ANNO 2017
Commenti alla decisione di
I. Francesco Medico, Il
legislatore nel letto di Procuste delle pensioni: nota a Corte cost. 250/2017,
per g.c di Federalismi.it
II.
Giorgio Grasso, Giudicato
costituzionale, discrezionalità del legislatore e modulazione retroattiva della
perequazione dei trattamenti pensionistici nella sentenza n. 250 del 2017 della
Corte costituzionale. Qualche spunto di riflessione critica,
per g.c. dell’Osservatorio AIC
III. Ilenia Massa
Pinto, Il giudicato costituzionale non comporta un
"esproprio” della potestà legislativa: il principio di
(non ir)ragionevolezza come tutela del contenuto essenziale dei
diritti (e non come ricerca dell’ottima proporzione) nel bilanciamento tra
diritti ed esigenze finanziarie (nota alla sent. n. 250 del 2017 della Corte
costituzionale),
per g.c. dell’Osservatorio AIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Mario Rosario MORELLI "
- Giancarlo CORAGGIO "
- Giuliano AMATO "
- Silvana SCIARRA "
- Nicolò ZANON "
- Augusto Antonio BARBERA "
- Giulio PROSPERETTI
"
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nei
giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 24, commi 25 e 25-bis, del decreto-legge
6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge
22 dicembre 2011, n. 214 – come sostituito (il comma 25) e inserito (il
comma 25-bis), rispettivamente, dai
numeri 1) e 2) del comma 1 dell’art. 1 del decreto-legge 21 maggio 2015, n. 65
(Disposizioni urgenti in materia di pensioni, di ammortizzatori sociali e di
garanzie TFR), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2015, n.
109 – e dell’art. 1, comma 483, della legge
27 dicembre 2013, n. 147, come modificato dall’art. 1, comma 286, della legge
28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni
per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di
stabilità 2016)»,
promossi dal Tribunale ordinario di Palermo con ordinanza del 22 gennaio 2016,
dalla Corte dei Conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia Romagna,
con ordinanza del 10 marzo 2016, dal Tribunale ordinario di Milano con
ordinanza del 30 aprile 2016, dal Tribunale ordinario di Brescia con ordinanza
dell’8 febbraio 2016, dal Tribunale ordinario di Napoli con ordinanza del 15
luglio 2016, dal Tribunale ordinario di Genova con tre ordinanze del 9 agosto
2016, dal Tribunale ordinario di Torino con ordinanza del 27 settembre 2016,
dal Tribunale ordinario di La Spezia con ordinanze del 2 e del 7 novembre 2016,
dal Tribunale ordinario di Cuneo con ordinanze del 18 novembre 2016 (n. 2
ordinanze) e del 9 e del 21 febbraio 2017, rispettivamente iscritte ai nn. 36, 101, 124, 188, 237, 242, 243, 244 e 278,
del registro ordinanze 2016 e ai nn. 24, 25, 43, 44, 77 e 78 del
registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica nn. 9, 21, 26, 40, 47 e 48, prima serie speciale, dell’anno 2016 e
nn. 5, 9, 13 e 22, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visti gli atti di
costituzione di C. G., di L. F. e altra, di R. P. e altri, di C. A. e altri, di
F. M. e altro, di P. S. e altri e dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS),
nonché gli atti di intervento del Sindacato autonomo Dipendenti INAIL in
pensione e altra, del Presidente del Consiglio dei ministri e quello, fuori
termine, del CODACONS e altro;
udito nell’udienza
pubblica del 24 ottobre 2017 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
uditi gli avvocati
Riccardo Troiano per C. G., Corrado Scivoletto per L. F. e altra, Andrea Rossi
Tortarolo per R. P. e altri, Michele Iacoviello per C. A. e altri, Iside B.
Storace per F. M. e altro, Fabrizio Ricciardi per P. S. e altri, Luigi Caliulo
per l’INPS, Augusto Sinagra per il Sindacato autonomo Dipendenti INAIL in
pensione e altra e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente
del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 22 gennaio 2016 (reg. ord. n. 36 del 2016), il Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, nel testo sostituito dall’art. 1, comma 1, numero 1), del decreto-legge 21 maggio 2015, n. 65 (Disposizioni urgenti in materia di pensioni, di ammortizzatori sociali e di garanzie TFR), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2015, n. 109, e, in particolare, della disposizione di cui alla lettera c) di tale comma 25.
Quest’ultimo prevede che: «La rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’articolo 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, relativa agli anni 2012 e 2013, è riconosciuta: a) nella misura del 100 per cento per i trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; b) nella misura del 40 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo INPS con riferimento all’importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore a quattro volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; c) nella misura del 20 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a quattro volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a cinque volte il trattamento minimo INPS con riferimento all’importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore a cinque volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; d) nella misura del 10 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS con riferimento all’importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore a sei volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; e) non è riconosciuta per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS con riferimento all’importo complessivo dei trattamenti medesimi.».
1.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto, di essere investito del ricorso proposto nei confronti dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) da G. C., pensionato titolare, per gli anni 2012 e 2013, di una pensione superiore a quattro volte e inferiore a cinque volte il trattamento minimo INPS; che il ricorrente aveva chiesto – previa rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, nel testo anteriore alla sostituzione operata dall’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015 (testo che, per gli anni 2012 e 2013, aveva stabilito il blocco della perequazione automatica delle pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS) – di condannare l’INPS a liquidare il trattamento pensionistico perequato secondo il meccanismo dell’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo) e a corrispondergli i relativi ratei non percepiti nel biennio 2012-2013. Riferisce inoltre di avere sollevato questioni di legittimità costituzionale del citato art. 24, comma 25, nel testo previgente, decise dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 70 del 2015, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale del medesimo comma 25 per violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., «nella parte in cui prevede[va] che "In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento”». Dopo tale sentenza, il ricorrente ha riassunto il giudizio, reiterando le domande formulate nel ricorso introduttivo e sollevando questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 1, comma 1, n. 1), del d.l. n. 65 del 2015, ritenute dal giudice a quo rilevanti e non manifestamente infondate.
1.2.– In punto di non manifesta
infondatezza delle stesse, il Tribunale rimettente afferma anzitutto che,
ancorché goda di «una certa discrezionalità» nella scelta, il legislatore è
tenuto a individuare meccanismi perequativi che assicurino la perdurante
adeguatezza delle pensioni all’incremento del costo della vita, nel rispetto del
limite della ragionevolezza, al fine di scongiurare un «non sopportabile
scostamento» tra l’andamento delle pensioni e delle retribuzioni e, in ogni
caso, un contrasto con i principi di cui agli artt. 36, primo comma, e 38,
secondo comma, Cost.
Il rimettente afferma quindi che
tale meccanismo è stato individuato dal legislatore nella perequazione
automatica delle pensioni.
Aggiunge il rimettente che il
legislatore – che già in precedenza aveva temporaneamente sospeso il meccanismo
di perequazione – anche dopo la sentenza della
Corte costituzionale n. 30 del 2004, con l’art. 1, comma 19, della legge 24
dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su
previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita
sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale),
aveva nuovamente disposto il blocco, per l’anno 2008, della perequazione
automatica delle pensioni superiori a otto volte il trattamento minimo. In
proposito, il rimettente osserva che, con la sentenza n. 316 del
2010, la Corte costituzionale, nel ritenere che quest’ultima previsione non
contrastasse con gli artt. 3, 36 e 38, secondo comma, Cost., avrebbe affermato
che il blocco della perequazione automatica delle pensioni di importo rilevante
può ritenersi conforme a Costituzione a condizione che esso non venga
«costantemente reiterato».
Ciò nonostante, con l’art. 24,
comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, nel testo originario, il legislatore ha
escluso la perequazione non soltanto per le pensioni più elevate ma per tutte
quelle superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e non per un solo anno – come era avvenuto con i precedenti interventi –
ma per due anni consecutivi (2012 e 2013).
A seguito della sentenza della
Corte costituzionale n. 70 del 2015, il legislatore, con l’art. 1, comma 1,
numero 1), del d.l. n. 65 del 2015, ha sostituito tale disposizione con una
nuova formulazione, che, ad avviso del rimettente, non terrebbe in
considerazione quanto affermato nella sentenza n. 70 del
2015, poiché non tutelerebbe, per il periodo in considerazione,
«l’interesse dei pensionati alla conservazione del potere di acquisto delle
somme percepite (da cui deriva […] il diritto a una prestazione previdenziale
adeguata), in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali
modesti, che – a differenza delle pensioni di importo elevato – non presentano
margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo».
Il giudice a quo osserva ancora che la misura della perequazione delle
pensioni riconosciuta dal censurato comma 25 è assai minore di quella
riconosciuta, per il triennio 2014-2016, dal precedente art. 1, comma 483,
della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione
del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)».
Inoltre il disposto blocco parziale della perequazione «produce i suoi effetti
in modo permanente, non essendo prevista alcuna forma di recupero della parte
non corrisposta negli anni successivi», sicché «ogni eventuale perdita del
potere di acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi brevi, è, per
sua natura, definitiva».
Con specifico riferimento agli
invocati parametri costituzionali, il Tribunale rimettente deduce che la
disposizione censurata «sembra violare i principi di uguaglianza,
ragionevolezza e proporzionalità della prestazione previdenziale e di
conservazione del trattamento pensionistico».
Sarebbero violati, in
particolare: l’art. 38, secondo comma, Cost., «perché la modesta entità della
rivalutazione impedisce la conservazione nel tempo del valore della pensione,
menomandone l’adeguatezza, soprattutto con riferimento ai pensionati titolari
di trattamenti previdenziali non elevati»; l’art. 36, primo comma, Cost.,
«poiché la modesta entità della rivalutazione viola il principio di
proporzionalità tra pensione (che costituisce il prolungamento in pensione
della retribuzione goduta in costanza di lavoro) e retribuzione goduta durante
l’attività lavorativa»; il principio derivante dall’applicazione congiunta
degli artt. 36, 38, 3 Cost., «perché la modesta entità della rivalutazione,
violando il principio di proporzionalità tra pensione e retribuzione e quello
di adeguatezza della prestazione previdenziale, altera il principio di
eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno
della categoria dei pensionati».
1.3.– In punto di rilevanza, il
Tribunale rimettente rappresenta che, in base alla normativa censurata, al
ricorrente, titolare, per gli anni 2012 e 2013, di un trattamento pensionistico
superiore a quattro volte e inferiore a cinque volte il trattamento minimo
INPS, è stata riconosciuta una rivalutazione di appena il 20 per cento.
2.– Si è costituito G. C.,
ricorrente nel giudizio principale, chiedendo che venga dichiarata
l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 36, primo comma,
e 38, secondo comma, Cost., dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011,
come sostituito dall’art. 1, comma 1, n. 1), del d.l. n. 65 del 2015, nonché di
quest’ultima disposizione, per violazione dell’art. 136 Cost.
2.1.– Ad avviso della parte
costituita, la nuova formulazione del citato comma 25 viola l’art. 38, secondo
comma, Cost., in quanto il blocco, in alcuni casi totale e in altri parziale,
della perequazione relativa agli anni 2012 e 2013 impedisce la conservazione
nel tempo del valore della pensione, menomandone l’adeguatezza; l’art. 36, primo
comma, Cost., in quanto la mancata rivalutazione viola il principio di
proporzionalità tra pensione e retribuzione; il principio derivante
dall’applicazione congiunta degli artt. 36, 38 e 3 della Costituzione, in
quanto la mancata rivalutazione, ledendo i principi di adeguatezza della
prestazione previdenziale e di proporzionalità tra pensione e retribuzione,
«altera il principio di uguaglianza e di ragionevolezza, causando una
irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati, cui appartiene
il ricorrente, le cui ragioni sono sacrificate alla tenuta finanziaria del
sistema, senza nessun bilanciamento tra tale valore costituzionale ed il
diritto alla perequazione».
La parte costituita afferma, «in
particolare», che il censurato art. 24, comma 25, si pone in contrasto,
altresì, con «i principi di eccezionalità e non arbitrarietà del "blocco”
cagionato dalla frequente reiterazione di misure intese a "paralizzare” il
meccanismo perequativo».
La stessa difesa esamina poi la sentenza della
Corte costituzionale n. 316 del 2010, affermando che essa aveva rivolto un
«monito» al legislatore riguardo a una eventuale reiterazione del "blocco”,
all’estensione temporale dello stesso, oltre che ai destinatari delle misure,
titolari di trattamenti pensionistici «di sicura rilevanza». Per converso, il
vigente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2001 stabilisce un blocco
della perequazione per due anni consecutivi e «colpisce anche le pensioni
medie, riconoscendo una piccola percentuale a quelle superiori a tre volte il
trattamento minimo INPS e nulla a quelle superiori a 6 volte il trattamento
minimo INPS (e non superiori ad otto volte come era avvenuto nel 2008)».
La difesa di G. C. passa poi a
considerare la sentenza
della Corte costituzionale n. 70 del 2015, sottolineando che essa «aveva
[…] individuato […] nella […] limitazione ad alcune fasce di pensionati, individuati
in base al trattamento complessivo e non, invece, alla fascia di importo, due
profili di illegittimità costituzionale» che la disposizione censurata, invece,
«reitera». Essa considera inoltre che l’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, oltre a
sostituire il comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 – con il quale
avrebbe vanificato l’«effetto primario [della sentenza n. 70 del
2015] che dovrebbe consistere nella integrale applicazione, per gli anni
2012 e 2013, del regime di rivalutazione paralizzato dal d.l. n. 201/2011» – ha
inserito un comma 25-bis (a norma del
quale «La rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il
meccanismo stabilito dall’articolo 34,
comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, relativa agli anni 2012 e
2013 come determinata dal comma 25, con riguardo ai trattamenti pensionistici
di importo complessivo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS è
riconosciuta: a) negli anni 2014 e 2015 nella misura del 20 per cento; b) a
decorrere dall’anno 2016 nella misura del 50 per cento»). Tale disposizione
«determina il consolidamento del danno patito dagli aventi diritto».
La difesa della parte costituita
ripercorre poi le argomentazioni utilizzate dalla sentenza n. 70 del
2015, rilevando che essa «non ha affatto limitato le censure di
incostituzionalità con riferimento alle sole fasce più deboli», e conclude che
il d.l. n. 65 del 2015, pur affermando di volere dare attuazione ai principi
enunciati nella sentenza
n. 70 del 2015, «ne ha sostanzialmente vanificato gli effetti violando,
nuovamente quei principi che sono stati posti a fondamento della stessa […]
contenuti negli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.».
Sarebbe evidente la violazione
«dell’art. 3 della Costituzione: principio di ragionevolezza ed uguaglianza;
dell’art. 36, comma 1, della Costituzione: principio di proporzionalità tra
pensione percepita e retribuzione goduta nel corso dell’attività lavorativa;
dell’art. 38, comma 2, della Costituzione: principio di adeguatezza», poiché la
parziale o mancata rivalutazione automatica delle pensioni, per
due anni consecutivi e la sua reiterazione, oltre a vanificare nel tempo il
valore del trattamento di quiescenza, pregiudicherebbe, altresì, la
proporzionalità tra pensione e retribuzione goduta nel corso dell’attività
lavorativa, tutelata dagli artt. 38 e 36 Cost. e discriminerebbe
irragionevolmente i percettori di pensioni superiori a tre volte i minimi INPS
rispetto ai percettori di pensioni ancor meno elevate, così violando anche il
principio di ragionevolezza previsto dall’art. 3 Cost.
2.2.– Con specifico riferimento
all’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015, la difesa della parte
costituita deduce anche la violazione dell’art. 136 Cost. Il decreto-legge
citato e la successiva legge di conversione avrebbero violato il giudicato
costituzionale, con il proporre nuovamente il blocco della rivalutazione per il
2012-2013 già dichiarato incostituzionale, limitandosi a innalzare la soglia, e
facendo venire meno per il ricorrente il diritto riconosciuto dalla Corte
costituzionale.
2.3.– Infine, la parte costituita
afferma l’insussistenza delle ragioni di ordine finanziario indicate
dall’alinea dell’art. 1, comma 1, del d.l. n. 65 del 2015 («Al fine di dare
attuazione ai principi enunciati nella sentenza della
Corte costituzionale n. 70 del 2015, nel rispetto del principio
dell’equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica, assicurando
la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili
e sociali, anche in funzione della salvaguardia della solidarietà
intergenerazionale, […]»). Tali ragioni non si potrebbero porre a fondamento
dell’intervento censurato, atteso che «la copertura degli oneri necessari per
l’adeguamento delle pensioni è garantita dagli introiti delle aliquote
contributive a tale fine introdotte» dall’art. 3 della legge 29 maggio 1982, n.
297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia
pensionistica).
3.– Con ordinanza del 10 marzo 2016 (reg. ord. n. 101 del 2016), la Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia-Romagna, in funzione di giudice unico delle pensioni, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 23, 36, 38, 53, 117, primo comma – quest’ultimo, in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, atti entrambi ratificati e resi esecutivi con la legge 4 agosto 1955, n. 848 – e 136 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, commi 25, lettera e), e 25-bis del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente, dai numeri 1) e 2) del comma 1 dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015.
3.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito di due ricorsi proposti, nei confronti dell’INPS, da dieci pensionati titolari di pensioni superiori a sei volte il trattamento minimo INPS, nei confronti, tra l’altro, della mancata rivalutazione automatica del proprio trattamento pensionistico in applicazione dell’art. 24, comma 25, dello stesso d.l. n. 201 del 2011; che i ricorrenti si dolevano del fatto che la mancata rivalutazione automatica del proprio trattamento pensionistico violava gli artt. 3, 36, 38 e 53 Cost.; che l’INPS replicava con memorie depositate il 12 e il 26 settembre 2013; di avere sollevato questioni di legittimità costituzionale del menzionato art. 24, comma 25, nel testo previgente, le quali erano state decise dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 70 del 2015; che, dopo tale sentenza, i ricorrenti hanno chiesto la fissazione di una nuova udienza, ai sensi dell’art. 297 del codice di procedura civile, e, con successive memorie, hanno eccepito l’illegittimità costituzionale dei commi 25, lettera e), e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come medio tempore sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente, dai numeri 1) e 2) del comma 1 dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015; che l’INPS ha controdedotto con memoria depositata il 4 dicembre 2015; che i ricorrenti, in aggiunta alla domanda originaria avente a oggetto il mancato riconoscimento della perequazione relativa agli anni 2012 e 2013, hanno formulato anche quella concernente il biennio 2014-2015 nonché il periodo successivo «a decorrere dal 2016»; che l’INPS, sollecitato ai sensi dell’art. 101 cod. proc. civ., ha ritenuto che tale pretesa costituisse una domanda nuova e, pertanto, inammissibile; di ritenere tale eccezione dell’INPS non fondata, in quanto la suddetta pretesa non integra, ai sensi degli artt. 183 e 189 cod. proc. civ., una domanda nuova bensì un’estensione della domanda originaria (emendatio libelli).
3.2.– Il giudice a quo ritiene di dovere anzitutto
ricostruire il dictum della sentenza della
Corte costituzionale n. 70 del 2015, precisando che, a tale fine, è a suo
avviso necessario il «richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo»,
atteso che la sentenza
n. 70 del 2015, ancorché «declaratoria di illegittimità costituzionale
secca», afferma, in chiusura della motivazione, l’incostituzionalità della
norma censurata «nei termini esposti». Dopo avere citato ampi stralci dei punti
8 e 10 del Considerato in diritto
della sentenza
n. 70 del 2015, il giudice rimettente conclude che «se per un verso l’an circa la spettanza della perequazione
non può essere negata ai percipienti trattamenti pensionistici […], per altro
verso, in ragione di concorrenti
interessi di rilevanza costituzionale, è consentito al legislatore calibrarne
il "quantum di tutela” nel rispetto
dei "limiti della ragionevolezza e proporzionalità”».
3.3.– Da ciò risulterebbe,
secondo la Corte rimettente, che i denunciati commi 25 e 25-bis del d.l. n. 201 del 2011 violano,
rispettivamente, gli artt. 3, 36, 38 e 136 Cost., e gli artt. 3, 36 e 38 Cost.
Il giudice a quo osserva anzitutto che, mentre il censurato art. 24, comma 25,
lettera e), «può considerarsi
"riproduttivo” della disposizione espunta dall’ordinamento con la citata
sentenza caducatoria», il successivo comma 25-bis ne costituisce il «prolungamento», poiché innalza la soglia
dell’esclusione dalla perequazione ai trattamenti complessivamente superiori a
sei volte il trattamento minimo INPS.
Il comma 25, lettera e), dell’art. 24 del d.l. n. 201 del
2011, in quanto «riproduttivo» di una disposizione dichiarata incostituzionale,
dovrebbe essere oggetto di uno scrutinio di stretta ragionevolezza, nel senso
che l’art. 136 Cost. impone al legislatore di accettare l’immediata cessazione
dell’efficacia giuridica della norma dichiarata incostituzionale.
Né si rivelerebbe perspicuo, in
relazione a quanto affermato dalla sentenza n. 70 del
2015, l’alinea dell’art. 1 del d.l n. 65 del 2015, che si propone – secondo
il rimettente in modo non convincente – di bilanciare l’interesse pubblico
perseguito dal legislatore e il sacrificio imposto ai pensionati.
Il giudice a quo si sofferma poi sulle differenze fra il regime della perequazione
introdotto con la disposizione caducata e riprodotta (art. 24, comma 25,
lettera e) e quello previsto
dall’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007 (oggetto della sentenza della
Corte costituzionale n. 316 del 2010), quanto alla durata del blocco, alla
generica esemplificazione delle esigenze di equilibrio di bilancio, e alla
soglia dei trattamenti presi in considerazione.
Alla stregua di tali
considerazioni, emergerebbe la non manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, lettera e), del d.l. n. 201 del 2011, in riferimento agli artt. 3, 36, 38 e
136 Cost., atteso che detta disposizione «di fronte a una pronuncia di
carattere caducatorio circa l’azzeramento della perequazione […] per tutti i
trattamenti pensionistici e non "in parte
qua”, limitatamente cioè ai trattamenti previdenziali modesti, persevera
nell’azzerare per taluni trattamenti pensionistici superiori ad una determinata
soglia la perequazione».
Analogo dubbio investirebbe, in
riferimento agli artt. 3, 36 e 38 Cost., la disciplina «a regime» dell’art. 24,
comma 25-bis, che non solo prolunga il
blocco, ma anche esclude, per la sola categoria dei titolari di trattamenti
pensionistici complessivamente superiori a sei volte il minimo INPS, il
meccanismo della rivalutazione, la cui funzione è di collegare i trattamenti
pensionistici all’inflazione.
Tale disciplina si porrebbe
quindi in conflitto «con il precetto della "adeguatezza” (artt. 38, secondo
comma, 36 e 3 Cost.) della prestazione pensionistica nel tempo in quanto detto
precetto presuppone la permanenza delle condizioni di effettività della
prestazione economica garantita».
Il giudice rimettente sottolinea
ancora che la Corte costituzionale ha sì affermato che, in ragione delle
necessarie attuali prospettive pluriennali del ciclo di bilancio, sacrifici
gravosi non possono non interessare periodi più lunghi rispetto a quelli presi
in considerazione in precedenti sentenze della stessa Corte, ma ha aggiunto che
tali periodi devono essere «definiti» (sono citate la sentenza n. 310 del
2013 e l’ordinanza
n. 113 del 2014).
3.4.– Ad avviso del giudice a quo, l’art. 24, comma 25, lettera e), del d.l. n. 201 del 2011, potrebbe
porsi in contrasto anche con gli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU, in quanto, riproducendo, con
effetti retroattivi, la disciplina – già espunta dall’ordinamento con la sentenza della
Corte costituzionale n. 70 del 2015 – che non riconosce la rivalutazione
dei trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il
trattamento minimo INPS, violerebbe «in termini di ragionevolezza [il]
principio del legittimo affidamento e di certezza del diritto».
Il rimettente si interroga circa
il quadro normativo preesistente alla disposizione censurata, tale da fare
sorgere nei pensionati la ragionevole fiducia nel non azzeramento della
perequazione e da far loro ritenere che l’art. 24, comma 25, lettera e), comporti «una radicale e
irreversibile incisione sulle situazioni soggettive dei pensionati, dopo la pronuncia n. 70 del
2015», analoga a quella censurata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 216 del
2015.
3.5.– Secondo il giudice
rimettente, l’art. 24, commi 25, lettera e),
e 25-bis, del d.l. n. 201 del 2011,
potrebbe altresì violare gli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo
in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, che riconosce a
ogni persona il «diritto al rispetto dei suoi beni».
Il rimettente evidenzia che la
Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato più volte che nella nozione di
«beni» rientrano non solo i «beni attuali» ma anche i crediti e, tra questi,
quelli relativi a una pensione, a condizione che «il titolare di essi abbia
sufficiente fondamento nel diritto interno».
Ciò avverrebbe, secondo il
giudice a quo, per i percettori di un
reddito complessivamente superiore a sei volte il minimo INPS, i cui diritti
sarebbero stati permanentemente incisi. Lo stesso rimettente asserisce che «il
legislatore, con la normativa oggetto di dubbio, non sembra avere disciplinato
detto "bene”, e cioè la "perequazione automatica”, nel rispetto del requisito
dell’equo bilanciamento alla luce del principio per cui ogni ingerenza su un
"bene” della persona debba essere ragionevolmente proporzionata al fine
perseguito».
3.6.– Il rimettente ritiene
infine che l’art. 24, commi 25, lettera e),
e 25-bis, del d.l. n. 201 del 2011,
violi anche gli artt. 2, 3, 23 e 53 Cost., «in relazione alla presunta natura
tributaria della misura in esame».
Secondo il giudice a quo, il censurato azzeramento della
rivalutazione automatica «per gli anni 2012-2013, 2014-2015 e dal 2016»
presenterebbe tutti e tre gli elementi che, secondo la Corte costituzionale,
connotano le prestazioni patrimoniali di natura tributaria. Esso dà luogo a una
prestazione patrimoniale imposta, realizzata attraverso un atto autoritativo di
carattere ablatorio, destinato a reperire risorse per l’erario; tale
decurtazione «non integra, per definizione, una modifica di un rapporto
sinallagmatico»; le risorse, «connesse al presupposto economicamente rilevante,
individuato nel superamento della predetta fascia pensionistica, e derivanti
dalla suddetta decurtazione, sembrano […] destinate a sovvenire pubbliche
spese», tenuto conto della previsione di cui all’art. 17, comma 1, lettera b), della legge 31 dicembre 2009,
n. 196 (Legge di contabilità e finanza
pubblica), nonostante l’assenza
di una espressa indicazione della destinazione di tali risorse. Nella specie,
peraltro, tale destinazione sarebbe desumibile dall’alinea dell’art. 1 del d.l.
n. 65 del 2015.
Tanto premesso, il rimettente
afferma che vi sarebbe lesione del principio dell’universalità dell’imposizione
a parità di capacità contributiva, con conseguente violazione del principio di
eguaglianza.
3.7.– In punto di rilevanza, il
giudice a quo rappresenta che la
disciplina censurata «trova applicazione nel caso di specie, in quanto la
misura dei trattamenti pensionistici in godimento dei ricorrenti è superiore al
limite di sei volte il minimo INPS ».
4.– Con ordinanza del 30 aprile 2016 (reg. ord. n. 124 del 2016), il Tribunale ordinario di Milano, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: in via principale, dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dal numero 1) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, delle disposizioni di cui alle lettere b), c), d) ed e) di detto comma 25, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost.; in via subordinata, del «combinato disposto del DL 65» del 2015 e dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, e, in particolare, della disposizione di cui alla lettera e) di detto comma 483, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, Cost.
4.1.– Il giudice rimettente
riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto nei
confronti dell’INPS da sette pensionati titolari di trattamenti a carico di
tale Istituto; che i ricorrenti hanno chiesto – previa rimessione alla Corte
costituzionale di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.l.
n. 65 del 2015 e dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013 – la condanna dell’INPS a
corrispondere loro «quanto maturato per la mancata rivalutazione» dei propri
trattamenti pensionistici per gli anni 2012, 2013 e 2014; che l’INPS si è
costituito in giudizio contestando il ricorso in fatto e in diritto; di avere
preliminarmente respinto le eccezioni di nullità del ricorso sollevate
dall’INPS per l’omessa specificazione dei fatti costitutivi del diritto, atteso che era pacifico e «documentale» in
giudizio che tutti i ricorrenti sono titolari di un trattamento pensionistico a
carico dell’INPS «variamente inciso dalle conseguenze collegate al DL 65/15»;
che il procuratore dei ricorrenti, in seguito a un’ordinanza dello stesso
rimettente, ha depositato una nota difensiva, non contestata dall’INPS,
indicando per ciascuno di essi l’ammontare lordo della pensione percepita.
4.2.– In punto di non manifesta
infondatezza, il Tribunale rimettente afferma che il denunciato comma 25
dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 presenta plurimi profili di
incostituzionalità.
4.2.1.– Esso violerebbe,
anzitutto, l’art. 136 Cost.
Il rimettente afferma che, con
riguardo ai trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS, il
legislatore «ha pedissequamente riprodotto la norma dichiarata
incostituzionale».
In proposito, il Tribunale
rimettente rappresenta che la sentenza n. 70 del
2015, nell’affermare che l’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011 (nel
suo testo originario), era eccentrico rispetto ai precedenti in materia, sia in
quanto incideva sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato, a
prescindere dal loro ammontare, sia per la sua durata biennale, non aveva
limitato tale valutazione alle pensioni di modesta entità ma si era riferita
anche ai trattamenti «di valore più cospicuo».
Nella normativa censurata,
d’altro canto, non sarebbe rinvenibile alcuna indicazione circa le ragioni che
giustificherebbero il permanere del blocco della rivalutazione delle pensioni
superiori a sei volte il trattamento minimo INPS per una durata così
significativa. Il rimettente osserva in proposito che nella Relazione
illustrativa al «Disegno di Legge n. 65/15» ci si limita solo a evocare le
necessità di bilancio che giustificavano l’intervento.
Il Tribunale ordinario di Milano
sottolinea ancora che, secondo l’INPS, le misure previste dal d.l. n. 65 del
2015 si sarebbero rese necessarie anche ai sensi dell’art. 17, comma 13,
secondo periodo, della legge n. 196 del 2009, e richiama la Relazione
illustrativa, carente, secondo la sua valutazione, di adeguate valutazioni.
La scelta legislativa sarebbe,
d’altro canto, ancor più incongruente ove si consideri che la menzionata
Relazione dà atto, con riferimento al periodo 2007-2014, della riduzione del
potere di acquisto di ampie fasce di lavoratori.
Da ciò conseguirebbe che la
violazione dell’art. 136 Cost. sussisterebbe anche con riguardo alla posizione
dei titolari di trattamenti pensionistici che, superiori a tre volte il
trattamento minimo INPS, siano pari o inferiori a sei volte lo stesso.
4.2.2.– Il comma 25 dell’art. 24
del d.l. n. 201 del 2011 violerebbe, poi, gli artt. 3, 36 e 38 Cost., e, in
particolare: il principio di adeguatezza del trattamento pensionistico, di cui
all’art. 38 Cost.; il «principio di proporzionalità», di cui all’art. 36 Cost.;
l’interpretazione congiunta di tali articoli con l’art. 3 Cost., in relazione
al principio di ragionevolezza.
In proposito, varrebbero, secondo
il rimettente, le stesse ragioni di contrasto ritenute dalla sentenza n. 70 del
2015.
La disposizione censurata
avrebbe, infatti, disatteso quanto affermato da tale sentenza, con riguardo da
un lato all’assenza di «alcun elemento utile a dare conto delle ragioni per cui
si fosse ritenuto di dare prevalenza alle esigenze finanziarie sui diritti
oggetto di bilanciamento», dall’altro al fatto che interventi di riduzione
della rivalutazione devono ritenersi ammissibili «ove temporalmente contenuti
[…] nel termine annuale».
4.3.– In via subordinata, ovvero in caso di rigetto delle anzidette questioni di costituzionalità, il rimettente solleva questione di legittimità costituzionale di più norme, ovvero del d.l. n. 65 del 2015 e dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, lettera e), nella parte in cui disciplina la rivalutazione, per l’anno 2014, dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, Cost.
Il rimettente ritiene che tale «norma, in sé considerata possa resistere alle censure di incostituzionalità», ma che, qualora le sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 65 del 2015, fossero ritenute non fondate, «si verrebbe a creare un meccanismo che […] si dovrebbe necessariamente ritenere incostituzionale con riferimento ai trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo, per i quali il blocco della rivalutazione riguarderebbe addirittura un triennio».
4.4.– In punto di rilevanza, il
Tribunale rimettente rappresenta che, dalla documentazione prodotta dai
ricorrenti, emerge che essi hanno ricevuto adeguamenti parziali (se titolari di
un trattamento pensionistico superiore a sei volte il minimo) o nessun
adeguamento.
5.– Sono intervenuti nel giudizio
il Sindacato autonomo dipendenti INAIL in pensione e l’Associazione sindacale
nazionale pensionati dipendenti INPS, chiedendo che le questioni sollevate
siano accolte.
5.1.– Tali sindacati affermano
anzitutto che, ancorché non siano parti del giudizio a quo, sono titolari di un interesse qualificato tale da
legittimare, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, il loro
intervento nel giudizio.
In proposito, deducono che, ai
sensi dei rispettivi statuti, non sono portatori di un interesse collettivo
alla generica rappresentanza degli interessi economici dei pensionati, ma di
quello alla «partecipazione ai pertinenti giudizi».
5.2.– Quanto alla fondatezza
delle questioni, gli intervenienti fanno proprie, sostanzialmente, le
argomentazioni del rimettente Tribunale di Milano.
6.– Con ordinanza dell’8 febbraio 2016 (reg. ord. n. 188 del 2016), il Tribunale ordinario di Brescia, sezione lavoro, previdenza e assistenza obbligatoria, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dal numero 1) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, delle disposizioni di cui alla lettera e) di detto comma 25, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., all’interpretazione congiunta degli artt. 3, 36 e 38 Cost., e all’art. 136 Cost.; dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, e, in particolare, della disposizione di cui alla lettera e) di tale comma 483, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, Cost., e all’interpretazione congiunta degli artt. 3, 36 e 38 Cost.
6.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto nei confronti dell’INPS da F. L., titolare di un trattamento pensionistico superiore a sei volte il trattamento minimo INPS; che il ricorrente chiedeva – previa rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 (nel suo testo previgente) e dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013 – la condanna dell’INPS a provvedere alla perequazione del proprio trattamento pensionistico ai sensi dell’art. 69 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)»; che lo stesso ricorrente riferiva che il proprio trattamento pensionistico, dal 1° gennaio 2012, non era stato rivalutato ai sensi dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 101 del 2011, e che solo dal gennaio 2014 aveva ricevuto un modesto incremento; che l’INPS, in via preliminare, aveva eccepito l’inammissibilità del ricorso in quanto si era «limitato ad applicare la normativa vigente che il ricorrente reputava essere incostituzionale, ma in relazione alla quale non poteva chiedere la rimessione alla Corte Costituzionale in quanto la stessa poteva pronunciarsi solo in via incidentale»; che, con intervento adesivo dipendente, Dircredito, Associazione sindacale nazionale dell’area direttiva e delle alte professionalità del credito, delle società assicurative, agenzie esattoriali e/o di riscossione tributi, della finanza, delle attività similari e/o strumentali, delle poste, delle fondazioni bancarie e delle Authorities o agenzie nazionali comunque denominate (di seguito: Dircredito), ha sostenuto la fondatezza della domanda del ricorrente; di ritenere infondata l’eccezione preliminare dell’INPS, atteso che «dalla circostanza che l’INPS ha applicato correttamente la vigente disciplina che, ad avviso della parte ricorrente sarebbe viziata da incostituzionalità, discende la necessità/opportunità di sottoporre la questione al giudice delle leggi».
6.2.– In punto di non manifesta
infondatezza, il Tribunale rimettente afferma che il censurato comma 25
dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 ha nuovamente escluso la perequazione dei
trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento
minimo INPS, così «contravvenendo […] alle indicazioni fornite dalla Corte
Costituzionale» poiché tali trattamenti non sarebbero da considerare "di sicura
rilevanza” come, invece, i trattamenti di importo otto volte superiore al
trattamento minimo INPS, presi in considerazione dalla Corte Costituzionale,
con riferimento al solo 2008, nella sentenza n. 316 del
2010.
Le pensioni superiori a sei volte il trattamento minimo INPS, escluse dalla perequazione per il biennio 2012-2013, sono state attratte nel blocco anche per l’anno 2014, secondo la disciplina della legge n. 147 del 2013.
Pertanto, «in relazione alla
novella introdotta dalla legge del 2015 ed […] alla legge n. 147/2013 con
riferimento al blocco afferente l’anno 2014» sarebbero violati: il principio di
cui all’art. 38, secondo comma, Cost., perché la mancata rivalutazione della
pensione ne impedisce la conservazione del valore nel tempo, menomandone
l’adeguatezza; il principio di cui all’art. 36, primo comma, Cost., perché la
mancata rivalutazione della pensione si pone in contrasto con «il principio di
proporzionalità tra pensione (che costituisce il prolungamento in pensione
della retribuzione goduta in costanza di lavoro) e retribuzione goduta durante
l’attività lavorativa»; il principio derivante dall’interpretazione congiunta degli artt. 3, 36 e 38 Cost., perché la
mancata rivalutazione, violando i principi di adeguatezza della prestazione
previdenziale e di proporzionalità tra pensione e retribuzione, «altera il
principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione
in danno della categoria dei pensionati».
Il solo comma 25 dell’art. 24 del
d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dall’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l.
n. 65 del 2015, violerebbe inoltre l’art. 136 Cost., poiché alla «lettera c» (recte:
lettera e) ha «riproposto», per i
trattamenti complessivamente superiori a sei volte il minimo INPS, il blocco
della rivalutazione relativa agli anni 2012 e 2013 «già dichiarato
incostituzionale» dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 70 del
2015.
6.3.– In punto di rilevanza, il
Tribunale rimettente rappresenta che il ricorrente ha chiesto la perequazione
della propria pensione «che non gli può essere concessa né dall’INPS né da questo
Giudice proprio in applicazione della normativa di cui si contesta la
costituzionalità».
7.– Si è costituito F. L.,
ricorrente nel giudizio principale, chiedendo che le questioni sollevate siano
accolte.
7.1.– Con riguardo ai «profili di incostituzionalità individuati dalla sentenza n. 70/2015», la parte costituita osserva che nel testo della disposizione censurata «non vi è alcuna traccia delle ragioni che, nel necessario bilanciamento dei rispettivi interessi, avrebbero indotto il legislatore a pregiudicare l’interesse dei pensionati»; il blocco della perequazione dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS sembra contrastare con il principio, ricavabile dalla sentenza n. 70 del 2015, in base al quale il punto di equilibrio tra l’interesse dei pensionati e le esigenze finanziarie dello Stato va ricercato all’interno del meccanismo della perequazione che, quindi, dovrebbe sempre essere prevista; anche i trattamenti pensionistici da quattro a sei volte il trattamento minimo INPS sono stati gravemente incisi, con una graduazione ritenuta discutibile quanto alla proporzionalità e all’adeguatezza; la soglia da cui opera l’azzeramento della perequazione è ben inferiore a quella, di otto volte il minimo INPS, che, nella sentenza n. 316 del 2010, la Corte costituzionale aveva ritenuto «un limite d’importo di sicura rilevanza».
La stessa parte aggiunge che il blocco previsto si estende per il 2012 e il 2013 e si prolungherà anche nel 2014 (in base all’altra disposizione censurata). Mancherebbe quindi del tutto uno dei due elementi, la durata limitata nel tempo del sacrificio imposto ai titolari delle pensioni più elevate, che avevano indotto la Corte costituzionale a rigettare, con la sentenza n. 316 del 2010, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007.
Sarebbe, infine, indubbio il contrasto con il giudicato costituzionale, atteso che la disposizione censurata otterrebbe «sostanzialmente lo stesso risultato già perseguito dal legislatore con il precedente testo dichiarato incostituzionale».
7.2.– Quanto alle questioni
aventi a oggetto l’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, la parte
costituita ritiene che le ragioni di incostituzionalità prospettate dal giudice
rimettente non siano intaccate dalla sentenza n. 70 del
2015. Profili di criticità emergerebbero tenuto conto che la disposizione
censurata: non fa cenno alle ragioni che giustificherebbero il pregiudizio
recato alle ragioni dei pensionati; incide su tutti i trattamenti pensionistici
superiori a tre volte il minimo INPS e, quindi, anche su quelli di minore
ammontare; infligge alle pensioni un pregiudizio che si estende per ben tre anni
(dal 2014 al 2016), mentre, «se è vero che il blocco totale della rivalutazione
automatica delle pensioni superiori a sei volte il minimo è previsto per un
solo anno (il 2014), è vero anche, però, che esso si aggiunge all’analogo
blocco imposto dall’art. 24, comma 25, del decreto-legge n. 201/2011, alle
medesime pensioni […] per il biennio 2012-2013».
La parte costituita precisa di non ignorare che, con la sentenza n. 173 del 2016, la Corte costituzionale ha dichiarato la non fondatezza di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 Cost. (oltre che all’art. 53 Cost.). Tale dichiarazione, tuttavia, sarebbe basata su «profili […] non sovrapponibili a quelli di cui al presente giudizio», sottolineando, tra l’altro, che la sentenza n. 173 del 2016 non avrebbe preso in considerazione il "nuovo” testo dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 65 del 2015, sicché «l’effetto complessivo, del combinato disposto delle due norme (e cioè il prolungamento del blocco totale delle perequazioni per tre anni consecutivi, dal 2012 fino al 2014), non ha formato oggetto dell’esame della Corte».
8.– Si è costituita Dircredito, interveniente adesiva dipendente nel giudizio principale, prospettando deduzioni di contenuto identico a quelle di cui all’atto di costituzione di F. L.
9.– Con ordinanza del 15 luglio 2016 (reg. ord. n. 237 del 2016), il Tribunale di Napoli, sezione lavoro, previdenza e assistenza obbligatoria, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., al «combinato disposto» degli artt. 3, 36 e 38 Cost., e all’art. 136 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dal numero 1) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, delle disposizioni di cui alla lettera e) di detto comma 25 (unica lettera citata nelle conclusioni dell’ordinanza).
9.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto nei confronti dell’INPS da quindici pensionati; che i ricorrenti chiedevano – previa rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015 – la condanna dell’INPS a provvedere alla perequazione del proprio trattamento pensionistico, ai sensi dell’art. 69 della legge n. 388 del 2000, per gli anni 2012 e 2013; che gli stessi ricorrenti riferivano che, dal 1° gennaio 2012, ai sensi della disposizione di cui denunciavano l’incostituzionalità, la loro pensione non era stata rivalutata; che l’INPS, in via preliminare, aveva eccepito l’inammissibilità del ricorso in quanto si era «limitato ad applicare la normativa vigente che i ricorrenti reputavano essere incostituzionale, ma in relazione alla quale non potevano chiedere la rimessione alla Corte Costituzionale in quanto la stessa poteva pronunciarsi solo in via incidentale»; di ritenere infondata l’eccezione preliminare dell’INPS, atteso che «dalla circostanza che l’INPS ha applicato correttamente la vigente disciplina che, ad avviso delle parti ricorrenti sarebbe viziata da incostituzionalità, discende la necessità/opportunità di sottoporre la questione al giudice delle leggi».
9.2.– In punto di non manifesta
infondatezza, il rimettente prospetta argomentazioni coincidenti con quelle
dell’ordinanza del Tribunale ordinario di Brescia (reg. ord. n. 188 del 2016),
per la parte di questa relativa alla non manifesta infondatezza delle questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 101 del 2011,
come sostituito dal numero 1) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015.
9.3.– In punto di rilevanza, il
Tribunale rimettente rappresenta che i ricorrenti hanno chiesto «la
perequazione della loro pensione con la conseguente riliquidazione ed il
pagamento di una differenza sul trattamento pensionistico pregresso che non gli
può essere concessa né dall’INPS né da questo Giudice proprio in applicazione
della normativa di cui si contesta la costituzionalità», che «imped[isce] la
perequazione della pensione dei ricorrenti (titolari di un trattamento
superiore a sei volte il trattamento minimo)
o, comunque, per alcuni di essi, […] la perequazione totale».
10.– Con ordinanza del 9 agosto 2016 (reg. ord. n. 242 del 2016), il Tribunale ordinario di Genova, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: dell’art. 24, commi 25 e 25-bis del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, quanto al comma 25, della disposizione di cui alla lettera b) dello stesso, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost.; in via subordinata, delle medesime disposizioni «in collegamento» con l’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, come modificato dall’art. 1, comma 286, lettera b), della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», e, in particolare, con le disposizioni di cui alle lettere d) ed e), primo periodo, di tale comma 483.
10.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito dei ricorsi proposti, nei confronti dell’INPS, da P. R, G. D. R e A. P, titolari di trattamenti pensionistici, a carico di tale Istituto; che i ricorrenti hanno chiesto – previa rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, commi 25, 25-bis e 25-ter del d.l. n. 201 del 2011, dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, e dell’art. 34 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo) – l’accertamento del loro diritto alla perequazione automatica «integrale» del trattamento pensionistico per gli anni 2012 e 2013, con la conseguente condanna dell’INPS a corrispondere loro gli «importi così maturati anche sui ratei arretrati»; che l’INPS si è costituito in giudizio contestando la fondatezza dei ricorsi e chiedendone il rigetto.
10.2.– Dopo avere affermato che
la dichiarazione di illegittimità costituzionale del blocco della rivalutazione
delle pensioni previsto dal previgente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201
del 2011 «ha avuto l’effetto di ripristinare l’integrale applicazione del
meccanismo perequativo previsto dall’art. 34, primo comma, l. 448/98», il
Tribunale rimettente sostiene la non manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale dei denunciati commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011.
Il giudice a quo osserva che l’intervento operato con il d.l. n. 65 del 2015 è
«motivato […] da enunciazioni generiche» anche nella Relazione illustrativa al
disegno di legge di conversione del decreto.
Tale intervento si discosterebbe
dalle finalità solidaristiche che sorreggevano il blocco della perequazione
previsto – per un solo anno e per i soli trattamenti superiori a otto volte il
minimo INPS – dall’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, ritenuto
conforme a Costituzione dalla sentenza della
Corte costituzionale n. 316 del 2010. Al contrario, il comma 25 dell’art.
24 «ha effetti distribuiti su più anni e destinati a divenire permanenti,
poiché non v’è previsione di recupero futuro del mancato incremento
rivalutativo della base di calcolo dei trattamenti pensionistici», con la
conseguenza che «si è […] realizzata […] una reiterazione annuale della
paralisi del meccanismo perequativo».
La normativa censurata, inoltre,
inciderebbe su pensioni di valore inferiore alla metà di quelle che la sentenza n. 316 del
2010 aveva ritenuto dotate di «margini di resistenza» alla perdita del
potere d’acquisto.
La stessa normativa avrebbe
quindi introdotto «uno strumento che eccede nell’opera di riequilibrio
finanziario rispetto al fine dichiarato », da ritenersi irragionevole.
Il rimettente sottolinea ancora
che la normativa censurata fa seguito a numerose diposizioni che hanno limitato
la funzionalità della perequazione delle pensioni, con la conseguenza che, con
il d.l. n. 65 del 2015, «si è […] riprodotta quella "frequente reiterazione” (Corte cost.,
316/2010) di misure capace di paralizzare per un lungo periodo
l’adeguamento concepito per evitare la perdita di potere d’acquisto delle
pensioni».
Non potrebbe quindi che ritenersi
non manifestamente infondata «l’eccezione d’incostituzionalità delle norme
predette rispetto ai parametri forniti dalla lettura sistematica degli artt. 3,
36, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione».
10.3.– La stessa normativa
contrasterebbe anche con l’art. 136 Cost.
Il giudice rimettente afferma
che, alla luce di quanto esposto, la normativa censurata neutralizza gli
effetti della sentenza
della Corte costituzionale n. 70 del 2015 – in particolare «i vantaggi
economici […] che ne sarebbero derivati per i titolari delle pensioni incise
col ritorno all’applicazione dell’art. 69, primo comma, l. n. 388/2000» –
utilizzando «una tecnica in parte già censurata dalla stessa decisione».
L’elusione del giudicato sarebbe, poi «massimamente evidente per le pensioni di
valore complessivo superiore a sei volte il trattamento minimo».
10.4.– In via subordinata, nel
caso siano ritenute conformi a Costituzione le disposizioni dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 101 del
2011, il rimettente ha sollevato questioni di legittimità costituzionale della
medesime disposizioni «in collegamento» con l’art. 1, comma 483, della legge n.
147 del 2013, come modificato dall’art. 1, comma 286, lettera b), della legge n. 208 del 2015, e, in particolare, con le disposizioni di cui
alle lettere d) ed e), primo periodo, di tale comma 483 (uniche
lettere citate nelle conclusioni dell’ordinanza).
Il giudice a quo afferma che, qualora le questioni di legittimità
costituzionale dei commi 25 e 25-bis
dell’art. 24 del d.l. n. 101 del 2011 non fossero ritenute fondate, ciò
«comporterebbe l’azzeramento della rivalutazione annuale delle pensioni
d’importo sei volte superiore al trattamento minimo per un triennio ed
un’applicazione successiva del meccanismo perequativo in misura inferiore alla
metà per un ulteriore triennio».
Il sacrificio che ne deriverebbe
risulterebbe sproporzionato e, quindi, irragionevole, con la conseguente non
manifesta infondatezza delle questioni sempre in riferimento agli artt. 3, 36,
primo comma, e 38, secondo comma, Cost.
10.5.– In punto di rilevanza
delle questioni, il rimettente deduce che, poiché le pensioni dei ricorrenti si
collocano nelle fasce di importo di cui alle lettere, rispettivamente, b), c)
e d) del comma 25 dell’art. 24 del
d.l. n. 201 del 2011 (nel testo vigente), nell’agosto del 2015, ciascuno di
essi ha percepito un importo ridotto nella proporzione stabilita dalla norma,
anziché l’ammontare integrale della rivalutazione maturata nel biennio
2012-2013. L’incidenza sulle pensioni è stata protratta nel tempo dal
legislatore, che ha adottato percentuali riduttive diverse per il triennio 2014-2016
in forza del comma 25-bis, lettere a) e b),
inserito nell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 dall’art. 1, comma 1, numero 2),
del d.l. n. 65 del 2015. La valutazione di legittimità delle norme citate
rileva per la decisione della causa e
per l’accertamento del diritto dei ricorrenti all’integrale
perequazione.
11.– Si sono costituiti P. R, G.
D. R e A. P, ricorrenti nel giudizio principale, chiedendo che le questioni
sollevate siano accolte.
I commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del
2011 violerebbero anzitutto l’art. 3 Cost., atteso che, per le pensioni di
importo non elevato (fino a otto volte la minima) il legislatore del 2015 non
ha posto in essere «alcun tentativo di spiegazione […] sia sull’an del dare, sia, in caso affermativo,
sul quantum», così ledendo il
principio di ragionevolezza, in assenza di «qualunque forma di bilanciamento
tra valori di pari rango costituzionale».
I censurati commi 25 e 25-bis violerebbero, inoltre, gli artt. 36,
primo comma, e 38, secondo comma, Cost., presentando i profili di contrasto con
tali parametri che avevano indotto la Corte costituzionale a dichiarare
l’illegittimità costituzionale del comma 25 nel suo testo originario.
I menzionati commi 25 e 25-bis violerebbero, infine, l’art. 136
Cost. in quanto non darebbero «alcuna esecuzione pratica» alla sentenza della
Corte costituzionale n. 70 del 2015, lasciando ferme le «violazioni già
presenti» nella disposizione dichiarata incostituzionale con tale sentenza.
12.– Con ordinanza del 9 agosto 2016 (reg. ord. n. 243 del 2016), il Tribunale ordinario di Genova, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: in via principale, dell’art. 24, commi 25 e 25-bis del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, quanto al comma 25, della disposizione di cui alla lettera b) dello stesso, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost.; in via subordinata, delle medesime disposizioni «in collegamento» con l’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, come modificato dall’art. 1, comma 286, lettera b), della legge n. 208 del 2015, e, in particolare, con le disposizioni di cui alle lettere d) ed e), primo periodo, di tale comma 483.
12.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto, nei confronti dell’INPS, da A. C e M. M., titolari di trattamenti pensionistici, il secondo «oltre cinque volte superiore al trattamento minimo» e il primo «nella fascia immediatamente superiore»; che i ricorrenti hanno chiesto – previa rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, «anche» nel testo sostituito dall’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015 – l’accertamento del loro diritto alla perequazione automatica del trattamento pensionistico per gli anni 2012 e 2013 «per effetto della sentenza della Corte costituzionale 70/2015 e comunque in applicazione della norma di cui all’art. 69, primo comma, legge 388/2000», con la conseguente condanna dell’INPS a corrispondere loro gli «importi così maturati anche sui ratei arretrati»; che l’INPS si è costituito in giudizio contestando la fondatezza dei ricorsi e chiedendone il rigetto.
12.2.– In punto di non manifesta infondatezza delle questioni, sia principale sia subordinata, il Tribunale ordinario di Genova adduce motivazioni identiche a quelle dell’ordinanza emessa dallo stesso Tribunale e iscritta al reg. ord. n. 242 del 2016.
12.3.– In punto di rilevanza
delle questioni, il rimettente deduce che, come documentato dall’INPS,
nell’agosto del 2015 ciascuno dei ricorrenti ha percepito, «a titolo di
arretrati per effetto della […] pronuncia n. 70/2015 della Corte
costituzionale, un importo ridotto nella proporzione stabilita dalla norma anziché
l’ammontare integrale della rivalutazione maturata nel biennio 2012-2013». Il
rimettente asserisce quindi che «la disciplina tacciata d’incostituzionalità ha
dunque inciso sul valore del trattamento pensionistico goduto dai ricorrenti» e
si è protratta ulteriormente nel tempo. Conclude affermando che «la valutazione
di legittimità delle norme citate ha dunque rilevanza per la decisione della
causa e l’accertamento del diritto dei ricorrenti all’integrale perequazione
rivendicata».
13.– Si sono costituiti A. C. e
M. M., ricorrenti nei giudizi principali, chiedendo che le questioni sollevate
siano accolte.
Entrambe le parti richiamano le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione e ribadiscono anzitutto la violazione dell’art. 136 Cost., atteso che il d.l. n. 65 del 2015 «ha riproposto […] la norma già invalidata dalla Corte [costituzionale], dichiarandola sostituita, e per di più con una inammissibile efficacia ex tunc».
Esse ribadiscono anche la violazione degli artt. 3, 36 e 38 Cost., tenuto conto che: la perequazione delle pensioni, per mantenerne il potere di acquisto, è costituzionalmente necessaria al fine di assicurare l’adeguatezza e la proporzionalità del trattamento pensionistico; i blocchi della stessa producono effetti permanenti; la decurtazione permanente delle pensioni, al fine di fronteggiare una «contingente situazione finanziaria», è irragionevole perché è sproporzionata rispetto allo scopo. Dopo aver richiamato la sentenza n. 173 del 2016, le parti ritengono che non potrebbe «essere vanificata la sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015, là dove ha affermato che il legislatore non aveva ascoltato il monito indirizzatogli dalla sentenza della stessa Corte n. 316 del 2010».
14.– Con ordinanza del 9 agosto 2016 (reg. ord. n. 244 del 2016), il Tribunale ordinario di Genova, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: in via principale, dell’art. 24, commi 25 e 25-bis del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente dai numeri 1) 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, quanto al comma 25, della disposizione di cui alla lettera b) dello stesso, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost.; in via subordinata, delle medesime disposizioni «in collegamento» con l’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, come modificato dall’art. 1, comma 286, lettera b), della legge n. 208 del 2015, e, in particolare, con le disposizioni di cui alle lettere d) ed e), primo periodo, di tale comma 483.
14.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito dei ricorsi proposti, nei confronti dell’INPS, da M. F e G. C. T., titolari di trattamenti pensionistici di importo lordo mensile superiore a tre volte il trattamento minimo INPS; che i ricorrenti hanno chiesto – previa rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015 – l’accertamento del loro diritto alla perequazione automatica «integrale» del trattamento pensionistico per gli anni compresi tra il 2012 e il 2015, «in applicazione della norma originaria di cui all’art. 34, primo comma, legge 448/98», con la conseguente condanna dell’INPS a corrispondere loro gli «importi così maturati anche sui ratei arretrati»; che l’INPS si è costituito in giudizio contestando la fondatezza dei ricorsi e chiedendone il rigetto.
14.2.– In punto di non manifesta
infondatezza delle questioni, sia principale sia subordinata, il rimettente
adduce motivazioni identiche a quelle delle ordinanze emesse dallo stesso
Tribunale e iscritte al reg. ord. n. 242 e n. 243 del 2016.
14.3.– In punto di rilevanza
delle questioni, il rimettente deduce che, poiché le pensioni dei ricorrenti si
collocavano tra il triplo e il quadruplo del trattamento minimo, nell’agosto
del 2015, ciascuno di essi ha percepito, «a titolo di arretrati per effetto
della […] pronuncia
n. 70/2015 della Corte costituzionale, un importo ridotto nella proporzione
stabilita dalla norma anziché l’ammontare integrale della rivalutazione
maturata nel biennio 2012-2013». Il rimettente asserisce che la disciplina
sospettata d’incostituzionalità ha inciso sul valore del trattamento
pensionistico goduto dai ricorrenti. Il protrarsi delle misure che hanno
reiterato una tale incisione per il triennio 2014-2016 in forza del comma 25-bis, lettere a) e b), inserito
nell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 dall’art. 1, comma 1, numero 2), del d.l.
n. 65 del 2015, lo spinge a ritenere che «la valutazione di legittimità delle
norme citate ha dunque rilevanza per la decisione della causa e l’accertamento
del diritto dei ricorrenti all’integrale perequazione rivendicata».
15.– Si sono costituiti M. F. e
G. C. T., ricorrenti nei giudizi principali, chiedendo che le questioni
sollevate siano accolte.
Ad avviso delle parti costituite,
il d.l. n. 65 del 2015 «non ha saputo correggere l’errore […] evidenziato dalla
Consulta» nella sentenza
n. 70 del 2015.
Nell’alinea dell’art. 1 del d.l.
n. 65 del 2015, le motivazioni dell’intervento sono costituite da «mere
enunciazioni […] generiche», che nuovamente non chiariscono «i motivi sulla
base dei quali le percentuali di rivalutazione vengano ridotte». Neppure nei
lavori preparatori del decreto sarebbe possibile «reperire un’effettiva
spiegazione delle ragioni che avrebbero dovuto consentire il rispetto del
principio dell’equilibrio di bilancio». Inoltre, diversamente dal blocco della
perequazione delle pensioni previsto dall’art. 1, comma 19, della legge n. 247
del 2007, il nuovo testo dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201del 2011, «non
risulta assistito dalle precise ragioni solidaristiche richieste». Le parti
costituite concludono affermando che la modifica normativa operata dall’art. 1
del d.l. n. 65 del 2015 «ha dunque introdotto uno strumento che non garantisce
la conservazione nel tempo del potere di acquisto delle pensioni incise e,
eccedendo nell’opera di riequilibrio finanziario rispetto al fine dichiarato,
sacrifica in misura sproporzionata la tutela dei titolari dei trattamenti
previdenziali non elevati».
Con riguardo alla questione
sollevata in riferimento all’art. 136 Cost. e alle questioni sollevate in via
subordinata, le parti costituite ribadiscono, nella sostanza, le argomentazioni
del rimettente.
16.– Con ordinanza del 27 settembre 2016 (reg. ord. n. 278 del 2016), il Tribunale ordinario di Torino, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento all’art. 136 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25-bis, del d.l. n. 201 del 2011, inserito dal numero 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015.
16.1.– Il giudice rimettente
riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto dal
titolare di una pensione VOBANC di importo superiore a sei volte il trattamento
minimo INPS, con decorrenza dal 1° luglio 2012; che il ricorrente aveva agito
in giudizio «al fine di ottenere il pagamento della differenza tra quanto
effettivamente percepito, a seguito del blocco della rivalutazione, con quanto
avrebbe avuto diritto applicando la rivalutazione automatica per il periodo dal
2013 sino al luglio 2015»; che lo stesso ricorrente aveva chiesto di sollevare
questioni di legittimità costituzionale dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito (il
comma 25) e inserito (il comma 25-bis),
rispettivamente, dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015.
16.2.– Il rimettente, premesso di
ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24
del d.l. n. 201 del 2011 in riferimento agli artt. 36 e 38 Cost., afferma
invece la non manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale del medesimo comma 25-bis
in riferimento all’art. 136 Cost. Ciò in quanto il comma censurato «non fa
altro che bloccare la rivalutazione delle pensioni il cui importo sia oltre sei
volte il minimo previsto dall’I.N.P.S., con ciò contravvenendo al monito della
Corte costituzionale», formulato nella sentenza n. 70 del
2015, «secondo il quale il blocco del meccanismo perequativo deve essere
necessariamente contenuto nel tempo».
16.3.– In punto di rilevanza
della questione, il rimettente premette che il ricorrente, «sulla base del
meccanismo di rivalutazione automatica delle pensioni, come introdotto dall’art.
34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, avrebbe diritto alla
rivalutazione annua del trattamento pensionistico percepito», la quale «è
nuovamente esclusa dalla […] normativa introdotta» dal d.l. n. 65 del 2015.
La rilevanza della questione
sarebbe allora «evidente».
Infatti, nel caso in cui detta
normativa fosse ritenuta costituzionalmente legittima, il ricorso dovrebbe
essere rigettato, atteso che la domanda del ricorrente troverebbe la propria
negazione nella legge «che esclude ogni rivalutazione per le pensioni di
importo di oltre sei volte rispetto al trattamento minimo INPS […] non solo per
gli anni 2012 e 2013, ma anche per gli anni successivi», ai sensi,
rispettivamente, del comma 25, lettera e),
dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, e del comma 25-bis dello stesso articolo. Qualora la medesima normativa venisse
dichiarata incostituzionale, la domanda del ricorrente dovrebbe essere accolta,
«in quanto la rivalutazione della pensione dovrà avvenire secondo i criteri già
stabiliti».
Non sarebbe infine possibile
un’interpretazione costituzionalmente orientata «delle norme, le quali sono
chiare nello stabilire che la rivalutazione, per le pensioni oltre sei volte il
trattamento minimo, è esclusa».
17.– Con ordinanza del 2 novembre 2016 (reg. ord. n. 24 del 2017), il Tribunale ordinario di La Spezia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost., dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dal numero 1) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, delle disposizioni di cui alle lettere b), d) ed e) di detto comma 25.
17.1.– Il giudice rimettente
riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto nei
confronti dell’INPS da S. P., R. S., V. V., F. M. e F. B.; che i ricorrenti
sono titolari di pensioni di valore, rispettivamente, compreso tra tre e
quattro volte il trattamento minimo INPS (S. P. e R. S.), compreso tra quattro
e cinque volte il trattamento minimo
INPS (F. B.) e superiore a sei volte il trattamento minimo INPS (V. V. e
F. M.); che gli stessi ricorrenti chiedevano che, previa rimessione alla Corte
costituzionale di questioni di legittimità costituzionale del comma 25
dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dall’art. 1, comma 1,
numero 1), del d.l. n. 65 del 2015, fosse dichiarato il proprio diritto al
pagamento «delle somme richieste a titolo di arretrati per rivalutazione dei
trattamenti pensionistici per gli anni 2012/2013, oltre le differenze
successivamente maturate», con corrispondente condanna dell’INPS; che l’INPS si
era costituito resistendo alle domande avversarie.
17.2.– Il rimettente ritiene che
«la questione d’incostituzionalità sollevata dai ricorrenti sia […] non
manifestamente infondata».
Il giudice a quo afferma che il censurato comma 25 dell’art. 24 del d.l. n.
201 del 2011 suscita «i medesimi dubbi di legittimità costituzionale già
ravvisati dalla Corte [costituzionale] con riferimento alla previgente
formulazione [dello stesso] art. 25, comma 24». Analogamente a quest’ultima
disposizione, infatti, anche quella oggi censurata: esclude in toto la rivalutazione dei trattamenti
pensionistici di importo superiore a sei volte il trattamento minimo e
individua «fasce intermedie di valore, nei cui confronti la rivalutazione viene
comunque pesantemente incisa»; conferma il blocco della perequazione automatica
per un biennio; difetta «dell’indicazione di puntuali ragioni giustificative».
La disposizione censurata,
inoltre, rientrerebbe «in un disegno complessivo – quale quello stigmatizzato
dalla sentenza
n. 316/2010 – di frequente
reiterazione di misure intese a paralizzare il meccanismo perequativo, tali da
esporre il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di
ragionevolezza e proporzionalità».
Risulterebbe pertanto non
manifestamente infondata la questione sollevata dai ricorrenti con riferimento
ai principi di proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale
retribuzione differita, di cui all’art. 36, primo comma, Cost., e di
adeguatezza dello stesso trattamento, di cui all’art. 38, secondo comma, Cost.,
da intendere, quest’ultimo, anche quale espressione del principio di
solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., nonché quale attuazione del principio di
«eguaglianza sostanziale» di cui all’art. 3, secondo comma, Cost.
Parimenti non manifestamente
infondata sarebbe l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dai
ricorrenti in riferimento all’art. 136 Cost. Il rimettente deduce che il
legislatore, con riguardo ai trattamenti pensionistici superiori a sei volte il
trattamento minimo INPS, ha introdotto un blocco totale della perequazione
identico a quello che, per il medesimo periodo di tempo, era stato previsto
dalla disposizione dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 70 del
2015. La violazione del giudicato costituzionale sarebbe ravvisabile –
sempre secondo il giudice a quo –
anche con riguardo ai trattamenti pensionistici compresi «tra tre e sei volte
il minimo», atteso che il legislatore, «a parziale modifica della […]
disciplina dichiarata incostituzionale, ha introdotto un blocco parziale,
variabile dal 60 al 90% della perequazione che sarebbe spettata in applicazione
della disciplina generale: anche in dette ipotesi, infatti, il blocco della
perequazione, seppure limitato nel quantum,
sconta gli stessi vizi già ravvisati nella sentenza del 2015».
Il Tribunale rimettente ritiene
invece manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale
sollevata dai ricorrenti in riferimento al «combinato disposto degli artt. 2,
23 e 53 Cost.», atteso che «l’azzeramento della perequazione automatica oggetto
di censura» non costituisce una prestazione patrimoniale di natura tributaria.
17.3.– In punto di rilevanza
delle questioni, il giudice a quo
afferma che «le disposizioni di cui all’art. 1 DL n. 65/2015 […] hanno
variamente inciso sul diritto, azionato dagli odierni ricorrenti, ad ottenere
la perequazione integrale dei propri trattamenti pensionistici».
18.– Si sono costituiti S. P., R.
S., V. V., F. M. e F. B., ricorrenti nel giudizio principale, chiedendo che le
questioni siano accolte.
Dopo avere precisato che anche il
cosiddetto "trascinamento” – il computo ai fini dei successivi incrementi dei
miglioramenti parziali concessi a titolo di perequazione nel 2012 e 2013 – è stato sterilizzato, le parti costituite
affermano che, considerato l’interesse dei pensionati, in particolare di quelli
titolari di trattamenti modesti, alla conservazione del potere di acquisto
delle somme percepite, la disposizione censurata viola «i diritti fondamentali
connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri
costituzionali». Il legislatore, inoltre, non avrebbe tenuto conto del monito a
esso indirizzato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 316 del
2010, tanto più che il blocco della perequazione produrrebbe i propri
effetti «in modo permanente, non essendo prevista alcuna forma di recupero
negli anni successivi».
Le parti costituite ribadiscono,
quindi, tutte le censure già formulate nel giudizio principale, in particolare
la violazione del «principio della parità di prelievo a parità di presupposto
d’imposta economicamente rilevante».
Altresì violato sarebbe l’art.
136 Cost. Le parti costituite asseriscono che la normativa censurata, «che
riconosce solo una parte molto limitata delle rivalutazioni maturate e conferma
il blocco totale per alcune fasce di reddito […] non può […] ragionevolmente
ritenersi conforme ai principi affermati dalla Corte Costituzionale, ma
rappresenta invece una reiterazione rispetto a precedenti provvedimenti […]
abrogati dalla Consulta».
19.– Con ordinanza del 7
novembre 2016 (reg. ord. n. 25 del 2017), il Tribunale ordinario di La Spezia,
in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale, in riferimento agli artt. 3, secondo comma,
36, primo comma, 38, secondo comma, e
136 Cost.,
dell’art. 24, comma 25, lettere b) e c), del d.l. n. 201 del 2011, come
sostituito dal numero 1) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015.
19.1.– Il giudice rimettente
riferisce, in punto di fatto: di essere investito dei ricorsi proposti nei
confronti dell’INPS da S. N., G. N., M. P., G. V., E. S., V. Z., F. M., C. F. e
F. F., «pensionati I.N.P.S.», titolari di trattamenti pensionistici superiori a
tre volte il minimo INPS; che gli stessi ricorrenti chiedevano che, previa
rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimità costituzionale
del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dall’art.
1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015, fosse accertato «il proprio
diritto alla differenza sugli arretrati ad essi spettanti per gli anni
2012-2013-2014-2015 per effetto della sentenza n. 70 del
2015 della […] Corte costituzionale», con la conseguente condanna dell’INPS
al pagamento; che l’INPS resisteva in tutte le cause riunite; che nel corso del
giudizio gli stessi ricorrenti hanno dichiarato di limitare la propria domanda
al capo relativo all’accertamento del proprio diritto, con riserva di agire
separatamente per l’esatta quantificazione e liquidazione del credito; che
l’INPS aveva accettato tale limitazione della domanda.
19.2.– In punto di non manifesta
infondatezza, il rimettente afferma che il censurato art. 24, comma 25, del
d.l. n. 201 del 2011, contrasta, anzitutto, con l’art. 136 Cost.
Il Tribunale rimettente premette
che il vigente comma 25 « ha introdotto un meccanismo che rivaluta in
percentuali limitate e progressivamente riducentesi tutti i trattamenti». Lo
stesso Tribunale deduce poi che la sentenza della Corte
costituzionale n. 70 del 2015 aveva «rilevato come l’originario art. 24,
comma 25, fosse "eccentrico” rispetto al nostro sistema pensionistico». Secondo
il rimettente, la disposizione del "nuovo” testo del comma 25 dell’art. 24 del
d.l. n. 201 del 2011 «pare muoversi nel medesimo solco di quella censurata». Il
rimettente conclude sul punto che la disposizione vigente «appare volgere
piuttosto alla limitazione degli effetti della sentenza n. 70 del
2015 e, quindi, sospettabile di inadempimento al dettato dell’art. 136
Cost.».
Ad avviso del rimettente, la
disposizione dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011 violerebbe anche
gli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., poiché «il meccanismo
perequativo da essa stabilito conduce a risultati assai modesti e tali da
compromettere la conservazione nel corso del tempo del valore del trattamento
pensionistico, con pregiudizio delle finalità previste dai ridetti articoli». A
tale proposito, il giudice a quo
indica i crediti esposti dai ricorrenti, rappresentando che gli importi degli
stessi evidenzierebbero, «a contrario»,
che la rivalutazione prevista dal censurato art. 24, comma 25, «è assai modesta
e tale da far dubitare che sia conforme all’art. 3 e soddisfi ai richiamati
precetti dell’art. 36 1° comma e 38, 2° comma, Cost.».
Sotto tale aspetto, l’art. 24,
comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, si discosterebbe dai precedenti interventi
normativi in materia, tra cui l’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007,
che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 316 del
2010, ritenne non contrastare con agli artt. 3 e 38 Cost. Il raffronto con
le precedenti disposizioni metterebbe in rilievo che l’art. 24, comma 25, del
d.l. n. 201 del 2011, «non appare effettuare un ragionevole contemperamento
delle esigenze contrapposte» e non si sottrae, pertanto, «a dubbi di
legittimità costituzionale con riguardo ai principi di eguaglianza sostanziale
(art. 3, 2° comma), di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro
svolto (art. 36, 1° comma), di adeguatezza del trattamento pensionistico (art.
38, 2° comma)».
19.3.– In punto di rilevanza
delle questioni, il giudice a quo
afferma che ciascuno dei ricorrenti lamenta di essere creditore, «anno per
anno, dal 2012 al 2015», di importi variabili se fosse stata pienamente attuata
la sentenza n.
70 del 2015. Da ciò la rilevanza delle questioni.
20.– Con ordinanza del 18 novembre 2016 (reg. ord. n. 43 del 2017), il Tribunale ordinario di Cuneo, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost., dell’art. 24, commi 25 e 25-bis, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, quanto al comma 25, delle disposizioni di cui alle lettere b), c), d) ed e) dello stesso.
20.1.– Il giudice rimettente
riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto nei
confronti dell’INPS da L. D. e da B. P. R.; che i ricorrenti esponevano di essere
titolari di pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo
INPS, di avere perciò subito, ai sensi dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201
del 2011, il blocco della rivalutazione automatica della propria pensione per
gli anni 2012 e 2013, che, «a seguito della pronuncia della Corte
Costituzionale» n. 70 del 2015, spettavano loro degli arretrati e che, con
l’entrata in vigore del d.l. n. 65 del 2015, sono state loro corrisposte somme
ampiamente inferiori agli stessi; che gli stessi ricorrenti hanno pertanto chiesto, previa
rimessione alla Corte costituzionale di questione di legittimità costituzionale
dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, di accertare il diritto alla rivalutazione
automatica, relativa agli anni 2012 e 2013, della propria pensione «secondo la sentenza della
Corte Costituzionale n. 70/15, e comunque in base al meccanismo di cui
all’art. 69, comma 1, legge 23.12.2000 n. 388, senza tener conto dei limiti di cui
al decreto legge n. 65/15» e di condannare l’INPS a corrispondere loro, per i
suddetti anni, «l’aumento mensile e gli arretrati sui trattamenti
pensionistici, oltre accessori sino al saldo»; che l’esame delle questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013,
pure sollevate dai ricorrenti, doveva essere «rimesso al momento della
pronuncia della sentenza».
20.2.– In punto di non manifesta
infondatezza, il Tribunale rimettente afferma che le disposizioni censurate
violano, anzitutto, l’art. 136 Cost.
Le suddette disposizioni
avrebbero «sostanzialmente aggirato le statuizioni» della sentenza n. 70 del
2015, «impedendo la portata retroattiva insita nella dichiarazione di
incostituzionalità».
In particolare, l’elusione del
giudicato costituzionale sarebbe evidente con riguardo alla disciplina dei trattamenti pensionistici superiori
a sei volte il trattamento minimo INPS, atteso che, per i titolari di tali
trattamenti, l’esclusione di qualsivoglia meccanismo di perequazione è rimasta
anche dopo l’introduzione del d.l. n. 65 del 2015.
La violazione del giudicato
costituzionale sussisterebbe, comunque, ad avviso del giudice rimettente, anche
con riguardo alla disciplina dei trattamenti pensionistici che, come quelli dei
ricorrenti, sono «pari o inferiori a sei volte il minimo del trattamento INPS»,
in quanto «l’introduzione di una rivalutazione in misure percentuali
differenziate a seconda della misura in cui la pensione superi il trattamento
minimo INPS, avendo l’effetto di neutralizzare la portata retroattiva
connaturata alla declaratoria di incostituzionalità, nonché, in rilevante
misura, i conseguenti vantaggi economici, integra un inadempimento del
legislatore alla sentenza
70/15».
Ad avviso del giudice a quo, il censurato art. 24, commi 25,
lettere b), c), d) ed e), e 25-bis del d.l. n. 101 del 2011, violerebbe anche gli artt. 3, 36,
primo comma, e 38, secondo comma, Cost.
Il rimettente afferma che anche
«il nuovo testo dell’art. 24 d.l. 201/2011» è stato «giustificato» con
enunciazioni generiche e relative a finalità già insite, ai sensi degli artt.
38 e 81 Cost., in ogni iniziativa legislativa in materia pensionistica.
Lo stesso giudice a quo, dopo avere sottolineato che la
normativa censurata produce effetti su più anni, destinati a diventare
permanenti – così da realizzare, con un’unica disposizione, una reiterazione
della paralisi del meccanismo perequativo – afferma che «il decreto legge 65/15
ha quindi introdotto uno strumento che eccede nell’opera di riequilibrio
finanziario rispetto al fine dichiarato, senza garantire appieno la
conservazione nel tempo del potere d’acquisto delle pensioni incise e
sacrificando perciò in misura sproporzionata la tutela dei beneficiari di
trattamenti previdenziali non elevati», manifestandosi, così, «l’irragionevolezza
delle disposizioni contenute nei commi 25 e 25-bis del nuovo testo dell’art. 24 del d.l. 201/11».
Il rimettente rappresenta infine
che il blocco della rivalutazione delle pensioni, ancorché limitato nel tempo,
ha effetti permanenti e che la Corte costituzionale ha ritenuto la legittimità
di precedenti interventi di blocco della suddetta rivalutazione quando essi
avessero una durata ragionevole, «sostanzialmente annuale», mentre nella specie
la durata biennale dell’intervento normativo, «risulta ancor più gravosa».
20.3.– In punto di rilevanza
delle questioni, il giudice a quo
afferma che, in applicazione del d.l. n. 65 del 2015, i ricorrenti, «anziché
vedersi ripristinare la perequazione e pagare gli arretrati […] hanno ottenuto una perequazione – e relativi
arretrati – in misura notevolmente inferiore […]. Alla luce dell’attuale
normativa le domande attoree non potrebbero […] che essere rigettate, mentre
dall’accoglimento della questione […] conseguirebbe il diritto alla
perequazione della pensione secondo i criteri già stabiliti».
21.– Con ordinanza del 18 novembre 2016 (reg. ord. n. 44 del 2017), il Tribunale ordinario di Cuneo, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, 117, primo comma – quest’ultimo, in relazione all’art. 6 della CEDU – e 136 Cost., dell’art. 24, commi 25 e 25-bis, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, quanto al comma 25, delle disposizioni di cui alle lettere b), c), d) ed e) dello stesso.
21.1.– Il giudice rimettente
riferisce, in punto di fatto: di essere
investito del ricorso proposto nei confronti dell’INPS da R. P. e da E. R.; che
le ricorrenti esponevano di essere titolari di pensioni di importo complessivo
superiore a tre volte il trattamento minimo INPS, di avere perciò subito, ai
sensi dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, il blocco della
rivalutazione automatica della propria pensione per gli anni 2012 e 2013 e che,
«in forza della sentenza
[della Corte Costituzionale] 70/15», avrebbero dovuto percepire «gli
aumenti mensili maturati nel biennio 2012/2013», da erogare anche per il
futuro, nonché gli arretrati, a decorrere dal 1° gennaio 2012; che le
ricorrenti hanno perciò chiesto, previa rimessione alla Corte costituzionale di
questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, di
accertare il diritto alla rivalutazione automatica, relativa agli anni 2012 e
2013, della propria pensione «secondo la sentenza della
Corte Costituzionale n. 70/15, e comunque in base al meccanismo di cui
all’art. 69, comma 1, legge 23.12.2000 n. 388, senza tener conto dei limiti di
cui al decreto legge n. 65/15» e di condannare l’INPS a corrispondere loro, per
i suddetti anni, «l’aumento mensile e gli arretrati sui trattamenti
pensionistici, oltre accessori sino al saldo».
21.2.– In punto di non manifesta
infondatezza delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3, 36, primo
comma, 38, secondo comma, e 136 Cost., il Tribunale ordinario di Cuneo motiva
in modo identico alla motivazione dell’ordinanza dello stesso Tribunale
iscritta al reg. ord. n. 43 del 2017.
Ad avviso del giudice rimettente,
il censurato art. 24, commi 25, lettere b),
c), d) ed e), e 25-bis del d.l. n. 201 del 2011,
violerebbe, inoltre, l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6
della CEDU.
Il giudice a quo afferma in proposito che le disposizioni censurate hanno
provveduto, «con efficacia retroattiva, su una materia la cui disciplina era, a
seguito dell’espunzione della norma ad opera della declaratoria di
incostituzionalità, del tutto completa e chiara». Le disposizioni retroattive,
inoltre, avrebbero «natura radicalmente innovativa e non interpretativa,
semplicemente disponendo, con riferimento agli stessi anni ai quali si riferiva
la declaratoria di incostituzionalità, in modo diverso da quest’ultima».
Il rimettente rappresenta che la
Corte EDU è particolarmente rigorosa nell’ammettere leggi retroattive, anche se
di interpretazione autentica, atteso che anche le leggi di interpretazione
autentica possono violare il diritto a un processo equo garantito dall’art. 6
della CEDU.
Nella specie, non si porrebbe
«alcun problema di interpretazione della norma, essendo invece intervenuta una
declaratoria di incostituzionalità che ha […] espunto dall’ordinamento la norma
censurata, di talché il decreto legge 65/15 ha introdotto una nuova e diversa
disciplina rispetto a quella risultante dalla pronuncia della Consulta, per di
più con efficacia retroattiva». Il rimettente conclude che, quindi, con il d.l.
n. 65 del 2015, «è stata frustrata la tutela giurisdizionale del cittadino, e
quindi il suo diritto a un equo processo, che, nel caso di specie, consisteva
nel vedersi applicare la disciplina della perequazione delle pensioni
risultante dalla declaratoria di incostituzionalità».
21.3.– In punto di rilevanza
delle questioni, il giudice a quo
afferma che, «anziché vedersi ripristinare la perequazione e pagare gli
arretrati (come sarebbe avvenuto in forza della sentenza della Corte
Costituzionale)», in applicazione del d.l. n. 65 del 2015, E. R. «ha ottenuto
una perequazione per un importo minimale», mentre R. P. in quanto titolare di
un trattamento pensionistico superiore a sei volte il minimo INPS, nulla ha
ottenuto. Il Tribunale rimettente conclude affermando che, alla «luce
dell’attuale normativa le domande attoree non potrebbero […] che essere
rigettate, mentre dall’accoglimento della questione […] conseguirebbe il
diritto alla perequazione della pensione secondo i criteri già stabiliti».
22.– Si sono costituti R. P. e E.
R., ricorrenti nel giudizio principale, chiedendo che le questioni sollevate
siano accolte.
A proposito delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost., le parti costituite formulano deduzioni coincidenti con quelle formulate nell’atto di costituzione di A. C. e M. M. nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 243 del 2016.
Quanto alla questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma,
Cost., le parti costituite ritengono
che le disposizioni censurate integrino una «violazione del giudicato
costituzionale alla luce dell’art. 6 della CEDU».
Richiamando la giurisprudenza
della Corte EDU in tema di norme di interpretazione autentica e «in tema di
giudicato», asseriscono che il caso di specie sarebbe «ben più grave» di quelli
relativi a leggi retroattive di interpretazione autentica, atteso che «dopo la
dichiarazione di incostituzionalità la norma caducata semplicemente non c’è
più, e quindi non vi è alcuna incertezza interpretativa da risolvere, poiché si
tratta solo di prendere atto della sua invalidità».
Né si potrebbe ipotizzare un
bilanciamento con «asserite esigenze finanziarie», atteso che, secondo la Corte
EDU, queste non possono giustificare una limitazione del diritto a un processo
equo.
23.– Con ordinanza del 9 febbraio 2017 (reg. ord. n. 77 del 2017), il Tribunale ordinario di Cuneo, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost., dell’art. 24, commi 25 e 25-bis, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015.
23.1.– Il giudice rimettente
riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto nei
confronti dell’INPS da G. C.; che il ricorrente esponeva di essere titolare di
pensione superiore al triplo del trattamento minimo INPS e di non avere perciò
usufruito, ai sensi dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, della
rivalutazione automatica della propria pensione «per l’anno 2013»; che, «tanto
dedotto», lo stesso ricorrente ha chiesto l’accertamento del diritto alla
rivalutazione automatica della propria pensione «per gli anni 2012 e 2013», con
«le conseguenti condanne a carico dell’INPS» e, in via subordinata, «in ipotesi
di ritenuta applicabilità della normativa sopravvenuta alla declaratoria di
illegittimità costituzionale, ne ha prospettato l’illegittimità costituzionale
al fine della rimozione degli ostacoli normativi all’accoglimento delle
conclusioni»; l’INPS si costituiva chiedendo il rigetto del ricorso.
23.2.– In punto di non manifesta
infondatezza, il Tribunale rimettente afferma che le disposizioni censurate
violano, anzitutto, gli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.
Esse, infatti, non si
sottrarrebbero «alle medesime censure […] già […] rilevate dalla Corte
costituzionale» nella sentenza n. 70 del
2015 con riguardo al testo originario dell’art. 24, comma 25, del d.l. n.
201 del 2011.
Il giudice a quo sottolinea ancora che la norma censurata ha effetti su più
anni, destinati a diventare permanenti, così da realizzare, con un’unica
disposizione, una reiterazione della paralisi del meccanismo perequativo.
La stessa normativa, inoltre,
incide anche su pensioni di modesto valore economico, «con applicazione del
meccanismo di rivalutazione in percentuali tali da svuotarne il valore».
A quest’ultimo proposito, il
giudice rimettente osserva che, nella sentenza n. 70 del
2015, la Corte costituzionale ha individuato due tecniche adottate dal
legislatore nel diversificare le percentuali riconosciute di rivalutazione
automatica delle pensioni, «avallando, con dei limiti, la scelta del passato
legislatore di diversificare la dinamica perequativa per aree di riferimento».
Tali tecniche sono, in specie,
quella «per fasce di importo pensionistico» e quella «per trattamenti
complessivi percepiti». Mentre quest’ultima tecnica «attribuisce ai pensionati
con trattamenti maggiori una percentuale minore di perequazione su tutto il
trattamento percepito», in base alla prima tecnica «gli stessi pensionati
avrebbero percepito una percentuale di incremento più favorevole per le quote
più basse del loro trattamento».
Il Tribunale rimettente afferma
quindi che è solo «la modestia e con ciò, la ragionevolezza, della decrescita
della percentuale ad escludere radicali differenze tra le diverse platee di percettori,
e con ciò discriminazioni tra gli stessi».
Lo stesso Tribunale conclude sul
punto affermando che «la riduzione delle percentuali» di rivalutazione, da
parte del censurato art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, rispetto a
quelle riconosciute dall’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013 «rende
la norma estremamente differente e finisce per offrire aumenti poco più che
simbolici, a fronte di una diversificazione operata non più per fasce di
importo ma per soggetti percettori».
Quanto alla non manifesta
infondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 136 Cost., il
Tribunale di Cuneo afferma che la normativa censurata, intervenendo a seguito
della sentenza
della Corte costituzionale n. 70 del 2015, avrebbe «negli effetti
vanificato la portata retroattiva della pronuncia di incostituzionalità,
eludendone il significato, riproducendo la stessa tecnica di applicazione della
perequazione, solo lievemente edulcorata, ma non in maniera tale da riuscire a
correggerne la già ritenuta irragionevolezza».
Il giudice a quo conclude affermando che «la emanazione della norma ha
chiaramente impedito alla declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art.
24, co. 25, d.l. 201/2011 di produrre le conseguenze previste dall’art. 136
Cost.».
23.3.– In punto di rilevanza
delle questioni, il giudice rimettente rappresenta quindi che, «[i]n
applicazione della norma da ritenersi vigente a seguito della dichiarazione di
incostituzionalità» dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 101 del 2011, il
ricorrente avrebbe avuto diritto «per il 2012 ad una rivalutazione pari al 2,7%
per la quota sino al triplo della pensione, e del 2,43% per la parte eccedente
e sino al quintuplo» e «per il 2013 […] ad una rivalutazione del 3% per la
quota fino al triplo del trattamento minimo, e del 2,7% per la parte eccedente,
al quintuplo del trattamento minimo». Lo stesso rimettente osserva poi che,
pertanto, «[c]iò che il ricorrente deduce […] è che in applicazione della norma
di cui al D.L. 65/15, [...] ha ottenuto a titolo di arretrati dovuti per
effetto della citata pronuncia n. 70/15
[…] un importo ridotto per effetto della perequazione minima stabilita dalla
norma da ultimo introdotta (collocandosi nella fascia b), anziché l’ammontare
dovutogli in applicazione della legge 448/98», cosicché ha proposto il ricorso
«al fine di ottenere il pagamento della differenza tra quanto effettivamente
percepito, a seguito del blocco della rivalutazione, con quanto avrebbe avuto
diritto applicando la rivalutazione automatica per il periodo dal 2013 sino al
luglio 2015». Ciò considerato, il rimettente conclude che la disciplina «da
ultimo introdotta […] ha dunque inciso sul valore del trattamento pensionistico
riconosciuto al ricorrente», aggiungendo che, per effetto del comma 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del
2011, «tale incidenza è destinata a protrarsi nel tempo (per il triennio
2014-2016)».
Infine, sarebbe «chiara, perché
espressa, l’applicabilità della norma sopravvenuta alla declaratoria di
incostituzionalità, all’ammontare delle prestazioni maturate al biennio
2012-2014, non potendosi semplicemente, come sembrerebbe auspicare il ricorrente,
ritenere l’acquisizione definitiva al suo patrimonio degli "arretrati”
spettantigli».
24.– Con ordinanza del 21 febbraio 2017 (reg. ord. n. 78 del 2017), il Tribunale ordinario di Cuneo, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost., dell’art. 24, commi 25 e 25-bis, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015.
24.1.– Il giudice rimettente
riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto nei
confronti dell’INPS da D. B., L. C., G. L., C. M., F. M., N. M., F. M., A. R. e
V. A., titolari di pensioni di anzianità; che i ricorrenti esponevano di non
avere usufruito, ai sensi dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011,
della rivalutazione automatica della propria pensione «per gli anni successivi
al 2011»; che, intervenuta la sentenza della
Corte costituzionale n. 70 del 2015, essi, in base ai conteggi effettuati e
prodotti – che il rimettente afferma non essere contestati dall’Istituto
convenuto – «in applicazione della normativa previgente alla normativa dichiarata
incostituzionale avrebbero maturato crediti nei confronti dell’ente convenuto,
travolti invece dalla normativa sopravvenuta» e che «il pregiudizio derivante
dalla perequazione minima ricevuta ha condizionato le successive
rivalutazioni»; che gli stessi ricorrenti hanno chiesto, previa rimessione alla
Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale «della
normativa», l’accertamento del diritto alla rivalutazione automatica della
propria pensione per gli anni dal 2011 al 2015, la condanna dell’INPS al
pagamento di quanto dovuto e non versato e l’accertamento dell’importo delle
rispettive pensioni per l’anno 2016; che l’INPS si costituiva in giudizio
chiedendo il rigetto del ricorso.
24.2.– In punto di non manifesta
infondatezza delle questioni, il Tribunale rimettente motiva in modo pressoché
identico alla motivazione dell’ordinanza dello stesso Tribunale iscritta al
reg. ord. n. 77 del 2017.
24.3.– In punto di rilevanza
delle questioni, il giudice a quo rappresenta che «[c]iò che tutti i ricorrenti
deducono […] è che in applicazione della norma di cui al D.L. 65/15 hanno
ottenuto a titolo di arretrati dovuti per effetto della citata pronuncia n. 70/15
[…] un importo ridotto per effetto della perequazione minima stabilita dalla
norma da ultimo introdotta» e che «l’effetto di "trascinamento” della minima
rivalutazione, legato alla mancata previsione della capitalizzazione della
rivalutazione annuale determina una definitiva erosione dell’importo delle loro
pensioni anche per gli anni successivi».
Ciò considerato, il rimettente
conclude che la disciplina «da ultimo introdotta […] ha certamente inciso sul
valore del trattamento pensionistico riconosciuto ai ricorrenti».
Infine, sarebbe «chiara, perché
espressa, l’applicabilità della norma sopravvenuta alle posizioni dei
ricorrenti».
25.– In tutti i giudizi
incidentali si è costituito l’INPS, resistente nei giudizi a quibus, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate
inammissibili o infondate.
Ciò sulla base di argomentazioni
sostanzialmente analoghe o, comunque, complementari, adeguate a seconda
dell’oggetto e dei parametri delle questioni sollevate con le singole
ordinanze.
25.1.– In via preliminare, l’INPS
ha sollevato alcune eccezioni di inammissibilità delle questioni.
L’Istituto ha eccepito
l’inammissibilità delle questioni sollevate con l’ordinanza n. 101 del 2016,
con riguardo alla «rilevanza» delle stesse, sotto tre profili. A suo avviso, il
giudice rimettente: affermerebbe «di non aver percepito con sufficiente
nettezza l’esigenza di bilanciamento del sacrificio imposto a talune categorie
di pensionati con le necessità di bilancio e di tenuta del sistema» sulla sola
base dell’esame delle disposizioni censurate, senza neppure menzionare gli atti
parlamentari e i documenti di Verifica
delle quantificazioni che le accompagnano»; si limiterebbe «a una mera
enunciazione dei principi consacrati negli artt. 36 e 38 della Costituzione,
[…] senza considerare gli altri di uguale rango ai fini del necessario
bilanciamento, con particolare riferimento alla previsione dell’art. 81 della
Carta», il che «non è sufficiente […] a fondare un giudizio di non manifesta
infondatezza della questione di illegittimità costituzionale di una norma»;
trascurerebbe di calare i condivisibili principi enunciati nel particolare
attuale momento storico in cui «l’inflazione è pari a zero o addirittura
negativa» e, per tale ragione, ometterebbe di precisare l’entità di un danno
che risulta sostanzialmente assai limitato e comunque sopportabile per le
categorie di pensionanti colpiti dall’intervento.
Quest’ultimo profilo di
inammissibilità è stato prospettato dall’INPS anche con riguardo alle questioni
di legittimità costituzionale sollevate con le ordinanze n. 188, n. 237, n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016, n. 24, n. 43, n. 44, n. 77 e n. 78
del 2017.
Secondo l’Istituto, anche la
questione sollevata in via subordinata con le ordinanze n. 242 e n. 244 del 2016 sarebbe
inammissibile per difetto di rilevanza, in quanto concerne
esclusivamente la disciplina dei trattamenti pensionistici superiori a sei
volte il trattamento minimo INPS, mentre i giudizi a quibus sono stati promossi da pensionati con un trattamento
compreso tra tre e sei volte tale minimo.
25.2.– Nel merito, l’INPS nega
anzitutto che la normativa censurata violi l’art. 136 Cost., poiché essa non
può ritenersi meramente riproduttiva di quella dichiarata incostituzionale con
la sentenza n.
70 del 2015. A tale proposito, l’Istituto rappresenta che quest’ultima
normativa prevedeva soltanto l’integrale perequazione delle pensioni non
superiori a tre volte il trattamento minimo INPS – escludendo in toto la perequazione delle altre
pensioni – mentre le disposizioni introdotte con il d.l. n. 65 del 2015
assicurano una tutela, ancorché parziale e decrescente, anche per i più elevati
trattamenti pensionistici da tre a sei volte il minimo INPS. Ad avviso dello
stesso Istituto, l’art. 136 Cost. sarebbe violato solo qualora il legislatore
riproducesse pedissequamente una disposizione espunta dall’ordinamento o
emanasse una norma che ne faccia rivivere gli effetti. L’INPS afferma ancora
che «la Consulta nella sentenza 70/2015
non ha indicato (e si ha ragione di credere che non potesse farlo) la misura
della perequazione da attribuire alle pensioni di importo superiore a tre volte
il minimo INPS, né ha individuato la soglia entro la quale accordare una
perequazione ancorché non integrale e dunque il legislatore del 2015 ha
adottato una regolamentazione che non soltanto non è riproduttiva di quella già
dichiarata incostituzionale, ma che si conforma ai principi sanciti nella sentenza n. 70/2015».
L’INPS aggiunge ancora che non sarebbe possibile ritenere ragionevolmente che
«il legislatore debba subire, quale necessaria ed ineluttabile conseguenza
della decisione caducatoria, la reviviscenza delle disposizioni pregresse,
specialmente ove la loro applicazione dovesse comportare, come nella
fattispecie, imponenti esborsi di spesa in grado di compromettere la tenuta del
sistema previdenziale ed il livello di debito pubblico consentito dalle
istituzioni europee».
Quanto ai parametri degli artt. 3, 36 e 38 Cost., l’INPS afferma che il
d.l. n. 65 del 2015 ha dato attuazione alle indicazioni fornite dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 70 del
2015, abbandonando il modello di meccanismo da questa censurato e tornando
al precedente, col prevedere una tutela più generale, ancorché proporzionale
all’ammontare del trattamento pensionistico.
L’Istituto sottolinea che, con l’ordinanza n. 256 del 2001, la Corte costituzionale ha ritenuto la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 59, comma 13, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), che escludeva dalla perequazione automatica i trattamenti superiori a cinque volte (e non a sei volte, come nel caso della disposizione ora censurata) il minimo INPS, sottolineando come la garanzia costituzionale dell’adeguatezza e della proporzionalità del trattamento pensionistico incontri il limite delle risorse disponibili, con la conseguenza che il legislatore, anche al fine di salvaguardare la tenuta complessiva del sistema previdenziale, deve introdurre le necessarie modifiche alla legislazione di spesa, nel quadro degli equilibri di bilancio.
A tale proposito, l’INPS sottolinea che occorrerebbe anche tenere conto della crisi economica che ha interessato da diversi anni l’Italia, che ha comportato una riduzione delle risorse disponibili per coprire i costi, tra l’altro, della perequazione delle pensioni e ha imposto al legislatore di individuare le soluzioni più eque per assicurare la massima tutela possibile alle categorie più bisognose, oltre a produrre un progressivo indebolimento della domanda interna che ha condotto a un azzeramento dell’inflazione. In tale situazione, a fronte di limitate risorse disponibili, l’esclusione dalla perequazione, non più limitata a un periodo annuale o biennale come nel passato, per i pensionati con trattamenti pensionistici più elevati (superiori a sei volte il minimo INPS) «sembra un sacrificio sopportabile anche perché inserito in un momento storico di inflazione nulla o addirittura negativa», ciò che «comporta un contenimento dell’esigenza di adeguamento dei trattamenti in questione».
Ciò considerato, l’INPS ritiene che il d.l. n. 65 del 2015 abbia effettivamente dato attuazione ai principi affermati dalla sentenza n. 70 del 2015 e che le argomentazioni dei rimettenti non possano far dubitare della legittimità di tale intervento.
A quest’ultimo riguardo, l’INPS osserva che nel caso in esame è previsto un meccanismo perequativo che assicura pienamente l’indicizzazione delle pensioni con riguardo ai pensionati appartenenti alla fascia cosiddetta debole e in misura decrescente per le fasce di pensionati con un trattamento pensionistico compreso da tre a sei volte il minimo INPS.
Né sarebbe ammissibile censurare la misura dell’adeguamento previsto dal censurato art. 24, comma 25, per questi ultimi pensionati, trattandosi di materia riservata alla discrezionalità del legislatore e oggetto di necessario bilanciamento con altri interessi meritevoli di tutela, quali la tenuta del sistema previdenziale e del bilancio dello Stato, anche in relazione all’art. 81 Cost., con conseguente esclusione dell’irragionevolezza della suddetta disposizione. Dovrebbe inoltre tenersi conto del fatto che essa incide su un periodo di tempo con inflazione quasi nulla e talvolta negativa.
Sarebbero, in particolare, prive di fondamento le argomentazioni dei giudici a quibus in tema di adeguatezza e proporzionalità della pensione. Secondo l’Istituto, il rispetto di tali parametri andrebbe assicurato per il periodo di quiescenza secondo valutazioni riservate, anche con riguardo alle disponibilità finanziarie, alla discrezionalità del legislatore, purché esercitata in modo non irragionevole e arbitrario.
La garanzia dell’adeguatezza del trattamento non comporterebbe, quindi, un rigido meccanismo di perequazione, una costante rivalutazione, ma andrebbe assicurata nel quadro di una sfera di discrezionalità riservata al legislatore.
Da ciò conseguirebbe – sempre secondo l’INPS – che l’irragionevolezza della scelta operata dal legislatore andrebbe dedotta e provata tenendo conto del complesso dei valori costituzionali interessati (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 119 del 1991), cosicché sarebbe stato nella specie necessario dimostrare che il notevole esborso che discenderebbe, in caso di accoglimento delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, dall’applicazione delle disposizioni precedenti, non si pone in contrasto con l’art. 81 Cost., non incide sulla tenuta del sistema previdenziale, non conduce a scostamenti del prodotto interno lordo (PIL) oltre i limiti consentiti in sede europea, contrastando l’analisi contenuta negli allegati documenti prodotti dalla Camera dei deputati.
Di ciò i rimettenti non si sarebbero fatti alcun carico, mentre da tali
documenti – in particolare, dagli
atti della Camera dei deputati relativi al disegno di legge n. 3134 di
conversione in legge del d.l. n. 65 del 2015 – emergerebbero chiaramente le esigenze di finanza pubblica e di
tenuta del sistema pensionistico poste a fondamento dell’intervento operato con
il d.l. n. 65 del 2015. L’INPS riporta,
in particolare, un passaggio di tali atti che rivelerebbe come «il legislatore
abbia prestato attenzione all’opera di bilanciamento alle esigenze di tenuta
del sistema pensionistico addirittura in proiezione futura con l’espresso
richiamo alla solidarietà intergenerazionale».
Tali osservazioni varrebbero
anche con riguardo alle questioni di legittimità costituzionale – prospettate
in via principale o in via subordinata – dell’art. 1, comma 483, della legge n.
147 del 2013, che «non ha riconosciuto per l’anno 2014 alcun incremento
perequativo per i trattamenti superiori a sei volte il minimo INPS», fermo il
«dubbio da porsi in ordine all’attuale vigenza della disposizione […] a seguito
dell’introduzione delle norme contenute nel DL n. 65/2015».
Né sussisterebbe alcuna lesione
«dell’affidamento dei pensionati alla luce delle pregresse normative alla
perequazione delle pensioni in godimento». In proposito, andrebbero
«considerati i numerosi interventi normativi che nel tempo hanno sospeso i
meccanismi peraltro sempre più restrittivi e dall’altro le più volte citate
esigenze di bilanciamento […] in omaggio alle quali ben può il legislatore
introdurre regolamentazioni più sfavorevoli che non trasmodano nell’irragionevolezza».
L’INPS sostiene che non sarebbe
violato neppure l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU,
poiché «la norma CEDU quando va a integrare il primo comma dell’art. 117 Cost.,
come norma interposta, è oggetto di bilanciamento, ai fini della generale
integrazione delle tutele» (è richiamata la sentenza della
Corte costituzionale n. 264 del 2012).
Sarebbe infondato anche il dubbio
circa la violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU. Non solo
il beneficio della perequazione è stato nel tempo limitato anche in
considerazione delle varie contingenze economiche che hanno connotato gli
ultimi anni ed è stato spesso sospeso, ancorché per periodi determinati, ma
anche tale beneficio può essere assoggettato a una disciplina più sfavorevole
per i pensionati, in omaggio alle (evidenziate) esigenze di bilanciamento con
altri beni ugualmente meritevoli di tutela.
Non sussisterebbe, infine, alcuna
lesione dell’art. 53 Cost., atteso che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 70 del
2015, ha già escluso che l’azzeramento della perequazione automatica
costituisca una prestazione patrimoniale di natura tributaria.
L’Istituto costituito conclude
esponendo le «conseguenze economiche» di un’eventuale pronuncia di
accoglimento, quali risultanti dall’allegato documento di «Verifica delle
quantificazioni» elaborato dalla Camera dei deputati.
26.– È intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del
Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o
infondate.
Anche il Presidente del consiglio
dei ministri spende, nei vari giudizi, argomentazioni sostanzialmente analoghe
o, comunque, complementari, adeguate a seconda dell’oggetto e dei parametri
delle questioni sollevate con le singole ordinanze.
26.1.– Secondo il Presidente del
Consiglio dei ministri, tutte le questioni sollevate sarebbero, anzitutto,
inammissibili, poiché devono ritenersi insindacabili le scelte discrezionali
del legislatore in ordine a modalità e tempi della rivalutazione automatica dei
trattamenti pensionistici, «tenendo conto dell’eccezionalità della situazione
economica internazionale, dell’esigenza prioritaria del raggiungimento degli
obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, anche garantendo
l’equilibrio di bilancio dell’ente previdenziale».
Inoltre, la motivazione
dell’ordinanza n. 278 del 2016 sarebbe «tanto scarna da rendere [la stessa]
inammissibile per difetto di motivazione sul requisito […] della non manifesta
infondatezza».
26.2.– Quanto al merito, «con
riferimento al […] giudicato costituzionale», il Presidente del Consiglio dei
ministri afferma che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una
norma non può determinare un effetto di esproprio della potestà legislativa
poiché il legislatore resta titolare del potere di disciplinare, con un nuovo
atto, la stessa materia, a condizione che non si limiti «a "salvare”, o a
ripristinare gli effetti prodotti da disposizioni che, in ragione della
dichiarazione di illegittimità costituzionale, non sono più in grado di
produrne» (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 169 del 2015). Nella specie, in particolare, non si
sarebbe in presenza di «un nuovo atto diretto esclusivamente a prolungare nel
tempo, anche in via indiretta, l’efficacia di norme che "non possono avere
applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”».
Con riguardo ai parametri degli
artt. 3, 36 e 38 Cost., secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, la
normativa censurata avrebbe dato attuazione ai principi affermati dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 70 del
2015, assicurando un adeguato trattamento pensionistico e contemperandolo
con i principi dell’equilibrio di bilancio e con gli obiettivi di finanza
pubblica, nonché con la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali, anche in funzione della solidarietà
intergenerazionale, concentrando le risorse disponibili in favore delle classi
di pensionati con trattamenti più bassi. A tale riguardo, l’Avvocatura generale
dello Stato sottolinea gli effetti di riduzione sui saldi di finanza pubblica
derivanti dall’art. 1, comma 1, numeri 1) e 2), del d.l. n. 65 del 2015 e il
fatto che nella «Relazione al Parlamento» per l’anno 2015, resa ai sensi
dell’art. 10-bis, comma 6, della
legge n. 196 del 2009, il Governo aveva quantificato gli effetti
sull’indebitamento che sarebbero derivati dal recupero integrale della mancata
indicizzazione subita dai pensionati per il biennio 2012-2013.
L’Avvocatura generale dello Stato
sottolinea poi come la giurisprudenza della Corte costituzionale abbia
valorizzato da tempo, nella materia, il principio del bilanciamento complessivo
degli interessi costituzionali nel quadro delle compatibilità economiche e
finanziarie (è citata la sentenza n. 220 del
1988), e affermato l’insussistenza di un diritto all’aggancio costante
delle pensioni alle retribuzioni (è citata l’ordinanza n. 531
del 2002).
Secondo la difesa dello Stato, in
assenza di precisi parametri cui attenersi nella determinazione dei
coefficienti di rivalutazione dei trattamenti pensionistici e tenuto conto di
quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 316 del
2010, considerata la necessità di garantire l’equilibrio di bilancio e gli
obiettivi di finanza pubblica, la normativa censurata non sarebbe irragionevole
e costituirebbe espressione del potere discrezionale del legislatore, anche
perché l’efficacia temporale della stessa è solo biennale.
Sotto altra prospettiva, tenuto
conto degli obiettivi del censurato intervento normativo, non sarebbe possibile
dubitare della legittimità costituzionale dello stesso soltanto perché
introduce un coefficiente di rivalutazione automatica ritenuto insufficiente a
bilanciare la perdita di potere di acquisto dei trattamenti pensionistici
erogati. In proposito, il Presidente del Consiglio dei ministri osserva che,
nella scelta del meccanismo perequativo da utilizzare, il legislatore esercita
la sua discrezionalità, considerato che, dal combinato disposto degli artt. 36
e 38 Cost., emerge esclusivamente l’obbligo di adeguamento delle pensioni al
costo della vita ma non anche l’obbligo del legislatore di adottare un
particolare meccanismo perequativo.
La normativa censurata
garantirebbe l’equilibrio di bilancio, sia in ossequio all’art. 3 Cost., sia in
adempimento del vincolo imposto dall’art. 81, quarto comma, Cost., tenuto conto
che essa vale a escludere effetti finanziari onerosi, di rilevante entità, tali
da compromettere gli equilibri di finanza pubblica e gli impegni assunti
dall’Italia con l’Unione europea.
Né «alla norma esaminata […] può
essere attribuita la funzione di introdurre surrettiziamente un prelievo
fiscale».
Il Presidente del Consiglio dei
ministri sostiene infine l’infondatezza anche della questione sollevata in
riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della
CEDU. Come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 127 del
2015, dai principi della CEDU «non deriva alcun divieto assoluto di norme
interpretative, suscettibili di ripercuotersi sui processi in corso». La
normativa censurata, «nel contemperare la tutela previdenziale con le
inderogabili esigenze di contenimento della spesa pubblica e di salvaguardia
della concreta ed attuale disponibilità delle risorse finanziarie (sentenze n. 361 del
1996, n. 240
del 1994, n.
119 del 1991, che valorizzano, per il sistema pensionistico, la necessità
di tale bilanciamento), non determina alcuna compressione sproporzionata dei
diritti dei singoli lavoratori” (sentenza n.
127/2015 […])».
27.– In prossimità dell’udienza pubblica, le
parti private costituite nei giudizi reg. ord. n. 36 e n. 243 del 2016 e n. 44
del 2017, l’interveniente nel giudizio reg. ord. n. 124 del 2016, l’INPS (in
tutti i giudizi) e il Presidente del Consiglio dei ministri (pure in tutti i
giudizi) hanno depositato memorie illustrative con le quali, nel ribadire le conclusioni
già rassegnate, ne argomentano ulteriormente il fondamento.
28.– Il 23 ottobre 2017, giorno
precedente quello dell’udienza pubblica, hanno depositato atto di intervento in
tutti i giudizi il Codacons (Coordinamento di associazioni per la tutela dell’ambiente
e dei diritti di utenti e consumatori) e G. P., nella qualità di «pensionato»
Considerato in diritto
1.– Con quindici ordinanze, i
Tribunali ordinari di Palermo (reg. ord. n. 36 del 2016), Milano (reg. ord. n.
124 del 2016), Brescia (reg. ord. n. 188 del 2016), Napoli (reg. ord. n. 237
del 2016), Genova (reg. ord. n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016), Torino (reg.
ord. n. 278 del 2016), La Spezia (reg. ord. n. 24 e n. 25 del 2017), e Cuneo
(reg. ord. n. 43, n. 44, n. 77 e n. 78 del 2017), nonché la Corte dei conti,
sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia-Romagna (reg. ord. n. 101 del
2016), hanno sottoposto a questa Corte questioni di legittimità costituzionale:
a) dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24
del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la
crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con
modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, come sostituito (il comma
25) e inserito (il comma 25-bis),
rispettivamente, dai numeri 1) e 2) del comma 1 dell’art. 1 del decreto-legge
21 maggio 2015, n. 65 (Disposizioni urgenti in materia di pensioni, di
ammortizzatori sociali e di garanzie TFR), convertito, con modificazioni, dalla
legge 17 luglio 2015, n. 109; b) dell’art. 1, comma 483, della legge 27
dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)».
1.1.– Tutti i giudici rimettenti
sono investiti di ricorsi proposti, nei confronti dell’Istituto nazionale della
previdenza sociale (INPS), da uno o più pensionati, i quali chiedono
l’accertamento del diritto alla rivalutazione automatica del proprio
trattamento pensionistico quale spetterebbe loro sulla base della disciplina
individuata – quando indicata – ora nell’art. 69, comma 1, della legge 23
dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», ora nell’art. 34,
comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per
la stabilizzazione e lo sviluppo), nonché, nella quasi totalità dei casi, la
condanna dell’INPS a corrispondere loro la differenza tra quanto effettivamente
liquidato e quanto spetterebbe sulla base della suddetta disciplina. Le domande
dei ricorrenti riguardano, nella maggior parte dei giudizi, solo la
rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici relativa agli anni 2012
e 2013. Soltanto in alcuni casi (reg. ord. n. 101, n. 124, n. 188, n. 244 e n.
278 del 2016, n. 25 e n. 78 del 2017), le domande concernono anche la
rivalutazione relativa ad annualità successive.
1.2.– I denunciati commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del
2011 sono stati adottati al dichiarato fine (indicato nell’alinea dell’art. 1,
comma 1, del d.l. n. 65 del 2015), di «dare attuazione» – nel rispetto «del
principio dell’equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica,
assicurando la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali, anche in funzione della salvaguardia della
solidarietà intergenerazionale» – ai «principi enunciati nella sentenza della
Corte costituzionale n. 70 del 2015», che aveva dichiarato l’illegittimità
costituzionale, per violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo
comma, Cost., del testo previgente del comma 25 del d.l. n. 201 del 2011,
«nella parte in cui prevede[va] che "In considerazione della contingente
situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti
pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della
legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013,
esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre
volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento”».
In particolare, il comma 25
dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dall’art. 1, comma 1,
numero 1), del d.l. n. 65 del 2015, detta una nuova disciplina della
rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici per gli anni 2012 e
2013. Nel lasciarne fermo il riconoscimento nella misura del cento per cento
per i trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il
trattamento minimo INPS (lettera a),
esso esclude qualsiasi rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici
complessivamente superiori a sei volte (e non più a tre volte) il trattamento
minimo INPS (lettera e). Ai
trattamenti pensionistici compresi tra quelli superiori a tre volte e fino a
sei volte il trattamento minimo INPS – che nel testo previgente erano anch’essi
esclusi dalla cosiddetta perequazione – l’attuale comma 25 la riconosce in
misure percentuali decrescenti all’aumentare dell’importo complessivo del
trattamento pensionistico e, in particolare, nelle misure del: 40 per cento per
i trattamenti superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e pari o
inferiori a quattro volte lo stesso (lettera b); 20 per cento per i trattamenti superiori a quattro volte il
trattamento minimo INPS e pari o inferiori a cinque volte lo stesso (lettera c); 10 per cento per i trattamenti
superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a sei
volte lo stesso (lettera d).
Quanto al comma 25-bis, esso stabilisce le percentuali in
cui gli incrementi perequativi attribuiti dal comma 25 per gli anni 2012 e 2013
sono riconosciuti ai fini della determinazione della rivalutazione automatica
dei trattamenti pensionistici di importo complessivo superiore a tre volte il
minimo INPS negli anni 2014 e 2015 (20 per cento) e a decorrere dall’anno 2016
(50 per cento).
Mentre alcuni dei rimettenti
hanno denunciato soltanto il comma 25 (reg. ord. n. 36, n. 124, n. 188 e n. 237
del 2016, n. 24 e n. 25 del 2017), altri hanno esteso le proprie censure anche al
comma 25-bis (reg. ord. n. 101, n.
242, n. 243 e n. 244 del 2016, n. 43, n. 44, n. 77 e n. 78 del 2017). Nel
giudizio reg. ord. n. 278 del 2016, peraltro, è denunciato soltanto il comma
25-bis.
1.2.1.– Secondo quattordici delle
quindici ordinanze di rimessione, la normativa di cui ai denunciati commi 25
e/o 25-bis violerebbe, anzitutto,
l’art. 136 della Costituzione, per violazione del giudicato costituzionale
della sentenza
n. 70 del 2015, poiché, non riconoscendo la rivalutazione automatica dei
trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS
(lettera e del comma 25)
riprodurrebbe la disciplina dichiarata incostituzionale con la predetta
sentenza (reg. ord. n. 101, n. 124, n. 188 e n. 237 del 2016, n. 24, n. 43 e n.
44 del 2017), ne neutralizzerebbe gli effetti (reg. ord. n. 242, n. 243 e n.
244 del 2016) o detterebbe una disciplina che presenta vizi analoghi a quelli
da essa censurati (reg. ord. n. 278 del 2016, n. 77 e n. 78 del 2017). Inoltre,
riconoscendo la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici
superiori a tre volte e pari o inferiori a sei volte il suddetto trattamento
minimo soltanto nelle misure percentuali previste dalle lettere b), c)
e d) del comma 25, tale normativa
limiterebbe gli effetti della sentenza n. 70 del
2015 (reg. ord. n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016, n. 25, n. 43 e n. 44 del
2017) o detterebbe una disciplina che presenta vizi analoghi a quelli da essa
censurati (reg. ord. n. 124 del 2016, n. 24, n. 25, n. 77 e n. 78 del 2017).
1.2.2.– Ad avviso della sola
Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia-Romagna (reg.
ord. n. 101 del 2016), i denunciati commi 25 (in specie, la lettera e) e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, violerebbero anche gli
artt. 2, 3, 23 e 53 Cost., poiché la «misura di azzeramento della rivalutazione
automatica per gli anni 2012-2013, 2014-2015 e dal 2016, relativa ai
trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento
minimo INPS» configurerebbe una prestazione patrimoniale di natura tributaria
«lesiva del principio dell’universalità dell’imposizione a parità di capacità
contributiva, in quanto posta a carico di una sola categoria di contribuenti».
1.2.3.– Tutti i rimettenti – con
la sola esclusione del Tribunale di Torino (reg. ord. n. 278 del 2016) –
lamentano che i denunciati commi 25 e 25-bis
violerebbero gli artt. 3, 36 e 38 Cost., poiché presenterebbero gli stessi
profili di contrasto con tali parametri ascritti dalla sentenza n. 70 del
2015 a carico del previgente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011.
Secondo i giudici a quibus, anche i denunciati commi 25 e
25-bis violerebbero i principi di
eguaglianza e di ragionevolezza (di cui all’art. 3 Cost.), nonché di
adeguatezza e di proporzionalità dei
trattamenti di quiescenza (di cui, rispettivamente, all’art. 38, secondo comma,
e all’art. 36, primo comma, Cost.). A tale riguardo, i rimettenti sottolineano
che, negando la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici
superiori a sei volte il trattamento minimo INPS (lettera e del comma 25) o prevedendola in percentuali limitate per i
trattamenti pensionistici compresi tra quelli superiori a tre volte il predetto
trattamento minimo e quelli fino a sei volte lo stesso (lettere b, c
e d dello stesso comma), i denunciati
commi 25 e 25-bis, similmente al
previgente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, incidono su
trattamenti previdenziali complessivi modesti (reg. ord. n. 36 del 2016, n. 24,
n. 25, n. 43, n. 44, n. 77 e n. 78 del 2017); non prevedono alcuna forma di
recupero (reg. ord. n. 36 del 2016); producono effetti negativi anche sulla
perequazione per gli anni successivi (reg. ord. n. 36, n. 242, n. 243 e n. 244
del 2016, n. 24, n. 25, n. 43, n. 44, n. 77 e n. 78 del 2017); non fanno
emergere le ragioni per cui, nel bilanciamento da essi operato, le esigenze
finanziarie di risparmio di spesa siano risultate prevalenti sul sacrificato
interesse dei pensionati alla conservazione del potere di acquisto dei propri
trattamenti pensionistici (reg. ord. n. 101, n. 124, n. 188, n. 237, n. 242, n.
243 e n. 244 del 2016, n. 24, n. 25, n. 43, n. 44, n. 77 e n. 78 del 2017).
Inoltre, diversamente dall’art. 1, comma 19, della legge 24 dicembre 2007, n.
247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza,
lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché
ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale) – che la sentenza di questa
Corte n. 316 del 2010, richiamata dalla sentenza n. 70 del
2015, aveva ritenuto non in contrasto con gli artt. 3, 36 e 38, secondo
comma, Cost. – i commi oggetto della censure odierne negano la rivalutazione
automatica ai trattamenti superiori a sei volte anziché a otto volte il
trattamento minimo INPS (reg. ord. n. 101, n. 188, n. 237, n. 242, n. 243 e n.
244 del 2016, n. 24 del 2017); incidono su un biennio, anziché su un solo anno
(reg. ord. n. 101, n. 124, n. 188, n. 237, n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016, n.
24, n. 25, n. 43, n. 44, n. 77 e n. 78 del 2017); non indicano uno specifico
scopo solidaristico interno al sistema previdenziale (reg. ord. n. 101, n. 242,
n. 243, n. 244 del 2016). I commi denunciati, infine, là dove riconoscono la
rivalutazione automatica, lo fanno in percentuale assai esigua e inferiore a
quella prevista sia per gli anni precedenti (dall’art. 69, comma 1, della legge
n. 388 del 2000) sia per quelli successivi (dall’art. 1, comma 483, della legge
n. 147 del 2013) (reg. ord. n. 25 del 2017).
1.2.4.– Ad avviso della Corte dei
conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia-Romagna (reg. ord. n. 101
del 2016) e del Tribunale ordinario di Cuneo (reg. ord. n. 44 del 2017), la
lettera e) del comma 25 e,
rispettivamente, le lettere b), c), d),
e) del comma 25 e il comma 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del
2011 violerebbero anche l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. Dettando una disciplina
retroattiva della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici per
gli anni 2012 e 2013 che riproduce quella dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 70 del
2015 (reg. ord. n. 101 del 2016) o che, comunque, è diversa da quella
applicabile in seguito a tale sentenza (disciplina che è individuata dal
Tribunale di Cuneo nell’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000), tali
disposizioni violerebbero il diritto a un processo equo, garantito dal
richiamato parametro convenzionale.
Secondo la sezione regionale
della Corte dei conti, il denunciato comma 25, lettera e), violerebbe anche, per le stesse ragioni, i principi del
legittimo affidamento e della certezza del diritto, di cui all’art. 3 Cost.
1.2.5.– Sempre ad avviso della
Corte dei conti (reg. ord. n. 101 del 2016), la lettera e) del comma 25 e il comma 25-bis
dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2001 violerebbero l’art. 117, primo comma,
Cost., anche in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU –
firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con la legge n. 848 del 1955 – che riconosce
a ogni persona il «diritto al rispetto dei suoi beni», perché, privando, in
modo permanente, i pensionati titolari di trattamenti complessivamente
superiori a sei volte il trattamento minimo INPS del «"bene” [della]
"perequazione automatica”», che «spetta [loro] alla luce della sentenza n. 70 del
2015, […] non sembra avere disciplinato detto "bene” […] nel rispetto del
requisito dell’equo bilanciamento alla luce del principio per cui ogni
ingerenza su un "bene” della persona debba essere ragionevolmente proporzionata
al fine perseguito, […] con conseguente incisione individuale eccessiva dei
diritti di detti pensionati».
1.3.– Quanto al comma 483
dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013, esso – come modificato dall’art. 1,
comma 286, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità
2016)» – disciplina la misura della rivalutazione automatica dei trattamenti
pensionistici per il quinquennio 2014-2018, riconoscendola nelle percentuali,
decrescenti all’aumentare dell’importo complessivo del trattamento
pensionistico, del: 100 per cento per i trattamenti pensionistici di importo
complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS (lettera a); 95 per cento per i trattamenti
complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e pari o
inferiori a quattro volte lo stesso (lettera b); 75 per cento per i trattamenti complessivamente superiori a
quattro volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a cinque volte lo
stesso (lettera c); 50 per cento per
i trattamenti complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo
INPS e pari o inferiori a sei volte lo stesso (lettera d); 40 per cento per l’anno 2014 e 45 per cento per ciascuno degli
anni 2015, 2016, 2017 e 2018 per i trattamenti pensionistici complessivamente
superiori a sei volte il trattamento minimo INPS, con la specificazione che,
«per il solo anno 2014, [la rivalutazione automatica] non è riconosciuta con
riferimento alle fasce di importo superiori a sei volte il trattamento minimo
INPS».
Tale comma 483 è censurato, in
via principale, dal solo Tribunale di Brescia (reg. ord. n. 188 del 2016),
secondo cui, in particolare, la lettera e)
dello stesso, col riconoscere la rivalutazione automatica, per l’anno 2014, dei
trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS solo nella
misura del 40 per cento e con l’esclusione delle fasce di importo superiori a
sei volte il predetto trattamento minimo, violerebbe il principio di
adeguatezza dei trattamenti pensionistici, di cui all’art. 38, secondo comma,
Cost., impedendone la conservazione del valore nel tempo, e il «principio di
proporzionalità tra pensione […] e retribuzione goduta durante l’attività
lavorativa», di cui all’art. 36, primo comma, Cost., nonché i principi
derivanti dall’applicazione congiunta degli artt. 3, 36 e 38 Cost., in quanto,
«violando il principio di proporzionalità tra pensione e retribuzione e quello
di adeguatezza della prestazione previdenziale, altera il principio di
eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno
della categoria dei pensionati».
1.4.– Infine, quattro delle
quindici ordinanze di rimessione hanno sollevato anche questioni in via
subordinata, nel caso in cui fossero ritenute non fondate quelle da esse
prospettate in via principale.
1.4.1.– Il Tribunale ordinario di
Milano (reg. ord. n. 124 del 2016), nel caso in cui fossero ritenute non
fondate quelle da esso sollevate nei confronti dell’art. 24, comma 25, lettere b), c),
d) ed e), del d.l. n. 201 del 2011, ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale del «DL 65» – e, quindi, delle suddette disposizioni del comma
25, come sostituito dall’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015 –
congiuntamente all’art. 1, comma 483, lettera e), della legge n. 147 del 2013. Secondo il rimettente, tali
disposizioni violerebbero gli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma,
Cost., in quanto, per i trattamenti pensionistici superiori a sei volte il
trattamento minimo INPS, sarebbe previsto «il blocco della rivalutazione […]
addirittura [per] un triennio (2012, 2013 e 2014)», nella «totale assenza di
alcuna ponderazione […] del sacrificio richiesto ai pensionati con [il]
trattamento più elevato rispetto alle proprie esigenze di bilancio», atteso che
«il legislatore del 2015, nel proprio intervento retroattivo a seguito della
sentenza di incostituzionalità, non ha minimamente preso in considerazione la
gravosità del proprio intervento avendo anche riguardo a quanto già disposto
con la legge di stabilità per l’anno 2014».
1.4.2.– Sempre in via
subordinata, il Tribunale ordinario di Genova (reg. ord. n. 242, n. 243 e n.
244 del 2016) ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art.
24, commi 25 (nel caso dei giudizi reg. ord. n. 242 e n. 244 del 2016,
limitatamente alla lettera b) e 25-bis del d.l. n. 201 del 2011, «in
collegamento» con l’art. 1, comma 483, lettere d) ed e), della legge n.
147 del 2013, per violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo
comma, Cost., in quanto la «combinazione» di tali disposizioni comporterebbe
«l’azzeramento della rivalutazione annuale delle pensioni d’importo sei volte
superiore al trattamento minimo per un triennio ed un’applicazione successiva
del meccanismo perequativo in misura inferiore alla metà per un ulteriore
triennio», effetti di cui «non si è preoccupato il legislatore del 2015, omettendo
di coordinare le diverse disposizioni», sicché, considerato che «la soglia del
sestuplo del trattamento minimo INPS» include pensioni di valore ben più
modesto rispetto a quelle che, secondo la sentenza
della Corte costituzionale n. 316 del 2010, sono dotate di margini di
resistenza all’inflazione, «il sacrificio che deriverebbe dall’applicazione
combinata del doppio meccanismo risulterebbe sproporzionato e, di conseguenza,
irragionevole».
2.– Poiché le questioni hanno a
oggetto, per la gran parte, le stesse disposizioni, e queste sono censurate in
riferimento a parametri e con argomentazioni in larga misura coincidenti, i
giudizi devono essere riuniti, per essere congiuntamente trattati e decisi.
3.– Deve essere confermata la
dichiarazione di inammissibilità degli interventi spiegati, nel giudizio reg.
ord. n. 124 del 2016, dal Sindacato autonomo dipendenti INAIL in pensione e
dall’Associazione sindacale nazionale pensionati dipendenti INPS, per le
ragioni esposte nell’ordinanza letta nel corso dell’udienza pubblica e allegata
alla presente sentenza.
Devono inoltre essere dichiarati
inammissibili perché tardivi – in quanto effettuati con un atto depositato
soltanto il 23 ottobre 2017, ben oltre il termine di venti giorni dalla
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale
degli atti introduttivi dei giudizi previsto dall’art. 4, comma 4, delle Norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale – gli interventi,
in tutti i giudizi, del Codacons (Coordinamento di associazioni per la tutela
dell’ambiente e dei diritti di utenti e consumatori) e di G. P., nella qualità
di «pensionato» (ex plurimis: sentenza n. 35 del
2017 e ordinanza
letta all’udienza del 24 gennaio 2017, allegata a tale sentenza; sentenza n. 187 del
2016 e ordinanza
letta all’udienza del 17 maggio 2016, allegata a tale sentenza).
4.– Va preliminarmente rilevato
che alcune delle parti private costituite hanno dedotto la violazione di parametri
ulteriori rispetto a quelli indicati nelle ordinanze di rimessione.
In particolare, G. C., costituito
nel giudizio reg. ord. n. 36 del 2016, ha dedotto la violazione dell’art. 136
Cost., mentre S. P., R. S., V. V., F. M. e F. B., costituti nel giudizio reg.
ord. n. 24 del 2017, sul presupposto della natura tributaria della misura
censurata, hanno dedotto la violazione degli artt. 3, 23 e 53 Cost., parametri,
tutti, non evocati nelle rispettive ordinanze di rimessione (la seconda delle
quali aveva anzi dichiarato manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale prospettata dai ricorrenti in riferimento agli artt.
3, 23 e 53 Cost.).
Le suddette censure si traducono
entrambe in questioni non sollevate dai giudici a quibus e sono, pertanto, inammissibili. Infatti, in base alla
costante giurisprudenza di questa Corte, «l’oggetto del giudizio di legittimità
costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri
indicati nelle ordinanze di rimessione; non possono, pertanto, essere presi in
considerazione, oltre i limiti in queste fissati, ulteriori questioni o profili
di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal
giudice a quo, sia volti ad ampliare
o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 96 del
2016; n. 231
e n. 83 del 2015)»
(sentenza n. 29
del 2017; nello stesso senso, sentenza n. 214 del
2016).
5.– Devono ora essere esaminate
le eccezioni di inammissibilità delle questioni sollevate in via principale dai
rimettenti prospettate dall’INPS e dal Presidente del Consiglio dei ministri.
5.1.– L’INPS ha eccepito
l’inammissibilità delle questioni sollevate con l’ordinanza n. 101 del 2016,
con riguardo alla «rilevanza» delle stesse, sotto tre profili. In particolare,
ad avviso dell’Istituto, il giudice rimettente avrebbe affermato «di non aver
percepito con sufficiente nettezza l’esigenza di bilanciamento del sacrificio
imposto a talune categorie di pensionati con le necessità di bilancio e di
tenuta del sistema» sulla sola base dell’esame delle disposizioni censurate,
senza neppure menzionare gli atti parlamentari e i documenti di «Verifica delle
quantificazioni» che le accompagnano, con un «approccio alla lettura della
norma […] errato e [che] conduce ad apprezzamenti sommari e superficiali».
Detto giudice si sarebbe limitato «a una mera enunciazione dei principi
consacrati negli artt. 36 e 38 della Costituzione, […] senza procedere alla
loro interpretazione alla luce della giurisprudenza della Consulta e senza
considerare gli altri di uguale rango ai fini del necessario bilanciamento, con
particolare riferimento alla previsione dell’art. 81 della Carta», il che «non
è sufficiente […] a fondare un giudizio di non manifesta infondatezza della
questione di illegittimità costituzionale di una norma». Avrebbe trascurato
inoltre di calare i condivisibili principi enunciati nel particolare attuale
momento storico in cui «l’inflazione è pari a zero o addirittura negativa» e,
per tale ragione, omette di precisare l’entità di un danno che risulta
sostanzialmente assai limitato e comunque sopportabile per le categorie di
pensionati colpiti dall’intervento. Quest’ultimo profilo di inammissibilità è
prospettato dall’INPS anche con riguardo alle questioni di legittimità
costituzionale sollevate con le ordinanze n. 188, n. 237, n. 242, n. 243 e n.
244 del 2016, n. 24, n. 43, n. 44, n. 77
e n. 78 del 2017.
Tali eccezioni non sono fondate.
Esse riguardano non tanto la
rilevanza quanto la non manifesta infondatezza delle questioni – rilievo che,
per il secondo profilo, è confermato anche dalla circostanza che l’INPS, pur
definendola un’eccezione «quanto alla rilevanza», lamenta poi che ciò che
afferma il rimettente «non è sufficiente […] a fondare un giudizio di non
manifesta infondatezza della questione» – e, col richiamare la necessità che il
bilanciamento di cui le disposizioni denunciate sono espressione venga valutato
anche alla luce di quanto emerge dagli atti parlamentari, tenendo conto di
tutti i contrapposti interessi, della giurisprudenza costituzionale e
dell’attuale contesto storico, risultano sostanzialmente rivolte a fornire
argomenti contrari a quelli posti dai rimettenti a fondamento delle proprie
censure, sicché non ostano all’ammissibilità di queste ma devono essere più
propriamente rimesse all’esame del merito.
5.2.– Secondo il Presidente del
Consiglio dei ministri, tutte le questioni sollevate sarebbero inammissibili
«nella misura in cui devono ritenersi insindacabili le scelte discrezionali del
legislatore in ordine alla modalità e ai tempi della rivalutazione automatica
dei trattamenti pensionistici; laddove, come nel caso di specie, tale
intervento sia necessitato dal dare attuazione ai principi enunciati nella […] sentenza n. 70/16 [recte: n. 70/15], tenendo conto
dell’eccezionalità della situazione economica internazionale, dell’esigenza
prioritaria del raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati
in sede europea, anche garantendo l’equilibrio di bilancio dell’ente
previdenziale».
L’eccezione non è fondata.
In proposito, è sufficiente
osservare che la discrezionalità spettante al legislatore nella scelta dei
meccanismi diretti ad assicurare nel tempo l’adeguatezza dei trattamenti
pensionistici trova pur sempre un limite nel «criterio di ragionevolezza».
Quest’ultimo, «così come delineato dalla giurisprudenza citata [della Corte
costituzionale] in relazione ai principi contenuti negli artt. 36, primo comma,
e 38, secondo comma, Cost., circoscrive la discrezionalità del legislatore e
vincola le sue scelte all’adozione di soluzioni coerenti con i parametri
costituzionali» (sentenza
n. 70 del 2015).
Ne consegue che la sussistenza
della discrezionalità legislativa invocata dalla difesa del Presidente del
Consiglio dei ministri non esclude la necessità di verificare nel merito le
scelte di volta in volta operate dal legislatore riguardo ai meccanismi di
rivalutazione dei trattamenti pensionistici, quale che sia il contesto
giuridico e di fatto nel quale esse si inseriscono, contesto del quale questa
Corte, nel compiere tale verifica, non potrà, ovviamente, non tenere conto.
5.3.– Secondo il Presidente del
Consiglio dei ministri, la motivazione dell’ordinanza n. 278 del 2016 sarebbe
«tanto scarna da rendere [la stessa] inammissibile per difetto di motivazione
sul requisito […] della non manifesta infondatezza».
Anche questa eccezione non è
fondata.
La motivazione dell’ordinanza n.
278 del 2016, ancorché succinta, consente di comprendere la ragione della doglianza
del rimettente, il quale ritiene che il denunciato comma 25-bis prevedrebbe il «blocc[o della]
rivalutazione delle pensioni» superiori a sei volte il trattamento minimo
INPS «per gli anni 2014 e seguenti», con
il conseguente contrasto con il giudicato della sentenza n. 70 del
2015 – secondo cui, sempre con le parole del rimettente, «il blocco del
meccanismo perequativo deve essere necessariamente contenuto nel tempo» – e la
violazione dell’art. 136 Cost.
Da ciò l’infondatezza
dell’eccezione prospettata dal Presidente del Consiglio dei ministri.
6.– Nel passare al merito, devono
essere anzitutto scrutinate le questioni aventi a oggetto i commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del
2011, verso cui soprattutto si dirigono le censure dei rimettenti.
6.1. – La censura di violazione
dell’art. 136 Cost., secondo la costante giurisprudenza di questa Corte,
«riveste carattere di priorità logica rispetto alle altre», proprio perché «attiene
all’esercizio stesso del potere legislativo, che sarebbe inibito dal precetto
costituzionale di cui si assume la violazione» (sentenze n. 2 del
2015, n. 245
del 2012 e n.
350 del 2010).
La stessa censura deve pertanto
essere esaminata per prima, al fine di valutare se la disciplina denunciata costituisca
una riproposizione della stessa volontà normativa già ritenuta lesiva della
Costituzione (ex plurimis, sentenza n. 5 del
2017).
La questione sollevata non è
fondata.
Nell’intento dichiarato di dare
attuazione alla sentenza
di questa Corte n. 70 del 2015, il legislatore ha operato un nuovo
bilanciamento dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti nella materia.
L’art. 1, comma 1, numero 1), del
d.l. n. 65 del 2015 ha, infatti, introdotto una nuova disciplina della
perequazione automatica dei trattamenti pensionistici relativa agli anni 2012 e
2013, diversa da quella dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 70 del
2015, poiché riconosce la perequazione, in misura percentuale decrescente,
anche ai trattamenti pensionistici – in precedenza esclusi dalla stessa –
compresi tra quelli superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e quelli
fino a sei volte lo stesso trattamento.
Inoltre, il denunciato comma 25-bis, inserito dall’art. 1, comma 1,
numero 2), del d.l. n. 65 del 2015, regola il cosiddetto "trascinamento”, ossia
il computo degli incrementi perequativi, reintrodotti dal comma 25 per gli anni
2012 e 2013, ai fini della determinazione della base di calcolo per la
rivalutazione automatica per gli anni successivi.
Non vi è dunque una «mera
riproduzione» (sentenze
n. 73 del 2013 e n. 245 del 2012)
della normativa dichiarata incostituzionale, né la realizzazione, «"anche se indirettamente”,
[di] esiti corrispondenti» (sentenze n. 5 del
2017, n. 73
del 2013, n.
245 del 2012, n.
922 del 1988, n.
223 del 1983, n.
88 del 1966).
Le disposizioni denunciate
presentano, al contrario, «significative novità normative» rispetto al
precedente regime (sentenza n. 262 del
2009).
Né è corretto sostenere – come
fanno alcuni dei rimettenti – che la violazione del giudicato costituzionale
deriverebbe dal fatto che parte del risultato normativo di tali disposizioni
corrisponde a quello del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011
dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 70 del
2015 (come accade, in particolare, con riguardo alla disciplina della
rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il
trattamento minimo INPS). La disciplina dettata dal legislatore, infatti, deve
essere considerata nella sua interezza, perché costituisce un complessivo –
ancorché temporaneo – nuovo disegno della perequazione dei trattamenti
pensionistici. Ciò che rileva, dunque, ai fini dello scrutinio della violazione
del giudicato costituzionale, è «il complesso delle norme che si succedono nel
tempo» (sentenza
n. 262 del 2009; nello stesso senso, sentenza n. 87 del
2017).
L’art. 1, comma 1, del d.l. n. 65
del 2015 rappresenta l’espressione di una scelta rispetto alla quale
l’intervento di questa Corte non ha potuto «determinare, a svantaggio del
legislatore, effetti corrispondenti a quelli di un "esproprio” della potestà
legislativa sul punto» (sentenza n. 169 del
2015).
La sentenza n. 70 del
2015 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, «nei termini esposti»,
del primo periodo del previgente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del
2011, in ragione del fatto che, con tale disposizione, il legislatore aveva
fatto cattivo uso della discrezionalità a esso spettante (punto 8 del Considerato in diritto), poiché nel
bilanciare l’interesse dei pensionati alla conservazione del potere d’acquisto
dei propri trattamenti pensionistici con le esigenze finanziarie dello Stato,
pure meritevoli di tutela, aveva irragionevolmente sacrificato il primo, «in
particolar modo, [quello dei] titolari di trattamenti previdenziali modesti»,
in nome di esigenze finanziarie neppure illustrate (punto 10 del Considerato in diritto).
Tale sentenza demandava al
legislatore un intervento che, emendando questi vizi, operasse un nuovo
bilanciamento dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti, nel
rispetto dei «limiti di ragionevolezza e proporzionalità», senza che alcuno di
essi risultasse «irragionevolmente sacrificato».
L’art. 1, comma 1, del d.l. n. 65
del 2015 – dichiaratamente adottato «Al fine di dare attuazione ai principi
enunciati nella sentenza
[…] n. 70 del 2015» – ha introdotto una nuova non irragionevole modulazione
del meccanismo che sorregge la perequazione, la cui portata è stata ridefinita
compatibilmente con le risorse disponibili.
Va ancora osservato che la nuova
disciplina, nell’accogliere la sollecitazione di questa Corte, non poteva nel
caso in questione che produrre effetti retroattivi, purché circoscritti – come
in effetti è stato – all’arco temporale relativo agli anni 2012 e 2013 cui
faceva riferimento la disposizione annullata.
Un tale effetto retroattivo è
dunque coerente con la finalità di una misura legislativa che, in attuazione
della sentenza di questa Corte, si prefiggeva di sostituire – per il biennio
2012-2013 – la disciplina della perequazione, secondo diverse modalità,
espressive di un nuovo bilanciamento degli interessi costituzionali coinvolti,
rispettoso dei «limiti di ragionevolezza e proporzionalità» (per un intervento
legislativo retroattivo conseguente a una declaratoria di illegittimità
costituzionale, sentenza
n. 87 del 2017).
6.2.– Collegata a quanto si è
detto circa la peculiare finalità attuativa del giudicato costituzionale, che è
propria delle disposizioni denunciate, e la connessa portata retroattiva delle
stesse, è la trattazione delle questioni sollevate in riferimento all’art. 3
Cost., in relazione ai principi del legittimo affidamento e della certezza del
diritto, e all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al diritto a un equo
processo garantito dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU.
Tali questioni – basate su
argomentazioni sostanzialmente comuni e dunque da esaminare congiuntamente –
non sono fondate.
6.2.1.– Deve escludersi che, in
capo ai titolari di trattamenti pensionistici, si fosse determinato un
affidamento nell’applicazione della disciplina immediatamente risultante dalla sentenza n. 70 del
2015. Quest’ultima rendeva prevedibile un intervento del legislatore che,
nell’esercizio della sua discrezionalità, disciplinasse nuovamente la
perequazione relativa agli anni 2012 e 2013 sulla base di un bilanciamento di
tutti gli interessi costituzionali coinvolti, in particolare di quelli della
finanza pubblica.
Né un affidamento avrebbe potuto
determinarsi, data l’immediatezza dell’intervento operato dal legislatore,
tenuto conto che il d.l. n. 65 del 2015 è entrato in vigore il 21 maggio 2015,
a distanza di soli ventuno giorni dal deposito, il 30 aprile 2015, della sentenza n. 70 del
2015. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, una situazione giuridica,
per dar luogo a un affidamento, deve risultare, oltre che «sorta in un contesto
giuridico sostanziale atto a far sorgere nel destinatario una ragionevole
fiducia nel suo mantenimento», anche «protratta per un periodo sufficientemente
lungo» (sentenza
n. 56 del 2015).
6.2.2.– La finalità attuativa
della sentenza
di questa Corte n. 70 del 2015 propria dell’intervento operato con l’art.
1, comma 1, del d.l. n. 65 del 2015, unitamente alle altre circostanze in cui
esso si inserisce, escludono che i denunciati commi 25 e 25-bis – rispettivamente sostituito e
inserito dall’art. 1, comma 1 – siano in contrasto con l’art. 6, paragrafo 1,
della CEDU.
La Corte EDU ha precisato che
tale articolo «non può […] essere interpretato nel senso di impedire ogni
ingerenza dei pubblici poteri in un procedimento giudiziario pendente del quale
sono parti» (sentenze 27
maggio 2004, OGIS-Institut Stanislas, OGEC Saint Pie X e Blanche de Castille e
altri contro Francia e 23
ottobre 1997, National and Provincial Building Society, the Leeds Permanent
Building Society and the Yorkshire Building Society contro Regno Unito).
In particolare, nelle citate
sentenze, la Corte di Strasburgo ha asserito che, al fine di valutare se un
intervento normativo retroattivo idoneo a incidere sull’esito di procedimenti
in corso integri una violazione del principio della parità delle armi, occorre
«tenere conto di tutte le circostanze della causa» e «delle ragioni che lo
Stato […] ha avanzato per giustificare l’intervento» (sentenze citate sui casi OGIS-Institut Stanislas, OGEC
Saint Pie X e Blanche de Castille e altri contro Francia e National and Provincial
Building Society, the Leeds Permanent Building Society and the Yorkshire
Building Society contro Regno Unito ).
Le circostanze e le ragioni
dell’intervento operato con l’art. 1, comma 1, del d.l. n. 65 del 2015 portano
a escludere che esso, ancorché incida sull’esito di procedimenti in corso,
violi l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU. Infatti, lo scopo di tale intervento
non era quello di incidere sull’esito di processi di cui lo Stato era parte, ma
quello, espressamente dichiarato, di «dare attuazione ai principi enunciati
dalla sentenza
della Corte costituzionale n. 70 del 2015», operando, con riguardo a tutti
i trattamenti pensionistici, un nuovo bilanciamento tra l’interesse dei
pensionati e le esigenze finanziarie dello Stato. Oltre a eliminare le
possibili incertezze in ordine alla disciplina applicabile in seguito a tale
sentenza, l’intervento si proponeva di rimediare ai vizi di irragionevolezza e
sproporzione della disposizione dichiarata incostituzionale.
6.3.– Anche la questione di
legittimità costituzionale sollevata dalla Corte dei conti, sezione
giurisdizionale regionale per l’Emilia-Romagna, in riferimento all’art. 117,
primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla
CEDU, non è fondata.
Ricorrono, infatti, le condizioni
che, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, rendono un’ingerenza nel
diritto al rispetto dei propri beni – nella specie, il credito relativo alla
perequazione automatica per gli anni 2012 e 2013 che sarebbe spettata a seguito
della sentenza
n. 70 del 2015 – compatibile con l’invocato parametro interposto (in
proposito, da ultimo, Grande Camera, sentenze 13 dicembre 2016,
Bélané Nagy contro Ungheria e 5 settembre 2017, Fábián
contro Ungheria, entrambe in tema di diritti a prestazioni sociali).
L’espresso collegamento delle
disposizioni denunciate all’attuazione della sentenza di questa Corte n. 70 del
2015 consente di ritenere certamente sussistente il perseguimento di «un
interesse pubblico (o generale)», condizione per cui la Corte EDU riconosce
alle autorità nazionali un ampio margine di apprezzamento (sentenza sul caso Bélané Nagy,
paragrafo 113).
Anche il requisito della
proporzionalità, su cui paiono incentrarsi le censure del rimettente, è
sussistente. Diversamente dall’impostazione seguita dal giudice a quo, l’entità dell’onere in capo ai
pensionati deve essere valutata tenendo conto del trattamento complessivo a
essi spettante, non riguardo alla sola perequazione automatica, sottratta per
intero ai pensionati titolari di trattamenti superiori a sei volte il minimo
INPS, per gli anni 2012 e 2013. Ciò che
rileva nella giurisprudenza della Corte EDU (oltre alle citate sentenze sui
casi Fábián e Bélané Nagy, si vedano
anche le sentenze 15
aprile 2014, Stefanetti e altri contro Italia, e 31 maggio 2011, Maggio e
altri contro Italia), è «la sostanza del diritto alla pensione»,
l’esistenza, o l’assenza di un «onere esorbitante» in capo all’interessato (sentenza sul caso Bélané Nagy,
rispettivamente, paragrafi 118 e 126), in definitiva, la valutazione se vi sia
o non vi sia il sacrificio del diritto fondamentale alla pensione.
Alla luce di tale orientamento,
si deve ritenere che il blocco della perequazione per due soli anni e il
conseguente "trascinamento” dello stesso agli anni successivi non costituiscono
un sacrificio sproporzionato rispetto alle esigenze, di interesse generale,
perseguite dai denunciati commi 25 e 25-bis.
Tali disposizioni incidono su una limitata percentuale dell’importo complessivo
del trattamento pensionistico, non sulla disponibilità dei mezzi di sussistenza
da parte di pensionati titolari di trattamenti medio-alti. Sull’entità delle
perdite di prestazione e dei mezzi di sussistenza quali fattori per valutare se
le autorità nazionali abbiano superato i limiti del proprio margine di
apprezzamento, si è del resto espressa la Corte di Strasburgo (sentenza sul caso Fábián,
rispettivamente, paragrafi 74-75 e 78-82).
6.4.– Non fondata è la censura,
anch’essa prospettata dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale
per l’Emilia-Romagna, di violazione degli artt. 2, 3, 23 e 53 Cost., in
relazione all’asserita natura tributaria dell’azzeramento della rivalutazione
automatica dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento
minimo INPS previsto dai denunciati commi 25, lettera e), e 25-bis dell’art. 24
del d.l. n. 201 del 2011.
Con le sentenze n. 173 del
2016 e n. 70
del 2015, questa Corte ha già escluso che le misure di blocco della
rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici abbiano natura
tributaria.
Pur consapevole di tale statuizione,
il rimettente afferma che le misure adottate dal legislatore in seguito alla sentenza n. 70 del
2015 «ripropongono il dubbio circa la introduzione […] di una prestazione
patrimoniale di natura tributaria», atteso che esse, oltre a non modificare un
rapporto di tipo sinallagmatico, procurano una definitiva decurtazione
patrimoniale a carico del soggetto passivo, dato l’effetto di "trascinamento”
che le caratterizza, e sono destinate a sovvenire pubbliche spese (come sarebbe
confermato dal fatto che, ai sensi dell’art. 17, comma 1, lettera b) della legge 31 dicembre 2009, n. 196,
recante «Legge di contabilità e finanza pubblica», la copertura finanziaria
delle leggi che comportino nuovi o maggiori oneri, ovvero minori entrate, può
essere determinata anche «mediante riduzione di precedenti autorizzazioni
legislative di spesa»).
Queste argomentazioni non sono
tuttavia tali da indurre questa Corte a modificare l’orientamento espresso con le
due sentenze menzionate.
In proposito, è sufficiente
osservare che l’effetto di "trascinamento” proprio delle censurate misure di
blocco della perequazione non ne muta la natura di misure di mero risparmio di
spesa e non di decurtazione del patrimonio del soggetto passivo.
Deve quindi essere ribadita la
natura non tributaria delle misure di blocco della perequazione e, in
particolare, di quelle previste dai denunciati commi 25, lettera e), e 25-bis, con la conseguente non fondatezza della questione sollevata,
che tale natura, viceversa, presuppone.
6.5.– Non è fondata la censura
secondo cui i denunciati commi 25 e 25-bis
dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 violerebbero i principi di
eguaglianza e di ragionevolezza (di cui all’art. 3 Cost.) nonché di adeguatezza
e di proporzionalità dei trattamenti di quiescenza (di cui, rispettivamente,
all’art. 38, secondo comma, e all’art. 36, primo comma, Cost.), perché
presenterebbero gli stessi profili di contrasto ravvisati dalla sentenza n. 70 del
2015 in capo al previgente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011.
6.5.1.– La rivalutazione
automatica dei trattamenti pensionistici costituisce uno strumento tecnico teso
a salvaguardare le pensioni dall’erosione del potere di acquisto causata
dall’inflazione, anche dopo il collocamento a riposo (sentenza n. 70 del
2015, punto 8 del Considerato in
diritto, che cita, in proposito, la sentenza n. 26 del
1980). Essa si prefigge di assicurare il rispetto nel tempo dei principi di
adeguatezza e di proporzionalità dei trattamenti di quiescenza (ex plurimis, sentenze n. 70 del
2015 e n.
208 del 2014).
Questa Corte ha scrutinato i
«valori personali inerenti alla tutela previdenziale», ancorati al «principio di solidarietà
(sotteso all’art. 38 Cost.) coordinato col principio di razionalità-equità
(art. 3 Cost.)», tenuto conto del contenimento della spesa e chiarendo che
deve essere comunque salvaguardata la garanzia di un reddito che non comprima
le «esigenze di vita cui era precedentemente commisurata la prestazione
previdenziale» (sentenza
n. 240 del 1994).
Essa ha ritenuto raggiungibile un
tale obiettivo «per il tramite e nella misura» dell’art. 38, secondo comma,
Cost. (sentenza
n. 156 del 1991), il che comporta «solo indirettamente» (sentenza n. 361 del
1996) un aggancio all’art. 36, primo comma, Cost., anche al fine di dare un
più concreto contenuto al parametro della adeguatezza.
Su questo solido terreno è
chiamata a esercitarsi la discrezionalità del legislatore, bilanciando, secondo
criteri non irragionevoli, i valori e gli interessi costituzionali coinvolti.
Da un lato vi è l’interesse dei pensionati a preservare il potere di acquisto
dei propri trattamenti previdenziali, dall’altro vi sono le esigenze
finanziarie e di equilibrio di bilancio dello Stato (ex plurimis, sentenze n. 70 del
2015, n. 316
del 2010, n.
30 del 2004; ordinanze
n. 383 del 2004, n. 531 del 2002,
n. 256 del 2001).
In questo bilanciamento, il legislatore non può «eludere il limite della
ragionevolezza» (sentenza
n. 70 del 2015).
Ed è tale limite che questa
Corte, nella sentenza
n. 70 del 2015, ha ritenuto valicato dal previgente comma 25 dell’art. 24
del d.l. n. 201 del 2011, che aveva sacrificato l’interesse dei pensionati, «in
particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti», a
vedere salvaguardato il proprio potere di acquisto in nome di contrapposte
esigenze finanziarie di risparmio di spesa «non illustrate in dettaglio».
Il principio di ragionevolezza
rappresenta il cardine intorno a cui devono ruotare le scelte del legislatore
nella materia pensionistica e assurge, per questa sua centralità, a principio
di sistema. Per assicurare una coerente applicazione di tale principio-cardine
negli interventi legislativi che si prefiggono risparmi di spesa, questi ultimi
devono essere accuratamente motivati, il che significa sostenuti da valutazioni
della situazione finanziaria basate su dati oggettivi (sentenza n. 70 del
2015, punto 10 del Considerato in
diritto). Le relazioni tecniche, illustrative degli interventi legislativi
che nella materia previdenziale si prefiggono risparmi di spesa, così come ogni
altra documentazione inerente le manovre finanziarie, rappresentano dunque uno
strumento per la verifica delle scelte del legislatore (art. 17, commi 3 e 7,
della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza
pubblica», e più in generale art. 18 della legge 24 dicembre 2012, n. 243,
recante «Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio
ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione»).
6.5.2. Contrariamente a quanto
sostenuto da ben quattordici delle quindici ordinanze di rimessione (reg. ord. n. 36, n. 101, n. 124, n. 188, n.
237, n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016, n. 24, n. 25, n. 43, n. 44, n. 77 e n.
78 del 2017), i denunciati commi 25 e 25-bis
sono il frutto di scelte non irragionevoli del legislatore.
Lo scopo dell’intervento è di
«dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza della
Corte costituzionale n. 70 del 2015, nel rispetto del principio
dell’equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica, assicurando
la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili
e sociali, anche in funzione della salvaguardia della solidarietà
intergenerazionale» (alinea dell’art. 1, comma 1, del d.l. n. 65 del 2015). Le
disposizioni citate trovano dettagliata illustrazione nella «Relazione», nella
«Relazione tecnica» e nella «Verifica delle quantificazioni» relative al
disegno di legge di conversione di tale decreto (A.C. n. 3134). In tali atti
parlamentari sono riferiti i dati contabili che confermano l’impostazione
seguita dal legislatore, nel quadro delle regole nazionali e europee.
Alla luce di tali elementi, deve
ritenersi che, diversamente dalla disciplina oggetto della sentenza n. 70 del
2015, dal disegno complessivo dei denunciati commi 25 e 25-bis emergono con evidenza le esigenze
finanziarie di cui il legislatore ha tenuto conto nell’esercizio della sua
discrezionalità. Nell’attuazione dei principi di adeguatezza e di
proporzionalità dei trattamenti pensionistici tali esigenze sono preservate
attraverso un sacrificio parziale e temporaneo dell’interesse dei pensionati a
tutelare il potere di acquisto dei propri trattamenti.
L’osservanza di tali principi
trova conferma nella scelta non irragionevole di riconoscere la perequazione in
misure percentuali decrescenti all’aumentare dell’importo complessivo del
trattamento pensionistico, sino a escluderla per i trattamenti superiori a sei
volte il minimo INPS. Il legislatore ha dunque destinato le limitate risorse
finanziarie disponibili in via prioritaria alle categorie di pensionati con i
trattamenti pensionistici più bassi.
Nel valutare la compatibilità delle misure di
adeguamento delle pensioni con i vincoli posti dalla finanza pubblica, questa
Corte ha sostenuto che manovre correttive attuate dal Parlamento ben possono
escludere da tale adeguamento le pensioni «di importo più elevato» (ordinanza n. 256
del 2001). Nel replicare, in più occasioni, una tale scelta, che privilegia
i trattamenti pensionistici di modesto importo, il legislatore soddisfa un
canone di non irragionevolezza che trova riscontro nei maggiori margini di
resistenza delle pensioni di importo più alto rispetto agli effetti
dell’inflazione. La stessa scelta è confermata con le disposizioni
censurate.
6.5.3.– Non si può ritenere che i
denunciati commi 25 e 25-bis
violino il principio di adeguatezza dei trattamenti pensionistici, di cui
all’art. 38, secondo comma, Cost., che impone che ai lavoratori siano garantiti
«mezzi adeguati alle […] esigenze di vita» in situazioni che, come la
vecchiaia, richiedono tutela.
6.5.3.1.– Come si è visto, la
lettera e) del denunciato comma 25
prevede l’azzeramento, per gli anni 2012 e 2013, della rivalutazione automatica
dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS. Ai sensi
del comma 25-bis – censurato da
alcuni dei rimettenti – l’azzeramento, bloccando anche la base di calcolo per
computare la perequazione di tali trattamenti per gli anni successivi, produce
effetti negativi per i pensionati.
Queste misure, tuttavia, non si
ripercuotono sui trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS
in modo tale da colpirne l’adeguatezza.
Dal principio enunciato dall’art.
38, secondo comma, Cost., infatti, «non può farsi discendere, come conseguenza
costituzionalmente necessitata, quella dell’adeguamento con cadenza annuale di
tutti i trattamenti pensionistici» (sentenza n. 316 del
2010).
Si deve anche osservare che il
blocco della perequazione stabilito per due anni dai denunciati commi 25,
lettera e), e 25-bis, diversamente da quello (di pari durata) previsto dal
previgente comma 25 del d.l. n. 201 del 2011, non incide su trattamenti
previdenziali «modesti» – elemento cui questa Corte, nel dichiarare
l’illegittimità costituzionale di quest’ultima disposizione, aveva attribuito
specifico rilievo – ma soltanto su trattamenti pensionistici di importo
medio-alto, quali sono da considerare quelli di importo complessivo superiore a
sei volte il trattamento minimo INPS (sentenza n. 70 del
2015).
Tali trattamenti, proprio per la
loro maggiore entità, presentano margini di resistenza all’erosione del potere
d’acquisto causata dall’inflazione, peraltro di livello piuttosto contenuto
negli anni 2011 e 2012, come si evince dalla già citata «Relazione
tecnica».
Si deve dunque escludere che il
blocco della rivalutazione automatica dei trattamenti superiori a sei volte il
minimo INPS, previsto, per gli anni 2012 e 2013, dai denunciati commi 25,
lettera e), e 25-bis, possa pregiudicare l’adeguatezza degli stessi, considerati nel
loro complesso, a soddisfare le esigenze di vita.
Né tale valutazione è inficiata
dal fatto – su cui insistono alcuni dei rimettenti – che il censurato blocco
della perequazione non prevede alcuna forma di recupero e produce i propri
effetti, negativi per i pensionati, anche sulla perequazione per gli anni
successivi. La mancanza di forme di recupero e l’effetto di cosiddetto
"trascinamento” costituiscono, infatti – in difetto di specifiche disposizioni
di segno contrario –conseguenze delle misure di blocco della perequazione delle
pensioni, come questa Corte ha sottolineato nella sentenza n. 70 del
2015 (punto 9 del Considerato in
diritto).
6.5.3.2.– Come si è anticipato,
le lettere b), c) e d) del denunciato
comma 25 riconoscono la rivalutazione automatica, per gli anni 2012 e 2013, per
i trattamenti pensionistici compresi tra quelli superiori a tre volte e fino a
sei volte il trattamento minimo INPS, in misura
decrescente all’aumentare dei trattamenti. Ai sensi del comma 25-bis – pure censurato da alcuni dei
rimettenti – tale rivalutazione automatica relativa agli anni 2012 e 2013 è
riconosciuta, ai fini del computo della base di calcolo per quantificare la
perequazione negli anni successivi, nelle misure del: 20 per cento negli anni
2014 e 2015; 50 per cento a decorrere dall’anno 2016.
Neanche in questo caso la
disciplina censurata può ritenersi tale da minare l’adeguatezza alle esigenze
di vita dei trattamenti pensionistici compresi tra quelli superiori a tre volte
e fino a sei volte il minimo INPS.
Il riconoscimento della perequazione in misura
progressivamente decrescente al crescere dell’importo complessivo di tali trattamenti
(introdotto dalle lettere b, c e d
del denunciato comma 25) si differenzia dal precedente blocco della
perequazione (dettato dal previgente comma 25). Siffatti «criteri di
progressività» sono stati ritenuti da questa Corte «parametrati sui valori costituzionali
della proporzionalità e dell’adeguatezza dei trattamenti di quiescenza» (sentenze n. 173 del
2016 e n. 70
del 2015, entrambe con riferimento al comma 483 dell’art. 1 della legge n.
147 del 2013). Essi, infatti, assicurano ai trattamenti pensionistici una
salvaguardia dall’erosione del potere d’acquisto che aumenta gradualmente al
diminuire, con la riduzione del loro importo, anche della loro capacità di
resistenza alla stessa erosione.
Ribadita la discrezionalità che
spetta al legislatore nel bilanciare l’interesse dei pensionati alla difesa del
potere d’acquisto dei propri trattamenti con le esigenze finanziarie dello
Stato, le misure percentualmente decrescenti della perequazione riconosciuta,
per gli anni 2012 e 2013, a trattamenti pensionistici medi (quali devono
considerarsi, per quanto detto, quelli superiori a cinque volte e pari o
inferiori a sei volte il minimo INPS) o, ancorché modesti, tuttavia pur sempre
superiori a tre e a quattro volte il trattamento che costituisce il «nucleo
essenziale» della tutela previdenziale (sentenza n. 173 del
2016), non sono irragionevoli. Esse, infatti, non sono tali da poter
concretamente pregiudicare l’adeguatezza dei trattamenti, considerati nel loro
complesso, a soddisfare le esigenze di vita.
Né a diversa valutazione può
condurre il mero fatto che, a norma del denunciato comma 25-bis, gli incrementi perequativi
attribuiti per gli anni 2012 e 2013 siano riconosciuti, ai fini della
determinazione delle basi di calcolo per il computo della perequazione a
decorrere dal 2014, nelle limitate percentuali indicate dallo stesso comma.
6.5.4.– Deve altresì escludersi
che i denunciati commi 25 e 25-bis
violino il principio di proporzionalità dei trattamenti pensionistici alla
quantità e qualità del lavoro prestato, di cui all’art. 36, primo comma, Cost.
Nell’applicare il principio di proporzionalità
ai trattamenti di quiescenza – considerati, come si è detto, nella loro
funzione sostitutiva del cessato reddito di lavoro – questa Corte ha precisato
che ciò non comporta «un’automatica ed integrale coincidenza tra il livello
delle pensioni e l’ultima retribuzione, poiché è riservata al legislatore una
sfera di discrezionalità per l’attuazione» anche di tale principio (sentenza n. 70 del
2015, punto 8 del Considerato in
diritto).
Più di recente essa ha rimarcato
che la garanzia dell’art. 38 Cost. è «agganciata anche all’art. 36 Cost., ma
non in modo indefettibile e strettamente proporzionale» (sentenza n. 173 del
2016). Pertanto, la determinazione del trattamento pensionistico e del suo
adeguamento tiene conto anche dell’impegno individuale nella quantità e qualità
del lavoro svolto nella vita attiva.
Considerato l’orientamento
espresso da questa Corte, le argomentazioni sin qui spese, con riferimento al
principio di adeguatezza di cui all’art. 38, secondo comma, Cost., muovono
nella direzione della non irragionevolezza del bilanciamento operato dai
denunciati commi 25 e 25-bis tra
l’interesse dei pensionati e le esigenze finanziarie dello Stato. Inoltre, tali
disposizioni rispettano il principio di proporzionalità dei trattamenti di
quiescenza alla quantità e qualità del lavoro prestato.
In conclusione, nella costante
interazione fra i principi costituzionali racchiusi negli articoli 3, 36, primo
comma, e 38, secondo comma, Cost., si devono rinvenire i limiti alle misure di
contenimento della spesa che, in mutevoli contesti economici, hanno inciso sui
trattamenti pensionistici. L’individuazione di un equilibrio fra i valori
coinvolti determina la non irragionevolezza delle disposizioni censurate.
6.5.5.– La sentenza n. 70 del
2015, nel richiamare la sentenza n. 316 del
2010, ne ha evidenziato le argomentazioni che conducevano a escludere il
contrasto dell’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007 – che aveva
previsto il blocco, per l’anno 2008, della perequazione dei trattamenti
pensionistici superiori a otto volte il minimo INPS – con i principi di
ragionevolezza e di adeguatezza e proporzionalità delle prestazioni
previdenziali, anche in considerazione della durata solo annuale di tale blocco,
della sua incidenza su pensioni «di importo piuttosto elevato» e della sua
«chiara finalità solidaristica». Diversamente da quanto affermano alcuni dei
rimettenti, la sentenza
n. 70 del 2015 non ha interpretato tali caratteristiche quali condizioni
indefettibili di costituzionalità delle misure di blocco (o di limitazione)
della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, poiché ciascuna
di esse non può che essere scrutinata nella sua singolarità e in relazione al
quadro storico in cui si inserisce.
7.– Va ora esaminata la questione
di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Brescia (reg. ord. n.
188 del 2016), dell’art. 1, comma 483, lettera e), della legge n. 147 del 2013, nella parte in cui disciplina la
rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il
minimo INPS per l’anno 2014.
Tale questione non è fondata.
Con la sentenza n. 173 del
2016, questa Corte ha già dichiarato l’infondatezza di una questione di
legittimità costituzionale dell’intero comma 483 dell’art. 1 della legge n. 147
del 2013, sollevata dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la
Regione Calabria, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali e con
riguardo a profili e argomenti sostanzialmente analoghi a quelli prospettati
dal Tribunale di Brescia. Ancorché «la limitazione della rivalutazione
monetaria dei trattamenti pensionistici, per il biennio 2012-2013, di cui al
citato art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011 [sia] stata dichiarata
costituzionalmente illegittima con sentenza di questa
Corte n. 70 del 2015», si è evidenziato che «questa stessa sentenza (al
punto 7 del Considerato in diritto)
ha sottolineato come da quella norma (fonte di un "blocco integrale” della
rivalutazione per le pensioni di importo superiore a tre volte il minimo) si
"differenzi” (non condividendone, quindi, le ragioni di incostituzionalità)
l’art. 1, comma 483, della legge 147 del 2013, che, viceversa, "ha previsto,
per il triennio 2014-2016, una rimodulazione nell’applicazione della
percentuale di perequazione automatica sul complesso dei trattamenti
pensionistici, secondo il meccanismo di cui all’art. 34, comma 1, della legge
n. 448 del 1998, con l’azzeramento per le sole fasce di importo superiore a sei
volte il trattamento minimo INPS e per il solo anno 2014”, ispirandosi "a
criteri di progressività, parametrati sui valori costituzionali della
proporzionalità e della adeguatezza dei trattamenti di quiescenza”».
Poiché – come si è detto – il
rimettente non ha prospettato profili o argomentazioni diversi rispetto a
quelli già sottoposti a questa Corte con la citata ordinanza della Corte dei
conti, sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, che possano indurre a
una differente pronuncia sulla sollevata questione di legittimità
costituzionale, questa deve essere dichiarata non fondata.
8.– Devono ora essere esaminate
le questioni di legittimità costituzionale sollevate da alcuni dei rimettenti
in via subordinata.
8.1.– La questione promossa dal
Tribunale ordinario di Milano (reg. ord. n. 124 del 2016) nei confronti del
comma 25, lettere b), c), d)
ed e), dell’art. 24 del d.l. n. 201
del 2011, congiuntamente all’art. 1, comma 483, lettera e), della legge n. 147 del 2013, non è fondata.
In primo luogo, appare erroneo il
presupposto interpretativo da cui il rimettente muove nel sollevarla. Infatti – contrariamente a quanto dallo
stesso affermato – la denunciata
combinazione di più disposizioni non prevede, per i trattamenti pensionistici
superiori a sei volte il minimo INPS, il blocco della perequazione «addirittura
[per] un triennio (2012, 2013 e 2014)», ma soltanto per il 2012 e 2013, mentre,
per il 2014, la lettera e) del comma
483 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013, non dispone il blocco della
perequazione ma la riconosce nella misura del 40 per cento per la fascia di importo
non superiore a sei volte il suddetto trattamento minimo.
In secondo luogo, l’affermazione
del rimettente secondo cui «il legislatore del 2015 […] non ha minimamente
preso in considerazione la gravosità del proprio intervento avendo anche
riguardo a quanto già disposto con la legge di stabilità per l’anno 2014»,
oltre che meramente assertiva e del tutto indimostrata, trascura di considerare
che il d.l. n. 65 del 2015, nel bilanciare l’interesse dei pensionati con le
esigenze della finanza pubblica, ha inevitabilmente avuto riguardo a quanto già
previsto dall’art. 1, comma 483, lettera e),
della legge n. 147 del 2013, che incide, in generale, sul quadro della finanza
pubblica. Inoltre, e più specificamente, la valutazione degli effetti, su tale
quadro, del suddetto d.l. n. 65 del 2015 – in particolare, del "nuovo” comma
25-bis – dipendeva completamente
dalla misura della rivalutazione automatica prevista dal comma 483.
Da ciò la non fondatezza della
questione sollevata, in via subordinata, dal Tribunale di Milano.
8.2.– Restano da esaminare le
(identiche) questioni di legittimità costituzionale promosse, in via
subordinata, con tre ordinanze (reg. ord. n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016),
dal Tribunale di Genova nei confronti dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, «in collegamento» con
l’art. 1, comma 483, lettere d) ed e), della legge n. 147 del 2013.
8.2.1.– Preliminarmente, l’INPS
ha eccepito l’inammissibilità, per difetto di rilevanza, di quelle sollevate
con le ordinanze n. 242 e n. 244 del 2016, deducendo che le censure prospettate
concernono esclusivamente la disciplina dei trattamenti pensionistici superiori
a sei volte il trattamento minimo INPS, mentre i giudizi a quibus sono stati promossi da pensionati con un trattamento compreso
tra tre e sei volte tale minimo.
L’eccezione è fondata.
Come correttamente rilevato
dall’INPS, la censura in esame riguarda la disciplina della rivalutazione
automatica dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento
minimo INPS, mentre nei giudizi principali nell’ambito dei quali sono state
emanate le ordinanze n. 242 e n. 244 del 2016 nessuno dei pensionati ricorrenti
era titolare di un trattamento pensionistico superiore a sei volte il
trattamento minimo INPS. Ne consegue che l’eventuale accoglimento della
questione sulla disciplina della rivalutazione automatica dei trattamenti
pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS non avrebbe
alcuna influenza sui suddetti giudizi a
quibus. Da ciò l’irrilevanza della questione in tali giudizi.
8.2.2.– La questione è invece
rilevante nel giudizio nel cui ambito è stata emanata l’ordinanza n. 243 del
2016 – in cui uno dei due pensionati ricorrenti è titolare di un trattamento
pensionistico superiore a sei volte il trattamento minimo INPS – e deve,
perciò, essere scrutinata nel merito.
Essa non è fondata.
Infatti, similmente a quanto si è
osservato (al punto 8.1.) con riguardo alla questione promossa in via subordinata
dal Tribunale di Milano (reg. ord. n. 124 del 2016), è erroneo il presupposto
interpretativo da cui muove il rimettente, atteso che – contrariamente a quanto
da lui affermato – la normativa denunciata non prevede, per i trattamenti
pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS, il blocco della
perequazione «per un triennio» ma soltanto per il 2012 e 2013. Inoltre
l’affermazione del rimettente secondo cui «il legislatore del 2015, [ha]
ome[sso] di coordinare le diverse disposizioni», oltre che meramente assertiva
e del tutto indimostrata, trascura di considerare che il d.l. n. 65 del 2015,
nel bilanciare l’interesse dei pensionati con le esigenze della finanza
pubblica, ha inevitabilmente avuto riguardo a quanto già previsto dall’art. 1,
comma 483, lettera e), della legge n.
147 del 2013.
Infine, deve essere considerata
l’ulteriore – e conclusiva – asserzione del rimettente, secondo cui «il
sacrificio che deriverebbe dall’applicazione combinata del doppio meccanismo
risulterebbe sproporzionato e, di conseguenza, irragionevole» in quanto i
trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS
includono pensioni di valore ben più modesto di quelle, superiori a otto volte
il predetto minimo, che la sentenza n. 316 del
2010 ha ritenuto dotate di margini di resistenza all’inflazione. Affermare
che le pensioni superiori a otto volte il trattamento minimo INPS «presentano
margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo» non
implica che pensioni anche inferiori a detto importo non possano presentare
margini, ancorché più ridotti, di resistenza all’inflazione. Il giudice a quo trasforma, in tal modo, una delle
ragioni per cui la sentenza n. 316 del
2010 ha ritenuto che la misura prevista dell’art. 1, comma 19, della legge
n. 247 del 2007, fosse conforme ai canoni di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità
dei trattamenti pensionistici, in una condizione indefettibile di legittimità
costituzionale delle misure di blocco della perequazione (vedi il punto
6.5.5.).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibili gli interventi, in tutti i giudizi, del
Codacons (Coordinamento di associazioni per la tutela dell’ambiente e dei
diritti di utenti e consumatori) e di G. P., nella qualità di «pensionato»;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei
commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita,
l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con
modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 – come sostituito (il comma
25) e inserito (il comma 25-bis),
rispettivamente, dai numeri 1) e 2) del comma 1 dell’art. 1 del decreto-legge
21 maggio 2015, n. 65 (Disposizioni urgenti in materia di pensioni, di
ammortizzatori sociali e di garanzie TFR), convertito, con modificazioni, dalla
legge 17 luglio 2015, n. 109 – sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 23,
36, 38, 53, 117, primo comma – quest’ultimo in relazione all’art. 6 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa – e 136 della
Costituzione, dai Tribunali ordinari di Palermo, Milano, Brescia, Napoli,
Genova, Torino, La Spezia, e Cuneo, nonché dalla Corte dei conti, sezione
giurisdizionale regionale per l’Emilia-Romagna, con le ordinanze indicate in
epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 483, lettera e),
della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione
del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)», come
modificato dall’art. 1, comma 286, della legge 28 dicembre 2015, n. 208,
recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato (legge di stabilità 2016)», sollevate, in riferimento agli artt. 3,
36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di
Brescia, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del
comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dall’art. 1,
comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015, in combinazione con l’art. 1,
comma 483, della legge n. 147 del 2013, sollevate, in riferimento agli artt. 3,
36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Milano,
con l’ordinanza indicata in epigrafe;
5) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei
commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del
d.l. n. 201 del 2011 – come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente, dai numeri 1) e
2) del comma 1 dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015 – «in collegamento» con
l’art. 1, comma 483, lettere d) ed e), della legge n. 147 del 2013,
sollevate, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma,
Cost., dal Tribunale ordinario di Genova, con l’ordinanza iscritta al n. 243
del registro ordinanze 2016;
6) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24
del d.l. n. 201 del 2011 – come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma
25-bis), rispettivamente, dai numeri
1) e 2) del comma 1 dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015 – «in collegamento» con
l’art. 1, comma 483, lettere d) ed e), della legge n. 147 del 2013,
sollevate, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma,
Cost., dal Tribunale ordinario di Genova, con le ordinanze iscritte al n. 242 e
al n. 244 del registro ordinanze 2016.
Così deciso in Roma, nella sede
della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 ottobre 2017.
F.to:
Paolo
GROSSI, Presidente
Silvana
SCIARRA, Redattore
Roberto
MILANA, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria l'1 dicembre 2017.
Allegato:
Ordinanza letta
all’udienza del 24 ottobre 2017