ORDINANZA N. 84
ANNO 2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Ugo DE SIERVO Presidente
- Paolo MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promossi dal Giudice di pace di Lecce con ordinanza del 19 aprile 2010, dal Giudice di pace di Pontassieve con ordinanza dell’11 maggio 2010 e dal Tribunale per i minorenni di Lecce con ordinanza del 29 aprile 2010, rispettivamente iscritte ai nn. 206, 208 e 262 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 28 e 38, prima serie speciale, dell’anno 2010;
udito nella camera di consiglio del 26 gennaio 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.
Ritenuto che, con ordinanza depositata il 19 aprile 2010, il Giudice di pace di Lecce ha sollevato – in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 25, 27, 97, 117 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello stranero), come introdotto dall’articolo 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica);
che il giudice a quo è chiamato a pronunciarsi in un procedimento penale a carico di M. A. K., imputato del reato di cui alla norma censurata, «per avere, quale cittadino straniero, fatto ingresso ed essersi trattenuto nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del medesimo decreto legislativo e dell’art. 1 della legge n. 68/2007 essendo privo di valido titolo di soggiorno», reato commesso in Lecce il 4 marzo 2010;
che, come il rimettente riferisce, nel processo è stata acquisita la relazione di servizio relativa all’accertamento effettuato nella data predetta, il difensore ha rinunziato all’esame dei verbalizzanti, non ha richiesto alcuna prova contraria, «né ha dedotto la sussistenza di una causa di giustificazione o di esimenti», sicché l’imputato, clandestino privo di permesso o di carta di soggiorno, dovrebbe essere dichiarato colpevole del reato ascrittogli «se la norma non fosse sospetta di incostituzionalità», con conseguente rilevanza della questione sollevata;
che, inoltre, tale questione sarebbe non manifestamente infondata, alla luce dei parametri addotti;
che, in primo luogo, sussisterebbe violazione degli artt. 25 e 27 Cost. e, in particolare: 1) sarebbe violato il principio di offensività del reato, desumibile dai citati precetti costituzionali, in base al quale il reato deve sostanziarsi nell’offesa di uno specifico bene giuridico, non essendo concepibile un reato senza offesa, onde al legislatore sarebbe «preclusa l’introduzione, per finalità di mera deterrenza, di sanzioni che non si ricolleghino a fatti colpevoli, ma piuttosto a modi di essere ovvero ad una mera disobbedienza priva di disvalore (anche potenziale) per un determinato bene giuridico protetto», mentre con il cosiddetto reato di clandestinità sarebbe stata prevista l’incriminazione di condotte prive di idoneità ad offendere un bene giuridico, non essendo sostenibile che il clandestino, per il solo fatto della sua condizione, costituisca un pericolo per l’ordine pubblico; 2) sarebbe violato il principio di sussidiarietà dell’illecito penale, perché nel vigente ordinamento il ricorso alla sanzione penale sarebbe ammissibile soltanto come ultima ratio, «quando cioè la tutela del bene giuridico non possa essere raggiunta adeguatamente attraverso altri strumenti dell’ordinamento giuridico»; 3) sarebbero violati il principio di uguaglianza e il principio di personalità della responsabilità penale;
che, infatti, a) qualora l’autore dell’illecito sia espulso o respinto, il giudice, ai sensi del comma 5 della norma censurata, pronuncia sentenza di non luogo a procedere, ma l’esecuzione dei provvedimenti di espulsione e di respingimento sarebbe rimessa alla discrezionalità e alla disponibilità di mezzi dell’autorità amministrativa (essendo a tal fine irrilevanti la volontà e le azioni dello straniero), sicché «l’accertamento giurisdizionale di condotte identiche produce effetti diversi (sentenza di condanna o di non luogo a procedere) a causa di circostanze assolutamente estranee alla sfera di intervento degli imputati»; b) non sarebbe stata attribuita alcuna rilevanza alla presenza di giustificati motivi che abbiano determinato le condotte punite, a differenza di quanto previsto nell’analoga (e molto più grave) ipotesi delittuosa di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, con ingiustificata disparità di trattamento tra gli autori dei due reati, entrambi diretti a colpire la stessa situazione soggettiva (il clandestino o lo straniero divenuto clandestino). Sotto altro aspetto, il sistema introdotto dal legislatore del 2009 sarebbe in modo palese irrazionale, avendo generato un conflitto, sul piano logico e su quello pragmatico, tra le due fattispecie in questione. Invero, tutti i presupposti richiesti per l’emanazione del provvedimento del questore «in tanto avevano ragione di esistere in quanto non era previsto un reato di immigrazione o soggiorno clandestini e la sanzione penale era correlata alla sola violazione dell’ordine di allontanamento». Con la previsione della nuova figura di reato, a prescindere dall’esistenza di giustificati motivi, lo straniero sarebbe immediatamente sanzionato senza la sussistenza di alcuno dei presupposti richiesti per integrare la fattispecie di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998; c) non sarebbe ravvisabile alcuna ragione per precludere all’agente di estinguere il reato a lui ascritto mediante oblazione;
che, inoltre, sarebbe violato l’art. 117 Cost., con riferimento agli obblighi internazionali assunti dall’Italia in materia di trattamento dei migranti, con particolare riguardo al Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti, sottoscritto nel corso della Conferenza di Palermo (12-15 dicembre 2000), e, segnatamente, agli artt. 5, 6 e 16 di esso;
che, ancora, sarebbe violato l’art. 3 Cost. per irragionevolezza della scelta legislativa rispetto agli istituti espulsivi di natura amministrativa, stante l’identità di ratio ed in carenza di qualsiasi fondamento giustificativo;
che, infatti, «l’ambito di applicazione della nuova fattispecie coincide perfettamente con quello della preesistente misura amministrativa dell’espulsione, sia sotto il profilo dei soggetti destinatari (stranieri entrati o trattenuti irregolarmente nel territorio dello Stato), sia sotto quello della ratio giustificativa», e ciò starebbe a significare che già era presente nell’ordinamento italiano uno strumento ritenuto idoneo al raggiungimento dello scopo;
che l’art. 3 Cost. sarebbe violato anche per «palese ed irragionevole disparità di trattamento sotto il profilo sanzionatorio», considerando la nuova fattispecie nel suo complesso, comprensivo non soltanto della pena dell’ammenda (da 5.000 a 10.000 euro), ma anche del divieto di sospensione condizionale della pena (conseguente alla individuazione della competenza in capo al giudice di pace) e della facoltà concessa allo stesso giudice di sostituire la pena pecuniaria con una sanzione più grave, qual è quella dell’espulsione dallo Stato per un periodo non inferiore a cinque anni (da un lato, la sanzione sostitutiva potrebbe essere comminata a soggetti condannati per reato non colposo ad una pena detentiva non superiore a due anni, in assenza delle condizioni per disporre la sospensione condizionale, dall’altro la medesima sanzione potrebbe colpire soggetti condannati alla sola pena pecuniaria, ai sensi dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, e successive modificazioni);
che, del resto, ad avviso del rimettente la detta sanzione sostitutiva «sarà la pena generalmente adottata dal giudice di pace, laddove non ricorrano le cause ostative di cui all’art. 14 co. 1, stante l’assoluta carenza di efficacia deterrente dell’ammenda prevista»;
che ulteriore violazione dell’art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento sotto il profilo sanzionatorio, sarebbe ravvisabile rispetto all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 e successive modificazioni, che prevede la punibilità dello straniero inottemperante all’ordine di allontanamento del questore, soltanto quando lo stesso si trattenga nel territorio dello Stato oltre il termine stabilito e “senza giustificato motivo”. Entrambe le condizioni non si ritroverebbero nella nuova figura criminosa, sicché, ad esempio, sarebbe sufficiente il venir meno per qualsiasi motivo del permesso di soggiorno per integrare un’ipotesi di trattenimento illecito, senza possibilità per l’interessato di addurre una giustificazione o di usufruire di un termine per potersi allontanare;
che, inoltre, demandando la cognizione a conoscere della nuova fattispecie al giudice di pace, risulterebbe disegnato un sistema sanzionatorio più gravoso di quello previsto per il più grave delitto, non essendo possibile né concedere la sospensione condizionale, né una riduzione di pena conseguente all’adozione di un rito alternativo (per il divieto di applicazione dei detti istituti al rito davanti al giudice di pace: artt. 2 e 60 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, recante «Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468»);
che, al di là della irrazionale ed ingiustificata disparità di trattamento tra le due fattispecie criminose, entrambe tese a colpire la stessa situazione soggettiva (lo straniero clandestino ab origine o divenuto tale), esse sarebbero in contrasto sul piano logico e su quello pragmatico, perché tutti i presupposti richiesti per l’emanazione del provvedimento del questore avrebbero avuto ragione di esistere in quanto non fosse stato previsto un reato di immigrazione o soggiorno clandestini, mentre la sanzione penale era correlata alla sola violazione dell’ordine di allontanamento;
che, con l’introduzione della nuova figura dell’ingresso o del soggiorno illegali, a prescindere dall’esistenza di giustificati motivi, lo straniero sarebbe sanzionato in assenza di alcuno dei presupposti richiesti per l’integrazione del reato di cui al citato art. 14, comma 5-ter ;
che sarebbero ancora violati gli artt. 3 e 25, secondo comma, Cost., perché la norma censurata integrerebbe una fattispecie penale discriminatoria, in quanto fondata su particolari condizioni personali e sociali, anziché su fatti e comportamenti riconducibili alla volontà del soggetto attivo. Infatti la nuova fattispecie sanzionerebbe solo in apparenza una condotta (l’ingresso e l’omissione del mancato allontanamento), in realtà del tutto neutra agli effetti penali, mentre il vero oggetto dell’incriminazione sarebbe la mera condizione personale dello straniero, costituita dal mancato possesso di un titolo abilitativo all’ingresso e alla successiva permanenza nel territorio dello Stato, che sarebbe, poi, la situazione tipica del migrante economico ed anche una condizione sociale, cioè propria di una categoria di persone (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 78 del 2007);
che tale condizione sarebbe priva di rilievo sotto il profilo della pericolosità sociale e difficilmente riconducibile ad una condotta volontaria dello straniero migrante economico, la cui criminalizzazione, perciò, sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza e con la garanzia costituzionale «secondo cui si può essere puniti solo per fatti materiali (art. 25 co. 2 Cost.)»;
che sussisterebbe violazione anche dell’art. 2 Cost., perché lo spirito solidaristico di cui è “impregnata” la Carta costituzionale dovrebbe impedire l’adozione di misure puramente repressive per risolvere il problema dell’immigrazione (sono richiamati la sentenza di questa Corte n. 519 del 1995, che dichiarò l’illegittimità costituzionale del reato di mendicità, nonché alcuni diritti inviolabili dell’uomo, sanciti anche in atti internazionali, destinati ad essere compromessi dalla norma censurata);
che sarebbe altresì violato l’art. 97 Cost., perché la coesistenza di due sistemi diretti ad ottenere l’espulsione dello straniero sarebbe in contrasto con i principi di buon andamento e d’imparzialità dell’amministrazione;
che, infine, sarebbe violato l’art. 24 Cost., perché «L’8 agosto 2010, al momento dell’entrata in vigore dell’art. 10 bis del D.Lgs 286/1998 come introdotto dall’art. 1, co 16 L. 15.7.2009 n. 94, tutti gli stranieri irregolari che si trovavano in Italia erano in ipotesi sanzionabili con la contravvenzione ivi prevista se non si fossero spontaneamente allontanati dal territorio nazionale. Non è stato, infatti, previsto un termine ed una modalità operativa affinché detti soggetti potessero ottemperare al precetto legislativo con evidente contrasto con l’art. 24 comma 2 della Costituzione»;
che il Giudice di pace di Pontassieve, con ordinanza depositata l’11 maggio 2010, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 25, 27, 97 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, come introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge n. 94 del 2009;
che il rimettente premette di essere chiamato a pronunciare in un procedimento penale a carico di R. K., imputato del reato previsto e punito dall’art. 10-bis della citata normativa, perché «si tratteneva nel territorio dello Stato in violazione delle norme previste dal medesimo D. L.vo in quanto privo del permesso di soggiorno. Accertato in Rufina (FI) in data 23.12.2009»;
che il giudice a quo riferisce sullo svolgimento del processo e rileva che, nell’udienza all’uopo fissata, il pubblico ministero sollevava questione di legittimità costituzionale della norma censurata, cui si associava il difensore d’ufficio dell’imputato, quest’ultimo identificato a mezzo di passaporto albanese, ponendo l’accento sulla condotta tenuta dall’agente, in relazione alla quale la questione di legittimità sollevata avrebbe carattere pregiudiziale e rilevante ai fini della decisione;
che, quanto alla non manifesta infondatezza, il Giudice di pace di Pontassieve svolge argomentazioni identiche a quelle enunciate dal Giudice di pace di Lecce, alle quali, dunque, può farsi riferimento;
che il Tribunale per i minorenni di Lecce, con ordinanza depositata l’11 maggio 2010, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 27 e 117 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, come introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge n. 94 del 2009, in un procedimento penale a carico di tre soggetti, di minore età, imputati del reato di cui alla norma censurata «per aver fatto ingresso nel territorio dello Stato Italiano in condizioni di clandestinità», in Castrignano del Capo il 5 settembre 2009;
che, ad avviso del rimettente, sarebbe violato l’art. 3 Cost., «sotto il profilo della irragionevolezza della scelta legislativa di sanzionare penalmente una condotta in tutto e per tutto coincidente, sotto il profilo soggettivo e sotto quello oggettivo, con quella per la quale l’art. 13 del suddetto D. L.vo n. 286 del 1998 commina la mera sanzione amministrativa dell’espulsione», allo scopo evidente di consentire, nel più breve tempo possibile l’allontanamento dell’immigrato clandestino sorpreso a varcare i confini dello Stato, come sarebbe dato desumere dalle previsioni che accedono alla norma incriminatrice;
che, inoltre, sarebbe violato l’art. 27 Cost., recante il principio del carattere personale della responsabilità penale;
che, infatti, la norma censurata determinerebbe l’esercizio dell’azione penale in ordine ad una condotta nella sostanza neutra, e non indicativa di una particolare pericolosità sociale dell’agente (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 78 e n. 22 del 2007), peraltro in presenza di un fatto difficilmente riconducibile a volontà illecita dell’agente, in genere non a conoscenza della normativa regolante l’ingresso dello straniero extracomunitario nei confini dello Stato italiano, sicché con la norma censurata si finirebbe per procedere a carico dell’immigrato per il solo fatto del suo status di “straniero migrante”, in chiara violazione del valore costituzionalmente tutelato dall’art. 27 Cost.;
che, infine, risulterebbe violato anche il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., con l’obbligo costituzionale imposto allo Stato di conformarsi alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute e con violazione del dovere di regolare la condizione giuridica dello straniero in modo conforme alle norme e ai trattati internazionali.
Considerato che i Giudici di pace di Lecce e di Pontassieve e il Tribunale per i minorenni di Lecce hanno sollevato – nei termini di cui alle rispettive ordinanze di rimessione sopra menzionate – questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 25, 27, 97, 117 della Costituzione;
che, data la comunanza di oggetto delle questioni sollevate, va disposta la riunione dei relativi procedimenti;
che, sia pure ad un livello minimo di sufficienza, le ordinanze dei Giudici di pace di Lecce e di Pontassieve contengono una descrizione delle fattispecie sulle quali essi sono chiamati a pronunciare;
che, invece, non altrettanto può dirsi con riguardo all’ordinanza del Tribunale per i minorenni di Lecce, la quale presenta gravi carenze in punto di descrizione della fattispecie concreta, in quanto si limita a riprodurre nell’epigrafe il capo d’imputazione, a sua volta circoscritto ad una parafrasi della norma incriminatrice, senza alcun cenno alla vicenda che ha dato origine al giudizio e alla sua riconducibilità al paradigma punitivo censurato, anche tenendo conto della minore età degli imputati;
che, per costante giurisprudenza di questa Corte, la carente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio preclude il necessario controllo in punto di rilevanza (ex plurimis, ordinanze n. 320 e n. 253 del 2010, e n. 211 del 2009);
che, pertanto, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale per i minorenni di Lecce vanno dichiarate manifestamente inammissibili;
che, in primo luogo, i Giudici di pace di Lecce e di Pontassieve prospettano la violazione degli artt. 25 e 27 Cost., ritenendo violato il principio di offensività del reato, in forza del quale al legislatore sarebbe preclusa l’introduzione – per finalità di mera deterrenza – di sanzioni non ricollegabili a fatti colpevoli, ma piuttosto a modi di essere ovvero ad una mera disobbedienza priva di disvalore (anche potenziale) per un determinato bene giuridico, mentre con il cosiddetto reato di clandestinità il legislatore avrebbe previsto l’incriminazione di condotte prive d’idoneità offensiva (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 22 e n. 78 del 2007), dal momento che l’ingresso o la presenza illegale dello straniero sarebbe espressione di una condizione individuale, cioè dello status di migrante;
che al riguardo questa Corte già si è pronunciata, affermando la non fondatezza della questione sui seguenti rilievi (sentenza n. 250 del 2010, n. 6 del Considerato in diritto): non è esatto che la norma censurata penalizzi una mera condizione personale e sociale – cioè quella di straniero “clandestino” o, più propriamente, “irregolare” – della quale in modo arbitrario sarebbe presunta la pericolosità sociale, in quanto oggetto dell’incriminazione non è un modo di essere della persona, bensì uno specifico comportamento trasgressivo di norme vigenti. Né può condividersi l’assunto in forza del quale si sarebbe in presenza di un illecito di “mera disobbedienza”, non offensivo di alcun bene giuridico meritevole di tutela, perché il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice è identificabile nell’interesse dello Stato al controllo e alla gestione dei flussi migratori, costituente un bene giuridico strumentale, attraverso la cui salvaguardia il legislatore protegge beni pubblici che possono essere compromessi da fenomeni di immigrazione incontrollata (come meglio spiegato nella sentenza da ultimo citata);
che pertanto, sotto questo profilo, la questione si rivela manifestamente infondata, in assenza di argomenti idonei a superare quelli esposti nella citata sentenza n. 250 del 2010;
che, ad avviso dei rimettenti, sarebbe altresì violato il principio di sussidiarietà dell’illecito penale (con riferimento ai medesimi parametri costituzionali dianzi indicati), in quanto nel nostro ordinamento il ricorso alla sanzione penale andrebbe ammesso soltanto come ultima ratio, quando la tutela del bene giuridico non possa essere raggiunta attraverso altri strumenti. Nel caso di specie, l’obiettivo perseguito dalla nuova norma sarebbe l’allontanamento dello straniero irregolare dal territorio dello Stato e già in precedenza sarebbe stato possibile raggiungere tale obiettivo mediante le diverse ipotesi di espulsione in via amministrativa previste dal testo unico sull’immigrazione;
che, a parte la non dimostrata congruità dei parametri evocati (artt. 25 e 27 Cost.) rispetto alle censure addotte, e fermo il punto che il legislatore dispone di ampia discrezionalità in ordine alle scelte legislative riguardanti la configurazione dei reati e del relativo trattamento sanzionatorio (ex plurimis, tra le più recenti: sentenze n. 47 del 2010 e n. 161 del 2009), l’assetto normativo cui i rimettenti si riferiscono non comporta che «il procedimento penale per il reato in esame sia destinato, a priori, a rappresentare un mero “duplicato” del procedimento amministrativo di espulsione di norma, per giunta, più celere: e ciò, a tacer d’altro, per la ragione che – come l’esperienza attesta – in un largo numero di casi non è possibile, per la pubblica amministrazione, dare corso ai provvedimenti espulsivi. La stessa sostituzione della pena pecuniaria con la misura dell’espulsione da parte del giudice – configurata, peraltro, dall’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 come soltanto discrezionale (“può”) – resta espressamente subordinata alla condizione che non ricorrano le situazioni che, ai sensi dell’art. 14, comma 1, del medesimo decreto legislativo, impediscono l’esecuzione immediata dell’espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica (necessità di procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, all’acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero indisponibilità di vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo)» (sentenza n. 250 del 2010, n. 10 del Considerato in diritto);
che, alla stregua di tali rilievi, anche la questione sollevata con riguardo al profilo suddetto deve essere dichiarata manifestamente infondata;
che i rimettenti denunziano la «violazione del principio di uguaglianza e del principio di personalità della responsabilità penale», a loro avviso ricavabile dai seguenti punti: a) poiché, per effetto dell’art. 10-bis, comma 5, qualora l’autore dell’azione criminosa sia espulso o respinto, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere, e poiché l’esecuzione dei relativi provvedimenti sarebbe rimessa alla discrezionalità e alla disponibilità di mezzi dell’autorità amministrativa, essendo irrilevanti la volontà e le azioni dello straniero, l’accertamento giurisdizionale di condotte identiche produrrebbe effetti diversi (sentenza di condanna o di non luogo a procedere) a causa di circostanze estranee all’intervento degli imputati; b) non sarebbe stata attribuita alcuna rilevanza alla presenza di giustificati motivi che abbiano determinato le condotte oggetto dell’incriminazione, a differenza di quanto previsto per l’analoga (e molto più grave) ipotesi di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, con ingiustificata disparità di trattamento tra gli autori dei due reati; c) non vi sarebbero ragioni per precludere all’agente di estinguere il reato a lui ascritto mediante oblazione;
che la questione sollevata con riferimento ai profili suddetti è manifestamente inammissibile, perché: 1) quanto al punto sub a), essa è prospettata in termini astratti ed ipotetici, giacché, ai sensi dell’art. 10-bis, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere soltanto dopo avere «acquisita la notizia dell’esecuzione dell’espulsione o del respingimento», mentre nel caso in esame tale circostanza non risulta dalle ordinanze di rimessione, onde i rimettenti censurano un aspetto della norma di cui non devono fare applicazione, con conseguente irrilevanza del profilo; 2) analogo rilievo vale quanto al punto sub b), perché nelle ordinanze di rimessione non è prospettata, neppure con riguardo a mere allegazioni difensive, alcuna circostanza che, nei casi di specie, potrebbe assumere rilievo quale “giustificato motivo”, e tale carenza priva la questione sollevata di attuale rilevanza, o comunque non consente il necessario controllo al riguardo (ordinanza n. 318 del 2010); 3) identica conclusione vale per il punto sub c), perché dalle ordinanze di rimessione non emerge che gli imputati abbiano presentato una domanda di oblazione;
che il Giudice di pace di Lecce dubita della legittimità costituzionale della norma censurata in riferimento all’art. 117 Cost., con riguardo agli obblighi internazionali assunti dall’Italia in materia di trattamento dei migranti, e richiama a tal proposito il Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transazionale organizzata per combattere il traffico illecito di migranti (adottato dall’Assemblea generale il 15 dicembre 2000, ratificato e reso esecutivo con legge 16 marzo 2006, n. 146). In particolare, pone l’accento sull’art. 6 del detto protocollo, secondo cui ogni Stato Parte (tra l’altro) adotta misure legislative e di altro tipo necessarie per conferire il carattere di reato ad una serie di fatti o condotte nell’articolo medesimo contemplati;
che, a prescindere da ogni considerazione di merito circa la pertinenza del richiamo all’atto menzionato (il cui art. 6, paragrafo 4, stabilisce che «Nessuna disposizione del presente Protocollo impedisce ad uno Stato Parte di prendere misure nei confronti di una persona la cui condotta costituisce reato ai sensi del suo diritto interno»), è preliminare rilevare la manifesta inammissibilità della questione in relazione al parametro indicato, in quanto dall’ordinanza di rimessione non si desume che l’imputato sia stato oggetto di traffico illecito ai sensi del citato art. 6;
che i Giudici di pace di Lecce e di Pontassieve deducono ancora la violazione dell’art. 3 Cost.: a) sotto il profilo dell’irragionevolezza della scelta legislativa, volta a criminalizzare l’ingresso e la permanenza clandestini nello Stato italiano, pure in presenza di istituti espulsivi di natura amministrativa, mentre «la penalizzazione di una condotta dovrebbe intervenire, come extrema ratio, in tutti i casi in cui non sia possibile individuare altri strumenti idonei al raggiungimento dello scopo». In realtà l’ambito di applicazione della nuova fattispecie sarebbe coincidente con quello della preesistente misura amministrativa dell’espulsione, sicché l’adozione dello strumento penale resterebbe priva di ogni giustificazione; b) per palese ed irragionevole disparità di trattamento sotto il profilo sanzionatorio, considerato nel suo complesso, cioè comprensivo non solo della pena dell’ammenda ma anche del divieto di applicare il beneficio della sospensione condizionale di detta pena, nonché della facoltà concessa al giudice di pace di sostituire la pena pecuniaria con una sanzione più grave qual è l’espulsione dallo Stato per un periodo non inferiore a cinque anni. Infatti, da un lato, la sanzione sostitutiva potrebbe essere applicata a soggetti condannati a pena detentiva non superiore a due anni (sempre che non ricorrano le condizioni per disporre la sospensione condizionale della pena), dall’altro lato essa potrebbe colpire soggetti condannati alla sola pena pecuniaria, ai sensi della norma censurata, vale a dire per un reato senza dubbio meno grave e privo di efficacia deterrente, sicché sarebbe prevedibile che proprio la sanzione sostitutiva sarà la pena generalmente adottata per il reato in questione;
che la questione sollevata in relazione al profilo sub a) è manifestamente infondata, per le considerazioni già svolte (e sopra richiamate, a proposito dell’asserita violazione del principio di sussidiarietà dell’illecito penale) dalla sentenza di questa Corte n. 250 del 2010 (n. 10 del Considerato in diritto), mentre manifestamente inammissibile è la questione sollevata in riferimento al profilo sub b), perché, a prescindere da ogni considerazione di merito, la lesione costituzionale denunciata non deriverebbe dalla disposizione impugnata ma da norme distinte, non coinvolte nello scrutinio di costituzionalità, cioè dall’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui – a seguito della modifica operata dalla legge n. 94 del 2009 – estende l’applicabilità dell’espulsione come sanzione sostitutiva alla contravvenzione di cui all’art. 10-bis del detto decreto legislativo, nonché dalla disposizione correlata dell’art. 62-bis del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), in forza della quale – diversamente da quanto stabilito dal precedente art. 62 con riferimento alle sanzioni sostitutive previste dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) – «nei casi stabiliti dalla legge, il giudice di pace applica la misura sostitutiva di cui all’art. 16 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286» (sentenza n. 250 del 2010, n. 12 del Considerato in diritto);
che con le due suddette ordinanze di rimessione è altresì denunziata, in riferimento all’art. 3 Cost., la «irragionevole disparità di trattamento sotto il profilo sanzionatorio rispetto all’art. 14 t.u.», che prevede la punibilità dello straniero inottemperante all’ordine di allontanamento del questore solo quando esso si trattenga nel territorio dello Stato oltre il termine stabilito e senza giustificato motivo, condizioni non presenti nella nuova figura criminosa, onde sarebbe sufficiente il venir meno, per qualche motivo, del permesso di soggiorno per integrare un’ipotesi di trattenimento illecito, senza possibilità per l’interessato di addurre una giustificazione o di usufruire di un termine per allontanarsi;
che, inoltre, in virtù dell’attribuzione della competenza a conoscere della nuova fattispecie al giudice di pace, risulterebbe disegnato un sottosistema sanzionatorio addirittura più gravoso di quello previsto per il più grave delitto, non essendo possibili né la concessione della sospensione condizionale, né una riduzione di pena conseguente all’adozione di un rito alternativo (per l’espresso divieto di applicazione dei predetti istituti al rito davanti al giudice di pace, ai sensi degli artt. 2 e 60 del d.lgs. n. 74 del 2000);
che, ancora, le due fattispecie sarebbero «irrimediabilmente contrastanti tra loro, sia sul piano logico che su quello pragmatico», sicché «potrebbe darsi il caso di un soggetto, già condannato per il reato d’ingresso o trattenimento clandestino che, non espulso manu militari, ma intimato di lasciare il territorio dello Stato, possa ivi legittimamente trattenersi perché sorretto da un “giustificato motivo”: con un evidente ed insanabile contrasto nella posizione di uno Stato che, da un lato, punisce lo straniero non solo ab origine, ma anche divenuto clandestino e, dall’altro, lo autorizza a trattenersi perché munito di un giustificato motivo»;
che la questione, nei termini prospettati, è manifestamente inammissibile perché: a) l’ultima censura ha carattere astratto e meramente ipotetico; b) quanto ai richiami al “giustificato motivo”, si deve ribadire il già segnalato difetto di rilevanza, perché dalle ordinanze di rimessione non emerge la sussistenza di situazioni riconducibili a quel concetto; c) quanto alle residue censure esse, in ipotesi, sarebbero ascrivibili alla normativa sul giudice di pace, non coinvolta nel presente scrutinio di legittimità costituzionale;
che i Giudici di pace di Lecce e di Pontassieve censurano la norma impugnata per contrasto con gli artt. 3 e 25, comma secondo, Cost., in quanto essa integrerebbe una fattispecie penale discriminatoria, perché fondata su particolari condizioni personali e sociali, anziché su fatti e comportamenti riconducibili alla volontà del soggetto attivo. La norma soltanto in apparenza sanzionerebbe una condotta, mentre il vero oggetto dell’incriminazione sarebbe la condizione personale dello straniero, costituita dal mancato possesso di un titolo abilitativo all’ingresso e alla successiva permanenza nel territorio dello Stato, che sarebbe la condizione tipica del migrante economico;
che tali censure ripetono, in sostanza, quanto già dedotto con riguardo alle doglianze relative a presunte violazioni dei principi di offensività e di sussidiarietà dell’illecito penale, sicché è sufficiente rinviare alle considerazioni al riguardo svolte;
che i rimettenti dubitano della legittimità costituzionale della norma censurata in riferimento all’art. 2 Cost., richiamando la sentenza di questa Corte n. 519 del 1995 (relativa al reato di mendicità) e sostenendo che lo spirito solidaristico proprio della Carta costituzionale dovrebbe impedire l’adozione di misure puramente repressive per risolvere il problema dell’immigrazione, mentre la nuova disposizione pregiudicherebbe anche alcuni diritti inviolabili dell’uomo;
che sul punto questa Corte si è già pronunciata con la citata sentenza n. 250 del 2010 (n. 8 del Considerato in diritto), osservando che: a) qualora la tesi dei rimettenti fosse valida, la ragione dell’illegittimità costituzionale non risiederebbe nella scelta di configurare come reato l’inosservanza delle disposizioni sull’ingresso e il soggiorno dello straniero nel territorio dello Stato, ma nello stesso precetto, cioè nelle regole (collocate all’esterno della norma oggi sottoposta a scrutinio), che precludono o limitano l’ingresso o la permanenza degli stranieri nel detto territorio; b) in ordine al principio di solidarietà, per giurisprudenza di questa Corte in materia di immigrazione «le ragioni della solidarietà umana non possono essere affermate al di fuori di un corretto bilanciamento dei valori in gioco» (sentenza n. 353 del 1997). In particolare, «le ragioni della solidarietà umana non sono di per sé in contrasto con le regole in materia di immigrazione previste in funzione di un ordinato flusso migratorio e di un’adeguata accoglienza ed integrazione degli stranieri» (ordinanze n. 192 e n. 44 del 2006, n. 217 del 2001). Ciò nella cornice di un quadro normativo che vede regolati in modo diverso – anche a livello costituzionale (art. 10, terzo comma, Cost.) – l’ingresso e la permanenza degli stranieri nel Paese, a seconda che si tratti di richiedenti il diritto di asilo o rifugiati, ovvero di cosiddetti migranti economici (sentenza n. 5 del 2004), alla luce della discrezionalità che in materia spetta al legislatore;
che, sulla base di tali considerazioni, la questione sollevata con riferimento all’art. 2 Cost. deve essere dichiarata manifestamente infondata;
che i Giudici di pace di Lecce e di Pontassieve dubitano della legittimità costituzionale della norma censurata in relazione all’art. 97 Cost., sostenendo che essa sarebbe diretta ad ottenere l’espulsione dello straniero, cioè un risultato già conseguibile con la procedura amministrativa, per cui il procedimento penale costituirebbe un semplice duplicato;
che la questione, sotto tale profilo, è manifestamente infondata per l’inconferenza del parametro evocato, perché il principio del buon andamento è riferibile all’amministrazione della giustizia soltanto per quanto attiene all’organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari, non all’attività giurisdizionale in senso stretto (ex plurimis: sentenze n. 250 del 2010, n. 64 del 2009, n. 272 del 2008; ordinanze n. 408 del 2008 e n. 27 del 2007);
che, infine, i suddetti rimettenti dubitano della legittimità costituzionale della norma censurata in relazione all’art. 24 Cost., sostenendo che l’8 agosto 2009, al momento dell’entrata in vigore di detta norma, «tutti gli stranieri irregolari che si trovavano in Italia erano in ipotesi sanzionabili con la contravvenzione ivi prevista se non si fossero spontaneamente allontanati dal territorio nazionale». Infatti, non sarebbero stati contemplati un termine e una modalità operativa affinché tali soggetti potessero ottemperare al precetto legislativo, incorrendo dunque in violazione del citato parametro costituzionale;
che la questione così prospettata è manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza, in quanto dalle ordinanze di rimessione non risulta che gli stranieri imputati fossero in Italia al momento dell’entrata in vigore del citato art. 10-bis.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi avanti alla Corte costituzionale.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
a) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come introdotto dall’articolo 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), sollevate, in riferimento agli articoli 2, 3, 27, 117 della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe;
b) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, come introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge n. 94 del 2009, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, 117 Cost., dai Giudici di pace di Lecce e di Pontassieve, con le ordinanze indicate in epigrafe;
c) dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, come introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge n. 94 del 2009, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 25, 27, 97 Cost., dai Giudici di pace di Lecce e di Pontassieve, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2011.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2011.