Ordinanza n. 237 del 2016

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ORDINANZA N. 237

ANNO 2016

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo                           GROSSI                                           Presidente

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                    Giudice

-           Giorgio                        LATTANZI                                              ”

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

-           Giuliano                       AMATO                                                   ”

-           Silvana                         SCIARRA                                                ”

-           Daria                            de PRETIS                                               ”

-           Nicolò                          ZANON                                                   ”

-           Franco                         MODUGNO                                            ”

-           Augusto Antonio       BARBERA                                              ”

-           Giulio                          PROSPERETTI                                        ”

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater, commi 1 e 4, e            464-quinquies, del codice di procedura penale, e dell’art. 168-bis, secondo e terzo comma, del codice penale, promossi dal Tribunale ordinario di Grosseto, con tre ordinanze del 10 marzo 2015, rispettivamente iscritte ai nn. 157, 158 e 159 del registro ordinanze 2015 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 settembre 2016 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto che, con tre ordinanze del 10 marzo 2015 di identico contenuto (r.o. nn. 157, 158 e 159 del 2015), il Tribunale ordinario di Grosseto ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111, sesto comma, 25, secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater, comma 1, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che il giudice, ai fini di ogni decisione di merito da assumere nel procedimento speciale di messa alla prova, proceda alla acquisizione e valutazione degli atti delle indagini preliminari di cui già altrimenti non disponga, restituendoli per l’ulteriore corso nel caso di esito negativo della pronuncia sulla concessione o sull’esito della messa alla prova»;

che, con le medesime ordinanze, il Tribunale rimettente ha sollevato, in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., una seconda questione di legittimità costituzionale dell’art. 168-bis, secondo e terzo comma, del codice penale, «in quanto prescrive la applicazione di sanzioni penali legalmente indeterminate», nonché, in riferimento agli artt. 97, 101 e 111, secondo comma, Cost., una terza questione di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater, comma 4, cod. proc. pen., «nella parte in cui prevede il consenso dell’imputato quale condizione di ammissibilità, di validità o di efficacia dei provvedimenti giurisdizionali modificativi o integrativi del programma di trattamento»;

che infine il Tribunale rimettente ha sollevato, in riferimento all’art. 27, secondo comma, Cost., una quarta questione di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., «in quanto prescrivono la irrogazione ed esecuzione di sanzioni penali consequenziali ad un reato per cui non risulta pronunciata né di regola pronunciabile alcuna condanna definitiva o non definitiva»;

che il Tribunale rimettente in tre distinti giudizi procede nei confronti di persone imputate del reato di cui all’art. 186 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) (r.o. n. 157 del 2015), del reato di cui agli artt. 110, 112, primo comma, numero 4), 624 e 625, primo comma, numeri 2), 5) e 7), cod. pen. (r.o. n. 158 del 2015), e dei reati di cui all’art. 187 del d.lgs. n. 285 del 1992 e all’art. 651 cod. pen. (r.o. n. 159 del 2015);

che gli imputati hanno chiesto, ai sensi dell’art. 464-bis cod. proc. pen., la sospensione del procedimento con messa alla prova;

che, ricostruita la disciplina dell’istituto della messa alla prova, introdotto dalla legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), e ritenuto che la messa alla prova consista in un «trattamento sanzionatorio criminale il cui positivo esito applicativo darebbe luogo alla causa di estinzione del reato», il Tribunale rimettente osserva come, secondo il vigente ordinamento processuale e costituzionale, l’irrogazione di qualsiasi sanzione penale «postul[i] l’indefettibile presupposto del convincimento del giudice in ordine alla responsabilità dell’imputato in relazione al reato per cui si procede»;

che per contro nel procedimento a citazione diretta, in cui l’istanza ex art. 464-bis cod. proc. pen. è formulata prima dell’apertura del dibattimento, la relativa procedura si svolge allo stato degli atti del fascicolo del dibattimento, di modo che i «dati cognitivi in possesso del giudice […] risulta[no] di regola largamente insufficient[i] o inidone[i] a fornire la plausibile rappresentazione del fatto occorrente ai fini della formulazione di alcun giudizio positivo di responsabilità»;

che l’ordinanza con cui il giudice del dibattimento dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova si tradurrebbe perciò in «un provvedimento giurisdizionale di irrogazione di un trattamento giuridico di diritto penale criminale suscettibile di essere pronunciato sul presupposto di un convincimento di responsabilità di carattere letteralmente assurdo o mendace poiché implicitamente o esplicitamente formulato nonostante la indisponibilità degli elementi occorrenti a stabilire se alcun fatto sia avvenuto, come e da chi sia stato commesso e quale ne sia la qualificazione giuridica»;

che, pertanto, l’art. 464-quater, comma 1, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che il giudice, ai fini di ogni decisione di merito da assumere nel procedimento speciale di messa alla prova, proceda alla acquisizione e valutazione degli atti delle indagini preliminari di cui già altrimenti non disponga, restituendoli per l’ulteriore corso nel caso di esito negativo della pronuncia sulla concessione o sull’esito della messa alla prova», si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., «alla stregua del quale deve ritenersi che le enunciazioni consapevolmente incongrue o simulatorie non possono costituire presupposto o strumento di trattamenti giuridici»;

che sarebbero violati, inoltre, l’art. 111, sesto comma, Cost., non essendo assolto l’obbligo della motivazione del provvedimento, l’art. 25, secondo comma, Cost., «alla stregua del quale deve ritenersi che la punizione criminale può essere irrogata in ragione di un fatto previsto dalla legge come reato e non anche in ragione della plateale finzione radicabile sulla mera contestazione processuale del medesimo», ed infine l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto il giudizio di responsabilità dell’imputato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione di una pena, impone una «cognizione storica e [una] valutazione giuridica del fatto»;

che inoltre il giudice del dibattimento non potrebbe effettuare alcuna valutazione sull’idoneità o meno del programma di trattamento – che, secondo la norma censurata, deve avvenire in base ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen. – in quanto «in tutto o in parte ignora se, come e da chi sia stato commesso» il reato oggetto di imputazione;

che il Tribunale rimettente ritiene, poi, non manifestamente infondata, con riferimento al principio di determinatezza delle pene, sancito dal secondo comma dell’art. 25 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 168-bis, secondo e terzo comma, cod. pen.;

che, ad avviso del rimettente, le norme censurate prescriverebbero sanzioni indeterminate, sia sul piano qualitativo, potendo il trattamento a cui l’imputato viene sottoposto risolversi in vincoli conformativi e ablatori della libertà personale di diversa intensità, sia sul piano quantitativo, essendo la relativa durata fissata «soltanto nel minimo (dieci giorni) in relazione alla sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, e totalmente indeterminata in relazione alla misura alternativa dell’affidamento al servizio sociale»;

che questa «indeterminatezza legale» non potrebbe essere colmata mediante il ricorso all’applicazione analogica dell’art. 464-quater, comma 5, cod. proc. pen., che stabilisce soltanto la durata massima della sospensione del processo conseguente alla messa alla prova, o dell’art. 657-bis cod. proc. pen., che stabilisce soltanto i criteri di ragguaglio applicabili in sede di determinazione della pena da espiare nel caso di esito negativo della prova;

che l’ordinanza di rimessione censura, altresì, l’art. 464-quater, comma 4, cod. proc. pen., «nella parte in cui prevede il consenso dell’imputato quale condizione di ammissibilità, di validità o di efficacia dei provvedimenti giurisdizionali modificativi o integrativi del programma di trattamento»;

che la norma impugnata contrasterebbe con l’art. 101 Cost., in quanto «attribuisce alla volontà dell’imputato la capacità sovrana di integrare la condizione meramente potestativa cui resta insindacabilmente subordinato ogni profilo di efficacia formale ed utilità sostanziale del provvedimento giurisdizionale di messa alla prova, nonché […] dell’intera procedura già celebrata strumentalmente alla pronuncia del medesimo»;

che sarebbero violati anche «i principi costituzionali di buon andamento ed efficienza delle attività dei pubblici poteri (art. 97 Cost.) e [i] principi di economicità e ragionevole durata del processo penale (art. 111 comma 2 Cost.) nella misura in cui si stabilisce lo svolgimento di attività paragiudiziarie e giudiziarie che, senza riguardo al dispendio di tempi e risorse processuali all’uopo occorrenti, devono essere necessariamente disimpegnate dai competenti pubblici uffici (prima l’ufficio esecuzione penale esterna e poi il giudice procedente) per il solo fatto che ne faccia richiesta la stessa parte processuale al cui mero insindacabile beneplacito, contestualmente, si attribuisce anche la prerogativa di deciderne a posteriori la sorte, ossia addirittura di stabilire a piacimento se tali attività, una volta che abbiano avuto luogo, siano state o meno compiute soltanto a titolo di futile dissipazione di tempi processuali e denari pubblici»;

che, da ultimo, il giudice a quo ritiene non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., laddove «prescrivono la irrogazione ed esecuzione di sanzioni penali consequenziali ad un reato per cui non risulta pronunciata né di regola pronunciabile alcuna condanna definitiva o non definitiva»;

che le norme censurate contrasterebbero con l’art. 27, secondo comma, Cost., «poiché stabiliscono non tanto una violazione, quanto la radicale negazione della garanzia formale racchiusa nel principio secondo cui l’imputato non può essere considerato e tantomeno trattato come colpevole sino alla condanna penale definitiva», senza che vi sia alcuna contrapposta «esigenza di tutela di valori di dignità costituzionale pari o superiore»;

che, ad avviso del Tribunale rimettente, non sarebbe possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme impugnate, le quali definirebbero «una mera sequela di adempimenti formali», che impegnano risorse e attività non inferiori a quelle occorrenti per la celebrazione del giudizio ordinario, peraltro in funzione di «mere utilità erariali (sfollamento penitenziario e deflazione processuale)»;

che, infine, le questioni sollevate sarebbero rilevanti, dovendo il Tribunale rimettente decidere sull’idoneità del programma di trattamento predisposto dall’ufficio di esecuzione penale esterna, «in maniera largamente incompleta», mediante la «perplessa compilazione di un modulo», sulla base dei soli atti del fascicolo per il dibattimento;

che è intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili e comunque non fondate;

che la difesa dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate, in primo luogo perché «pregiudicat[e] dalle gravi carenze che inficiano la descrizione della fattispecie sottoposta all’esame del giudice a quo, risultando omessa l’indicazione dei dati necessari per consentire la verifica della rilevanza delle question[i] propost[e]»;

che le questione sarebbero inammissibili, inoltre, perché sollevate dal Tribunale rimettente «in termini ipotetici e astratti o comunque prematuri, che le rendono non rilevanti nel giudizio a quo»;

che, nel merito, le questioni sarebbero infondate, perché l’istituto della messa alla prova – peraltro già sperimentato nel nostro ordinamento in ambito minorile – persegue, accanto a scopi deflativi, una finalità riparatoria e risocializzante, rispetto alla quale non rileva la ricostruzione del fatto di reato in tutte le sue componenti oggettive e soggettive, né l’attribuzione di responsabilità.

Considerato che i giudizi vertono sulle medesime disposizioni, sicchè ne appare opportuna la riunione, ai fini di una decisione congiunta;

che l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate, rilevando che le ordinanze di rimessione non contengono alcuna indicazione, non solo dei fatti di reato contestati agli imputati, ma anche dell’esistenza delle condizioni richieste dall’art. 168-bis del codice penale per l’applicazione della messa alla prova e non chiariscono per quale ragione i programmi di trattamento elaborati dall’ufficio di esecuzione penale esterna, allegati alle istanze degli imputati, non sarebbero completi ed esaustivi;

che l’eccezione è fondata;

che, infatti, le tre ordinanze di rimessione, non contengono alcuna descrizione dei fatti oggetto dei giudizi a quibus, limitandosi ad indicare, con il solo numero, le disposizioni che prevedono i reati contestati agli imputati, senza neppure riportare i relativi capi di imputazione;

che inoltre nulla si dice sull’esistenza, nei casi di specie, dei requisiti soggettivi previsti dall’art. 168-bis cod. pen. per l’applicazione della messa alla prova;

che, come la giurisprudenza di questa Corte ha più volte precisato, «l’omessa o insufficiente descrizione della fattispecie, non emendabile mediante la diretta lettura degli atti, impedita dal principio di autosufficienza dell’atto di rimessione, preclude il necessario controllo in punto di rilevanza» (sentenza n. 338 del 2011; ordinanze nn. 196 e 55 del 2016, n. 162 del 2015 e n. 99 del 2013);

che pertanto le questioni proposte sono manifestamente inammissibili.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater, comma 1, del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3, 111, sesto comma, 25, secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione; dell’art. 168-bis, secondo e terzo comma, del codice penale, in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost.; dell’art. 464-quater, comma 4, cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 97, 101 e 111, secondo comma, Cost., e degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., in riferimento all’art. 27, secondo comma, Cost., sollevate dal Tribunale ordinario di Grosseto, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 settembre 2016.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Giorgio LATTANZI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 novembre 2016.