SENTENZA N. 91
ANNO 2018
Commenti alla decisione di
I. Guglielmo Leo, La
Corte costituzionale ricostruisce ed ‘accredita’, in punto di compatibilità
costituzionale, l’istituto della messa alla prova, per g.c.
di Diritto Penale Contemporaneo
II. Raffaele Muzzica, La
Consulta ‘salva’ la messa alla prova: l'onere di una interpretazione
'convenzionalmente' orientata per il giudice nazionale, per g.c. di Diritto
Penale Contemporaneo
III. Lucia Parlato, La messa
alla prova dopo il dictum
della Consulta: indenne ma rivisitata e in attesa di nuove censure, per g.c. di Diritto
Penale Contemporaneo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI
”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale degli artt. 464-quater, 464-quater, commi 1 e 4, e
464-quinquies, del codice
di procedura penale, e dell’art. 168-bis, commi secondo e terzo, del codice
penale, promosso dal Tribunale ordinario di Grosseto, nel procedimento penale a
carico di S. A. e altri, con ordinanza
del 16 dicembre 2016, iscritta al n. 81 del registro ordinanze 2017 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie
speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di intervento del Presidente
del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio
del 21 febbraio 2018 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 16
dicembre 2016 (r.o. n. 81 del 2017), il Tribunale
ordinario di Grosseto, in composizione monocratica, ha sollevato, in
riferimento agli artt.
3, 111, sesto
comma, 25,
secondo comma, e 27,
secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 464-quater, comma 1, del codice di procedura penale, «nella parte in
cui non prevede che il giudice del dibattimento, ai fini della cognizione
occorrente ad ogni decisione di merito da assumere nel [procedimento speciale
di messa alla prova], proceda alla acquisizione e valutazione degli atti delle
indagini preliminari restituendoli per l’ulteriore corso in caso di pronuncia
negativa sulla concessione o sull’esito della messa alla prova».
Con la medesima ordinanza,
il giudice a quo ha sollevato, in riferimento all’art. 25, secondo comma,
Cost., una questione di legittimità costituzionale dell’art. 168-bis, secondo e
terzo comma, del codice penale, «in quanto prevede la applicazione di sanzioni
penali non legalmente determinabili», nonché, in riferimento agli artt. 97, 101
e 111, secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art.
464-quater, comma 4, cod. proc. pen.,
«nella parte in cui prevede il consenso dell’imputato quale condizione
meramente potestativa di efficacia del provvedimento giurisdizionale recante
modificazione o integrazione del programma di trattamento».
Il Tribunale rimettente ha
infine sollevato, in riferimento all’art. 27, secondo comma, Cost., questioni
di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., «in quanto prevedono
la irrogazione ed espiazione di sanzioni penali senza che risulti pronunciata
né di regola pronunciabile alcuna condanna definitiva o non definitiva».
Il giudice a quo premette
di aver già sollevato le medesime questioni di legittimità costituzionale con
tre ordinanze del 10 marzo 2015 di identico contenuto (r.o.
n. 157, n. 158 e n. 159 del 2015), questioni che sono state però dichiarate
manifestamente inammissibili con l’ordinanza n. 237
del 2016 di questa Corte, per insufficiente descrizione della fattispecie
e, conseguentemente, per difetto di motivazione sulla loro rilevanza nei
giudizi a quibus.
«In ossequio ai dettami
della Corte» e al fine di sopperire ai precedenti profili di inammissibilità,
il Tribunale rimettente chiarisce di essere investito, «in funzione di giudice
della cognizione in primo grado», di sette procedimenti penali riuniti,
indicando specificamente i reati per cui procede a carico di ciascun imputato e
le condotte contestate.
Il giudice a quo poi
specifica di essere pervenuto «allo stadio della pronuncia sul merito di
ciascuna istanza di messa alla prova ritualmente presentata» dagli imputati,
per ognuno dei quali sussistono i requisiti soggettivi previsti dall’art.
168-bis cod. pen., essendo tutti incensurati, tranne
uno «che, tuttavia, ha riportato un mero e irrilevante precedente di cui
all’art. 614 c.p. risalente a quattordici anni addietro».
Inoltre le istanze di
sospensione del procedimento con messa alla prova sarebbero state presentate
nel «termine legalmente imposto», a mezzo di difensore munito di procura
speciale e con tempestiva allegazione del programma di trattamento elaborato
d’intesa con il competente ufficio di esecuzione penale esterna.
Dall’ordinanza di rimessione
emerge pure che «ciascuno dei fascicoli per il dibattimento concernenti le
fattispecie sostanziali dedotte nei procedimenti penali presupposti, in ragione
dello stadio processuale in cui la procedura di messa alla prova è stata
attivata […] e della composizione del fascicolo legalmente prescritta in tale
stadio […], non contiene la rappresentazione del benché minimo elemento di
prova occorrente all’accertamento ed alla valutazione, neppure in forma di
delibazione sommaria, della fondatezza dell’accusa sotto alcun profilo
oggettivo e soggettivo». Da qui l’impossibilità, per il giudice, di stabilire
«se [il] fatto [contestato] sussista, con quante e quali modalità di cui
all’art. 133 c.p. sia stato commesso, da chi sia stato commesso, se costituisca
reato, se sia previsto dalla legge come reato ed infine se, a quali condizioni
ed a quale titolo dia luogo ad un reato punibile».
Ciò renderebbe le prime
questioni sollevate rilevanti nei giudizi a quibus.
Qualora si accogliessero le
istanze di messa alla prova formulate dagli imputati, il relativo
provvedimento, secondo il rimettente, dovrebbe stabilire «in forma precettiva
la qualità e soprattutto la quantità di ciascuna delle due sanzioni criminali
previste dall’art. 168 [recte: 168-bis]
commi 2 e 3 c.p.» in violazione del principio di legalità della pena. Ne
conseguirebbe la pregiudizialità della seconda questione di legittimità
costituzionale sollevata.
Inoltre, poiché «nessuno
dei programmi di trattamento presentati [dagli imputati] contiene la determinazione
quantitativa delle sanzioni ivi prefigurate», essendo stati redatti in modo
incompleto, mediante la compilazione di un modulo, nel caso di accoglimento
delle istanze di messa alla prova, il giudice dovrebbe procedere ad integrarli,
così sottoponendo il relativo provvedimento alla «condizione sospensiva di
efficacia identificata nel "consenso dell’imputato”».
Egli infine si troverebbe a
dover «sancire l’espiazione di una pena criminale in difetto di alcuna condanna
sia definitiva, sia non definitiva».
Da qui la rilevanza della
terza e della quarta questione di legittimità costituzionale sollevate
dall’ordinanza di rimessione.
Ricostruita la disciplina
dell’istituto della messa alla prova, introdotto dalla legge 28 aprile 2014, n.
67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma
del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del
procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), il
Tribunale rimettente osserva che nel caso, come quello in esame, in cui
l’iniziativa dell’imputato interviene nella fase degli atti preliminari al
dibattimento «[i]l provvedimento giurisdizionale di cognizione sul merito della
istanza di messa alla prova è pronunciato allo stato degli atti del fascicolo per
il dibattimento [quale] esso si trova nello stadio introduttivo del giudizio
(antecedente la dichiarazione di apertura del dibattimento) in cui la procedura
deve essere attivata a pena di decadenza».
Il procedimento speciale
introdotto nel 2014 – prosegue il giudice a quo – si articola in una prima fase
amministrativa, condotta dall’ufficio di esecuzione penale esterna in funzione
istruttoria e preparatoria, in una fase giurisdizionale di cognizione
culminante nella formazione di un titolo esecutivo provvisorio emesso, allo
stato degli atti del fascicolo per il dibattimento, in forma di ordinanza e in
una fase di esecuzione penale culminante nell’adozione di un provvedimento,
emesso in forma di sentenza, «di accertamento costitutivo della fattispecie giudiziale
estintiva del reato conseguentemente formatasi».
Peraltro l’istanza di messa
alla prova comporta, da parte dell’imputato, la sua «volontaria soggezione […]
alla esecuzione di una pena criminale, quantunque morfologicamente strutturata
in forma alternativa e sostitutiva rispetto alle ordinarie sanzioni [pecuniarie
e/o detentive] previste dal codice penale». Si tratterebbe, insomma, di «un
trattamento giuridico sanzionatorio penale (necessariamente) irrogato in
funzione retributiva, specialpreventiva, rieducativa
e risocializzante nonché (eventualmente) irrogabile anche in funzione
ripristinatoria e riparatoria».
Ad avviso del rimettente la
fattispecie della messa alla prova, consistendo nell’offerta di una prestazione
il cui adempimento integra una causa di estinzione del reato, richiama quella
dell’oblazione, con la differenza, da un lato, che «la prestazione offerta
consiste (non nel mero versamento di una somma di denaro predeterminata e/o
obiettivamente determinabile, bensì) nella soggezione dell’imputato a vincoli
ablatori e conformativi della sua sfera personale e patrimoniale la cui
quantità e qualità, lungi dal recare alcuna predeterminazione normativa, deve
essere determinata dal giudice sulla base delle complesse valutazioni
discrezionali di merito finalizzate al cosiddetto trattamento»; dall’altro, che
la declaratoria dell’esito positivo della messa alla prova implica «valutazioni
di merito che trascendono di gran lunga la mera ricognizione vincolata del dato
obiettivo precostituito concernente l’esatto adempimento di una mera dazione
pecuniaria», sì da rivestire efficacia costitutiva e non meramente dichiarativa
dell’estinzione del reato.
Ritenuto che la messa alla
prova consiste in un «trattamento sanzionatorio criminale il cui positivo esito
applicativo darebbe luogo alla causa di estinzione del reato», il giudice a quo
osserva come, secondo il vigente ordinamento processuale e costituzionale,
l’irrogazione di qualsiasi sanzione penale «postula l’indefettibile presupposto
del convincimento del giudice in ordine alla responsabilità dell’imputato in
relazione» al reato per cui si procede.
Ciò si desumerebbe dal
tenore «dell’art. 168-bis, comma 2, c.p., che menziona le conseguenze
"derivanti” dal reato: del quale, perciò stesso, letteralmente si assume
l’indefettibile esigenza che risulti esaustivamente accertato non soltanto
siccome commesso, ma addirittura nei suoi eventuali effetti antigiuridici
diacronicamente persistenti; dalla stessa previsione dell’art. 464-quater,
comma 3, c.p.p., concernente la valutazione giurisdizionale della idoneità del
"programma di trattamento” da compiersi "in base ai parametri di cui all’art.
133 c.p.”: tra i quali, come è noto, figura anzitutto la gravità del reato che,
perciò stesso, [si] presuppone accertato non soltanto siccome commesso, ma
anche siccome valutabile in tutte le sue possibili concrete modalità
fenomenologiche descritte dall’art. 133 c.p.»; nonché «dalla stessa previsione
dell’art. 464-quater, comma 3, c.p.p. che, infatti, menziona la prognosi del
giudice in ordine alla eventualità che l’imputato si asterrà dal commettere
"ulteriori” reati: con ciò ancora una volta dando letteralmente per scontati
sia l’accertamento giurisdizionale del reato per cui si procede, sia il
correlato giudizio di responsabilità».
Per contro, nel
procedimento con citazione diretta, in cui l’istanza ex art. 464-bis cod. proc. pen. è formulata nella fase
preliminare al dibattimento, la relativa procedura si svolge allo stato degli
atti del fascicolo del dibattimento, di modo che i dati cognitivi in possesso
del giudice risultano di regola largamente insufficienti a fornire la
plausibile rappresentazione del fatto occorrente ai fini della formulazione di
un giudizio positivo di responsabilità.
Di conseguenza l’ordinanza
con cui il giudice del dibattimento dispone la sospensione del procedimento con
messa alla prova si tradurrebbe in un «un provvedimento giurisdizionale di
irrogazione di un trattamento giuridico di diritto penale criminale
suscettibile di essere pronunciato sul presupposto di un convincimento di
responsabilità di carattere assurdo o simulatorio poiché formulato senza
cognizione degli elementi occorrenti a stabilire se alcun fatto sia avvenuto,
come e da chi sia stato commesso e quale ne sia la qualificazione giuridica».
L’art. 464-quater, comma 1,
cod. proc. pen., «nella
parte in cui non prevede che il giudice del dibattimento, ai fini della
cognizione occorrente ad ogni decisione di merito da assumere nel [procedimento
speciale di messa alla prova], proceda alla acquisizione e valutazione degli
atti delle indagini preliminari, restituendoli per l’ulteriore corso in caso di
pronuncia negativa sulla concessione o sull’esito della messa alla prova», si
porrebbe pertanto in contrasto con l’art. 3 Cost., «alla stregua del quale deve
ritenersi che le enunciazioni risapute logicamente incongrue o simulatorie non
possono costituire presupposto o strumento di trattamenti giuridici».
Sarebbero violati, inoltre,
l’art. 111, sesto comma, Cost., non essendo assolto l’obbligo di motivazione,
l’art. 25, secondo comma, Cost., «alla stregua del quale deve ritenersi che la
punizione criminale può essere irrogata in ragione di un fatto previsto dalla
legge come reato e non della finzione radicata sul mero fatto giuridico processuale
concernente l’avvenuta contestazione del medesimo», e infine l’art. 27, secondo
comma, Cost., in quanto un giudizio di responsabilità dell’imputato che possa
giustificare l’irrogazione di una pena impone una «cognizione e valutazione del
fatto criminoso storicamente avverato».
Ad avviso del Tribunale
rimettente inoltre, il giudice del dibattimento non potrebbe emettere nessun
giudizio in ordine all’idoneità o meno del programma di trattamento – che,
secondo l’art. 464-quater, comma 3, cod. proc. pen., deve essere effettuato in base ai parametri di cui
all’art. 133 cod. pen. – in quanto «ignora in tutto o
in parte se, come e da chi sia stato commesso» il reato oggetto di imputazione.
Ancora una volta, insomma, il giudizio formulato sarebbe «illogico e/o fittizio»,
essendo relativo a un fatto storico ignoto.
Il giudice a quo ritiene
poi non manifestamente infondata, con riferimento al principio di
determinatezza delle pene sancito dal secondo comma dell’art. 25 Cost., la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 168-bis, secondo e terzo
comma, cod. pen.
In particolare, ad avviso
del rimettente, le norme censurate prescriverebbero sanzioni indeterminate sul
piano qualitativo, in quanto il trattamento a cui l’imputato viene sottoposto
potrebbe risolversi in vincoli conformativi e ablatori della libertà personale
di diversa intensità, implicanti, «per le loro concrete determinazioni
oggettuali e/o modali e/o temporali, […] risultati afflittivi e restrittivi
della sfera giuridica dell’imputato di intensità paragonabile o magari anche
superiore a quella delle stesse pene edittali previste dalla legge in relazione
al reato per cui si procede».
L’indeterminatezza del
trattamento applicabile in sede di messa alla prova sussisterebbe anche sul
piano quantitativo, ossia con riferimento alla sua misura temporale.
Poiché l’art. 168-bis,
terzo comma, cod. pen. prevede che «il lavoro di
pubblica utilità consiste in una prestazione [...] di durata non inferiore a
dieci giorni», il trattamento in cui consiste la messa alla prova risulta
«determinato soltanto in relazione alla sanzione sostitutiva del lavoro di
pubblica utilità nonché, per quest’ultima, soltanto nella parametrazione legale
minima (dieci giorni); mentre in relazione alla misura alternativa dell’affidamento
al servizio sociale risulta totalmente carente di qualsiasi determinazione
legale».
Né, ad avviso del giudice a
quo, questa «indeterminatezza legale» potrebbe essere colmata mediante il
ricorso all’applicazione analogica dell’art. 464-quater, comma 5, cod. proc. pen., che stabilisce
soltanto la durata massima della sospensione del procedimento conseguente alla
messa alla prova, o dell’art. 657-bis cod. proc. pen., che stabilisce soltanto i criteri di ragguaglio
applicabili in sede di determinazione della pena da espiare nel caso di esito
negativo della prova. Ciò, sia per difetto del presupposto dell’eadem ratio, sia per il principio costituzionale di
tassatività delle pene.
Peraltro, «facendosi
riferimento all’art. 464-quater, comma 5, c.p.p., l’imputato non potrebbe
essere assoggettato ad un trattamento di durata superiore ai due anni, ad onta
di ogni possibile profilo di gravità del reato e di intensità delle correlate
esigenze di […] trattamento; mentre per converso, facendosi riferimento all’art.
657-bis c.p.p., si dovrebbe ammettere la ipotizzabilità di sanzioni di messa
alla prova suscettibili di durata protratta per decenni».
L’ordinanza di rimessione
censura anche l’art. 464-quater, comma 4, cod. proc. pen., «nella parte in cui prevede il consenso dell’imputato
quale condizione meramente potestativa di efficacia del provvedimento
giurisdizionale recante modificazione o integrazione del programma di
trattamento».
Qualora, nel verificare
l’idoneità del programma di trattamento delineato dall’ufficio di esecuzione
penale esterna, ritenga che lo stesso non sia esaustivamente delineato (come
nel caso di specie), o comunque non lo condivida integralmente, il giudice può
modificarlo o integrarlo solamente con il consenso dell’imputato; perciò
secondo il Tribunale rimettente la norma censurata delinea «una fattispecie
processuale che contempla, in funzione di atto definitorio di una subprocedura penale, (non alcuna decisione legalmente
impugnabile emessa dal giudice in ordine alle domande delle parti, bensì) la
decisione legalmente inoppugnabile emessa da una delle parti in ordine alle
determinazioni del giudice».
Ciò contrasterebbe con
l’art. 101 Cost., in quanto «rimette alla volontà dell’imputato la capacità
sovrana di integrare la condizione meramente potestativa cui resta
indiscutibilmente subordinato ogni profilo di efficacia formale ed utilità
sostanziale del provvedimento giurisdizionale di messa alla prova nonché [...]
dell’intera procedura già celebrata strumentalmente alla pronuncia del
medesimo».
Inoltre, la norma censurata
violerebbe «i principi costituzionali di buon andamento ed efficienza delle
attività dei pubblici poteri (art. 97 Cost.) [e] i principi di economicità e
ragionevole durata del processo penale (art. 111 comma 2 Cost.)», nella misura
in cui stabilisce lo svolgimento di incombenti paragiudiziari
e giudiziari che, «senza riguardo al dispendio di tempi e risorse processuali
all’uopo occorrenti, […] devono essere immediatamente disimpegnati dai
competenti pubblici uffici (prima l’ufficio esecuzione penale esterna e poi il
giudice procedente) per il solo fatto che ne faccia richiesta la medesima parte
processuale al cui mero insindacabile beneplacito, contestualmente, si
attribuisce anche la prerogativa di deciderne a posteriori la sorte: ossia il
potere di stabilire a piacimento [se], una volta che tali attività abbiano
avuto luogo, […] siano state compiute o meno soltanto a titolo di dissipazione
di tempi processuali e denari pubblici».
Da ultimo il giudice a quo
ritiene non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., «in quanto prevedono la irrogazione ed espiazione di
sanzioni penali senza che risulti pronunciata né di regola pronunciabile alcuna
condanna definitiva o non definitiva».
Ritenendo che con
l’ordinanza che dispone la messa alla prova l’imputato venga assoggettato a una
pena, l’ordinanza di rimessione sottolinea come ciò avvenga «sempre e soltanto
sulla base del mero titolo esecutivo provvisorio», senza che sia intervenuta
alcuna pronuncia di condanna ancorché non definitiva.
Peraltro se la prova ha
esito positivo si ha una declaratoria dell’estinzione del reato, che «elide in
radice la stessa possibilità che alcuna condanna possa intervenire finanche
dopo cotale espiazione della pena».
Le norme censurate, quindi,
violerebbero l’art. 27, secondo comma, Cost., «poiché stabiliscono non tanto
una violazione, quanto una radicale negazione della garanzia formale racchiusa
nel principio secondo cui l’imputato non può essere considerato e tantomeno
trattato come colpevole sino alla condanna penale definitiva», senza che vi sia
alcuna contrapposta «esigenz[a] di tutela di valori»
di dignità costituzionale pari o superiore.
Ad avviso del Tribunale
rimettente, non sarebbe possibile un’interpretazione costituzionalmente
orientata delle norme censurate, le quali comporterebbero una serie di
adempimenti formali, che impegnano risorse e attività non inferiori a quelle
occorrenti per la celebrazione del giudizio ordinario, peraltro in funzione di
mere «utilità erariali» (sfollamento penitenziario e deflazione processuale).
Nonostante si possa
«ammettere che il giudice, ogni qual volta i dati cognitivi risultanti dal fascicolo
del dibattimento [risultino] insufficienti ai fini delle decisioni da adottare
sul merito della procedura di messa alla prova», debba procedere all’istruzione
dibattimentale «al solo scopo di assumere le prove occorrenti alla decisione
sulla istanza di messa alla prova e sulla idoneità del programma di
trattamento», sarebbe contraddittoria la previsione di un rito speciale
alternativo al dibattimento che «comporta lo svolgimento delle medesime
attività».
Ugualmente insuscettibili
di interpretazione conforme sarebbero gli artt. 168-bis cod. pen. e 464-bis cod. proc. pen.
2.– È intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che le questioni siano
dichiarate inammissibili e comunque infondate.
L’Avvocatura dello Stato ha
eccepito l’inammissibilità della prima questione perché il Tribunale rimettente
avrebbe omesso «qualsiasi riferimento, nei vari casi sottoposti al suo vaglio,
alla effettiva necessità di una integrazione degli atti del fascicolo del
dibattimento al fine di decidere». In particolare non sarebbero stati indicati
gli atti presenti nei fascicoli del dibattimento e le «carenze cognitive che,
in ognuna delle fattispecie concrete, impedirebbero di valutare la
responsabilità per i fatti contestati».
L’ordinanza di rimessione
non «argoment[erebbe]
nemmeno circa l’eventuale accordo delle parti all’acquisizione al fascicolo per
il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero», che,
se intervenuto, «sarebbe in sé sufficiente ad eliminare ogni rilevanza alla
questione di cui si tratta».
Ad avviso dell’Avvocatura
dello Stato anche la terza questione sollevata sarebbe inammissibile per omessa
motivazione in ordine alla rilevanza nel giudizio a quo, in quanto l’ordinanza
di rimessione non conterrebbe indicazioni «riguardo all’intervenuta
integrazione o modifica del programma di trattamento ed alla consequenziale
manifestazione di consenso da parte dell’interessato».
Le questioni sarebbero
inoltre inammissibili perché il Tribunale rimettente non ha previamente
sperimentato un’interpretazione costituzionalmente orientata.
Nel merito le questioni
sarebbero infondate perché se i dati risultanti dal fascicolo del dibattimento
fossero insufficienti il giudice potrebbe procedere all’istruzione
dibattimentale. Peraltro le lacune lamentate dal rimettente potrebbero essere
«colmate attraverso l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti
contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, ex articolo 431, comma 2,
c.p.p., risultando quanto meno improbabile un interesse contrario delle parti».
L’art. 464-quater, comma 3,
cod. proc. pen. indica poi
i parametri ai quali il giudice deve attenersi nella valutazione della idoneità
del programma di trattamento e della sua efficacia riabilitativa e dissuasiva.
È sulla base di questo programma che il giudice è tenuto a stabilire «la durata
della messa alla prova e il termine entro il quale l’imputato [dovrà] adempiere
alle prescrizioni riparatorie e risarcitorie nonché alla prestazione del lavoro
di pubblica utilità».
Comunque la durata della
messa alla prova e quindi delle relative prescrizioni non può eccedere quella
della sospensione del procedimento ex art. 464-quater cod. proc.
pen. e la durata minima del lavoro di pubblica
utilità è fissata dall’art. 168-bis cod. pen.;
inoltre il decreto del Ministro della giustizia 8 giugno 2015, n. 88
(Regolamento recante disciplina delle convenzioni in materia di pubblica
utilità ai fini della messa alla prova dell’imputato, ai sensi dell’articolo 8
della legge 28 aprile 2014, n. 67) ha specificato caratteristiche, requisiti e
modalità attuative del lavoro di pubblica utilità. Non vi sarebbero quindi
«sanzioni penali non legalmente determinabili» da applicare.
Infine l’Avvocatura dello
Stato ha osservato che l’istituto della messa alla prova, già sperimentato nel
nostro ordinamento in ambito minorile, persegue, accanto a scopi deflativi, una
funzione riparatoria e risocializzante, che presuppone «una convinta adesione
al programma da parte dell’imputato, la cui volontà gioca un ruolo decisivo in
vista del positivo esito del percorso di trattamento. La subordinazione
dell’efficacia delle pronunce del giudice al consenso dell’imputato trova,
dunque, ampia giustificazione nell’esigenza di attuare il principio
costituzionale della finalità rieducativa e di reinserimento sociale della
pena».
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 16
dicembre 2016 (r.o. n. 81 del 2017), il Tribunale ordinario
di Grosseto, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3, 111, sesto comma, 25, secondo comma, e 27, secondo comma, della
Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater,
comma 1, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che il
giudice del dibattimento, ai fini della cognizione occorrente ad ogni decisione
di merito da assumere nel [procedimento speciale di messa alla prova], proceda
alla acquisizione e valutazione degli atti delle indagini preliminari
restituendoli per l’ulteriore corso in caso di pronuncia negativa sulla
concessione o sull’esito della messa alla prova».
Con la medesima ordinanza
il giudice a quo ha sollevato, in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost.,
una questione di legittimità costituzionale dell’art. 168-bis, secondo e terzo
comma, del codice penale, «in quanto prevede la applicazione di sanzioni penali
non legalmente determinabili».
Il Tribunale rimettente
dubita inoltre, in riferimento all’art. 27, secondo comma, Cost., della
legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., «in quanto prevedono
la irrogazione ed espiazione di sanzioni penali senza che risulti pronunciata
né di regola pronunciabile alcuna condanna definitiva o non definitiva».
Infine il Tribunale
rimettente, in riferimento agli artt. 97, 101 e 111, secondo comma, Cost., ha
sollevato anche questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater,
comma 4, cod. proc. pen.,
«nella parte in cui prevede il consenso dell’imputato quale condizione
meramente potestativa di efficacia del provvedimento giurisdizionale recante
modificazione o integrazione del programma di trattamento».
2.– L’Avvocatura dello
Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 464-quater, comma 1, cod. proc.
pen., in quanto il Tribunale rimettente avrebbe
omesso «qualsiasi riferimento, nei vari casi sottoposti al suo vaglio, alla
effettiva necessità di una integrazione degli atti del fascicolo del
dibattimento al fine di decidere». In particolare non sarebbero stati indicati
gli atti presenti nei fascicoli del dibattimento dei procedimenti riuniti e le
«carenze cognitive che, in ognuna delle fattispecie concrete, impedirebbero di
valutare la responsabilità per i fatti contestati».
L’ordinanza di rimessione,
inoltre, non argomenterebbe «circa l’eventuale accordo delle parti
all’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel
fascicolo del pubblico ministero», che, se intervenuto, «sarebbe in sé
sufficiente ad eliminare ogni rilevanza all[e] question[i] di cui si tratta».
L’eccezione non è fondata.
Il giudice a quo infatti ha
chiarito che «ciascuno dei fascicoli per il dibattimento concernenti le
fattispecie sostanziali dedotte nei procedimenti penali presupposti, in ragione
dello stadio processuale in cui la procedura di messa alla prova è stata
attivata […] e della composizione del fascicolo legalmente prescritta in tale
stadio […], non contiene la rappresentazione del benché minimo elemento di
prova occorrente all’accertamento ed alla valutazione, neppure in forma di
delibazione sommaria, della fondatezza dell’accusa sotto alcun profilo
oggettivo e soggettivo». Da qui l’impossibilità, a suo avviso, di stabilire «se
[il] fatto [contestato] sussista, con quante e quali modalità di cui all’art.
133 c.p. sia stato commesso, da chi sia stato commesso, se costituisca reato,
se sia previsto dalla legge come reato ed infine se, a quali condizioni e a
quale titolo dia luogo ad un reato punibile».
3.– Secondo l’Avvocatura
generale dello Stato, anche le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 464-quater, comma 4, cod. proc. pen. sarebbero inammissibili per un difetto di motivazione
sulla rilevanza nel giudizio a quo, in quanto l’ordinanza di rimessione non
offrirebbe alcuna descrizione «riguardo all’intervenuta integrazione o modifica
del programma di trattamento ed alla consequenziale manifestazione di consenso
da parte dell’interessato».
Anche questa eccezione è
priva di fondamento.
Il rimettente infatti ha
chiarito che, nel caso di accoglimento delle istanze di messa alla prova,
dovrebbe procedere ad integrare i programmi di trattamento presentati dagli
imputati, così sottoponendo il relativo provvedimento alla «condizione
sospensiva di efficacia identificata nel "consenso dell’imputato”», dal momento
che nessuno di essi «contiene la determinazione quantitativa delle sanzioni ivi
prefigurate», essendo stati redatti in modo incompleto, mediante la compilazione
di un modulo.
L’ordinanza di rimessione
quindi, al contrario di quanto asserisce l’Avvocatura dello Stato, contiene
un’adeguata motivazione sulla lacunosità dei programmi di trattamento e sulla
necessità di una loro integrazione, consentendo così a questa Corte il
necessario controllo sulla rilevanza delle questioni sollevate.
4.– Infine l’Avvocatura
dello Stato ha sostenuto che le questioni sollevate sono inammissibili anche
perché il Tribunale rimettente non ha previamente sperimentato
un’interpretazione costituzionalmente orientata.
Con riferimento alle
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater, comma 1, cod. proc. pen. l’eccezione è fondata.
Il Tribunale rimettente ha
censurato questa disposizione «nella parte in cui non prevede che il giudice
del dibattimento, ai fini della cognizione occorrente ad ogni decisione di
merito da assumere nel [procedimento speciale di messa alla prova], proceda
alla acquisizione e valutazione degli atti delle indagini preliminari
restituendoli per l’ulteriore corso in caso di pronuncia negativa sulla
concessione o sull’esito della messa alla prova».
Nei casi oggetto dei
procedimenti a quibus si procede con citazione
diretta e, poiché la richiesta ex art. 464-bis cod. proc.
pen. deve essere formulata prima dell’apertura del
dibattimento, il Tribunale rimettente ha rilevato che i pochi atti contenuti
nel fascicolo per il dibattimento risultano largamente insufficienti a fornire
la plausibile rappresentazione del fatto occorrente ai fini della formulazione
di un giudizio positivo di responsabilità. Di conseguenza un’ordinanza di
sospensione del procedimento con messa alla prova pronunciata sulla base di
quegli atti si tradurrebbe in «un provvedimento giurisdizionale di irrogazione
di un trattamento giuridico di diritto penale criminale suscettibile di essere
pronunciato sul presupposto di un convincimento di responsabilità di carattere
assurdo o simulatorio poiché formulato senza cognizione degli elementi
occorrenti a stabilire se alcun fatto sia avvenuto, come e da chi sia stato
commesso e quale ne sia la qualificazione giuridica».
La norma censurata si
porrebbe pertanto in contrasto con l’art. 3 Cost., «alla stregua del quale deve
ritenersi che le enunciazioni risapute logicamente incongrue o simulatorie non
possono costituire presupposto o strumento di trattamenti giuridici».
Sarebbero violati inoltre
l’art. 111, sesto comma, Cost., non essendo assolto l’obbligo di motivazione,
l’art. 25, secondo comma, Cost., «alla stregua del quale deve ritenersi che la
punizione criminale può essere irrogata in ragione di un fatto previsto dalla
legge come reato e non della finzione radicata sul mero fatto giuridico
processuale concernente l’avvenuta contestazione del medesimo», ed infine
l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto il giudizio di responsabilità
dell’imputato che possa giustificare l’irrogazione di una pena impone una
«cognizione e valutazione del fatto criminoso storicamente avverato».
Ciò posto il Tribunale
rimettente ha escluso di poter conferire alla disposizione censurata un
significato compatibile con i principi costituzionali, in quanto ciò imporrebbe
di «ammettere che il giudice, ogni qual volta i dati cognitivi risultanti dal
fascicolo del dibattimento [risultino] insufficienti ai fini delle decisioni da
adottare sul merito della procedura di messa alla prova», proceda
all’istruzione dibattimentale «al solo scopo di assumere le prove occorrenti
alla decisione sull’istanza di messa alla prova e sulla idoneità del programma
di trattamento». Però un simile modo di operare sarebbe in contrasto con la
ratio di un rito speciale alternativo al dibattimento, perché comporterebbe «lo
svolgimento delle medesime attività» dibattimentali e, quindi, frustrerebbe le
finalità di deflazione processuale.
Perciò non sarebbe
possibile dare alla disposizione un’interpretazione costituzionalmente
orientata.
Questa dunque è la
conclusione del giudice a quo, che però non ha verificato compiutamente se, pur
in assenza di una specifica disposizione in tal senso, gli sia ugualmente
consentito, ai soli fini della decisione sulla richiesta di messa alla prova,
prendere visione degli atti del fascicolo del pubblico ministero. Egli infatti
non ha considerato l’art. 135 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271
(Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura
penale) e la possibilità di una sua applicazione analogica nel caso in esame.
Con riferimento al
patteggiamento l’art. 135 norme att. cod. proc. pen. stabilisce che «[il] giudice,
per decidere sulla richiesta di applicazione della pena rinnovata prima della
dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, ordina l’esibizione
degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero. Se la richiesta è
accolta, gli atti esibiti vengono inseriti nel fascicolo per il dibattimento;
altrimenti gli atti sono immediatamente restituiti al pubblico ministero».
La giurisprudenza di
legittimità ha considerato questo articolo applicabile in via analogica anche
nel caso in cui l’imputato rinnovi, prima della dichiarazione di apertura del
dibattimento, una richiesta condizionata di giudizio abbreviato, già respinta
dal giudice per le indagini preliminari (Corte di cassazione, sezioni unite
penali, sentenza 27 ottobre 2004, n. 44711), e la dottrina ne ha ritenuto
l’applicabilità anche nei casi di richiesta di un rito speciale presentata
nell’udienza di comparizione, a seguito di citazione diretta ex art. 555 cod. proc. pen.; tra i riti speciali è
ora compreso anche quello di messa alla prova.
Del resto gli atti
contenuti nel fascicolo del pubblico ministero sono di regola sottratti alla
cognizione dibattimentale, ma se non si deve procedere al dibattimento non c’è
ragione di impedirne la conoscenza al giudice quando ciò è necessario ai soli
fini della decisione su tale richiesta. Il fatto che ciò non sia espressamente
previsto non significa che sia vietato, sicché anche sotto questo aspetto può
ritenersi che non occorra a tal fine una specifica disposizione o, come è stato
sostenuto dal giudice a quo, un’apposita pronuncia di illegittimità
costituzionale.
Deve quindi concludersi che
il Tribunale rimettente non ha compiuto un accurato esame delle opzioni
interpretative rese possibili dal contesto normativo in cui si colloca la norma
censurata.
Le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 464-quater, comma 1, cod. proc.
pen. sono allora inammissibili, perché sono state
poste senza tenere conto della praticabilità di un’interpretazione
costituzionalmente orientata, diversa da quella prospettata e coerente con la
cornice normativa in cui la norma si colloca.
In base alla costante
giurisprudenza costituzionale infatti lo scrutinio nel merito della questione
sollevata è precluso dalla mancata o inadeguata sperimentazione, da parte del
giudice a quo, della possibilità di una soluzione interpretativa diversa da
quella posta a base dei prospettati dubbi di legittimità costituzionale e tale
da determinare il loro superamento o da renderli comunque non rilevanti nel
procedimento a quo (sentenze n. 253
e n. 45 del 2017;
ordinanze n. 97
e n. 58 del 2017).
5.– Le altre questioni di
legittimità costituzionale sollevate dall’ordinanza di rimessione non sono
fondate.
6.– Hanno carattere
logicamente pregiudiziale le questioni di legittimità costituzionale degli
artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., in riferimento all’art. 27, secondo comma, Cost.,
sollevate in quanto ad avviso del Tribunale rimettente le disposizioni
censurate «prevedono la irrogazione ed espiazione di sanzioni penali senza che
risulti pronunciata né di regola pronunciabile alcuna condanna definitiva o non
definitiva».
Ritenendo che con il
provvedimento che dispone la messa alla prova l’imputato sia assoggettato a una
pena, l’ordinanza di rimessione sottolinea come ciò avvenga «sempre e soltanto
sulla base del mero titolo esecutivo provvisorio», senza che sia intervenuta
alcuna pronuncia di condanna ancorché non definitiva. Perciò le norme censurate
violerebbero l’art. 27, secondo comma, Cost., visto che «stabiliscono non tanto
una violazione, quanto una radicale negazione della garanzia formale racchiusa
nel principio secondo cui l’imputato non può essere considerato e tantomeno
trattato come colpevole sino alla condanna penale definitiva», senza che vi sia
alcuna contrapposta «esigenz[a] di tutela di valori»
di dignità costituzionale pari o superiore.
In realtà però la
situazione risultante dall’applicazione delle norme in questione è diversa.
Infatti, se è vero che nel
procedimento di messa alla prova manca una condanna, è anche vero che
correlativamente manca un’attribuzione di colpevolezza: nei confronti
dell’imputato e su sua richiesta (non perché è considerato colpevole), in
difetto di un formale accertamento di responsabilità, viene disposto un
trattamento alternativo alla pena che sarebbe stata applicata nel caso di
un’eventuale condanna.
Con riferimento alla
mancanza di un formale accertamento di responsabilità e di una specifica
pronuncia di condanna, la sospensione del procedimento con messa alla prova può
essere assimilata all’applicazione della pena su richiesta delle parti
(cosiddetto patteggiamento: art. 444 cod. proc. pen.), perché entrambi i riti speciali si basano sulla
volontà dell’imputato che, non contestando l’accusa, in un caso si sottopone al
trattamento e nell’altro accetta la pena. Per queste caratteristiche anche il
patteggiamento è stato sospettato di illegittimità costituzionale,
sostenendosene il contrasto con la presunzione di non colpevolezza contenuta
nell’art. 27, secondo comma, Cost., ma questa Corte con più decisioni ha
ritenuto la questione priva di fondamento (sentenza n. 313 del
1990; ordinanza
n. 399 del 1997).
In particolare è stato
escluso che nel procedimento previsto dall’art. 444 cod. proc.
pen. «vi sia un sostanziale capovolgimento dell’onere
probatorio, contrastante con la presunzione d’innocenza contenuta nell’art. 27,
secondo comma, della Costituzione». In effetti – ha aggiunto la Corte – nel
nuovo ordinamento giuridico-processuale «è preponderante l’iniziativa delle
parti nel settore probatorio: ma ciò non immuta affatto i principi, nemmeno
nello speciale procedimento in esame, dove anzi il giudice è in primo luogo
tenuto ad esaminare ex officio se sia già acquisita agli atti la prova che il
fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso. Dopodiché, risultando
negativa questa prima verifica, se l’imputato ritiene di possedere elementi per
l’affermazione della propria innocenza, nessuno lo obbliga a richiedere
l’applicazione di una pena, ed egli ha a disposizione le garanzie del rito
ordinario. In altri termini, chi chiede l’applicazione di una pena vuol dire che
rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l’accusa, senza che ciò
significhi violazione del principio di presunzione d’innocenza, che continua a
svolgere il suo ruolo fino a quando non sia irrevocabile la sentenza» (sentenza n. 313 del
1990).
Invero la possibilità di
chiedere i riti speciali, e in particolare il patteggiamento o la messa alla
prova, costituisce, come generalmente si ritiene, una delle facoltà difensive e
appare illogico considerare costituzionalmente illegittimi per la violazione
delle garanzie riconosciute all’imputato questi procedimenti che sono diretti
ad assicurargli un trattamento più vantaggioso di quello del rito ordinario.
7.– Per giungere alla
conclusione dell’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., in riferimento all’art. 27 Cost., sarebbe sufficiente
richiamare gli argomenti già utilizzati da questa Corte per decidere la questione
relativa al patteggiamento, per vari aspetti analoga. Tuttavia anche altri e
assai consistenti argomenti orientano in tal senso e valgono a dimostrare
ulteriormente l’infondatezza delle altre due questioni di legittimità
costituzionale sollevate dal giudice a quo.
La messa alla prova, anche
se può assimilarsi al patteggiamento per la base consensuale del procedimento e
del conseguente trattamento, presenta aspetti che da questo la differenziano,
al punto, come si vedrà, da non consentire un riferimento nei termini
tradizionali alle categorie costituzionali penali e processuali, perché il
carattere innovativo della messa alla prova «segna un ribaltamento dei
tradizionali sistemi di intervento sanzionatorio» (Corte di cassazione, sezioni
unite penali, sentenza 31 marzo 2016, n. 36272).
Come hanno riconosciuto le
sezioni unite della Corte di cassazione, «[q]uesta
nuova figura, di ispirazione anglosassone, realizza una rinuncia statuale alla
potestà punitiva condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata
e assistita e si connota per una accentuata dimensione processuale, che la
colloca nell’ambito dei procedimenti speciali alternativi al giudizio (Corte
cost., n. 240 del 2015). Ma di essa va riconosciuta, soprattutto, la natura
sostanziale. Da un lato, nuovo rito speciale, in cui l’imputato che rinuncia al
processo ordinario trova il vantaggio di un trattamento sanzionatorio non
detentivo; dall’altro, istituto che persegue scopi specialpreventivi
in una fase anticipata, in cui viene "infranta” la sequenza
cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della
risocializzazione del soggetto» (Cass., sez. un., n.
36272 del 2016).
Da qui la differenza tra
l’istituto in esame e il patteggiamento, in quanto la sentenza che dispone l’applicazione
della pena su richiesta delle parti, «pur non potendo essere pienamente
identificata con una vera e propria sentenza di condanna (cfr. sentenza n. 251 del
1991), è tuttavia a questa "equiparata” ex art. 445 del codice di procedura
penale» (ordinanza
n. 73 del 1993) e conduce all’irrogazione della pena prevista per il reato
contestato, anche se diminuita fino a un terzo, mentre l’esito positivo della
prova conduce ad una sentenza di non doversi procedere per estinzione del
reato.
Inoltre la sentenza di
patteggiamento costituisce un titolo esecutivo per l’applicazione di una
sanzione tipicamente penale, mentre l’ordinanza che dispone la sospensione del
processo e ammette l’imputato alla prova non costituisce un titolo per dare
esecuzione alle relative prescrizioni. Il trattamento programmato non è infatti
una sanzione penale, eseguibile coattivamente, ma dà luogo a un’attività
rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell’imputato, il
quale liberamente può farla cessare con l’unica conseguenza che il processo
sospeso riprende il suo corso.
Si tratta di una
caratteristica fondamentale, perché viene riservata alla volontà dell’imputato
non soltanto la decisione sulla messa alla prova, ma anche la sua esecuzione.
In questa struttura
procedimentale tuttavia non manca, in via incidentale e allo stato degli atti
(perché l’accertamento definitivo è rimesso all’eventuale prosieguo del
giudizio, nel caso di esito negativo della prova), una considerazione della
responsabilità dell’imputato, posto che il giudice, in base all’art.
464-quater, comma 1, cod. proc. pen.,
deve verificare che non ricorrono le condizioni per «pronunciare sentenza di
proscioglimento a norma dell’articolo 129» cod. proc.
pen., e anche a tale scopo può esaminare gli atti del
fascicolo del pubblico ministero, deve valutare la richiesta dell’imputato,
eventualmente disponendone la comparizione (art. 464-quater, comma 2, cod. proc. pen.), e, se lo ritiene
necessario, può anche acquisire ulteriori informazioni, in applicazione
dell’art. 464-bis, comma 5, cod. proc. pen.
Così ricostruite le
caratteristiche del nuovo istituto, deve concludersi che le questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen. in riferimento
all’art. 27, secondo comma, Cost. sono prive di fondamento.
8.– Una terza questione di
legittimità costituzionale investe il secondo e il terzo comma dell’art.
168-bis cod. pen., che violerebbero l’art. 25,
secondo comma, Cost., «nella parte in cui sancisce il principio di tassatività
e determinatezza legale delle pene», in quanto prescriverebbero sanzioni
indeterminate sia sul piano qualitativo, potendo il trattamento a cui
l’imputato viene sottoposto risolversi in vincoli conformativi e ablatori della
libertà personale di diversa intensità, sia sul piano quantitativo, ossia con
riferimento alla sua misura temporale. Infatti, «nel disegno legislativo che
definisce il procedimento speciale [di messa alla prova], le determinazioni
qualitative e quantitative concernenti il trattamento sanzionatorio penale
applicabile [sarebbero] rimesse alla libera scelta delle autorità procedenti
(prima l’ufficio locale di esecuzione penale che predispone il programma di
trattamento, e poi il giudice che tale programma convalida o modifica)».
Quanto alla misura
temporale degli elementi del trattamento, va considerato che, anche se le norme
censurate non lo specificano, la durata massima del lavoro di pubblica utilità
«risulta indirettamente dall’art. 464-quater, comma 5, cod. proc.
pen. perché, in mancanza di una sua diversa
determinazione, corrisponde necessariamente alla durata della sospensione del procedimento,
la quale non può essere: "a) superiore a due anni quando si procede per reati
per i quali è prevista una pena detentiva, sola, congiunta o alternativa alla
pena pecuniaria; b) superiore a un anno quando si procede per reati per i quali
è prevista la sola pena pecuniaria”» (ordinanza n. 54 del
2017), e per determinare in concreto tale durata il giudice «deve tenere
conto dei criteri previsti dall’art. 133 cod. pen. e delle
caratteristiche che dovrà avere la prestazione lavorativa» (ordinanza n. 54 del
2017).
Analoghe considerazioni
valgono per la durata massima dell’affidamento in prova al servizio sociale.
Quanto agli aspetti
qualitativi va considerato che un programma di trattamento per sua natura può
essere determinato legislativamente solo attraverso l’indicazione dei tipi di
condotta che ne possono formare oggetto, rimettendone la specificazione, come
infatti è avvenuto, all’ufficio di esecuzione penale esterna e al giudice, con
il consenso dell’imputato.
Il trattamento per sua
natura è caratterizzato dalla finalità specialpreventiva
e risocializzante che deve perseguire e deve perciò essere ampiamente
modulabile, tenendo conto della personalità dell’imputato e dei reati oggetto
dell’imputazione, sicché, considerata anche la sua base consensuale, non se ne
può prospettare l’insufficiente determinatezza in riferimento all’art. 25,
secondo comma, Cost.
Come questa Corte ha già
rilevato, «la normativa sulla sospensione del procedimento con messa alla prova
comporta una diversificazione dei contenuti, prescrittivi e di sostegno, del
programma di trattamento, con l’affidamento al giudice di "un giudizio
sull’idoneità del programma, quindi sui contenuti dello stesso, comprensivi sia
della parte ‘afflittiva’ sia di quella ‘rieducativa’, in una valutazione
complessiva circa la rispondenza del trattamento alle esigenze del caso
concreto, che presuppone anche una prognosi di non recidiva” (Sezioni unite, 31
marzo 2016, n. 33216)» (ordinanza n. 54 del
2017).
Emerge perciò in modo
chiaro l’inconferenza del riferimento all’art. 25,
secondo comma, Cost.
9.– Infine, secondo il
giudice a quo l’art. 464-quater, comma 4, cod. proc. pen. si porrebbe in contrasto con l’art. 101 Cost., in
quanto «rimette alla volontà dell’imputato la capacità sovrana di integrare la
condizione meramente potestativa cui resta indiscutibilmente subordinato ogni
profilo di efficacia formale ed utilità sostanziale del provvedimento
giurisdizionale di messa alla prova nonché [...] dell’intera procedura già celebrata
strumentalmente alla pronuncia del medesimo».
La norma censurata
contrasterebbe altresì sia con «i principi costituzionali di buon andamento ed
efficienza delle attività dei pubblici poteri (art. 97 Cost.) sia con i
principi di economicità e ragionevole durata del processo penale (art. 111
comma 2 Cost.)», nella misura in cui stabilisce lo svolgimento di attività paragiudiziarie e giudiziarie che, «senza riguardo al
dispendio di tempi e risorse processuali all’uopo occorrenti, […] devono essere
immediatamente disimpegnat[e] dai competenti pubblici
uffici (prima l’ufficio esecuzione penale esterna e poi il giudice procedente)
per il solo fatto che ne faccia richiesta la medesima parte processuale al cui
mero insindacabile beneplacito, contestualmente, si attribuisce anche la
prerogativa di deciderne a posteriori la sorte: ossia il potere di stabilire a
piacimento [se], una volta che tali attività abbiano avuto luogo, […] siano
state compiute o meno soltanto a titolo di dissipazione di tempi processuali e
denari pubblici».
Si tratta ancora una volta
di questioni non fondate.
Basandosi l’istituto della
messa alla prova sulla richiesta dell’imputato, che allega il programma di
trattamento fatto elaborare dall’ufficio di esecuzione penale esterna, è
evidente che ogni integrazione o modificazione di questo programma ritenuta
necessaria dal giudice richiede il consenso dell’imputato.
Qualora infatti il giudice
consideri il programma proposto inidoneo a perseguire le finalità del
trattamento, l’imputato deve poter scegliere se accettare le integrazioni o le
modificazioni indicate oppure proseguire il giudizio nelle forme ordinarie: ciò
non menoma le prerogative dell’autorità giudiziaria e non integra quindi la
violazione dell’art. 101 Cost., dato che la facoltà è conforme al modello
legale del procedimento.
Invero, come è già stato
rilevato da questa Corte, l’integrità delle attribuzioni costituzionali
dell’autorità giudiziaria «non è violata quando il legislatore ordinario non
tocca la potestà di giudicare, ma opera sul piano generale ed astratto delle
fonti, costruendo il modello normativo cui la decisione del giudice deve
riferirsi (sentenze
n. 170 del 2008 e n. 432 del 1997;
ordinanza n. 263
del 2002)» (sentenza
n. 303 del 2011).
Perciò con la disposizione
censurata il legislatore non ha violato la sfera riservata al potere
giudiziario, perché, subordinando le integrazioni e le modificazioni del
programma di trattamento al consenso dell’imputato, ha legittimamente
ricollegato l’accesso al procedimento speciale a un accadimento processuale (il
consenso, appunto) naturalmente rimesso a una parte del processo.
Anche con riferimento
all’art. 97 Cost. la questione è infondata, data l’inconferenza
del parametro evocato; infatti, per costante giurisprudenza costituzionale, «il
principio del buon andamento è riferibile all’amministrazione della giustizia
soltanto per quanto attiene all’organizzazione e al funzionamento degli uffici
giudiziari, non all’attività giurisdizionale in senso stretto» (ordinanza n. 84 del
2011; in tal senso, sentenze n. 65 del
2014 e n.
272 del 2008; ordinanza
n. 408 del 2008).
È infine infondata anche la
censura di violazione dell’art. 111, secondo comma, Cost., in quanto la
disposizione censurata, oltre ad essere funzionale alle peculiari
caratteristiche dell’istituto in esame, non comporta, contrariamente a quanto
ritenuto dal giudice a quo, alcun dispendio di tempi e risorse processuali. Il
consenso infatti è richiesto per le integrazioni e le modificazioni che il
giudice ritenga di apportare prima della sospensione del procedimento e
dell’ammissione alla prova dell’imputato, e quindi prima che sia svolta
qualsivoglia attività processuale.
Peraltro, in relazione al
principio di ragionevole durata del processo, la giurisprudenza costituzionale
ha ripetutamente affermato che – «alla luce dello stesso richiamo al connotato
di "ragionevolezza”, che compare nella formula costituzionale – possono
arrecare un vulnus a quel principio solamente le norme "che comportino una
dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza” (ex plurimis, sentenze n. 23 del
2015, n. 63
e n. 56 del 2009,
n. 148 del 2005)»
(sentenza n. 12
del 2016). E non è questo il caso in esame, dato che la norma censurata è
necessitata dalla struttura del rito speciale, che si basa sulla volontà
dell’imputato ed è diretto, tra l’altro, a semplificare il procedimento,
riducendone anche i tempi.
per
questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 464-quater, comma 1, del codice di procedura penale, sollevate, in
riferimento agli artt. 3, 111, sesto comma, 25, secondo comma, e 27, secondo
comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Grosseto, con l’ordinanza
indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., sollevate, in riferimento all’art. 27, secondo comma,
Cost., dal medesimo Tribunale, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 168-bis, secondo e terzo comma, del codice penale, sollevata, in
riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., dal medesimo Tribunale, con
l’ordinanza indicata in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 464-quater, comma 4, cod. proc. pen., sollevate, in riferimento agli artt. 97, 101 e 111,
secondo comma, Cost., dal medesimo Tribunale, con l’ordinanza indicata in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI,
Presidente e Redattore
Filomena PERRONE,
Cancelliere
Depositata in Cancelleria
il 27 aprile 2018.