SENTENZA N. 155
ANNO 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 459, comma 1-bis, del codice di procedura penale, introdotto dall’art. 1, comma 53, della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), promossi dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Termini Imerese, con ordinanza del 12 febbraio 2018, e dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Macerata, con due ordinanze del 20 settembre 2017, iscritte rispettivamente ai numeri 88, 168 e 184 del registro ordinanze 2018 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 24 e 47, prima serie speciale, dell’anno 2018 e numero 1, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’8 maggio 2019 il Giudice relatore Francesco Viganò.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 12 febbraio 2018, iscritta al n. 88 del registro ordinanze 2018, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Termini Imerese ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 27 e 11 [recte: 111] della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 459, comma 1-bis, del codice di procedura penale, introdotto dall’art. 1, comma 53, della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), «nella parte in cui prevede che ai fini della determinazione dell’ammontare della pena pecuniaria in sostituzione di una pena detentiva il giudice deve tener conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare e che comunque il valore giornaliero non può essere inferiore alla somma di euro 75 di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva e non può superare di tre volte tale ammontare».
1.1.– L’ordinanza di rimessione è stata pronunciata nel procedimento a carico di V. Z., imputato del reato di cui all’art. 116, commi 15 e 17 (guida senza patente), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), in relazione al quale il pubblico ministero ha chiesto l’emissione di decreto penale di condanna, indicando la pena da irrogare in 1.950 euro di ammenda. Tale importo è stato calcolato dal pubblico ministero a partire da una pena base di 20 giorni di arresto e 2.400 euro di ammenda, sulla quale è stata operata la diminuzione prevista dall’art. 459, comma 2, cod. proc. pen. in ragione della specialità del rito, pervenendosi così a una pena di 10 giorni di arresto e 1.200 euro di ammenda. La pena detentiva è stata quindi convertita in pena pecuniaria ai sensi dell’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. in ragione di 75 euro pro die, per un totale di 750 euro, da sommare ai restanti 1.200 euro di ammenda.
1.2.– In punto di rilevanza delle questioni, il rimettente espone che «dalle stesse dipende la possibilità per questo Giudice di definire il procedimento mediante l’emissione di decreto penale di condanna come richiesto dal pubblico ministero, ovvero l’obbligo di rigettare la richiesta rimettendo gli atti al [p]ubblico [m]inistero affinché proceda con altro rito».
1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo dubita anzitutto della compatibilità della disposizione censurata con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.
Prescrivendo che, nel determinare la pena pecuniaria sostituiva della pena detentiva, il giudice tenga conto delle condizioni economiche dell’imputato e del suo nucleo familiare, l’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen., introdurrebbe «una doppia valutazione delle condizioni economiche del reo», che sarebbero valorizzate «una prima volta in sede di determinazione della pena pecuniaria da irrogare, ex art. 133-bis c.p., ed una seconda volta in sede di determinazione della pena pecuniaria sostitutiva». Tale meccanismo creerebbe una irragionevole disparità di trattamento «tra i soggetti meno abbienti (giudicati più favorevolmente) e i soggetti più abbienti (giudicati meno favorevolmente)».
Il principio di eguaglianza sarebbe altresì leso in ragione del trattamento irragionevolmente differenziato che subirebbero i soggetti imputati del medesimo reato, a seconda che il pubblico ministero decida o meno di esercitare l’azione penale mediante richiesta di emissione di decreto di condanna. Nel primo caso, infatti, la pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva sarebbe determinata ai sensi dell’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen., secondo una variabile compresa tra 75 e 225 euro per ogni giorno di pena detentiva. Nel secondo caso, invece, si applicherebbe il regime di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria stabilito in via generale dall’art. 135 del codice penale, che ragguaglia un giorno di pena detentiva alla somma fissa di 250 euro.
1.4.– Il giudice a quo denuncia altresì la contrarietà della norma censurata al principio di personalità della responsabilità penale, sancito dall’art. 27 Cost., nella misura in cui il comma 1-bis dell’art. 459 cod. proc. pen. obbliga il giudice a tenere in considerazione, per determinare la pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva, le condizioni economiche non del solo imputato, ma anche del nucleo familiare dello stesso.
1.5.– Il rimettente dubita, infine, della compatibilità della norma censurata con il canone di ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 111, secondo comma, Cost. La necessità che il giudice, onde stabilire l’ammontare della pena pecuniaria sostitutiva di quella detentiva, disponga accertamenti sulle condizioni economiche dell’imputato e del nucleo familiare determinerebbe infatti «una chiara, inevitabile e ingiustificata dilatazione dei tempi di definizione del procedimento per decreto, per sua natura di rapida definizione».
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o infondate.
2.1.– L’interveniente evidenzia anzitutto l’insufficienza e l’erroneità della motivazione del giudice a quo in ordine alla rilevanza delle questioni, prospettate con esclusivo riferimento all’alternativa tra accoglimento della richiesta di decreto penale e restituzione degli atti al pubblico ministero. Il rimettente avrebbe omesso di considerare che, nell’ambito del rito speciale, il giudice potrebbe altresì ritenere incongrua la pena in riferimento all’imputazione oppure prosciogliere l’imputato ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen.; e avrebbe, conseguentemente, omesso di dare conto della rilevanza delle questioni «ai fini di ciascuno dei possibili esiti della vicenda processuale principale». L’ordinanza di rimessione non chiarirebbe poi le ragioni per cui, rispetto al caso concreto – nemmeno sommariamente descritto – la pena determinata ai sensi dell’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. dovrebbe ritenersi incongrua.
2.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri sottolinea, in ogni caso, la radicale infondatezza delle questioni sollevate.
Non sarebbe predicabile alcuna violazione del principio di eguaglianza, sotto il profilo di un eventuale trattamento di maggior favore dei soggetti meno abbienti, posto che il comma secondo dell’art. 3 Cost. mira precisamente alla rimozione degli ostacoli di ordine economico e «presuppone dunque una distinzione tra abbienti e meno abbienti, in senso opposto a quello proposto in ordinanza».
Neppure sarebbe irragionevole l’obbligo di valutare le condizioni economiche dell’imputato, anche con riguardo ai componenti del nucleo familiare, posto che l’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. ricalca la formulazione dell’art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), norma mai sospettata di incostituzionalità, e comunque non idonea a incidere sul «principio di personalità della pena».
L’infondatezza della questione sarebbe tanto più evidente, in quanto la norma censurata introduce un trattamento più favorevole all’imputato, rispetto a quello previsto dall’art. 135 cod. pen.
Non sussisterebbe, infine, alcuna violazione dell’art. 111 Cost., poiché il giudice potrebbe procedere all’accertamento delle condizioni reddituali dell’imputato valendosi di mere presunzioni e della documentazione in atti, senza essere obbligato a espletare alcun incombente suscettibile di ritardare la definizione del procedimento.
3.– Con due ordinanze di identico tenore, entrambe del 20 settembre 2017, rispettivamente iscritte al n. 168 e al n. 184 del registro ordinanze 2018, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Macerata ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen., «nella parte in cui prevede che il valore giornaliero di conversione della pena detentiva in pecuniaria sia pari ad euro 75 e fino a tre volte tale ammontare tenuto conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare».
3.1.– La prima ordinanza di rimessione è stata pronunciata nel procedimento a carico di H. M., imputato del «reato di cui all’art. 186 [d.lgs. n. 285 del 1992]» (guida in stato di ebbrezza), in relazione al quale il pubblico ministero ha chiesto l’emissione di decreto penale di condanna, indicando la pena da irrogare in 1.425 euro di ammenda. Tale importo è stato in questo caso calcolato a partire da una pena base di 15 giorni di arresto e 1.100 euro di ammenda, sulla quale è stata operata la diminuzione prevista dall’art. 459, comma 2, cod. proc. pen. in ragione della specialità del rito, pervenendosi così a una pena di 9 giorni di arresto (convertita a sua volta in ammenda in ragione di 75 euro pro die) e 750 euro di ammenda.
3.2.– La seconda ordinanza di rimessione è stata emessa nel procedimento a carico di M. M., imputato del medesimo reato, in relazione al quale il pubblico ministero ha chiesto l’emissione di decreto penale di condanna, indicando la pena da irrogare in 7.500 euro di ammenda (importo ottenuto operando, su una pena base di 6 mesi di arresto e 1.500 euro di ammenda, la diminuzione per il rito, pervenendosi a una pena di 3 mesi di arresto e 750 euro di ammenda, indi convertendosi la pena detentiva in pena pecuniaria ai sensi del censurato comma 1-bis, in ragione di 75 euro pro die).
3.3.– In entrambe le ordinanze, la rilevanza delle questioni sollevate è motivata in base alla necessità di irrogare la pena all’imputato nell’ambito del procedimento per decreto penale di condanna, e all’insussistenza di presupposti per rigettare la richiesta del pubblico ministero di emissione del decreto.
3.4.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen., il rimettente prospetta anzitutto la violazione dell’art. 3 Cost., sottolineando come, per effetto della norma censurata, il trattamento sanzionatorio in caso di emissione di decreto penale di condanna sia irragionevolmente differente da quello che sarebbe applicabile ove si procedesse con rito ordinario.
Evidenziano in proposito entrambe le ordinanze che, in base all’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen., la conversione della pena detentiva in pena pecuniaria avviene equiparando un giorno di pena detentiva a una somma non inferiore a 75 euro e non superiore a 225 euro, laddove invece l’art. 53 della legge n. 689 del 1981, relativo alla sostituzione delle pene detentive brevi con la pena pecuniaria, ragguaglia un giorno di pena detentiva a una somma compresa tra 250 e 2500 euro, mentre l’art. 135 cod. pen. equipara un giorno di pena detentiva a una somma fissa di 250 euro. In caso di emissione di decreto penale di condanna, dunque, l’importo della pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva «varia entro un range edittale base con possibilità di moltiplicarlo per tre (75-225), mentre in tutti i restanti casi di conversione di pena detentiva in pecuniaria l’importo pecuniario è di importo comunque superiore e con possibilità di moltiplicarlo per 10 (250-2500 euro), con differenza che non trova origine nella diversa natura dei fatti oggetto di giudizio». Il pubblico ministero avrebbe pertanto la possibilità, mediante la scelta discrezionale di procedere o meno con richiesta di decreto penale di condanna, di «determinare il tasso di conversione della pena sostanziale finale irroganda, quantomeno sotto il profilo di precludere all’imputato di fruire del particolare favore di cui all’art. 459 cpp non chiedendo la emissione di decreto penale».
Il rimettente osserva inoltre che, ove il decreto penale di condanna fosse opposto, la pena pecuniaria irrogata sarebbe determinata in base al «tasso di conversione da 250 a 25000 [recte: 2.500] euro pro die», ossia in misura enormemente maggiore rispetto alla pena irrogata con il decreto e calcolata in base all’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. Tale differenza sarebbe ancora più macroscopica con riferimento a soggetti abbienti, i quali si vedrebbero applicare, nel decreto penale di condanna, un parametro di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria di 225 euro giornalieri, operante su una pena dimezzata in considerazione dell’applicazione del rito speciale, mentre, in caso di opposizione, sarebbero soggetti a un parametro di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria di euro 2500 giornalieri.
Con specifico riferimento ai giudizi a quibus, nell’ordinanza di rimessione di cui al r. o. n. 168 del 2018 si illustra che la pena da irrogare all’imputato, ai sensi dell’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. è pari a 1.425 euro, laddove, in caso di opposizione al decreto penale di condanna e di celebrazione del dibattimento, la pena da irrogare sarebbe pari a non meno di 5.600 euro.
Nell’ordinanza di rimessione di cui al r. o. n. 184 del 2018, invece, si espone che la pena da irrogare all’imputato ai sensi dell’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. è pari a 7.500 euro, mentre, ove fosse celebrato il dibattimento a seguito di opposizione al decreto penale di condanna, la pena da irrogare sarebbe pari a non meno di 46.500 euro.
In entrambe le ordinanze, il giudice rimettente ritiene che tale macroscopica differenza tra la pena irrogata nel decreto penale di condanna e quella irrogabile in caso di celebrazione del processo con il rito ordinario, sia incompatibile con il criterio di eguaglianza e ragionevolezza, non apparendo razionalmente correlabile alla mera non opposizione dell’imputato al decreto penale.
Il giudice a quo sottolinea inoltre come un effetto premiale della portata di quello previsto dall’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. non sia previsto per nessun altro rito alternativo, incluso il patteggiamento, ove l’imputato «di fatto rinunzia a difendersi», a fronte di uno sconto di pena, peraltro inferiore a quello conseguibile nel procedimento per decreto.
Ad avviso del rimettente, non sarebbe dirimente che, nel procedimento per decreto, sia comunque possibile e doverosa la valutazione da parte del giudice circa la congruità della pena da irrogare. Detta valutazione, invero, riguarderebbe la pena originariamente determinata dal pubblico ministero e la compatibilità della conversione della pena detentiva con le finalità deterrenti e rieducative. Valutati tali profili, tuttavia, il tasso di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria e la necessità di tenere in considerazione le condizioni economiche dell’imputato e del suo nucleo familiare sarebbero elementi prefissati dall’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen.
La natura discriminatoria e l’irragionevolezza della norma censurata non sarebbero d’altra parte superate dalla circostanza che la pena possa essere commisurata all’interno della forbice edittale (75-225 euro) prevista dall’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen., né dalla possibilità per il giudice di applicare le circostanze attenuanti generiche. Tali profili, propri sia del rito speciale per decreto, sia del rito ordinario, non scalfirebbero infatti il quadro di «totale eterogeneità» dell’esito sanzionatorio conseguibile rispettivamente nell’ambito di ciascun procedimento.
3.5.– Entrambe le ordinanze di rimessione dubitano, infine, della conformità della disposizione censurata all’art. 27 Cost., affermando come non possa ritenersi compatibile con il fine rieducativo della pena «la irrogazione di una pena pari anche a meno di 1/20 di quella irroganda all’esito di giudizio ordinario».
4.– Con distinti atti di identico tenore, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in entrambi i giudizi, chiedendo che questa Corte dichiari l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.
L’interveniente evidenzia come il giudice a quo fondi l’ipotizzata contrarietà dell’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. all’art. 3 Cost. sulla comparazione tra due istituti assolutamente eterogenei, quali sono il procedimento per decreto da un lato, e la sostituzione delle pene detentive brevi, disciplinata dall’art. 53 della legge n. 689 del 1981, dall’altro. Il primo istituto avrebbe, infatti, carattere processuale, laddove il secondo rivestirebbe natura eminentemente sostanziale, non potendo, quindi, fungere da tertium comparationis rispetto alla norma censurata.
Il procedimento per decreto, inoltre, non avrebbe natura di rito premiale in senso stretto, a differenza del giudizio abbreviato e del patteggiamento, di talché non sarebbe possibile operare una utile comparazione tra istituti.
Sarebbe altresì ingiustificato porre a confronto il risultato sanzionatorio conseguibile all’esito del procedimento per decreto rispetto a quello riconducibile al rito ordinario, avuto riguardo alle finalità acceleratorie e deflattive che connotano il primo procedimento.
5.– In prossimità della camera di consiglio, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato, in relazione ai giudizi di cui al r. o. n. 168 e n. 184 del 2018, memorie illustrative di identico tenore, nelle quali ha insistito per la declaratoria di infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP del Tribunale ordinario di Macerata.
L’Avvocatura generale dello Stato ha ribadito l’assoluta eterogeneità tra il meccanismo di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria previsto dal comma 1-bis dell’art. 459 cod. proc. pen. e quello di sostituzione delle pene detentive brevi disciplinato dall’art. 53 della legge n. 689 del 1981. Il primo si inserirebbe in un rito processuale – il procedimento per decreto – a finalità acceleratoria e deflattiva del contenzioso penale; il secondo rivestirebbe natura sostanziale, opererebbe solo all’esito del giudizio ordinario, e avrebbe finalità di decongestionamento del sovraffollamento carcerario. La differente natura dei due istituti impedirebbe di ravvisare una lesione all’art. 3 Cost., in ragione della differenziazione del criterio di ragguaglio tra pena detentiva e pena pecuniaria. Del resto, la previsione di una disciplina più vantaggiosa per l’imputato, riservata al procedimento per decreto, in un’ottica di favore per detto rito alternativo, rientrerebbe nelle scelte discrezionali del legislatore, come affermato anche dalla recente giurisprudenza di legittimità (sono richiamate le sentenze della Corte di cassazione, sezione quarta penale, 19 ottobre-30 ottobre 2018, n. 49602 e sezione terza penale, 9 novembre-11 dicembre 2018, n. 55359).
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 12 febbraio 2018, iscritta al n. 88 del registro ordinanze 2018, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Termini Imerese ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 27 e 11 [recte: 111] della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 459, comma 1-bis, del codice di procedura penale, introdotto dall’art. 1, comma 53, della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), nella parte in cui prevede che il giudice, nel determinare l’ammontare della pena pecuniaria da irrogare in sostituzione di una pena detentiva, debba tener conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare, e che il valore giornaliero di ragguaglio sia non inferiore ad euro 75 e non superiore a tre volte detto ammontare per ogni giorno di pena detentiva.
2.– Con due ordinanze del 20 settembre 2017, iscritte al n. 168 e al n. 184 del registro ordinanze 2018, il GIP del Tribunale ordinario di Macerata ha censurato la medesima disposizione, in parte qua, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost.
3.– Stante la larghissima sovrapponibilità delle questioni prospettate, deve preliminarmente essere disposta la riunione dei giudizi.
4.– In relazione all’ordinanza di cui al r. o. n. 88 del 2018, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per insufficiente ed erronea motivazione in ordine alla rilevanza. In particolare, il rimettente non si troverebbe nell’alternativa obbligata tra accogliere la richiesta di pena del pubblico ministero, oppure restituire a quest’ultimo gli atti perché proceda con diverso rito, essendo prospettabili anche altri esiti del procedimento per decreto penale (proscioglimento dell’imputato ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., valutazione di inammissibilità del rito o di incongruità della pena), rispetto ai quali il giudice a quo non avrebbe argomentato la rilevanza delle questioni. La carente descrizione del caso concreto impedirebbe poi di comprendere perché, nel caso di specie, la pena da irrogare risulti incongrua.
L’eccezione è infondata.
Il rimettente espone anzitutto che dalla decisione sulle questioni di costituzionalità proposte dipende la possibilità di «definire il procedimento mediante l’emissione di decreto penale di condanna come richiesto dal pubblico ministero, ovvero l’obbligo di rigettare la richiesta rimettendo gli atti al pubblico ministero affinché proceda con altro rito».
È evidente che la prospettazione di tale alternativa sottenda la ritenuta impossibilità, per il giudice a quo, di addivenire al proscioglimento dell’imputato ex art. 129 cod. proc. pen., o di restituire gli atti al pubblico ministero per difetto dei presupposti di ammissibilità del rito, nonché una valutazione almeno implicita di congruità della pena detentiva richiesta dal pubblico ministero, appuntandosi poi le censure del rimettente sulla asserita illegittimità costituzionale del tasso di conversione della pena detentiva medesima introdotto dalla disposizione censurata.
D’altra parte, l’illustrazione della vicenda processuale del giudizio a quo risulta sufficiente a consentire la verifica della rilevanza delle questioni sollevate. Pur descrivendo il capo d’imputazione attraverso il mero richiamo alla disposizione dell’art. 116, commi 15 e 17, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), il giudice a quo puntualmente dà conto dell’ammontare della pena detentiva e della pena pecuniaria determinate dal pubblico ministero e del tasso di conversione della pena detentiva utilizzato dalla pubblica accusa (75 euro per ciascuna giornata di pena detentiva). Ciò consente a questa Corte di valutare il grado di divergenza del trattamento sanzionatorio risultante dall’applicazione del comma 1-bis dell’art. 459 cod. proc. pen., rispetto a quello derivante in base all’ordinario parametro di ragguaglio previsto dall’art. 135 del codice penale. Ed è proprio tale verifica che il rimettente intende sollecitare, censurando non tanto l’incongruità in assoluto della pena da irrogare, quanto l’irragionevole mitezza di tale trattamento sanzionatorio, rispetto a quello applicabile nell’ambito del rito ordinario o degli altri riti speciali.
5.– Non inficia l’ammissibilità delle questioni sollevate la circostanza che le ordinanze di rimessione, nel censurare l’applicabilità al procedimento per decreto di un trattamento sanzionatorio più mite (conversione della pena detentiva in pena pecuniaria secondo il tasso giornaliero di 75-225 euro) rispetto a quello conseguibile nell’ambito del rito ordinario e degli altri riti speciali (ove viene applicato il tasso di conversione “fisso” di euro 250 pro die), in effetti sollecitino una pronuncia ripristinatoria di un regime sanzionatorio di maggior rigore per l’imputato.
Come recentemente rammentato da questa Corte (sentenze n. 37 del 2019, n. 236 e n. 143 del 2018), l’inammissibilità di questioni di legittimità costituzionale con potenziali effetti in malam partem – perché miranti a conseguire il ripristino nell’ordinamento di norme incriminatrici abrogate (ex plurimis, sentenze n. 330 del 1996 e n. 71 del 1983; ordinanze n. 413 del 2008, n. 175 del 2001 e n. 355 del 1997), la creazione di nuove norme penali o l’estensione del loro ambito applicativo a casi non previsti (o non più previsti) dal legislatore (ex multis, sentenze n. 161 del 2004 e n. 49 del 2002; ordinanze n. 65 del 2008 e n. 164 del 2007), o, ancora, l’aggravamento delle conseguenze sanzionatorie o della complessiva disciplina del reato (ex multis, ordinanze n. 285 del 2012, n. 204 del 2009, n. 66 e n. 5 del 2009) – non può essere considerata come principio assoluto.
In particolare, il sindacato di questa Corte è stato ammesso laddove il legislatore introduca norme penali di favore, che sottraggano irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero prevedano per detto sottoinsieme – altrettanto irragionevolmente – un trattamento sanzionatorio più favorevole (sentenza n. 394 del 2006). In tal caso, «l’effetto in malam partem non discende dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita a rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali; esso rappresenta, invece, una conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria» (sentenza n. 394 del 2006).
Poiché il comma 1-bis dell’art. 459 cod. proc. pen., in questa sede censurato, ha introdotto un più favorevole trattamento sanzionatorio per i soli imputati giudicati mediante procedimento per decreto, di talché l’effetto in malam partem di un’eventuale pronuncia di accoglimento delle questioni sollevate conseguirebbe all’automatica riespansione del regime generale di ragguaglio tra pena detentiva e pena pecuniaria, previsto dall’art. 135 cod. pen., non sussistono ostacoli a un esame nel merito delle questioni in questa sede sollevate.
6.– Nel merito, le questioni non sono tuttavia fondate.
6.1.– Le ordinanze di rimessione prospettano una possibile lesione dell’art. 3 Cost., in relazione all’asserita irragionevole disparità di trattamento tra gli imputati giudicati con il procedimento per decreto penale, beneficiari del tasso di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria previsto dalla disposizione censurata, e gli imputati giudicati con il procedimento ordinario o con gli altri riti speciali, soggetti al tasso di conversione risultante dall’art. 135 cod. pen. (ovvero, ricorrendone i presupposti, dal combinato disposto di quest’ultima norma e dell’art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689, recante «Modifiche al sistema penale»).
In proposito, si deve anzitutto rammentare che, secondo il costante orientamento di questa Corte, il legislatore gode di ampia discrezionalità, in materia di determinazione dei trattamenti sanzionatori (ex plurimis, sentenze n. 40 del 2019, n. 222 del 2018 e n. 236 del 2016) così come di disciplina degli istituti processualpenalistici (ex multis, sentenza n. 236 del 2018), con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle opzioni prescelte.
Un tale vizio non può ravvisarsi nella disposizione censurata.
Come emerge dai lavori preparatori della legge n. 103 del 2017, il cui art. 1, comma 53, ha introdotto il comma 1-bis dell’art. 459 cod. proc. pen., la riduzione – per effetto dell’introduzione di un criterio di ragguaglio più favorevole tra pena detentiva e pena pecuniaria – dell’importo delle sanzioni irrogabili nel procedimento per decreto penale è stata concepita dal legislatore nell’ottica di incentivare il ricorso al rito speciale.
In effetti, l’innalzamento del tasso di conversione tra pena detentiva e pena pecuniaria – da 38 euro a 250 euro al giorno – ad opera della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) aveva determinato un disincentivo al ricorso, da parte della pubblica accusa, al procedimento per decreto penale di condanna in conseguenza dell’aumento esponenziale delle opposizioni ai decreti emessi, a loro volta legato all’eccessivo ammontare delle sanzioni pecuniarie irrogate sulla base di tale nuovo tasso di conversione. Numerose erano state, pertanto, le richieste di un intervento del legislatore, al fine di incentivare nuovamente il ricorso al rito in parola e alle conseguenti definizioni anticipate dei procedimenti penali, essenzialmente in chiave deflattiva del contenzioso penale.
Il nuovo comma 1-bis dell’art. 459 cod. proc. pen. in questa sede censurato – che consente di determinare entro una forbice piuttosto ampia (da 75 a 225 euro) il tasso di conversione giornaliero della pena detentiva in sede di decreto penale di condanna – costituisce per l’appunto la risposta del legislatore alle esigenze emerse nella prassi, calibrate sulle specificità del procedimento per decreto: un procedimento che scommette sulla possibilità che l’imputato accetti la pena irrogatagli al di fuori del contraddittorio, con conseguente prezioso risparmio di energie per la giurisdizione penale, in cambio – in genere – di un consistente sconto rispetto allo stesso minimo edittale della pena e – in ogni caso – a fronte della rinuncia alla pena detentiva da parte della pubblica accusa.
Tali considerazioni consentono pianamente di escludere la manifesta irragionevolezza della disciplina censurata, anche in rapporto alle diverse discipline dettate per la conversione delle pene detentive nell’ambito del rito ordinario o di altri riti speciali.
6.2.– All’evidenza è privo di fondamento l’ulteriore dubbio di conformità della disciplina censurata all’art. 3 Cost., sollevato dall’ordinanza di cui al r. o. n. 88 del 2018 sul presupposto che il comma 1-bis dell’art. 459 cod. proc. pen., nell’imporre al giudice di determinare la pena pecuniaria da irrogare in sostituzione della pena detentiva tenendo conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare, determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento «fra i soggetti meno abbienti (giudicati più favorevolmente) ed i soggetti più abbienti (giudicati meno favorevolmente)».
Come correttamente sottolineato dall’Avvocatura generale dello Stato, la graduazione della sanzione pecuniaria a seconda delle condizioni economiche dell’imputato e del suo nucleo familiare, lungi dal risultare lesiva dell’art. 3 Cost., ne realizza precipuamente il fine di evitare un’impropria parificazione di situazioni e condizioni tra loro diverse. La considerazione delle condizioni economiche del reo nella determinazione della pena pecuniaria costituisce, a ben guardare, un naturale riflesso dello stesso principio costituzionale di eguaglianza, dal momento che l’impatto “esistenziale” di sanzioni pecuniarie di identico importo può essere in concreto assai diverso, secondo le differenti condizioni dell’autore; di talché proprio tali differenti condizioni economiche giustificano la commisurazione di sanzioni di diversa entità, pur a fronte di illeciti di pari gravità.
6.3. – Nemmeno risultano fondate le questioni sollevate dalle tre ordinanze di rimessione in relazione all’art. 27 Cost.
Non coglie nel segno, anzitutto, la censura mossa dall’ordinanza di cui al r. o. n. 88 del 2018, secondo cui contrasterebbe con il principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.) la necessità di considerare le condizioni economiche non solo dell’imputato, ma anche del suo nucleo familiare nella determinazione del tasso di conversione tra pene all’interno della forbice tra 75 e 225 euro. La prescrizione in parola risulta, infatti, funzionale a garantire proprio un maggior grado di individualizzazione della pena – principio, quest’ultimo, sotteso allo stesso imperativo costituzionale della “personalità” della responsabilità penale (sentenza n. 222 del 2018) –, essendo evidente, ad esempio, come l’impatto della sanzione pecuniaria sia diverso a seconda della sussistenza o meno di oneri di mantenimento di altri componenti del nucleo familiare privi di proprie risorse.
Tale esigenza di individualizzazione della pena sottesa alla disposizione censurata è, del resto, ulteriormente valorizzata dalla recente giurisprudenza di legittimità, secondo la quale il giudice è bensì vincolato alla misura della pena detentiva richiesta dal pubblico ministero, ma può discostarsi da tale richiesta quanto al tasso giornaliero utilizzato per la sua conversione in pena pecuniaria, ovviamente all’interno della forbice tra 75 e 225 euro individuata dal legislatore (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 29 marzo-21 maggio 2018, n. 22458; sezione sesta penale, sentenza 27 giugno-25 settembre 2018, n. 41596; sezione terza penale, sentenza 11 dicembre 2018-20 marzo 2019, n. 12272).
Né può essere accolta la censura prospettata dalle ordinanze di cui al r. o. n. 168 e n. 184 del 2018, secondo cui l’eccessiva tenuità del trattamento sanzionatorio risultante dall’applicazione del criterio di ragguaglio tra pena detentiva e pena pecuniaria introdotto dall’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. pregiudicherebbe la finalità rieducativa della pena, prescritta dall’art. 27, terzo comma, Cost. Tale finalità risulta infatti costantemente evocata, nella giurisprudenza costituzionale, in relazione alla necessità che la pena non sia sproporzionata per eccesso rispetto alla gravità del fatto di reato (ex multis, sentenze n. 40 del 2019, n. 233 e n. 222 del 2018), e non certo a sostegno di pronunce il cui effetto sia quello di inasprire il trattamento sanzionatorio previsto discrezionalmente dal legislatore.
6.4.– Infondato è, infine, il dubbio di costituzionalità della disciplina censurata sollevato, con riferimento all’art. 111 Cost., dall’ordinanza di cui al r. o. n. 88 del 2018.
A parere del rimettente, l’obbligo di considerare le condizioni economiche dell’imputato e del suo nucleo familiare ai fini della determinazione del tasso giornaliero di conversione comporterebbe per il giudice la necessità di compiere accertamenti incompatibili con la speditezza del procedimento per decreto penale, con conseguente lesione del canone della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111, secondo comma, Cost.
In relazione a tale principio, la giurisprudenza costituzionale ha, tuttavia, ripetutamente affermato che – «alla luce dello stesso richiamo al connotato di “ragionevolezza”, che compare nella formula costituzionale – possono arrecare un vulnus a quel principio solamente le norme “che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza” (ex plurimis, sentenze n. 23 del 2015, n. 63 e n. 56 del 2009, n. 148 del 2005)» (sentenza n. 12 del 2016; nello stesso senso, sentenza n. 91 del 2018).
Non è questo, all’evidenza, il caso della disposizione censurata. Il – contenuto – dispendio di attività istruttorie supplementari da parte del pubblico ministero relativamente alle condizioni economiche dell’imputato e del suo nucleo familiare (su cui si vedano Cass., n. 22458 e n. 41596 del 2018) risulta qui congruamente giustificato dall’evidente beneficio in termini di “personalizzazione” della risposta sanzionatoria assicurato dalla disposizione in esame: ciò che appare altresì funzionale a ridurre il rischio di opposizioni imperniate soltanto sull’incongruità della pena inflitta in relazione alle condizioni economiche del reo e del suo nucleo familiare.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 459, comma 1-bis, del codice di procedura penale, introdotto dall’art. 1, comma 53, della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27 e 111 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Termini Imerese e dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Macerata con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 maggio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 giugno 2019.