SENTENZA N. 233
ANNO 2018
Commento
alla decisione di
Linda Ardizzone
La
Corte costituzionale amplia il novero dei soggetti a cui spetta il "congedo
straordinario” per assistere il familiare disabile ex art. 42, co. 5, d.lgs.
151/2001
per g. c. del Forum di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI
Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de
PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
- Luca ANTONINI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale
dell’art.
291-bis, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio
1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in
materia doganale), promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale ordinario di Napoli Nord, nel procedimento penale a carico di A. A. e
altri, con ordinanza
dell’8 febbraio 2017, iscritta al n. 124 del registro ordinanze 2017 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie
speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio
del 7 novembre 2018 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera.
1.– Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli
Nord, con ordinanza dell’8 febbraio 2017 (reg. ord. n. 124 del 2017), ha
sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 291-bis, primo
comma, del decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43,
recante «Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia
doganale» (da ora in poi: TULD), nella parte in cui prevede, per il reato di
contrabbando di tabacchi lavorati esteri, ove il quantitativo ecceda i dieci
chilogrammi, la pena pecuniaria di cinque euro di multa per ogni grammo
convenzionale di prodotto; misura, quest’ultima, definita ai sensi dell’art. 9
della legge 7 marzo 1985, n. 76 (Sistema di imposizione fiscale sui tabacchi
lavorati), espressamente richiamato dalla disposizione censurata.
Ad avviso del giudice a quo la norma
indubbiata sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 27, primo e terzo
comma, della Costituzione.
2.– Il rimettente premette che nel giudizio principale, celebrato con il rito
abbreviato, gli imputati sono giudicati per il reato di cui agli artt. 110 del
codice penale e 291-bis, primo comma, del TULD perché sorpresi a scaricare, da
un veicolo con targa estera, in un deposito sito nel territorio italiano,
tabacchi lavorati esteri (segnatamente sigarette) per un peso complessivo di
4.415,10 chilogrammi convenzionali. Precisa, inoltre, che il quadro probatorio
emerso dal giudizio non lascia dubbi in ordine alla responsabilità degli stessi
per le condotte loro ascritte.
3.– In ragione della cornice edittale prevista dalla fattispecie loro
contestata, il rimettente ha altresì evidenziato che all’affermazione della
penale responsabilità dovrebbe conseguire, accanto alla pena detentiva, una
multa quantificata in euro 6.540.888,89. Importo, questo, cui si dovrebbe
pervenire malgrado il «riconoscimento delle attenuanti generiche» e la
riduzione prevista sia per il rito sia per l’applicazione dell’art. 133-bis
cod. pen., nella sua massima estensione possibile.
Di qui il giudizio sulla rilevanza delle
questioni, giacché solo il loro accoglimento consentirebbe, nel caso, di non
comminare agli imputati una pena così gravosa, predeterminata nel suo ammontare
e in ogni caso non proporzionata alle condizioni economiche dei destinatari
della stessa.
4.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente rimarca che, secondo
la giurisprudenza di questa Corte, solo la pena mobile contribuisce, in linea
di principio, a rendere personale la responsabilità penale ai sensi dell’art.
27, primo comma, Cost., garantendo, nello stesso tempo, di finalizzare la
sanzione all’emenda nella prospettiva di cui al terzo comma del medesimo
articolo. Le pene fisse ed anche quelle «proporzionali fisse», dunque, potranno
superare il filtro della verifica di legittimità costituzionale solo nel caso
in cui, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione
prevista, siano in grado di garantire un trattamento sanzionatorio
ragionevolmente proporzionato rispetto all’intera gamma di comportamenti
riconducibili allo stesso tipo di reato.
Del resto, sottolinea il giudice a quo, anche
prescindendo dalla rigidità del criterio di determinazione, deve ritenersi
certa la sindacabilità, sul piano costituzionale, delle scelte assunte dal
legislatore laddove la discrezionalità che gli è propria nella materia in
oggetto trasmodi nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, dando così
corpo ad una violazione dell’art. 3 Cost.
5.– Ad avviso del rimettente, non deve ritenersi dirimente l’ordinanza di
questa Corte n.
475 del 2002, con la quale è stata dichiarata manifestamente infondata
analoga questione di legittimità costituzionale della disposizione censurata,
anche all’epoca sollevata in riferimento ai medesimi parametri.
Il rimettente sottolinea che con la citata
ordinanza si è esclusa la violazione dei richiamati parametri costituzionali,
dando rilievo al complessivo trattamento sanzionatorio previsto per la
fattispecie in disamina e, dunque, rimarcando la mobilità della pena detentiva
comminata congiuntamente a quella pecuniaria, tale da offrire al giudice un
consistente margine di adeguamento del trattamento sanzionatorio alle
particolarità del caso concreto, anche in rapporto a parametri oggettivi e
soggettivi diversi dalla semplice dimensione quantitativa dell’illecito.
In occasione di siffatta verifica, tuttavia,
la Corte non avrebbe considerato che gli effetti "sproporzionati” di una pena
pecuniaria esorbitante rispetto al fatto e alle condizioni economiche
dell’autore non sono destinati a venir meno neppure ancorando ai minimi
edittali la pena detentiva; né, ancora, sarebbe stato dato il giusto rilievo
all’ontologica diversità tra pene detentive e pene pecuniarie, trascurando di
considerare «che il contenuto patrimoniale di queste ultime rende la loro
funzione rieducativa innegabilmente diversa a seconda dei soggetti che ne sono
destinatari».
6.– Sulla base di tali premesse, il rimettente evidenzia che l’art. 291-bis
del TULD è norma a condotte alternative che, con riguardo alla pena pecuniaria,
sanziona allo stesso modo comportamenti eterogenei, i quali, in concreto,
possono essere dotati di diverso disvalore.
La rigidità del criterio che porta alla
determinazione della pena pecuniaria renderebbe quindi dubbio il rispetto del
principio della personalità della responsabilità penale, nonché quello della
proporzione della pena, non essendo la sanzione pecuniaria modulabile in
ragione della condotta accertata. Risulterebbe, del resto, indifferente al fine
anche il criterio «calmierante» di cui all’art. 133-bis, secondo comma, cod. pen., destinato a rimanere privo di effetti quando, come
nella specie, si sia al cospetto di una sanzione proporzionale per la quale non
sia fissato un limite edittale massimo.
7.– La disposizione censurata, ancora,
secondo il rimettente sarebbe in evidente contrasto con la funzione di emenda
garantita dall’art. 27, terzo comma, Cost., la cui attuazione non può
prescindere dalla percezione, da parte del reo, della pena come giusta e
adeguata rispetto al disvalore del suo comportamento; comprensione, nel caso,
messa in crisi vuoi in ragione della oggettiva condizione economica degli
imputati, vuoi in rapporto all’entità dei comportamenti che vengono loro
addebitati e dai quali ciascuno, per il ruolo assunto nella vicenda portata a
giudizio, avrebbe lucrato poche centinaia di euro.
8.– Ad avviso del giudice a quo, la irragionevole rigorosità della multa in
esame dipende dalla combinazione dei fattori scelti dal legislatore nel
pervenire alla determinazione della pena da comminare. In particolare, il
rimettente sottolinea che la quantità di tabacco lavorato estero riscontrata
viene rapportata ad un valore monetario predeterminato in modo fisso ed in
misura straordinariamente elevata, così da portare ad una pena pecuniaria di
cinque euro per ciascuna sigaretta fatta oggetto di contrabbando. Scelte,
queste, che non possono ritenersi giustificate dalla natura fiscale della
violazione contrastata, legata al mancato pagamento dei diritti di confine; e
che sono comunque foriere di una deriva sanzionatoria estranea al sistema,
perché non trovano riscontro in alcuna fattispecie analoga o assimilabile.
9.– Nel denunziare l’irragionevolezza della
pena censurata, il giudice a quo si richiama alla pena dettata per il «delitto
di detenzione, commercio e trasporto di droghe cosiddette pesanti»: ipotesi,
questa che, ad avviso del rimettente, si lega a beni comunque incommerciabili,
a differenza di quanto è a dirsi per i tabacchi lavorati esteri, e che, ciò
malgrado, risulta sanzionata da una multa, comunque elevata, modulata,
tuttavia, secondo una forbice che «prevede un minimo di ventiseimila e un massimo
di duecentosessantamila euro».
9.1.– Per altro verso, nell’ordinanza si evidenzia che, in materia di
contrabbando, la sanzione pecuniaria viene sempre calcolata in rapporto
proporzionale ai diritti di confine dovuti, stabilendosi un minimo e un massimo,
di regola tra il doppio e il decuplo, ed eventualmente fissandosi una soglia
minima di pena, al di sotto della quale non si può scendere.
E in tale prospettiva nell’ordinanza si fa
cenno non solo alle ipotesi di contrabbando previste dagli artt. da 282 a 291
dello stesso TULD, nel testo precedente alla depenalizzazione disposta con
l’art. 1 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia
di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile
2014, n. 67); ma anche alle sanzioni previste dagli artt. 40 e 43 del decreto
legislativo 26 ottobre 1995, n. 504 (Testo unico delle disposizioni legislative
concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni
penali e amministrative), rispettivamente in tema di sottrazione
all’accertamento o al pagamento dell’accisa sui prodotti energetici o di quella
afferente l’alcol e le bevande alcoliche.
9.2.– Nel valutare l’intrinseca ragionevolezza della pena in esame, dovrebbe
inoltre considerarsi, ad avviso del rimettente, che, accanto alla multa, viene
prevista la pena della reclusione fino a un massimo di cinque anni, il che già
sarebbe in grado di soddisfare una esigenza di maggior rigore rispetto alle
ipotesi sopra menzionate.
Si sarebbe innanzi, pertanto, ad una
incongruenza non giustificabile, che, senza invadere il campo della dosimetria
sanzionatoria propria del legislatore, potrebbe essere emendata con riferimento
alle grandezze dettate per le analoghe fattispecie di contrabbando, chiamate a
tutelare il medesimo interesse giuridico.
10.– Con atto depositato il 13 ottobre 2017 è intervenuto nel giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che le questioni vengano dichiarate inammissibili,
improcedibili o comunque infondate.
10.1.– La difesa dell’interveniente,
prendendo le mosse dall’ordinanza n. 475
del 2002 di questa Corte, per un verso rimarca che, nella specie, la
presenza, accanto alla pena pecuniaria censurata, di una pena detentiva mobile,
modulabile tra un minimo ed un massimo edittale, permette di escludere la
prospettata violazione dell’art. 27, primo comma, Cost., occorrendo guardare al
trattamento sanzionatorio complessivo dettato dalla norma; per altro verso,
sottolinea l’assenza di valide ragioni che possano giustificare una
rivisitazione dell’orientamento già espresso sul tema dalla Corte.
10.2.– Ad avviso dell’Avvocatura generale, il rimettente, nel valutare la
ragionevolezza intrinseca della pena pecuniaria in oggetto, avrebbe trascurato
di considerare che la gravosa pressione fiscale che caratterizza la
commercializzazione del prodotto di cui alla norma censurata trova la sua
ragion d’essere non solo nella necessità di generare entrate fiscali, ma anche
in quella di disincentivare il consumo per ragioni di tutela della salute. La
sanzione prevista dal legislatore, dunque, sarebbe coerentemente proporzionata
al disvalore provocato dalla introduzione e vendita nel territorio dello Stato
di sigarette di contrabbando perché volta a porre rimedio alla perdita di
gettito ma anche a contrastare il fenomeno del tabagismo ed i pericoli nello
stesso insiti.
10.3.– Peraltro – sempre secondo l’Avvocatura – la pronuncia sollecitata dal
rimettente troverebbe un ulteriore limite nella esclusiva discrezionalità del
legislatore in tema di dosimetria sanzionatoria penale, risultando preclusa
dalla impossibilità di rinvenire, nell’ordinamento, grandezze che, trasferite
all’interno della disposizione censurata, consentano una adeguata tutela del
bene giuridico considerato dalla norma incriminatrice.
1.– Il Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale ordinario di Napoli Nord ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e
27, primo e terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 291-bis, primo comma, del decreto del Presidente della
Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, recante «Approvazione del testo unico delle
disposizioni legislative in materia doganale» (da ora in poi: TULD), nella
parte in cui prevede, per il reato di contrabbando di tabacchi lavorati esteri
(da ora in poi: t.l.e.), quando il quantitativo eccede
i dieci chilogrammi convenzionali, la multa di cinque euro per ogni grammo
convenzionale di prodotto.
2.– Il giudice a quo è investito di un processo penale, celebrato con il rito
abbreviato, nei confronti di più persone, imputate, in concorso tra loro, del
reato di cui all’art. 291-bis del TULD, in ragione della contestata detenzione
di t.l.e. (segnatamente sigarette), per un peso
complessivo di 4.415,10 chilogrammi convenzionali.
2.1.– Il rimettente precisa che il quadro probatorio emerso dal giudizio
principale non lascia margini di dubbio in ordine alla responsabilità degli
imputati.
Rimarca, inoltre, che, in ragione della
cornice edittale di riferimento, al giudizio di responsabilità dovrebbe
conseguire – accanto alla pena detentiva, prevista dalla disposizione censurata
in una forbice edittale ricompresa tra un minimo di due anni ed un massimo di
cinque anni – la comminatoria della multa in misura di euro 6.540.888,89 per
ciascun imputato. Importo, questo, cui si dovrebbe pervenire, alla luce del
parametro convenzionale definito dall’art. 9 della legge 7 marzo 1985, n. 76
(Sistema di imposizione fiscale sui tabacchi lavorati), espressamente
richiamato dalla norma censurata; e ciò malgrado la riduzione per la scelta del
rito abbreviato e quella prevista dall’art. 133-bis, secondo comma, del codice
penale, nella massima estensione possibile.
2.2.– Il rimettente prospetta la violazione degli artt. 3 e 27, primo e terzo
comma, Cost. perché, a suo avviso, la disposizione
censurata prevede una pena pecuniaria proporzionale, rigida nella sua
determinazione, manifestamente sproporzionata rispetto al disvalore oggettivo
delle condotte sanzionate, oltre che indifferente alle connotazioni specifiche
del fatto ed alle condizioni economiche del reo.
La multa prevista dalla norma posta allo
scrutinio di questa Corte, dunque, sarebbe in contrasto con lo statuto
costituzionale della pena in relazione ai principi di proporzionalità e di
personalità della responsabilità penale, ponendosi altresì in conflitto con la
finalità rieducativa cui deve tendere il trattamento sanzionatorio.
L’intrinseca irragionevolezza addotta dal
rimettente troverebbe, inoltre, conferma nella diversa e ben minore forza
afflittiva della pena pecuniaria prevista per altre figure di reato, ritenute
omogenee, per la natura degli interessi tutelati, a quella censurata.
3.– L’ordinanza non è affetta da vizi che possano inficiarne l’ammissibilità.
La stessa difesa del Presidente del Consiglio
dei ministri, intervenuto in giudizio, pur concludendo (anche) per
l’inammissibilità delle questioni, non ha indicato effettive ragioni ostative
alla verifica del merito delle censure in esame.
3.1.– In particolare, non assume rilievo pregiudiziale l’affermata assenza,
eccepita dalla difesa erariale, di una soluzione costituzionalmente obbligata
con riguardo alla individuazione del trattamento sanzionatorio conseguenziale
all’ablazione invocata dal rimettente.
Vero è che non appartengono a questa Corte
valutazioni discrezionali di dosimetria sanzionatoria penale, di esclusiva
pertinenza del legislatore. Spetta, infatti, alla rappresentanza politica il
compito di individuare il grado di reazione dell’ordinamento al cospetto della
lesione di un determinato bene giuridico. Ciò, tuttavia, non preclude, a monte,
l’intervento di questa Corte laddove le scelte sanzionatorie adottate dal
legislatore si siano rivelate manifestamente arbitrarie o irragionevoli e il
sistema legislativo consenta l’individuazione di soluzioni, anche alternative
tra loro, che, per la omogeneità che le connota rispetto alla norma censurata,
siano tali da «ricondurre a coerenza le scelte già delineate a tutela di un
determinato bene giuridico, procedendo puntualmente, ove possibile,
all’eliminazione di ingiustificabili incongruenze» (sentenza n. 236 del
2016).
3.2.– In questa ottica, l’ammissibilità delle
questioni inerenti ai profili di illegittimità costituzionale dell’entità della
pena stabilita dal legislatore può ritenersi condizionata non tanto dalla
presenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla puntuale
indicazione, da parte del giudice a quo, di previsioni sanzionatorie
rinvenibili nell’ordinamento che, trasposte all’interno della norma censurata,
garantiscano coerenza alla logica perseguita dal legislatore, una volta
emendata dai vizi di illegittimità addotti, sempre se riscontrati.
3.3.– Il rimettente si è posto in linea con tali indicazioni interpretative,
avendo chiesto, nel corpo dell’ordinanza, di colmare la lacuna conseguenziale
all’eventuale accoglimento delle questioni sostituendo, al trattamento
sanzionatorio censurato, quello dettato per le fattispecie di contrabbando
doganale previste dagli artt. da 282 a 291 del TULD.
Altro è, invece, l’aspetto inerente alla
correttezza di siffatta indicazione, afferente al merito delle questioni.
4.– Nel merito, le questioni non sono fondate.
5.– La fattispecie incriminatrice, che prevede il trattamento sanzionatorio
censurato, è collocata all’interno del TULD in forza delle modifiche apportate
dalla legge 19 marzo 2001, n. 92 (Modifiche alla normativa concernente la
repressione del contrabbando dei tabacchi lavorati), con la quale è stato
riformato il regime normativo inerente al contrabbando di t.l.e.
In particolare, la disposizione posta allo scrutinio di questa Corte ha
sostituito l’art. 2 della legge 18 gennaio 1994, n. 50 (Modifiche alla
disciplina concernente la repressione del contrabbando dei tabacchi lavorati),
che in precedenza disciplinava la fattispecie, espressamente abrogato dall’art.
7 della stessa legge n. 92 del 2001.
5.1.– Rispetto alla previgente disciplina, la
disposizione censurata, in coerenza con il complessivo portato dell’intervento
di riforma che ha interessato la materia, appare caratterizzata da un
consistente inasprimento del trattamento sanzionatorio, sia in riferimento al
limite di peso della merce contrabbandata considerato nel definire la
fattispecie, sia per l’aggravamento della pena detentiva, sia per il calcolo
della pena pecuniaria da comminare, non più proporzionale al valore
dell’imposta evasa bensì alla quantità della merce oggetto del contrabbando.
5.2.– In precedenza il reato in questione
poteva configurarsi solo quando la merce oggetto di contrabbando si fosse
rivelata superiore ai quindici chilogrammi: sotto questa soglia, dunque, le
relative condotte finivano per restare assorbite nelle violazioni doganali
previste dagli artt. 282 e seguenti del citato TULD, a seconda della specifica
dinamica in fatto, con conseguente applicazione della sola pena pecuniaria,
rapportata alla misura delle imposte evase, giacché la pena detentiva, da
cumulare alla multa, presupponeva invece l’ulteriore riscontro di una delle
ipotesi aggravate previste dall’art. 295 del medesimo TULD.
5.3.– La nuova fattispecie di reato introdotta dalla novella del 2001 ha
regolato in modo del tutto autonomo il contrabbando di t.l.e.,
attraendo alla relativa disciplina, quale che ne sia il peso, tutte le ipotesi
che hanno ad oggetto l’illecita introduzione in Italia di tale tipo di merce.
In particolare, vengono distinte due ipotesi,
in coincidenza con i due commi di cui si compone l’art. 291-bis del TULD.
Quella prevista dal primo comma del detto articolo,
sottoposta all’odierna verifica di legittimità costituzionale, porta
all’applicazione congiunta della pena pecuniaria e della pena detentiva: la
quantità di t.l.e. utile a giustificare siffatto
trattamento sanzionatorio è tuttavia più bassa di quella prevista dalla norma
previgente, giacche è sufficiente al fine un quantitativo eccedente i dieci
chilogrammi convenzionali.
Al di sotto di tale ultima soglia, la pena
originariamente scelta dal legislatore della novella era esclusivamente la
multa prevista dal secondo comma dell’articolo in oggetto; la fattispecie,
tuttavia, risulta oggi depenalizzata in virtù di quanto dettato dall’art. 1,
comma 1, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia
di depenalizzazione, a norma dell’art. 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014,
n. 67), così come confermato, da ultimo, anche dalla giurisprudenza di
legittimità (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 6 aprile 2018,
n. 15436).
5.4.– Nell’ottica del maggior rigore sanzionatorio perseguito dalla riforma, va
rimarcato che la legge n. 92 del 2001 ha inciso sulla pena detentiva da
comminare, aggravata sia nel minimo (portata da uno a due anni), sia nel
massimo (aumentata da quattro a cinque anni) rispetto a quanto previsto dalla disposizione
previgente.
Quanto alla pena pecuniaria, la stessa
risulta autonomamente disciplinata e non più regolata attraverso l’esplicito
richiamo, in origine contenuto nell’abrogato art. 2 della legge n. 50 del 1994,
al trattamento dettato dal TULD per le altre violazioni doganali, proporzionato
al valore dell’imposta evasa.
La disposizione censurata, introdotta dalla
novella del 2001, prevede, invece, una pena pecuniaria proporzionale correlata
alla quantità della merce oggetto del contrabbando, a sua volta commutata in
termini monetari sulla base di un valore predeterminato dal legislatore (cinque
euro per ogni grammo convenzionale di t.l.e.
illegalmente introdotto nel territorio nazionale).
6.– Il trattamento sanzionatorio riservato dal legislatore al fenomeno
criminale del contrabbando di t.l.e. appare dunque
caratterizzato da un evidente maggiore rigore rispetto a quanto previsto per le
altre violazioni doganali considerate dal TULD.
Oltre alla già rimarcata differenza afferente
al criterio di determinazione della multa, va infatti evidenziato che, per le
altre violazioni doganali, la pena detentiva, congiunta alla pena pecuniaria,
viene riferita alle ipotesi aggravate previste dall’art. 295, secondo comma,
del relativo TULD o al caso, previsto dal terzo comma dello stesso articolo, in
cui l’ammontare dei diritti evasi superi l’importo di euro 49.993,03.
Sotto questo versante, va inoltre
sottolineato che il massimo edittale relativo alla pena detentiva, prevista per
le ipotesi aggravate in questione (cinque anni), coincide con quello dettato
per l’ipotesi semplice di contrabbando relativo ai t.l.e.,
di cui all’art. 291-bis, primo comma, del medesimo TULD; fattispecie,
quest’ultima, soggetta, peraltro, ad un apparato circostanziale autonomo,
quello dettato dal successivo art. 291-ter del TULD, con la previsione di un
massimo di pena in coerenza ancora più elevato, pur a fronte di condotte
materiali sostanzialmente analoghe.
7.– Una siffatta differenziazione di regime trova motivazione nel diverso disvalore
criminale che va ascritto ai detti fenomeni delittuosi.
7.1.– Il bene giuridico tutelato dalle violazioni doganali, compreso il
contrabbando sanzionato dalla norma indubbiata, è la potestà dello Stato (e
dell’Unione europea) alla puntuale percezione dei tributi.
L’essenza comune degli illeciti in esame è
data, infatti, dall’inosservanza dei "diritti di confine” da riscuotere in
relazione alle operazioni doganali; diritti che, così come descritti dall’art.
34 del TULD, ricomprendono, oltre ai dazi (risorsa propria dell’Unione), anche
le accise sui consumi, tra le quali ultime va annoverata quella legata alla
commercializzazione del tabacco lavorato in Italia, disciplinata dal decreto
legislativo 26 ottobre 1995, n. 504 (Testo unico delle disposizioni legislative
concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni
penali e amministrative).
Di qui la coerente collocazione sistematica
del contrabbando di t.l.e. all’interno del TULD,
realizzata dalla legge n. 92 del 2001 anche in considerazione dei profili di
armonizzazione all’epoca perseguiti, in tema di frode agli interessi finanziari
di matrice comunitaria, dalla Convenzione sulla tutela degli interessi
finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995, ratificata
e resa esecutiva con la legge 29 settembre 2000, n. 300.
7.2.– Malgrado tali momenti di contatto, l’ipotesi delittuosa legata al
contrabbando di t.l.e., sin dalla sua originaria
previsione, ha sempre mantenuto un profilo di autonomia rispetto alle altre
violazioni doganali penalmente sanzionate, come confermato sia dallo specifico
tenore della disciplina di riferimento, sia dal diverso peso afflittivo che,
con riguardo alla pena detentiva in particolare, sin dalla legge n. 50 del
1994, caratterizza il relativo trattamento sanzionatorio.
7.2.1.– Per quanto di primario rilievo, la tutela delle entrate finanziarie non
assorbe in modo esaustivo l’area di interesse coperta dalle previsioni
sanzionatorie correlate alle violazioni doganali.
Se per le ipotesi di contrabbando che hanno
ad oggetto merce diversa dai t.l.e. in genere
l’ulteriore valore tutelato è offerto dal leale dispiegarsi delle dinamiche
concorrenziali (in ragione del complessivo tenore dell’art. 32 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea), per la fattispecie in disamina viene invece
in considerazione il diverso e certamente maggiore allarme sociale che tale
forma di contrabbando suscita.
7.2.2.– Il contrabbando di t.l.e. è, infatti, fenomeno
criminale che – come del resto testualmente si ricavava in considerazione del
tenore letterale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 50 del 1994 – interseca
gli interessi della criminalità organizzata, allettata dagli ingenti profitti
che tale iniziativa illecita garantisce immediatamente.
Profitti, questi, che risultano acquisiti
secondo percorsi analoghi a quelli propri di altri traffici transnazionali
(inerenti agli stupefacenti, alle armi, all’immigrazione clandestina),
notoriamente dominati dalle organizzazioni criminali; e che costituiscono, a
loro volta, l’utile provvista da reimpiegare in altre iniziative, non
necessariamente illecite, secondo tecniche sempre più sofisticate.
7.2.3.– Le condotte che la fattispecie in esame mira a sanzionare, dunque, in
quanto destinate a ledere l’ordine e la sicurezza pubblica, ben più di quanto
possa ritenersi per le altre violazioni doganali, sono causa di significativi
danni nei confronti dello Stato, non esclusivamente limitati al profilo
finanziario delle entrate non percepite.
Si impongono per il legislatore, quindi,
risposte, sul piano della repressione, diverse e più pregnanti rispetto a
quelle previste per le altre ipotesi di contrabbando.
7.3.– Il peculiare disvalore criminale del contrabbando di t.l.e.
porta inoltre a differenziare la relativa disciplina da quella dettata per
l’illecita commercializzazione dei tabacchi lavorati nazionali.
Ci si riferisce alle ipotesi previste dagli
artt. 65 e 66, numeri 3), 4), e 5), della legge 17 luglio 1942, n. 907 (Legge
sul monopolio dei sali e tabacchi), sanzionate dagli artt. 1 e 4 della legge 3
gennaio 1951, n. 27 (Modificazioni alla legge 17 luglio 1942, n. 907, sul
monopolio dei sali e dei tabacchi) con la pena della reclusione (fino a due
anni) e della multa (modulata tra un minimo di «lire 150.000» e un massimo di
«lire 450.000» per ogni chilogrammo), quando la quantità del tabacco supera i
quindici chilogrammi.
Trattamento sanzionatorio, questo,
all’evidenza meno afflittivo rispetto a quanto previsto dalla disciplina
scrutinata; e ciò secondo canoni di differenziazione anche qui motivati dal
diverso e maggiore allarme sociale che il contrabbando di t.l.e.
esprime rispetto all’attività criminale avente ad oggetto il tabacco lavorato
nazionale, in termini di «diffusività del fenomeno, di realizzazione di
proventi e di collegamento con organizzazioni criminali sotto il profilo
qualitativo e quantitativo» (Corte di cassazione, sezioni unite penali,
sentenza 8 gennaio 1998, n. 119; resa con riferimento all’art. 2 della legge n.
50 del 1994).
7.4.– Il maggior rigore sanzionatorio che ispira le modifiche apportate, dalla
legge n. 92 del 2001, all’originaria disciplina dettata in materia di
repressione del contrabbando di t.l.e., muove da una
sempre più marcata consapevolezza della differenza di siffatta fattispecie
rispetto alle altre violazioni doganali.
Il pregiudizio ai consistenti interessi
finanziari dello Stato mantiene di certo rilievo primario nella definizione
della relativa previsione incriminatrice; ma l’intervento normativo realizzato
introducendo, tra le altre, anche la disposizione censurata, come traspare con
evidenza dai relativi lavori preparatori, abbraccia sempre più l’esigenza di
reprimere adeguatamente un fenomeno criminale caratterizzato, come dianzi
rilevato, da una crescente recrudescenza alla luce dell’ancora più marcato
coinvolgimento delle organizzazioni criminali, anche sul piano internazionale,
capaci di movimentare ingenti capitali e di realizzare profitti elevati su
vasta scala.
7.5.– In particolare, con riguardo alle modifiche apportate in ordine alla pena
pecuniaria da comminare, va sottolineata la scelta del legislatore di delineare
ancora più nettamente la distanza tra le violazioni doganali in genere e quelle
afferenti il contrabbando di t.l.e.
A tale fine, assume un’evidente valenza
esplicativa il giudizio, particolarmente negativo, espresso in occasione dei
relativi lavori preparatori, sulla disciplina all’epoca vigente, configurata,
per l’appunto, replicando i tratti della multa dettata per le altre violazioni
doganali: trattamento sanzionatorio, quello oggetto di modifica, definito «risibil[e]» e, anche per le difficoltà di escussione della
pena, comunque inadeguato allo scopo, perché non in grado di incidere in
termini di effettiva deterrenza, risolvendosi in una insignificante
monetizzazione del rischio legato a tale attività criminale (relazione di
accompagnamento al disegno di legge governativo, Atto Camera n. 6333,
presentato il 14 settembre 1999, XIII legislatura).
8.– La multa prevista dalla disposizione censurata, introdotta all’esito delle
citate innovazioni apportate dalla legge n. 92 del 2001, rientra tra le pene
pecuniarie proporzionali, contrapposte a quelle fisse dall’art. 27 cod. pen. A
differenza di queste ultime, rispetto alle quali la misura della sanzione
dipende unicamente dal valore predeterminato dal legislatore, quale che sia il
disvalore riferibile alla fattispecie concreta, le pene pecuniarie
proporzionali modulano il trattamento punitivo in considerazione della
dimensione effettiva dell’illecito.
Nel caso di specie, in particolare, la pena
da comminare dipende dal prodotto di due fattori numerici, il primo dei quali è
un coefficiente variabile, chiamato a disvelare la dimensione concreta della
singola fattispecie (la quantità della merce contrabbandata); il secondo è un
importo monetario predeterminato in modo fisso dal legislatore, destinato a
descrivere il disvalore intrinseco della fattispecie astratta (cinque euro per
ogni grammo convenzionale di prodotto).
8.1.– Prendendo le distanze dalla disciplina
previgente e, dunque, da quanto previsto per le altre violazioni doganali, il
legislatore della riforma ha correlato il coefficiente variabile previsto dalla
fattispecie in esame alla quantità del tabacco oggetto di contrabbando,
avvalendosi, al fine, della medesima unità di misura presa in considerazione
per l’imposizione fiscale, id est il chilogrammo convenzionale fissato
dall’art. 9 della legge n. 76 del 1985; disposizione, quest’ultima, abrogata
dall’art. 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 29 marzo 2010, n. 48
(Attuazione della direttiva 2008/118/CE relativa al regime generale delle
accise e che abroga la direttiva 92/12/CEE), ma pedissequamente ribadita, nei
relativi contenuti, dall’art. 39-quinquies, comma 1, della legge n. 504 del
1995 (in ragione di quanto previsto dall’art. 1, comma 1, lettera nn, del detto
d.lgs. n. 48 del 2010).
8.2.– L’altro dato offerto dalla fattispecie
in esame, il valore base monetario da moltiplicare al coefficiente variabile
sopra indicato, è stato predeterminato dal legislatore in misura di cinque euro
per ciascun grammo convenzionale di t.l.e., elevando
l’incidenza afflittiva della sanzione in esame, soprattutto in considerazione
dell’assenza di un tetto massimo di pena, coerentemente con quanto dettato in
linea generale dall’art. 27 cod. pen., per il quale le «pene pecuniarie
proporzionali non hanno limite massimo».
La pena in esame dipende, infatti, unicamente
dalla quantità di t.l.e. oggetto di contrabbando e
non trova limite in una soglia non altrimenti superabile (in precedenza
individuata nel decuplo dei diritti di confine evasi).
9.– Ciò premesso sul piano sistematico, va evidenziato che le censure sono
state prospettate dal rimettente evocando congiuntamente la violazione
dell’art. 3 e dell’art. 27, primo e terzo comma, Cost.
Possono tuttavia distinguersi due diverse
angolazioni, autonome anche se strettamente connesse tra loro.
Sotto il primo versante, le censure investono
la rigidità del criterio di determinazione della multa prescelto dal
legislatore, con le conseguenze che comporta sul piano della responsabilità
personale e della funzione rieducativa della pena. E ciò in ragione sia della
addotta impossibilità, per il giudice, di modulare la sanzione in funzione delle
specifiche connotazioni, oggettive e soggettive, della condotta, sia della
mancanza di un tetto massimo rispetto al trattamento prospettabile.
Sotto il secondo versante, le censure
investono l’asserita sproporzione tra il fatto preso in considerazione dalla
norma incriminatrice e la pena pecuniaria da comminare nell’ottica della
intrinseca irragionevolezza della disposizione in esame.
10.– Quanto ai dubbi di legittimità costituzionale legati alla rigidità del
criterio che porta alla determinazione della pena pecuniaria prevista dalla
disposizione censurata, assume rilievo l’ordinanza n. 475
del 2002, con la quale questa Corte ha dichiarato manifestamente infondata
una identica questione, anche all’epoca sollevata nei confronti della norma
censurata in riferimento ai medesimi parametri.
10.1.– Con la citata ordinanza, nell’affrontare il tema della non modulabilità della sanzione pecuniaria che il giudice è
chiamato ad applicare, è stato dato rilievo al trattamento sanzionatorio
complessivo predisposto dal legislatore, rimarcando, in particolare, che,
accanto alla multa, è prevista anche la pena detentiva della reclusione «con
una forbice edittale di ampiezza significativa».
In una simile situazione, è stato da questa
Corte sottolineato che «i limiti costituzionali alla previsione di risposte
punitive rigide», così come descritti principalmente dalla sentenza n. 50 del
1980, non vengono comunque in rilievo tenuto conto della «graduabilità
della pena detentiva comminata congiuntamente a quella pecuniaria», tale da
offrire al giudice «un consistente margine di adeguamento del trattamento
sanzionatorio alle particolarità del caso concreto, anche in rapporto a
parametri oggettivi e soggettivi diversi dalla semplice "dimensione
quantitativa” dell’illecito» (ordinanza n. 475
del 2002).
Orientamento, questo, ribadito nel tempo,
perché una tale opzione legislativa lascia «adeguati spazi alla discrezionalità
del giudice, ai fini dell’adeguamento della risposta punitiva alle singole
fattispecie concrete» (ordinanza n. 91 del
2008); ancor di più in presenza di pene pecuniarie proporzionali che, come
quella di specie, sono di per sé stesse «caratterizzate da un certo grado di
variabilità in ragione dell’offensività del fatto» (sentenza n. 142 del
2017).
11.– L’ordinanza in esame non offre argomenti che consentano di abbandonare
siffatto, consolidato, orientamento.
11.1.– Secondo il rimettente, la Corte, nell’escludere l’illegittimità
costituzionale, sotto il profilo esaminato, della multa prevista dalla
disposizione censurata, non avrebbe considerato le peculiarità proprie delle
pene pecuniarie, avuto riguardo, in particolare, alla funzione rieducativa che
il trattamento sanzionatorio deve tendere a realizzare.
11.2.– L’assunto non è convincente.
Non è in discussione la possibilità di
riconoscere anche alla pena pecuniaria compiti compatibili con la funzione
rieducativa, in linea con lo statuto costituzionale della pena descritto dall’art.
27 Cost. (sentenze n. 12 del 1966
e n. 113 del
1968).
Una tale finalizzazione, tuttavia, assume
spessore diverso a seconda delle connotazioni oggettive del tipo di sanzione; e
laddove, come nella specie, si preveda, accanto alla pena pecuniaria, la
congiunta comminatoria della pena detentiva, non può ritenersi incongrua la
scelta di assegnare primariamente a quest’ultima – dando rilievo all’unitarietà
del trattamento sanzionatorio complessivamente predisposto dal legislatore – il
compito di realizzare la funzione rieducativa, risultando così garantiti, al
contempo, anche i profili inerenti alla individualizzazione della pena,
ancorati al disposto dell’art. 27, primo comma, Cost.
11.3.– Né vale sostenere che, nel caso, le superiori osservazioni andrebbero
riviste in ragione della mancata previsione di un tetto massimo di pena, tale
da determinare, ad avviso del rimettente, una inaccettabile neutralizzazione di
fatto del ruolo ascritto all’art. 133-bis, secondo comma, cod. pen. con riguardo alla commisurazione della pena in rapporto alle
condizioni economiche del reo.
11.4.– L’assenza di un tetto massimo di pena, coerente con la già citata
indicazione generale offerta, per le pene pecuniarie proporzionali, dall’art.
27 cod. pen., non si pone in contrasto con i principi dettati dall’art. 27
Cost.
Se è vero infatti che la previsione di una
soglia non superabile «consentirebbe di evitare l’irrogazione di sanzioni
eccessivamente elevate», è del pari incontrovertibile che ciò «potrebbe
pregiudicare l’effetto dissuasivo della sanzione pecuniaria nei casi in cui
commettere il reato risulta vantaggioso e profittevole sul piano economico,
anche a rischio di subire la sanzione penale» (sentenza n. 142 del
2017).
In linea con le connotazioni ordinariamente
proprie delle pene pecuniarie proporzionali, razionalmente confacenti alla
repressione di reati che, come quello posto all’attenzione di questa Corte,
risultano dominati da oggettive finalità di lucro, la multa prevista dalla
fattispecie censurata mira a disincentivare la commissione delle relative condotte
in forza di un meccanismo utilitaristico-economico destinato ad apportare al
reo, in conseguenza dell’applicazione della sanzione, uno svantaggio
patrimoniale tale da rendere controproducente la commissione dell’illecito,
quali che siano le specifiche modalità di realizzazione del fatto.
Mentre la misura della sanzione, anche
particolarmente elevata, appare comunque sempre raccordata alla gravità
dell’offesa (nel caso per il riferimento al quantitativo della merce
contrabbandata), per altro verso, la previsione di un tetto massimo finirebbe
per privare di effettività la funzione primaria perseguita dal legislatore,
quella di disincentivare l’iniziativa illecita azzerando le prospettive di
lucro correlate alla condotta incriminata.
12.– Ciò non esclude che le pene pecuniarie proporzionali possono comunque, in
taluni casi, dar luogo ad un trattamento intrinsecamente irragionevole per la
manifesta sproporzione che potrebbe prospettarsi tra il disvalore del fatto
incriminato e la cornice edittale dettata per sanzionarlo.
E tanto porta al secondo ordine di censure
prospettate dal rimettente.
12.1.– L’art. 3 Cost. esige «che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto
illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo
alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni
individuali»; laddove, poi, «la proporzione tra sanzione e offesa difetti
manifestamente, perché alla carica offensiva insita nella condotta descritta
dalla fattispecie normativa il legislatore abbia fatto corrispondere
conseguenze punitive di entità spropositata, non ne potrà che discendere una
compromissione ab initio del processo rieducativo»
così da dare corpo ad una «violazione congiunta degli artt. 3 e 27 Cost.,
essendo lesi sia il principio di proporzionalità della pena rispetto alla
gravità del fatto commesso, sia quello della finalità rieducativa della pena» (sentenza n. 236 del
2016).
La cifra di tale manifesta inadeguatezza non
è tuttavia rappresentata dal livello di asprezza cui può pervenire la pena da
comminare secondo il modulo di commisurazione predeterminato dal legislatore.
Il sistema delle pene proporzionali, infatti,
in genere è congegnato in termini tali da garantire un rapporto costante tra
rilevanza del fatto ed entità della risposta punitiva sicché al crescere della
prima corrisponde, in nome del principio di offensività, il diverso e sempre
più pregnante portato della seconda.
12.2.– Piuttosto, la manifesta irragionevolezza utile a conclamare l’evocata,
congiunta, lesione degli artt. 3 e 27 Cost. va
verificata guardando ai coefficienti, quello monetario base e quello
moltiplicatore, presi in considerazione dal legislatore nel definire il
meccanismo sanzionatorio censurato. Il perimetro del sindacato di
costituzionalità chiesto nel caso alla Corte attiene pertanto alla verifica
della ragionevolezza o della sproporzione dei fattori da considerare nel
procedere al computo della pena.
13.– Sotto il versante della ragionevolezza intrinseca, il rimettente, facendo
leva sulla natura tributaria del reato in oggetto, ha censurato la
«parametrazione della multa» al quantitativo del prodotto oggetto di
contrabbando, lamentando, al contempo, la misura «straordinariamente» elevata
del valore monetario base fissato dal legislatore per pervenire alla
determinazione della pena pecuniaria.
14.– Anche queste censure non colgono nel segno.
Nel verificare la legittimità costituzionale
delle scelte legislative inerenti alla configurazione delle fattispecie
incriminatrici o alla qualità e quantità delle pene, non si può non tenere nel
debito conto, infatti, che le stesse dipendono non solo dal bene o dai beni
giuridici tutelati, astrattamente valutati, ma anche dalle finalità che, nel
contesto storico in cui le opzioni in parola vengono operate, il legislatore
persegue; né può disconoscersi il rilievo che occorre ascrivere agli effetti
indiretti che i fatti incriminati vanno a produrre nell’ambiente sociale in cui
si realizzano. Necessità di prevenzione generale e di riduzione dell’allarme
sociale cagionato dai reati convergono, dunque, insieme alle ragioni innanzi
indicate, a motivare le opzioni legislative nella determinazione delle ipotesi
criminose tipiche e delle pene ritenute congrue al fatto incriminato (sentenza n. 62 del
1986).
Ne consegue che, nel valutare le scelte
operate dal legislatore con riguardo alla fattispecie in esame, non si può
prescindere dalle esigenze che giustificarono l’intervento riformatore
apportato dalla legge n. 92 del 2001, ispirato, come già prima evidenziato,
dalla necessità di garantire un maggiore rigore repressivo nell’affrontare il
fenomeno criminale del contrabbando di t.l.e. sul
presupposto della inadeguatezza del pregresso regime punitivo; e ciò in ragione
della sempre più marcata interdipendenza tra tale fattispecie ed il circuito
proprio della criminalità organizzata, nonché della riscontrata recrudescenza
di tali iniziative illecite.
14.1.– Con riguardo alla pena pecuniaria, va nuovamente sottolineato che la
scelta di modificare il pregresso regime ha trovato giustificazione nella
ritenuta inadeguatezza della multa prevista in precedenza, proporzionata al
valore della imposta evasa e a compasso edittale predefinito. Sanzione, questa,
che non garantiva le istanze di prevenzione generale imposte dal disvalore
criminale della fattispecie astratta, perché finiva per rappresentare un costo
dell’operazione criminale, computato nella monetizzazione del relativo rischio.
Considerando, dunque, la fattispecie alla
luce dell’intera gamma degli interessi presi in considerazione dal legislatore,
deve escludersi che possa ritenersi irrazionale il riferimento al quantitativo
della merce contrabbandata quale coefficiente moltiplicatore destinato a
rilevare la gravità del fatto. Come già sottolineato, la fattispecie in
questione è infatti connotata da un disvalore che non può essere circoscritto
esclusivamente alla lesione della potestà tributaria dello Stato.
Piuttosto, l’aggancio alla dimensione
quantitativa della merce oggetto di contrabbando è certamente in grado di
descrivere il disvalore concreto del fatto; appare, inoltre, coerente con le
connotazioni intrinseche della stessa disposizione censurata, avuto riguardo al
parametro scelto per distinguere tra le due ipotesi previste dall’art. 291-bis
del TULD.
14.2.– Quanto al valore monetario considerato alla base del computo della pena,
non può non ribadirsi che, nel caso, l’intenzione perseguita è quella di
scoraggiare le relative attività illecite, utilizzando una grandezza di
dimensioni tali da costituire una forza deterrente in grado di contrastare le
ingenti prospettive di lucro correlate al contrabbando di t.l.e.
Alla luce dell’insieme delle componenti in
gioco (che, come dianzi sottolineato, vanno dalla tutela delle entrate
finanziarie dello Stato e dell’Unione europea alle ragioni di interesse
correlate al contrasto della criminalità organizzata), il monito espresso
tramite il valore monetario scelto dal legislatore nel definire la pena
pecuniaria da comminare non è dunque viziato dalla arbitrarietà che dovrebbe
portare al vulnus prospettato.
14.3.– Né a considerazioni diverse sulla
ragionevolezza di siffatto valore è lecito pervenire facendo riferimento alla
valutazione comparativa prospettata dal rimettente con riguardo al trattamento
sanzionatorio dettato per la fattispecie prevista dall’art. 73, comma 1, del
decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico
delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,
prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza),
nel suo tenore originario, che ha ripreso applicazione a seguito della sentenza
di questa Corte n.
32 del 2014; fattispecie, questa, diretta a sanzionare penalmente, tra le
altre, anche le condotte che si sostanziano nell’illecita importazione delle
cosiddette "droghe pesanti” (quelle di cui alla tabella I prevista dall’art. 14
dello stesso decreto).
A parte la diversità dei beni giuridici
tutelati, non necessariamente decisiva nel giudizio di comparazione (sentenza n. 68 del
2012), assume rilievo, piuttosto, la assai sensibile differenza offerta
dalle due cornici edittali: l’illecita importazione di droghe pesanti, accanto
ad una pena pecuniaria proporzionale certamente meno rigorosa, prevede,
infatti, una pena detentiva caratterizzata da una forbice edittale priva di
ogni possibile confronto con quella prevista dalla norma censurata, considerate
sia la pena base (otto anni), sia il massimo di pena (venti anni) all’uopo
dettate.
Tanto esclude in radice l’omogeneità tra le
due ipotesi di reato, aspetto indefettibile del giudizio comparativo proposto
dal rimettente.
14.4.– Del pari, deve escludersi che il giudizio di ragionevolezza della
previsione censurata possa validamente ancorarsi alla comparazione con il trattamento
sanzionatorio previsto per le altre violazioni doganali dal TULD o con le pene
disposte dalla legge n. 504 del 1995 per la sottrazione all’accertamento o al
pagamento dell’accisa sui prodotti energetici (art. 40) o sull’alcol e sulle
bevande alcoliche (art. 43).
Anche a voler trascurare le non indifferenti
distanze strutturali che possono riscontrarsi tra gli illeciti nel caso
comparati dal rimettente, si rivela determinante la più volte rimarcata
disomogeneità legata al diverso e ben maggiore allarme sociale e al correlato
disvalore criminale della fattispecie scrutinata, tale da giustificare
trattamenti sanzionatori differenziati.
Con riferimento specifico alle violazioni
doganali previste dal TULD, va ulteriormente sottolineato che la comparazione
andrebbe effettuata guardando alle ipotesi non aggravate di contrabbando, oggi
tutte depenalizzate e trasformate in illeciti amministrativi ai sensi del
citato art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016.
E ciò rende ancora più dubbia la
comparabilità prospettata, sia per la diversità di statuto tra sanzioni penali
e sanzioni amministrative; sia per le nuove connotazioni dell’odierno illecito
amministrativo, rispetto alle quali, per quanto previsto dal comma 6 del detto
art. 1 del d.lgs. n. 8 del 2016, il compasso sanzionatorio risulta comunque
rapportato al valore dell’imposta evasa, indice volutamente abbandonato dal
legislatore in occasione delle modifiche apportate con la legge n. 92 del 2001.
Con l’ulteriore precisazione legata alla previsione di un limite massimo di
sanzione, identificato in euro 50.000, superato il quale, per le violazioni
doganali inerenti a merce diversa dai t.l.e., diviene
indifferente l’entità dell’evasione riscontrata, in netto contrasto con
l’obiettivo di prevenzione generale perseguito dalla disposizione sottoposta al
controllo di legittimità costituzionale.
LA
CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 291-bis, primo comma, del decreto del
Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43 (Approvazione del testo
unico delle disposizioni legislative in materia doganale), sollevate dal
Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli Nord, in
riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 novembre 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Augusto Antonio BARBERA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 7 dicembre 2018.