d.lgs. n. 274 del 2000, nella parte in cui non esclude dai delitti,
consumati o tentati, di competenza del giudice di pace anche quello di lesioni
volontarie, previsto dall’art. 582, secondo comma, cod. pen.,
per fatti commessi contro gli altri soggetti elencati al numero 1) del primo
comma dell’art. 577 cod. pen., come modificato
dall’art. 2 della legge 11 gennaio 2018, n. 4 (Modifiche al codice civile, al
codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in favore
degli orfani per crimini domestici).
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 novembre 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI,
Presidente
Giovanni AMOROSO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria
il 14 dicembre 2018.