Sentenza n. 91 del 2018

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SENTENZA N. 91

ANNO 2018

 

Commenti alla decisione di

 

I. Guglielmo Leo, La Corte costituzionale ricostruisce ed ‘accredita’, in punto di compatibilità costituzionale, l’istituto della messa alla prova, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo

 

II. Raffaele Muzzica, La Consulta ‘salva’ la messa alla prova: l'onere di una interpretazione 'convenzionalmente' orientata per il giudice nazionale, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo

 

III. Lucia Parlato, La messa alla prova dopo il dictum della Consulta: indenne ma rivisitata e in attesa di nuove censure, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Giorgio                       LATTANZI                                       Presidente

-      Aldo                           CAROSI                                            Giudice

-      Marta                          CARTABIA                                              

-      Mario Rosario             MORELLI                                                 

-      Giancarlo                    CORAGGIO                                             

-      Giuliano                      AMATO                                                    

-      Silvana                        SCIARRA                                                 

-      Daria                           de PRETIS                                                

-      Nicolò                         ZANON                                                    

-      Augusto Antonio       BARBERA                                               

-      Giulio                          PROSPERETTI                                         

-      Giovanni                     AMOROSO                                               

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater, 464-quater, commi 1 e 4, e 464-quinquies, del codice di procedura penale, e dell’art. 168-bis, commi secondo e terzo, del codice penale, promosso dal Tribunale ordinario di Grosseto, nel procedimento penale a carico di S. A. e altri, con ordinanza del 16 dicembre 2016, iscritta al n. 81 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 2018 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 16 dicembre 2016 (r.o. n. 81 del 2017), il Tribunale ordinario di Grosseto, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111, sesto comma, 25, secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater, comma 1, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che il giudice del dibattimento, ai fini della cognizione occorrente ad ogni decisione di merito da assumere nel [procedimento speciale di messa alla prova], proceda alla acquisizione e valutazione degli atti delle indagini preliminari restituendoli per l’ulteriore corso in caso di pronuncia negativa sulla concessione o sull’esito della messa alla prova».

Con la medesima ordinanza, il giudice a quo ha sollevato, in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., una questione di legittimità costituzionale dell’art. 168-bis, secondo e terzo comma, del codice penale, «in quanto prevede la applicazione di sanzioni penali non legalmente determinabili», nonché, in riferimento agli artt. 97, 101 e 111, secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater, comma 4, cod. proc. pen., «nella parte in cui prevede il consenso dell’imputato quale condizione meramente potestativa di efficacia del provvedimento giurisdizionale recante modificazione o integrazione del programma di trattamento».

Il Tribunale rimettente ha infine sollevato, in riferimento all’art. 27, secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., «in quanto prevedono la irrogazione ed espiazione di sanzioni penali senza che risulti pronunciata né di regola pronunciabile alcuna condanna definitiva o non definitiva».

Il giudice a quo premette di aver già sollevato le medesime questioni di legittimità costituzionale con tre ordinanze del 10 marzo 2015 di identico contenuto (r.o. n. 157, n. 158 e n. 159 del 2015), questioni che sono state però dichiarate manifestamente inammissibili con l’ordinanza n. 237 del 2016 di questa Corte, per insufficiente descrizione della fattispecie e, conseguentemente, per difetto di motivazione sulla loro rilevanza nei giudizi a quibus.

«In ossequio ai dettami della Corte» e al fine di sopperire ai precedenti profili di inammissibilità, il Tribunale rimettente chiarisce di essere investito, «in funzione di giudice della cognizione in primo grado», di sette procedimenti penali riuniti, indicando specificamente i reati per cui procede a carico di ciascun imputato e le condotte contestate.

Il giudice a quo poi specifica di essere pervenuto «allo stadio della pronuncia sul merito di ciascuna istanza di messa alla prova ritualmente presentata» dagli imputati, per ognuno dei quali sussistono i requisiti soggettivi previsti dall’art. 168-bis cod. pen., essendo tutti incensurati, tranne uno «che, tuttavia, ha riportato un mero e irrilevante precedente di cui all’art. 614 c.p. risalente a quattordici anni addietro».

Inoltre le istanze di sospensione del procedimento con messa alla prova sarebbero state presentate nel «termine legalmente imposto», a mezzo di difensore munito di procura speciale e con tempestiva allegazione del programma di trattamento elaborato d’intesa con il competente ufficio di esecuzione penale esterna.

Dall’ordinanza di rimessione emerge pure che «ciascuno dei fascicoli per il dibattimento concernenti le fattispecie sostanziali dedotte nei procedimenti penali presupposti, in ragione dello stadio processuale in cui la procedura di messa alla prova è stata attivata […] e della composizione del fascicolo legalmente prescritta in tale stadio […], non contiene la rappresentazione del benché minimo elemento di prova occorrente all’accertamento ed alla valutazione, neppure in forma di delibazione sommaria, della fondatezza dell’accusa sotto alcun profilo oggettivo e soggettivo». Da qui l’impossibilità, per il giudice, di stabilire «se [il] fatto [contestato] sussista, con quante e quali modalità di cui all’art. 133 c.p. sia stato commesso, da chi sia stato commesso, se costituisca reato, se sia previsto dalla legge come reato ed infine se, a quali condizioni ed a quale titolo dia luogo ad un reato punibile».

Ciò renderebbe le prime questioni sollevate rilevanti nei giudizi a quibus.

Qualora si accogliessero le istanze di messa alla prova formulate dagli imputati, il relativo provvedimento, secondo il rimettente, dovrebbe stabilire «in forma precettiva la qualità e soprattutto la quantità di ciascuna delle due sanzioni criminali previste dall’art. 168 [recte: 168-bis] commi 2 e 3 c.p.» in violazione del principio di legalità della pena. Ne conseguirebbe la pregiudizialità della seconda questione di legittimità costituzionale sollevata.

Inoltre, poiché «nessuno dei programmi di trattamento presentati [dagli imputati] contiene la determinazione quantitativa delle sanzioni ivi prefigurate», essendo stati redatti in modo incompleto, mediante la compilazione di un modulo, nel caso di accoglimento delle istanze di messa alla prova, il giudice dovrebbe procedere ad integrarli, così sottoponendo il relativo provvedimento alla «condizione sospensiva di efficacia identificata nel "consenso dell’imputato”».

Egli infine si troverebbe a dover «sancire l’espiazione di una pena criminale in difetto di alcuna condanna sia definitiva, sia non definitiva».

Da qui la rilevanza della terza e della quarta questione di legittimità costituzionale sollevate dall’ordinanza di rimessione.

Ricostruita la disciplina dell’istituto della messa alla prova, introdotto dalla legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), il Tribunale rimettente osserva che nel caso, come quello in esame, in cui l’iniziativa dell’imputato interviene nella fase degli atti preliminari al dibattimento «[i]l provvedimento giurisdizionale di cognizione sul merito della istanza di messa alla prova è pronunciato allo stato degli atti del fascicolo per il dibattimento [quale] esso si trova nello stadio introduttivo del giudizio (antecedente la dichiarazione di apertura del dibattimento) in cui la procedura deve essere attivata a pena di decadenza».

Il procedimento speciale introdotto nel 2014 – prosegue il giudice a quo – si articola in una prima fase amministrativa, condotta dall’ufficio di esecuzione penale esterna in funzione istruttoria e preparatoria, in una fase giurisdizionale di cognizione culminante nella formazione di un titolo esecutivo provvisorio emesso, allo stato degli atti del fascicolo per il dibattimento, in forma di ordinanza e in una fase di esecuzione penale culminante nell’adozione di un provvedimento, emesso in forma di sentenza, «di accertamento costitutivo della fattispecie giudiziale estintiva del reato conseguentemente formatasi».

Peraltro l’istanza di messa alla prova comporta, da parte dell’imputato, la sua «volontaria soggezione […] alla esecuzione di una pena criminale, quantunque morfologicamente strutturata in forma alternativa e sostitutiva rispetto alle ordinarie sanzioni [pecuniarie e/o detentive] previste dal codice penale». Si tratterebbe, insomma, di «un trattamento giuridico sanzionatorio penale (necessariamente) irrogato in funzione retributiva, specialpreventiva, rieducativa e risocializzante nonché (eventualmente) irrogabile anche in funzione ripristinatoria e riparatoria».

Ad avviso del rimettente la fattispecie della messa alla prova, consistendo nell’offerta di una prestazione il cui adempimento integra una causa di estinzione del reato, richiama quella dell’oblazione, con la differenza, da un lato, che «la prestazione offerta consiste (non nel mero versamento di una somma di denaro predeterminata e/o obiettivamente determinabile, bensì) nella soggezione dell’imputato a vincoli ablatori e conformativi della sua sfera personale e patrimoniale la cui quantità e qualità, lungi dal recare alcuna predeterminazione normativa, deve essere determinata dal giudice sulla base delle complesse valutazioni discrezionali di merito finalizzate al cosiddetto trattamento»; dall’altro, che la declaratoria dell’esito positivo della messa alla prova implica «valutazioni di merito che trascendono di gran lunga la mera ricognizione vincolata del dato obiettivo precostituito concernente l’esatto adempimento di una mera dazione pecuniaria», sì da rivestire efficacia costitutiva e non meramente dichiarativa dell’estinzione del reato.

Ritenuto che la messa alla prova consiste in un «trattamento sanzionatorio criminale il cui positivo esito applicativo darebbe luogo alla causa di estinzione del reato», il giudice a quo osserva come, secondo il vigente ordinamento processuale e costituzionale, l’irrogazione di qualsiasi sanzione penale «postula l’indefettibile presupposto del convincimento del giudice in ordine alla responsabilità dell’imputato in relazione» al reato per cui si procede.

Ciò si desumerebbe dal tenore «dell’art. 168-bis, comma 2, c.p., che menziona le conseguenze "derivanti” dal reato: del quale, perciò stesso, letteralmente si assume l’indefettibile esigenza che risulti esaustivamente accertato non soltanto siccome commesso, ma addirittura nei suoi eventuali effetti antigiuridici diacronicamente persistenti; dalla stessa previsione dell’art. 464-quater, comma 3, c.p.p., concernente la valutazione giurisdizionale della idoneità del "programma di trattamento” da compiersi "in base ai parametri di cui all’art. 133 c.p.”: tra i quali, come è noto, figura anzitutto la gravità del reato che, perciò stesso, [si] presuppone accertato non soltanto siccome commesso, ma anche siccome valutabile in tutte le sue possibili concrete modalità fenomenologiche descritte dall’art. 133 c.p.»; nonché «dalla stessa previsione dell’art. 464-quater, comma 3, c.p.p. che, infatti, menziona la prognosi del giudice in ordine alla eventualità che l’imputato si asterrà dal commettere "ulteriori” reati: con ciò ancora una volta dando letteralmente per scontati sia l’accertamento giurisdizionale del reato per cui si procede, sia il correlato giudizio di responsabilità».

Per contro, nel procedimento con citazione diretta, in cui l’istanza ex art. 464-bis cod. proc. pen. è formulata nella fase preliminare al dibattimento, la relativa procedura si svolge allo stato degli atti del fascicolo del dibattimento, di modo che i dati cognitivi in possesso del giudice risultano di regola largamente insufficienti a fornire la plausibile rappresentazione del fatto occorrente ai fini della formulazione di un giudizio positivo di responsabilità.

Di conseguenza l’ordinanza con cui il giudice del dibattimento dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova si tradurrebbe in un «un provvedimento giurisdizionale di irrogazione di un trattamento giuridico di diritto penale criminale suscettibile di essere pronunciato sul presupposto di un convincimento di responsabilità di carattere assurdo o simulatorio poiché formulato senza cognizione degli elementi occorrenti a stabilire se alcun fatto sia avvenuto, come e da chi sia stato commesso e quale ne sia la qualificazione giuridica».

L’art. 464-quater, comma 1, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che il giudice del dibattimento, ai fini della cognizione occorrente ad ogni decisione di merito da assumere nel [procedimento speciale di messa alla prova], proceda alla acquisizione e valutazione degli atti delle indagini preliminari, restituendoli per l’ulteriore corso in caso di pronuncia negativa sulla concessione o sull’esito della messa alla prova», si porrebbe pertanto in contrasto con l’art. 3 Cost., «alla stregua del quale deve ritenersi che le enunciazioni risapute logicamente incongrue o simulatorie non possono costituire presupposto o strumento di trattamenti giuridici».

Sarebbero violati, inoltre, l’art. 111, sesto comma, Cost., non essendo assolto l’obbligo di motivazione, l’art. 25, secondo comma, Cost., «alla stregua del quale deve ritenersi che la punizione criminale può essere irrogata in ragione di un fatto previsto dalla legge come reato e non della finzione radicata sul mero fatto giuridico processuale concernente l’avvenuta contestazione del medesimo», e infine l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto un giudizio di responsabilità dell’imputato che possa giustificare l’irrogazione di una pena impone una «cognizione e valutazione del fatto criminoso storicamente avverato».

Ad avviso del Tribunale rimettente inoltre, il giudice del dibattimento non potrebbe emettere nessun giudizio in ordine all’idoneità o meno del programma di trattamento – che, secondo l’art. 464-quater, comma 3, cod. proc. pen., deve essere effettuato in base ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen. – in quanto «ignora in tutto o in parte se, come e da chi sia stato commesso» il reato oggetto di imputazione. Ancora una volta, insomma, il giudizio formulato sarebbe «illogico e/o fittizio», essendo relativo a un fatto storico ignoto.

Il giudice a quo ritiene poi non manifestamente infondata, con riferimento al principio di determinatezza delle pene sancito dal secondo comma dell’art. 25 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 168-bis, secondo e terzo comma, cod. pen.

In particolare, ad avviso del rimettente, le norme censurate prescriverebbero sanzioni indeterminate sul piano qualitativo, in quanto il trattamento a cui l’imputato viene sottoposto potrebbe risolversi in vincoli conformativi e ablatori della libertà personale di diversa intensità, implicanti, «per le loro concrete determinazioni oggettuali e/o modali e/o temporali, […] risultati afflittivi e restrittivi della sfera giuridica dell’imputato di intensità paragonabile o magari anche superiore a quella delle stesse pene edittali previste dalla legge in relazione al reato per cui si procede».

L’indeterminatezza del trattamento applicabile in sede di messa alla prova sussisterebbe anche sul piano quantitativo, ossia con riferimento alla sua misura temporale.

Poiché l’art. 168-bis, terzo comma, cod. pen. prevede che «il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione [...] di durata non inferiore a dieci giorni», il trattamento in cui consiste la messa alla prova risulta «determinato soltanto in relazione alla sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità nonché, per quest’ultima, soltanto nella parametrazione legale minima (dieci giorni); mentre in relazione alla misura alternativa dell’affidamento al servizio sociale risulta totalmente carente di qualsiasi determinazione legale».

Né, ad avviso del giudice a quo, questa «indeterminatezza legale» potrebbe essere colmata mediante il ricorso all’applicazione analogica dell’art. 464-quater, comma 5, cod. proc. pen., che stabilisce soltanto la durata massima della sospensione del procedimento conseguente alla messa alla prova, o dell’art. 657-bis cod. proc. pen., che stabilisce soltanto i criteri di ragguaglio applicabili in sede di determinazione della pena da espiare nel caso di esito negativo della prova. Ciò, sia per difetto del presupposto dell’eadem ratio, sia per il principio costituzionale di tassatività delle pene.

Peraltro, «facendosi riferimento all’art. 464-quater, comma 5, c.p.p., l’imputato non potrebbe essere assoggettato ad un trattamento di durata superiore ai due anni, ad onta di ogni possibile profilo di gravità del reato e di intensità delle correlate esigenze di […] trattamento; mentre per converso, facendosi riferimento all’art. 657-bis c.p.p., si dovrebbe ammettere la ipotizzabilità di sanzioni di messa alla prova suscettibili di durata protratta per decenni».

L’ordinanza di rimessione censura anche l’art. 464-quater, comma 4, cod. proc. pen., «nella parte in cui prevede il consenso dell’imputato quale condizione meramente potestativa di efficacia del provvedimento giurisdizionale recante modificazione o integrazione del programma di trattamento».

Qualora, nel verificare l’idoneità del programma di trattamento delineato dall’ufficio di esecuzione penale esterna, ritenga che lo stesso non sia esaustivamente delineato (come nel caso di specie), o comunque non lo condivida integralmente, il giudice può modificarlo o integrarlo solamente con il consenso dell’imputato; perciò secondo il Tribunale rimettente la norma censurata delinea «una fattispecie processuale che contempla, in funzione di atto definitorio di una subprocedura penale, (non alcuna decisione legalmente impugnabile emessa dal giudice in ordine alle domande delle parti, bensì) la decisione legalmente inoppugnabile emessa da una delle parti in ordine alle determinazioni del giudice».

Ciò contrasterebbe con l’art. 101 Cost., in quanto «rimette alla volontà dell’imputato la capacità sovrana di integrare la condizione meramente potestativa cui resta indiscutibilmente subordinato ogni profilo di efficacia formale ed utilità sostanziale del provvedimento giurisdizionale di messa alla prova nonché [...] dell’intera procedura già celebrata strumentalmente alla pronuncia del medesimo».

Inoltre, la norma censurata violerebbe «i principi costituzionali di buon andamento ed efficienza delle attività dei pubblici poteri (art. 97 Cost.) [e] i principi di economicità e ragionevole durata del processo penale (art. 111 comma 2 Cost.)», nella misura in cui stabilisce lo svolgimento di incombenti paragiudiziari e giudiziari che, «senza riguardo al dispendio di tempi e risorse processuali all’uopo occorrenti, […] devono essere immediatamente disimpegnati dai competenti pubblici uffici (prima l’ufficio esecuzione penale esterna e poi il giudice procedente) per il solo fatto che ne faccia richiesta la medesima parte processuale al cui mero insindacabile beneplacito, contestualmente, si attribuisce anche la prerogativa di deciderne a posteriori la sorte: ossia il potere di stabilire a piacimento [se], una volta che tali attività abbiano avuto luogo, […] siano state compiute o meno soltanto a titolo di dissipazione di tempi processuali e denari pubblici».

Da ultimo il giudice a quo ritiene non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., «in quanto prevedono la irrogazione ed espiazione di sanzioni penali senza che risulti pronunciata né di regola pronunciabile alcuna condanna definitiva o non definitiva».

Ritenendo che con l’ordinanza che dispone la messa alla prova l’imputato venga assoggettato a una pena, l’ordinanza di rimessione sottolinea come ciò avvenga «sempre e soltanto sulla base del mero titolo esecutivo provvisorio», senza che sia intervenuta alcuna pronuncia di condanna ancorché non definitiva.

Peraltro se la prova ha esito positivo si ha una declaratoria dell’estinzione del reato, che «elide in radice la stessa possibilità che alcuna condanna possa intervenire finanche dopo cotale espiazione della pena».

Le norme censurate, quindi, violerebbero l’art. 27, secondo comma, Cost., «poiché stabiliscono non tanto una violazione, quanto una radicale negazione della garanzia formale racchiusa nel principio secondo cui l’imputato non può essere considerato e tantomeno trattato come colpevole sino alla condanna penale definitiva», senza che vi sia alcuna contrapposta «esigenz[a] di tutela di valori» di dignità costituzionale pari o superiore.

Ad avviso del Tribunale rimettente, non sarebbe possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme censurate, le quali comporterebbero una serie di adempimenti formali, che impegnano risorse e attività non inferiori a quelle occorrenti per la celebrazione del giudizio ordinario, peraltro in funzione di mere «utilità erariali» (sfollamento penitenziario e deflazione processuale).

Nonostante si possa «ammettere che il giudice, ogni qual volta i dati cognitivi risultanti dal fascicolo del dibattimento [risultino] insufficienti ai fini delle decisioni da adottare sul merito della procedura di messa alla prova», debba procedere all’istruzione dibattimentale «al solo scopo di assumere le prove occorrenti alla decisione sulla istanza di messa alla prova e sulla idoneità del programma di trattamento», sarebbe contraddittoria la previsione di un rito speciale alternativo al dibattimento che «comporta lo svolgimento delle medesime attività».

Ugualmente insuscettibili di interpretazione conforme sarebbero gli artt. 168-bis cod. pen. e 464-bis cod. proc. pen.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili e comunque infondate.

L’Avvocatura dello Stato ha eccepito l’inammissibilità della prima questione perché il Tribunale rimettente avrebbe omesso «qualsiasi riferimento, nei vari casi sottoposti al suo vaglio, alla effettiva necessità di una integrazione degli atti del fascicolo del dibattimento al fine di decidere». In particolare non sarebbero stati indicati gli atti presenti nei fascicoli del dibattimento e le «carenze cognitive che, in ognuna delle fattispecie concrete, impedirebbero di valutare la responsabilità per i fatti contestati».

L’ordinanza di rimessione non «argoment[erebbe] nemmeno circa l’eventuale accordo delle parti all’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero», che, se intervenuto, «sarebbe in sé sufficiente ad eliminare ogni rilevanza alla questione di cui si tratta».

Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato anche la terza questione sollevata sarebbe inammissibile per omessa motivazione in ordine alla rilevanza nel giudizio a quo, in quanto l’ordinanza di rimessione non conterrebbe indicazioni «riguardo all’intervenuta integrazione o modifica del programma di trattamento ed alla consequenziale manifestazione di consenso da parte dell’interessato».

Le questioni sarebbero inoltre inammissibili perché il Tribunale rimettente non ha previamente sperimentato un’interpretazione costituzionalmente orientata.

Nel merito le questioni sarebbero infondate perché se i dati risultanti dal fascicolo del dibattimento fossero insufficienti il giudice potrebbe procedere all’istruzione dibattimentale. Peraltro le lacune lamentate dal rimettente potrebbero essere «colmate attraverso l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, ex articolo 431, comma 2, c.p.p., risultando quanto meno improbabile un interesse contrario delle parti».

L’art. 464-quater, comma 3, cod. proc. pen. indica poi i parametri ai quali il giudice deve attenersi nella valutazione della idoneità del programma di trattamento e della sua efficacia riabilitativa e dissuasiva. È sulla base di questo programma che il giudice è tenuto a stabilire «la durata della messa alla prova e il termine entro il quale l’imputato [dovrà] adempiere alle prescrizioni riparatorie e risarcitorie nonché alla prestazione del lavoro di pubblica utilità».

Comunque la durata della messa alla prova e quindi delle relative prescrizioni non può eccedere quella della sospensione del procedimento ex art. 464-quater cod. proc. pen. e la durata minima del lavoro di pubblica utilità è fissata dall’art. 168-bis cod. pen.; inoltre il decreto del Ministro della giustizia 8 giugno 2015, n. 88 (Regolamento recante disciplina delle convenzioni in materia di pubblica utilità ai fini della messa alla prova dell’imputato, ai sensi dell’articolo 8 della legge 28 aprile 2014, n. 67) ha specificato caratteristiche, requisiti e modalità attuative del lavoro di pubblica utilità. Non vi sarebbero quindi «sanzioni penali non legalmente determinabili» da applicare.

Infine l’Avvocatura dello Stato ha osservato che l’istituto della messa alla prova, già sperimentato nel nostro ordinamento in ambito minorile, persegue, accanto a scopi deflativi, una funzione riparatoria e risocializzante, che presuppone «una convinta adesione al programma da parte dell’imputato, la cui volontà gioca un ruolo decisivo in vista del positivo esito del percorso di trattamento. La subordinazione dell’efficacia delle pronunce del giudice al consenso dell’imputato trova, dunque, ampia giustificazione nell’esigenza di attuare il principio costituzionale della finalità rieducativa e di reinserimento sociale della pena».

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 16 dicembre 2016 (r.o. n. 81 del 2017), il Tribunale ordinario di Grosseto, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111, sesto comma, 25, secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater, comma 1, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che il giudice del dibattimento, ai fini della cognizione occorrente ad ogni decisione di merito da assumere nel [procedimento speciale di messa alla prova], proceda alla acquisizione e valutazione degli atti delle indagini preliminari restituendoli per l’ulteriore corso in caso di pronuncia negativa sulla concessione o sull’esito della messa alla prova».

Con la medesima ordinanza il giudice a quo ha sollevato, in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., una questione di legittimità costituzionale dell’art. 168-bis, secondo e terzo comma, del codice penale, «in quanto prevede la applicazione di sanzioni penali non legalmente determinabili».

Il Tribunale rimettente dubita inoltre, in riferimento all’art. 27, secondo comma, Cost., della legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., «in quanto prevedono la irrogazione ed espiazione di sanzioni penali senza che risulti pronunciata né di regola pronunciabile alcuna condanna definitiva o non definitiva».

Infine il Tribunale rimettente, in riferimento agli artt. 97, 101 e 111, secondo comma, Cost., ha sollevato anche questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater, comma 4, cod. proc. pen., «nella parte in cui prevede il consenso dell’imputato quale condizione meramente potestativa di efficacia del provvedimento giurisdizionale recante modificazione o integrazione del programma di trattamento».

2.– L’Avvocatura dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater, comma 1, cod. proc. pen., in quanto il Tribunale rimettente avrebbe omesso «qualsiasi riferimento, nei vari casi sottoposti al suo vaglio, alla effettiva necessità di una integrazione degli atti del fascicolo del dibattimento al fine di decidere». In particolare non sarebbero stati indicati gli atti presenti nei fascicoli del dibattimento dei procedimenti riuniti e le «carenze cognitive che, in ognuna delle fattispecie concrete, impedirebbero di valutare la responsabilità per i fatti contestati».

L’ordinanza di rimessione, inoltre, non argomenterebbe «circa l’eventuale accordo delle parti all’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero», che, se intervenuto, «sarebbe in sé sufficiente ad eliminare ogni rilevanza all[e] question[i] di cui si tratta».

L’eccezione non è fondata.

Il giudice a quo infatti ha chiarito che «ciascuno dei fascicoli per il dibattimento concernenti le fattispecie sostanziali dedotte nei procedimenti penali presupposti, in ragione dello stadio processuale in cui la procedura di messa alla prova è stata attivata […] e della composizione del fascicolo legalmente prescritta in tale stadio […], non contiene la rappresentazione del benché minimo elemento di prova occorrente all’accertamento ed alla valutazione, neppure in forma di delibazione sommaria, della fondatezza dell’accusa sotto alcun profilo oggettivo e soggettivo». Da qui l’impossibilità, a suo avviso, di stabilire «se [il] fatto [contestato] sussista, con quante e quali modalità di cui all’art. 133 c.p. sia stato commesso, da chi sia stato commesso, se costituisca reato, se sia previsto dalla legge come reato ed infine se, a quali condizioni e a quale titolo dia luogo ad un reato punibile».

3.– Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, anche le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater, comma 4, cod. proc. pen. sarebbero inammissibili per un difetto di motivazione sulla rilevanza nel giudizio a quo, in quanto l’ordinanza di rimessione non offrirebbe alcuna descrizione «riguardo all’intervenuta integrazione o modifica del programma di trattamento ed alla consequenziale manifestazione di consenso da parte dell’interessato».

Anche questa eccezione è priva di fondamento.

Il rimettente infatti ha chiarito che, nel caso di accoglimento delle istanze di messa alla prova, dovrebbe procedere ad integrare i programmi di trattamento presentati dagli imputati, così sottoponendo il relativo provvedimento alla «condizione sospensiva di efficacia identificata nel "consenso dell’imputato”», dal momento che nessuno di essi «contiene la determinazione quantitativa delle sanzioni ivi prefigurate», essendo stati redatti in modo incompleto, mediante la compilazione di un modulo.

L’ordinanza di rimessione quindi, al contrario di quanto asserisce l’Avvocatura dello Stato, contiene un’adeguata motivazione sulla lacunosità dei programmi di trattamento e sulla necessità di una loro integrazione, consentendo così a questa Corte il necessario controllo sulla rilevanza delle questioni sollevate.

4.– Infine l’Avvocatura dello Stato ha sostenuto che le questioni sollevate sono inammissibili anche perché il Tribunale rimettente non ha previamente sperimentato un’interpretazione costituzionalmente orientata.

Con riferimento alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater, comma 1, cod. proc. pen. l’eccezione è fondata.

Il Tribunale rimettente ha censurato questa disposizione «nella parte in cui non prevede che il giudice del dibattimento, ai fini della cognizione occorrente ad ogni decisione di merito da assumere nel [procedimento speciale di messa alla prova], proceda alla acquisizione e valutazione degli atti delle indagini preliminari restituendoli per l’ulteriore corso in caso di pronuncia negativa sulla concessione o sull’esito della messa alla prova».

Nei casi oggetto dei procedimenti a quibus si procede con citazione diretta e, poiché la richiesta ex art. 464-bis cod. proc. pen. deve essere formulata prima dell’apertura del dibattimento, il Tribunale rimettente ha rilevato che i pochi atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento risultano largamente insufficienti a fornire la plausibile rappresentazione del fatto occorrente ai fini della formulazione di un giudizio positivo di responsabilità. Di conseguenza un’ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova pronunciata sulla base di quegli atti si tradurrebbe in «un provvedimento giurisdizionale di irrogazione di un trattamento giuridico di diritto penale criminale suscettibile di essere pronunciato sul presupposto di un convincimento di responsabilità di carattere assurdo o simulatorio poiché formulato senza cognizione degli elementi occorrenti a stabilire se alcun fatto sia avvenuto, come e da chi sia stato commesso e quale ne sia la qualificazione giuridica».

La norma censurata si porrebbe pertanto in contrasto con l’art. 3 Cost., «alla stregua del quale deve ritenersi che le enunciazioni risapute logicamente incongrue o simulatorie non possono costituire presupposto o strumento di trattamenti giuridici».

Sarebbero violati inoltre l’art. 111, sesto comma, Cost., non essendo assolto l’obbligo di motivazione, l’art. 25, secondo comma, Cost., «alla stregua del quale deve ritenersi che la punizione criminale può essere irrogata in ragione di un fatto previsto dalla legge come reato e non della finzione radicata sul mero fatto giuridico processuale concernente l’avvenuta contestazione del medesimo», ed infine l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto il giudizio di responsabilità dell’imputato che possa giustificare l’irrogazione di una pena impone una «cognizione e valutazione del fatto criminoso storicamente avverato».

Ciò posto il Tribunale rimettente ha escluso di poter conferire alla disposizione censurata un significato compatibile con i principi costituzionali, in quanto ciò imporrebbe di «ammettere che il giudice, ogni qual volta i dati cognitivi risultanti dal fascicolo del dibattimento [risultino] insufficienti ai fini delle decisioni da adottare sul merito della procedura di messa alla prova», proceda all’istruzione dibattimentale «al solo scopo di assumere le prove occorrenti alla decisione sull’istanza di messa alla prova e sulla idoneità del programma di trattamento». Però un simile modo di operare sarebbe in contrasto con la ratio di un rito speciale alternativo al dibattimento, perché comporterebbe «lo svolgimento delle medesime attività» dibattimentali e, quindi, frustrerebbe le finalità di deflazione processuale.

Perciò non sarebbe possibile dare alla disposizione un’interpretazione costituzionalmente orientata.

Questa dunque è la conclusione del giudice a quo, che però non ha verificato compiutamente se, pur in assenza di una specifica disposizione in tal senso, gli sia ugualmente consentito, ai soli fini della decisione sulla richiesta di messa alla prova, prendere visione degli atti del fascicolo del pubblico ministero. Egli infatti non ha considerato l’art. 135 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale) e la possibilità di una sua applicazione analogica nel caso in esame.

Con riferimento al patteggiamento l’art. 135 norme att. cod. proc. pen. stabilisce che «[il] giudice, per decidere sulla richiesta di applicazione della pena rinnovata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, ordina l’esibizione degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero. Se la richiesta è accolta, gli atti esibiti vengono inseriti nel fascicolo per il dibattimento; altrimenti gli atti sono immediatamente restituiti al pubblico ministero».

La giurisprudenza di legittimità ha considerato questo articolo applicabile in via analogica anche nel caso in cui l’imputato rinnovi, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, una richiesta condizionata di giudizio abbreviato, già respinta dal giudice per le indagini preliminari (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 ottobre 2004, n. 44711), e la dottrina ne ha ritenuto l’applicabilità anche nei casi di richiesta di un rito speciale presentata nell’udienza di comparizione, a seguito di citazione diretta ex art. 555 cod. proc. pen.; tra i riti speciali è ora compreso anche quello di messa alla prova.

Del resto gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero sono di regola sottratti alla cognizione dibattimentale, ma se non si deve procedere al dibattimento non c’è ragione di impedirne la conoscenza al giudice quando ciò è necessario ai soli fini della decisione su tale richiesta. Il fatto che ciò non sia espressamente previsto non significa che sia vietato, sicché anche sotto questo aspetto può ritenersi che non occorra a tal fine una specifica disposizione o, come è stato sostenuto dal giudice a quo, un’apposita pronuncia di illegittimità costituzionale.

Deve quindi concludersi che il Tribunale rimettente non ha compiuto un accurato esame delle opzioni interpretative rese possibili dal contesto normativo in cui si colloca la norma censurata.

Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater, comma 1, cod. proc. pen. sono allora inammissibili, perché sono state poste senza tenere conto della praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, diversa da quella prospettata e coerente con la cornice normativa in cui la norma si colloca.

In base alla costante giurisprudenza costituzionale infatti lo scrutinio nel merito della questione sollevata è precluso dalla mancata o inadeguata sperimentazione, da parte del giudice a quo, della possibilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei prospettati dubbi di legittimità costituzionale e tale da determinare il loro superamento o da renderli comunque non rilevanti nel procedimento a quo (sentenze n. 253 e n. 45 del 2017; ordinanze n. 97 e n. 58 del 2017).

5.– Le altre questioni di legittimità costituzionale sollevate dall’ordinanza di rimessione non sono fondate.

6.– Hanno carattere logicamente pregiudiziale le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., in riferimento all’art. 27, secondo comma, Cost., sollevate in quanto ad avviso del Tribunale rimettente le disposizioni censurate «prevedono la irrogazione ed espiazione di sanzioni penali senza che risulti pronunciata né di regola pronunciabile alcuna condanna definitiva o non definitiva».

Ritenendo che con il provvedimento che dispone la messa alla prova l’imputato sia assoggettato a una pena, l’ordinanza di rimessione sottolinea come ciò avvenga «sempre e soltanto sulla base del mero titolo esecutivo provvisorio», senza che sia intervenuta alcuna pronuncia di condanna ancorché non definitiva. Perciò le norme censurate violerebbero l’art. 27, secondo comma, Cost., visto che «stabiliscono non tanto una violazione, quanto una radicale negazione della garanzia formale racchiusa nel principio secondo cui l’imputato non può essere considerato e tantomeno trattato come colpevole sino alla condanna penale definitiva», senza che vi sia alcuna contrapposta «esigenz[a] di tutela di valori» di dignità costituzionale pari o superiore.

In realtà però la situazione risultante dall’applicazione delle norme in questione è diversa.

Infatti, se è vero che nel procedimento di messa alla prova manca una condanna, è anche vero che correlativamente manca un’attribuzione di colpevolezza: nei confronti dell’imputato e su sua richiesta (non perché è considerato colpevole), in difetto di un formale accertamento di responsabilità, viene disposto un trattamento alternativo alla pena che sarebbe stata applicata nel caso di un’eventuale condanna.

Con riferimento alla mancanza di un formale accertamento di responsabilità e di una specifica pronuncia di condanna, la sospensione del procedimento con messa alla prova può essere assimilata all’applicazione della pena su richiesta delle parti (cosiddetto patteggiamento: art. 444 cod. proc. pen.), perché entrambi i riti speciali si basano sulla volontà dell’imputato che, non contestando l’accusa, in un caso si sottopone al trattamento e nell’altro accetta la pena. Per queste caratteristiche anche il patteggiamento è stato sospettato di illegittimità costituzionale, sostenendosene il contrasto con la presunzione di non colpevolezza contenuta nell’art. 27, secondo comma, Cost., ma questa Corte con più decisioni ha ritenuto la questione priva di fondamento (sentenza n. 313 del 1990; ordinanza n. 399 del 1997).

In particolare è stato escluso che nel procedimento previsto dall’art. 444 cod. proc. pen. «vi sia un sostanziale capovolgimento dell’onere probatorio, contrastante con la presunzione d’innocenza contenuta nell’art. 27, secondo comma, della Costituzione». In effetti – ha aggiunto la Corte – nel nuovo ordinamento giuridico-processuale «è preponderante l’iniziativa delle parti nel settore probatorio: ma ciò non immuta affatto i principi, nemmeno nello speciale procedimento in esame, dove anzi il giudice è in primo luogo tenuto ad esaminare ex officio se sia già acquisita agli atti la prova che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso. Dopodiché, risultando negativa questa prima verifica, se l’imputato ritiene di possedere elementi per l’affermazione della propria innocenza, nessuno lo obbliga a richiedere l’applicazione di una pena, ed egli ha a disposizione le garanzie del rito ordinario. In altri termini, chi chiede l’applicazione di una pena vuol dire che rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l’accusa, senza che ciò significhi violazione del principio di presunzione d’innocenza, che continua a svolgere il suo ruolo fino a quando non sia irrevocabile la sentenza» (sentenza n. 313 del 1990).

Invero la possibilità di chiedere i riti speciali, e in particolare il patteggiamento o la messa alla prova, costituisce, come generalmente si ritiene, una delle facoltà difensive e appare illogico considerare costituzionalmente illegittimi per la violazione delle garanzie riconosciute all’imputato questi procedimenti che sono diretti ad assicurargli un trattamento più vantaggioso di quello del rito ordinario.

7.– Per giungere alla conclusione dell’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., in riferimento all’art. 27 Cost., sarebbe sufficiente richiamare gli argomenti già utilizzati da questa Corte per decidere la questione relativa al patteggiamento, per vari aspetti analoga. Tuttavia anche altri e assai consistenti argomenti orientano in tal senso e valgono a dimostrare ulteriormente l’infondatezza delle altre due questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice a quo.

La messa alla prova, anche se può assimilarsi al patteggiamento per la base consensuale del procedimento e del conseguente trattamento, presenta aspetti che da questo la differenziano, al punto, come si vedrà, da non consentire un riferimento nei termini tradizionali alle categorie costituzionali penali e processuali, perché il carattere innovativo della messa alla prova «segna un ribaltamento dei tradizionali sistemi di intervento sanzionatorio» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 31 marzo 2016, n. 36272).

Come hanno riconosciuto le sezioni unite della Corte di cassazione, «[q]uesta nuova figura, di ispirazione anglosassone, realizza una rinuncia statuale alla potestà punitiva condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata e assistita e si connota per una accentuata dimensione processuale, che la colloca nell’ambito dei procedimenti speciali alternativi al giudizio (Corte cost., n. 240 del 2015). Ma di essa va riconosciuta, soprattutto, la natura sostanziale. Da un lato, nuovo rito speciale, in cui l’imputato che rinuncia al processo ordinario trova il vantaggio di un trattamento sanzionatorio non detentivo; dall’altro, istituto che persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene "infranta” la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto» (Cass., sez. un., n. 36272 del 2016).

Da qui la differenza tra l’istituto in esame e il patteggiamento, in quanto la sentenza che dispone l’applicazione della pena su richiesta delle parti, «pur non potendo essere pienamente identificata con una vera e propria sentenza di condanna (cfr. sentenza n. 251 del 1991), è tuttavia a questa "equiparata” ex art. 445 del codice di procedura penale» (ordinanza n. 73 del 1993) e conduce all’irrogazione della pena prevista per il reato contestato, anche se diminuita fino a un terzo, mentre l’esito positivo della prova conduce ad una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato.

Inoltre la sentenza di patteggiamento costituisce un titolo esecutivo per l’applicazione di una sanzione tipicamente penale, mentre l’ordinanza che dispone la sospensione del processo e ammette l’imputato alla prova non costituisce un titolo per dare esecuzione alle relative prescrizioni. Il trattamento programmato non è infatti una sanzione penale, eseguibile coattivamente, ma dà luogo a un’attività rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell’imputato, il quale liberamente può farla cessare con l’unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso.

Si tratta di una caratteristica fondamentale, perché viene riservata alla volontà dell’imputato non soltanto la decisione sulla messa alla prova, ma anche la sua esecuzione.

In questa struttura procedimentale tuttavia non manca, in via incidentale e allo stato degli atti (perché l’accertamento definitivo è rimesso all’eventuale prosieguo del giudizio, nel caso di esito negativo della prova), una considerazione della responsabilità dell’imputato, posto che il giudice, in base all’art. 464-quater, comma 1, cod. proc. pen., deve verificare che non ricorrono le condizioni per «pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’articolo 129» cod. proc. pen., e anche a tale scopo può esaminare gli atti del fascicolo del pubblico ministero, deve valutare la richiesta dell’imputato, eventualmente disponendone la comparizione (art. 464-quater, comma 2, cod. proc. pen.), e, se lo ritiene necessario, può anche acquisire ulteriori informazioni, in applicazione dell’art. 464-bis, comma 5, cod. proc. pen.

Così ricostruite le caratteristiche del nuovo istituto, deve concludersi che le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen. in riferimento all’art. 27, secondo comma, Cost. sono prive di fondamento.

8.– Una terza questione di legittimità costituzionale investe il secondo e il terzo comma dell’art. 168-bis cod. pen., che violerebbero l’art. 25, secondo comma, Cost., «nella parte in cui sancisce il principio di tassatività e determinatezza legale delle pene», in quanto prescriverebbero sanzioni indeterminate sia sul piano qualitativo, potendo il trattamento a cui l’imputato viene sottoposto risolversi in vincoli conformativi e ablatori della libertà personale di diversa intensità, sia sul piano quantitativo, ossia con riferimento alla sua misura temporale. Infatti, «nel disegno legislativo che definisce il procedimento speciale [di messa alla prova], le determinazioni qualitative e quantitative concernenti il trattamento sanzionatorio penale applicabile [sarebbero] rimesse alla libera scelta delle autorità procedenti (prima l’ufficio locale di esecuzione penale che predispone il programma di trattamento, e poi il giudice che tale programma convalida o modifica)».

Quanto alla misura temporale degli elementi del trattamento, va considerato che, anche se le norme censurate non lo specificano, la durata massima del lavoro di pubblica utilità «risulta indirettamente dall’art. 464-quater, comma 5, cod. proc. pen. perché, in mancanza di una sua diversa determinazione, corrisponde necessariamente alla durata della sospensione del procedimento, la quale non può essere: "a) superiore a due anni quando si procede per reati per i quali è prevista una pena detentiva, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria; b) superiore a un anno quando si procede per reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria”» (ordinanza n. 54 del 2017), e per determinare in concreto tale durata il giudice «deve tenere conto dei criteri previsti dall’art. 133 cod. pen. e delle caratteristiche che dovrà avere la prestazione lavorativa» (ordinanza n. 54 del 2017).

Analoghe considerazioni valgono per la durata massima dell’affidamento in prova al servizio sociale.

Quanto agli aspetti qualitativi va considerato che un programma di trattamento per sua natura può essere determinato legislativamente solo attraverso l’indicazione dei tipi di condotta che ne possono formare oggetto, rimettendone la specificazione, come infatti è avvenuto, all’ufficio di esecuzione penale esterna e al giudice, con il consenso dell’imputato.

Il trattamento per sua natura è caratterizzato dalla finalità specialpreventiva e risocializzante che deve perseguire e deve perciò essere ampiamente modulabile, tenendo conto della personalità dell’imputato e dei reati oggetto dell’imputazione, sicché, considerata anche la sua base consensuale, non se ne può prospettare l’insufficiente determinatezza in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost.

Come questa Corte ha già rilevato, «la normativa sulla sospensione del procedimento con messa alla prova comporta una diversificazione dei contenuti, prescrittivi e di sostegno, del programma di trattamento, con l’affidamento al giudice di "un giudizio sull’idoneità del programma, quindi sui contenuti dello stesso, comprensivi sia della parte ‘afflittiva’ sia di quella ‘rieducativa’, in una valutazione complessiva circa la rispondenza del trattamento alle esigenze del caso concreto, che presuppone anche una prognosi di non recidiva” (Sezioni unite, 31 marzo 2016, n. 33216)» (ordinanza n. 54 del 2017).

Emerge perciò in modo chiaro l’inconferenza del riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost.

9.– Infine, secondo il giudice a quo l’art. 464-quater, comma 4, cod. proc. pen. si porrebbe in contrasto con l’art. 101 Cost., in quanto «rimette alla volontà dell’imputato la capacità sovrana di integrare la condizione meramente potestativa cui resta indiscutibilmente subordinato ogni profilo di efficacia formale ed utilità sostanziale del provvedimento giurisdizionale di messa alla prova nonché [...] dell’intera procedura già celebrata strumentalmente alla pronuncia del medesimo».

La norma censurata contrasterebbe altresì sia con «i principi costituzionali di buon andamento ed efficienza delle attività dei pubblici poteri (art. 97 Cost.) sia con i principi di economicità e ragionevole durata del processo penale (art. 111 comma 2 Cost.)», nella misura in cui stabilisce lo svolgimento di attività paragiudiziarie e giudiziarie che, «senza riguardo al dispendio di tempi e risorse processuali all’uopo occorrenti, […] devono essere immediatamente disimpegnat[e] dai competenti pubblici uffici (prima l’ufficio esecuzione penale esterna e poi il giudice procedente) per il solo fatto che ne faccia richiesta la medesima parte processuale al cui mero insindacabile beneplacito, contestualmente, si attribuisce anche la prerogativa di deciderne a posteriori la sorte: ossia il potere di stabilire a piacimento [se], una volta che tali attività abbiano avuto luogo, […] siano state compiute o meno soltanto a titolo di dissipazione di tempi processuali e denari pubblici».

Si tratta ancora una volta di questioni non fondate.

Basandosi l’istituto della messa alla prova sulla richiesta dell’imputato, che allega il programma di trattamento fatto elaborare dall’ufficio di esecuzione penale esterna, è evidente che ogni integrazione o modificazione di questo programma ritenuta necessaria dal giudice richiede il consenso dell’imputato.

Qualora infatti il giudice consideri il programma proposto inidoneo a perseguire le finalità del trattamento, l’imputato deve poter scegliere se accettare le integrazioni o le modificazioni indicate oppure proseguire il giudizio nelle forme ordinarie: ciò non menoma le prerogative dell’autorità giudiziaria e non integra quindi la violazione dell’art. 101 Cost., dato che la facoltà è conforme al modello legale del procedimento.

Invero, come è già stato rilevato da questa Corte, l’integrità delle attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria «non è violata quando il legislatore ordinario non tocca la potestà di giudicare, ma opera sul piano generale ed astratto delle fonti, costruendo il modello normativo cui la decisione del giudice deve riferirsi (sentenze n. 170 del 2008 e n. 432 del 1997; ordinanza n. 263 del 2002)» (sentenza n. 303 del 2011).

Perciò con la disposizione censurata il legislatore non ha violato la sfera riservata al potere giudiziario, perché, subordinando le integrazioni e le modificazioni del programma di trattamento al consenso dell’imputato, ha legittimamente ricollegato l’accesso al procedimento speciale a un accadimento processuale (il consenso, appunto) naturalmente rimesso a una parte del processo.

Anche con riferimento all’art. 97 Cost. la questione è infondata, data l’inconferenza del parametro evocato; infatti, per costante giurisprudenza costituzionale, «il principio del buon andamento è riferibile all’amministrazione della giustizia soltanto per quanto attiene all’organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari, non all’attività giurisdizionale in senso stretto» (ordinanza n. 84 del 2011; in tal senso, sentenze n. 65 del 2014 e n. 272 del 2008; ordinanza n. 408 del 2008).

È infine infondata anche la censura di violazione dell’art. 111, secondo comma, Cost., in quanto la disposizione censurata, oltre ad essere funzionale alle peculiari caratteristiche dell’istituto in esame, non comporta, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo, alcun dispendio di tempi e risorse processuali. Il consenso infatti è richiesto per le integrazioni e le modificazioni che il giudice ritenga di apportare prima della sospensione del procedimento e dell’ammissione alla prova dell’imputato, e quindi prima che sia svolta qualsivoglia attività processuale.

Peraltro, in relazione al principio di ragionevole durata del processo, la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente affermato che – «alla luce dello stesso richiamo al connotato di "ragionevolezza”, che compare nella formula costituzionale – possono arrecare un vulnus a quel principio solamente le norme "che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza” (ex plurimis, sentenze n. 23 del 2015, n. 63 e n. 56 del 2009, n. 148 del 2005)» (sentenza n. 12 del 2016). E non è questo il caso in esame, dato che la norma censurata è necessitata dalla struttura del rito speciale, che si basa sulla volontà dell’imputato ed è diretto, tra l’altro, a semplificare il procedimento, riducendone anche i tempi.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater, comma 1, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 111, sesto comma, 25, secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Grosseto, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., sollevate, in riferimento all’art. 27, secondo comma, Cost., dal medesimo Tribunale, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 168-bis, secondo e terzo comma, del codice penale, sollevata, in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., dal medesimo Tribunale, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater, comma 4, cod. proc. pen., sollevate, in riferimento agli artt. 97, 101 e 111, secondo comma, Cost., dal medesimo Tribunale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente e Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 aprile 2018.