SENTENZA N. 127
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Paolo Maria NAPOLITANO Giudice
- Giuseppe FRIGO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 18, commi 6, 7 e 8, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111 promosso dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione siciliana, nel procedimento vertente tra D.D.B. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) con ordinanza del 6 agosto 2013, iscritta al n. 259 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti l’atto di costituzione dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 12 maggio 2015 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
uditi l’avvocato Luigi Caliulo per l’INPS e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione siciliana, con ordinanza depositata il 6 agosto 2013 ed iscritta al n. 259 del registro ordinanze 2013, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, commi 6, 7 e 8, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, prospettando la violazione degli artt. 2, 3, primo comma, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Il giudice rimettente afferma di dover decidere sulla domanda, proposta da D.D.B. con ricorso del 7 febbraio 2007 e volta ad ottenere l’indennità integrativa speciale ai sensi dell’art. 10, comma 4, del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17 (Misure per il contenimento del costo del lavoro e per favorire l’occupazione), convertito, con modificazioni, dalla legge 25 marzo 1983, n. 79.
Il ricorrente ha dedotto di essere un ferroviere, collocato in quiescenza per dimissioni volontarie il 19 luglio 1983, prima di avere raggiunto l’età massima pensionabile. Egli ha rivendicato il diritto all’indennità integrativa speciale per l’intero importo, secondo quanto previsto dal citato art. 10, comma 4, al momento del collocamento a riposo d’ufficio, avvenuto il 18 dicembre 1997.
Alla richiesta, formulata dal ricorrente il 27 maggio 2005, l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) ha opposto un diniego, motivato dall’inapplicabilità della norma invocata. L’indennità integrativa speciale, a dire dell’INPS, avrebbe perso la consistenza di elemento autonomo del trattamento pensionistico.
Il ricorrente ha impugnato tale diniego, incardinando il giudizio dinanzi alla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione siciliana.
L’INPS si è costituito nel giudizio principale e ha concluso per il rigetto delle pretese del ricorrente, sulla scorta delle disposizioni oggi censurate ed intervenute in pendenza della lite: «6. L’articolo 10, quarto comma, del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 marzo 1983, n. 79, si intende abrogato implicitamente dall’entrata in vigore delle disposizioni di cui all’articolo 21 della legge 27 dicembre 1983, n. 730. 7. L’articolo 21, ottavo comma, della legge 27 dicembre 1983, n. 730, si interpreta nel senso che le percentuali di incremento dell’indennità integrativa speciale ivi previste vanno corrisposte nell’aliquota massima, calcolata sulla quota dell’indennità medesima effettivamente spettante in proporzione all’anzianità conseguita alla data di cessazione dal servizio. 8. L’articolo 21, nono comma, della legge 27 dicembre 1983, n. 730, si interpreta nel senso che è fatta salva la disciplina prevista per l’attribuzione, all’atto della cessazione dal servizio, dell’indennità integrativa speciale di cui alla legge 27 maggio 1959, n. 324, e successive modificazioni, ivi compresa la normativa stabilita dall’articolo 10 del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 marzo 1933, n. 79, ad eccezione del comma quarto del predetto articolo 10 del decreto-legge n. 17 del 1983».
Il giudice a quo ritiene di dover dare applicazione alla normativa sopravvenuta, che conduce all’inevitabile rigetto delle pretese del ricorrente, incentrate sull’art. 10, quarto comma, del d.l. n. 17 del 1983, e solleva d’ufficio la questione di legittimità costituzionale di tali disposizioni, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.
Il giudice rimettente, in punto di non manifesta infondatezza della questione, evidenzia che la normativa sopravvenuta si configura come «abrogazione legislativa sostanziale, con effetti retroattivi, mascherata da norma interpretativa» e segnala una stridente contraddizione tra l’art. 21 della legge 27 dicembre 1983, n. 730 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 1984), che salvaguarda l’applicazione dell’art. 10 del d.l. n. 17 del 1983, senza eccettuare il quarto comma, e l’art. 18, comma 6, del d.l. n. 98 del 2011, che, di contro, sancisce l’abrogazione implicita del citato quarto comma a decorrere dall’entrata in vigore dell’art. 21 della legge n. 730 del 1983.
Il giudice a quo stigmatizza un «eccesso di potere legislativo» e denuncia il contrasto della norma interpretativa, contraddistinta da una «palese irragionevolezza», con il principio di legittimo affidamento, che trova tutela nella Costituzione sotto l’egida degli artt. 2 e 3.
Il principio di affidamento, invero, sarebbe l’estrinsecazione, per un verso, del generale precetto di buona fede, che ha un fondamento costituzionale nei doveri di solidarietà consacrati dall’art. 2 Cost., e, per altro verso, dei princípi di eguaglianza e di ragionevolezza, presidiati dall’art. 3 Cost.
Il giudice rimettente soggiunge che la normativa sopravvenuta non solo non esplicita una variante di senso dell’originaria disposizione, ma contraddice l’interpretazione avvalorata in precedenza dal legislatore, con l’art. 21 della legge n. 730 del 1983 e con la salvezza, allora disposta, di tutte le previsioni – nessuna esclusa – dell’art. 10, del d.l. n. 17 del 1983.
Poste tali premesse, il giudice a quo ravvisa una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., sulla base dell’art. 6 della CEDU, che assurge a parametro interposto, nell’interpretazione enunciata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Dalla norma convenzionale – argomenta il giudice contabile – discende l’illegittimità di ogni innovazione legislativa retroattiva, che alteri le condizioni di parità processuale delle parti e si traduca in un’ingerenza del potere legislativo nel funzionamento del potere giudiziario, diretta ad influenzare la decisione della lite.
2.– Nel giudizio è intervenuto l’INPS e ha insistito per la declaratoria di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale.
L’INPS, a sostegno di tali conclusioni, ha rilevato che le norme sospettate d’illegittimità costituzionale si situano in un contesto di emergenza e perseguono l’obiettivo di salvaguardare gli equilibri di bilancio e di contenere la spesa previdenziale.
Nel caso di specie, il ricorrente conserverebbe inalterato l’importo della pensione percepita, in quanto la norma inciderebbe soltanto sull’indennità integrativa speciale.
La retroattività della norma non contrasterebbe neppure con il canone di ragionevolezza: le indefettibili esigenze di finanza pubblica, la necessità di preservare la tenuta complessiva del sistema sarebbero preminenti rispetto all’interesse di una categoria di pensionati, cessati anticipatamente dal servizio.
La difesa dell’INPS puntualizza, inoltre, che le norme convenzionali, evocate quale parametro interposto, devono essere contemperate con altri diritti costituzionalmente protetti e richiama, a tale riguardo, le enunciazioni della giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 264 del 2012).
3.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare la questione di legittimità costituzionale inammissibile o, comunque, infondata.
La difesa dello Stato osserva che è solo apparente il contrasto tra l’art. 21, comma 9, della legge n. 730 del 1983, che salvaguarda la disciplina dell’art. 10, senza indicare analiticamente i disparati ed eterogenei commi che lo compongono, ed il combinato disposto dei commi 6 e 8 dell’art. 18, che specifica come, dalla salvaguardia della disciplina dell’art. 10, sia esclusa la previsione del quarto comma.
Secondo questa prospettazione, la normativa sopravvenuta darebbe conto di un’abrogazione implicita, già desumibile per effetto dell’entrata in vigore della legge n. 730 del 1983.
Il giudice rimettente, dal canto suo, si limiterebbe a porre l’accento sull’apparente antitesi tra le due norme, senza approfondirne la reale portata precettiva.
La difesa dello Stato nota che le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, devono essere bilanciate con altre norme costituzionali, che a loro volta garantiscono diritti fondamentali, suscettibili di essere pregiudicati dall’espansione di una singola tutela.
Per quel che riguarda l’asserita retroattività della norma, il divieto di retroattività non avrebbe rango costituzionale e incontrerebbe l’unico limite della ragionevolezza e del rispetto degli altri valori ed interessi costituzionalmente protetti, limite che, nella specie, non sarebbe in alcun modo travalicato.
Peraltro, la norma impugnata, lungi dall’essere innovativa, si collocherebbe in una situazione di contrasto ermeneutico e interverrebbe a chiarire in maniera plausibile il significato della legge precedente.
Difatti, per una parte della giurisprudenza, la legge n. 730 del 1983 avrebbe reso inoperante il disposto dell’art. 10, comma 4, del d.l. n. 17 del 1983.
Secondo tale indirizzo, l’art. 21 della legge n. 730 del 1983, riconoscendo la perequazione dell’intero trattamento pensionistico nelle due componenti di pensione e indennità integrativa speciale, risulterebbe incompatibile con l’attribuzione dell’indennità integrativa speciale, secondo gli incrementi riconosciuti dall’art. 10, comma 4, del d.l. n. 17 del 1983.
La norma interpretativa, sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale, avrebbe l’unico intento di ribadire uno dei possibili significati della norma originaria, senza incorrere in alcuna violazione dell’art. 6 della CEDU.
La difesa dello Stato, nel passare in rassegna la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale, esclude che sussista, nell’ordinamento, un divieto assoluto di interventi legislativi retroattivi.
A questa stregua, sarebbero legittime le norme retroattive, soprattutto quando sorrette, come avviene nella vicenda dibattuta, da preminenti interessi generali e da ragioni imperative, che investono gli stessi equilibri della finanza pubblica.
Considerato in diritto
1.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione siciliana, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 18, commi 6, 7 e 8, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111. Le disposizioni censurate incidono sul meccanismo di calcolo delle variazioni dell’indennità integrativa speciale, spettante a quanti abbiano fruito del pensionamento anticipato e stabiliscono che, sin dall’entrata in vigore della legge 27 dicembre 1983, n. 730 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 1984), tali variazioni si debbano calcolare sulla quota dell’indennità «effettivamente spettante in proporzione all’anzianità conseguita alla data di cessazione dal servizio».
Il giudice rimettente assume che le disposizioni impugnate, dietro lo schermo della dichiarata natura interpretativa, si atteggino come sostanzialmente retroattive e distorcano l’univoco significato della legge n. 730 del 1983, che faceva salve tutte le previsioni dell’art. 10 del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17 (Misure per il contenimento del costo del lavoro e per favorire l’occupazione), convertito, con modificazioni, dalla legge 25 marzo 1983, n. 79.
Ad avviso della Corte rimettente, il legislatore non aveva affatto inteso escludere – da una salvaguardia che si caratterizzava come generale – il quarto comma dell’art. 10 del d.l. n. 17 del 1983, che disciplinava specificamente l’attribuzione per l’intero delle variazioni dell’indennità integrativa speciale.
Il giudice rimettente lamenta che una normativa, così congegnata, contravvenga ai princípi di certezza del diritto, di ragionevolezza, di affidamento, di parità processuale delle parti, in violazione degli artt. 2, 3, primo comma, 117, primo comma, Cost., in relazione alla norma interposta dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
L’INPS e il Presidente del Consiglio dei ministri sostengono la legittimità della norma impugnata, che attribuisce al testo di legge uno dei significati racchiusi nella sua formulazione, senza violare i princípi di ragionevolezza e di affidamento, in quanto dettata da motivi imperativi d’interesse generale. Tale è da intendersi la salvaguardia dell’equilibrio complessivo del sistema previdenziale.
2.– La questione non è fondata.
I dubbi di legittimità costituzionale si appuntano sulla disciplina delle variazioni dell’indennità integrativa speciale, che adempiono ad una funzione di rivalutazione e di attualizzazione dell’importo dell’indennità integrativa speciale, a sua volta finalizzata a salvaguardare l’adeguamento del valore reale della retribuzione alla variazione del valore reale della moneta e, attraverso tale adeguamento, il rapporto di proporzionalità tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro prestato.
La ricognizione del quadro normativo deve prendere le mosse dall’art. 10 del d.l. n. 17 del 1983.
Tale norma, al primo comma, primo periodo, per l’ipotesi di pensionamento anticipato, determina la misura dell’indennità integrativa speciale «in ragione di un quarantesimo per ogni anno di servizio, utile ai fini del trattamento di quiescenza», per poi precisare, al quarto comma, che le variazioni «sono attribuite per l’intero importo dalla data del raggiungimento dell’età di pensionamento da parte del titolare della pensione, ovvero dalla data di decorrenza della pensione di riversibilità a favore dei superstiti».
Prima del raggiungimento dell’età necessaria per il pensionamento di vecchiaia, l’indennità integrativa speciale doveva essere corrisposta secondo un principio di proporzionalità attenuata, commisurata agli anni di servizio utili, mentre le variazioni dell’indennità integrativa speciale dovevano essere liquidate in misura intera.
In questo quadro, sono intervenute le profonde innovazioni apportate dalla legge n. 730 del 1983, che attengono al concetto di pensione complessiva, comprensiva del trattamento base e dell’indennità integrativa speciale. I parametri di quantificazione degli aumenti periodici sono unificati e raccordati all’indice ISTAT del costo della vita, oltre a essere differenziati per fasce di reddito.
Tale rinnovato contesto normativo ha indotto l’amministrazione previdenziale e una parte della giurisprudenza contabile a riconoscere l’incompatibilità tra la disciplina sopravvenuta, ispirata a princípi regolatori peculiari, e il meccanismo del ripristino integrale delle variazioni dell’indennità integrativa speciale, in concomitanza con il raggiungimento dell’età massima.
In particolare, secondo tale interpretazione del dettato normativo, la legge n. 730 del 1983 delinea una nuova modalità di calcolo della perequazione automatica e passa dal criterio basato sul valore unitario del punto di contingenza, misurato autonomamente sulla pensione e sull’indennità integrativa speciale, all’applicazione di una percentuale sull’ammontare del trattamento complessivo, comprensivo di pensione e indennità integrativa speciale.
Tale meccanismo non si concilierebbe con il diritto ad ottenere l’attribuzione dell’indennità integrativa speciale secondo gli incrementi riconosciuti dall’art. 10 del d.l. n. 17 del 1983, in quanto sarebbe venuto a cessare il parametro di riferimento, su cui si calcolava in precedenza l’indennità integrativa speciale.
Tali considerazioni non sono state condivise da una parte della giurisprudenza contabile, che ha posto in risalto il dato letterale dell’art. 21, comma 9, della legge n. 730 del 1983, argomentando per la salvezza dell’intero art. 10 del d.l. n. 17 del 1983, anche con riferimento alle variazioni dell’indennità integrativa speciale (ex plurimis, Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Lombardia, sentenze 2 luglio 2010, n. 344 e 29 giugno 2006, n. 393; Corte dei conti, sezione giurisdizionale per il Veneto, sentenza 14 gennaio 2009, n. 17; Corte dei conti, sezione giurisdizionale per il Piemonte, sentenza 7 febbraio 2006, n. 27).
Secondo quest’indirizzo, il dato letterale non è smentito da rilievi di carattere sistematico.
Non vi sono antinomie di sorta – si afferma – tra un meccanismo, che, pur commisurando gli incrementi alle fasce di reddito, continua ad offrire una rappresentazione distinta delle voci del trattamento (pensione base e indennità integrativa speciale) e la quantificazione delle variazioni dell’indennità integrativa speciale, secondo i criteri tratteggiati dall’art. 10, quarto comma, del d.l. n. 17 del 1983.
Tale orientamento è stato recepito – in sede di composizione del contrasto – dalle sezioni riunite della Corte dei conti, che hanno compiuto un’approfondita disamina dell’evoluzione dell’istituto e delle diverse norme succedutesi nel tempo, privilegiando l’interpretazione letterale, rafforzata dall’insussistenza di argomenti sistematici di segno contrario (Corte dei conti, sezioni riunite, sentenza 1° giugno 2011, n. 10).
Le sezioni riunite della Corte dei conti pervengono alla conclusione che, per i lavoratori che siano stati collocati a riposo prima del raggiungimento dell’età pensionabile, l’incremento percentuale dell’indennità integrativa speciale debba operare non già sull’indennità integrativa speciale effettivamente pagata e modulata in quarantesimi, secondo il dettato dell’art. 10, primo comma, ma sull’importo che sarebbe spettato in caso di cessazione dal servizio per il raggiungimento del massimo di anzianità.
La norma censurata si prefigge di chiarire, in merito alle variazioni dell’indennità integrativa speciale, i rapporti tra l’art. 10 del d.l. n. 17 del 1983 e l’art. 21 della legge n. 730 del 1983. Essa si inscrive in un testo normativo composito, approvato in condizioni di emergenza economica e finanziaria.
Questo dato emerge con chiarezza dalla relazione tecnica, allegata al disegno di legge di conversione del d.l. n. 98 del 2011, che illustra la necessità di evitare una maggiore spesa pensionistica. Tale maggiore spesa, suffragata dal riferimento alla documentazione amministrativa fornita dall’Istituto nazionale di previdenza e assistenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP), non sarebbe stata considerata «negli andamenti di finanza pubblica a normativa vigente».
3.– Il quadro giurisprudenziale è, pertanto, più articolato rispetto a quel che traspare dall’ordinanza di rimessione.
Il giudice a quo non si attarda ad analizzare il dibattito della giurisprudenza contabile sui problematici rapporti tra l’art. 21 della legge n. 730 del 1983 e la disciplina delle variazioni dell’indennità integrativa speciale, contenuta nell’art. 10, quarto comma, del d.l. n. 17 del 1983.
Alcune pronunce prefigurano, infatti, l’opzione ermeneutica, che il legislatore ha poi deciso di far propria nel 2011 (Corte dei conti, sezione terza giurisdizionale centrale d’appello, sentenze 19 settembre 2006, n. 408 e 30 agosto 2006, n. 337).
Le pronunce citate dichiarano di conformarsi ad un orientamento pregresso, che ha già trovato eco anche nella giurisprudenza contabile di primo grado, e non individuano alcuna ragione che induca a rimeditarlo e a rinnegare l’argomento sistematico dell’inconciliabilità del nuovo sistema, delineato dalla legge n. 730 del 1983, con il computo delle variazioni dell’indennità integrativa speciale secondo i criteri sanciti dall’art. 10, quarto comma, del d.l. n. 17 del 1983.
La soluzione prescelta dal legislatore si allinea, dunque, ad una giurisprudenza, che già la accreditava come praticabile, in base al raffronto tra il sistema delineato dal d.l. n. 17 del 1983 e quello risultante dalle modifiche recate dalla legge n. 730 del 1983.
Alla luce di questo primo rilievo, le censure del giudice rimettente devono essere disattese, nei molteplici profili in cui si articolano.
4.– Tali censure vertono sulla scelta del legislatore di attribuire alla norma un significato estraneo alle possibili varianti di senso.
Quest’assunto non coglie nel segno, sol che si consideri quella giurisprudenza contabile, che già si attestava sull’interpretazione successivamente avallata dal legislatore.
La legge, dunque, ha natura interpretativa, in quanto impone una scelta ermeneutica che rientra tra le possibili varianti di senso, compatibili con il tenore letterale del testo interpretato, e interviene a comporre il conflitto tra le diverse interpretazioni offerte dalla giurisprudenza contabile.
La formulazione letterale della norma non aveva fugato ogni dubbio ermeneutico e non aveva mancato di dare àdito a considerazioni sistematiche volte a circoscrivere la portata precettiva della clausola di salvaguardia delle disposizioni dell’art. 10 del d.l. n. 17 del 1983. Ne era scaturita una situazione di oggettiva incertezza, che la norma si prefigge di eliminare.
La finalità eminentemente interpretativa perseguita dal legislatore si giustifica per il rapido avvicendarsi, nell’arco dello stesso anno, di interventi normativi non sempre armonici e coerenti.
Non rileva, in senso contrario, che la norma interpretativa recepisca e convalidi un orientamento giurisprudenziale minoritario. È sufficiente che la norma imponga una delle possibili varianti di senso del testo originario, vincolando l’interprete ad uno dei significati ascrivibili alla norma anteriore (sentenza n. 227 del 2014).
A questa Corte, infatti, non è demandato un giudizio di fondatezza circa le divergenti interpretazioni emerse prima dell’intervento legislativo chiarificatore, che ad una di esse accorda la preferenza (sentenza n. 170 del 2008).
5.– Riconosciuta la sua natura interpretativa, la disciplina si sottrae alle censure prospettare e supera il controllo di ragionevolezza, sollecitato a questa Corte.
Il principio di ragionevolezza, nell’ottica di un prudente bilanciamento e di un’accorta integrazione delle tutele, richiede una valutazione sistematica dei molteplici valori coinvolti, anche con riguardo ai valori che la CEDU concorre a presidiare.
In un precedente riferito ad una tematica di diritto previdenziale – terreno elettivo di confronto con le affermazioni di principio della Corte di Strasburgo sulle norme interpretative e, come tali, retroattive — questa Corte ha ribadito la legittimità di una disciplina interpretativa e ha ricordato che «La norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., come norma interposta, diviene oggetto di bilanciamento, secondo le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza (sentenza n. 317 del 2009). Operazioni volte non già all’affermazione della primazia dell’ordinamento nazionale, ma alla integrazione delle tutele» (sentenza n. 264 del 2012, punto 4.2. del Considerato in diritto).
6. – Quanto alla dedotta lesione dell’art. 117, primo comma, Cost., la Corte EDU ha affermato che, in linea di principio, al legislatore non è precluso intervenire nella materia civile con nuove disposizioni retroattive, che dispieghino gli effetti sui diritti sorti in base alle leggi vigenti.
Tuttavia, i princípi dello stato di diritto e la nozione di processo equo, sancito dall’art. 6 della CEDU, vietano l’interferenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia destinata a influenzare l’esito della controversia, fatta eccezione che per motivi imperativi di interesse generale (ex plurimis, sentenze 11 dicembre 2012, De Rosa e altri contro Italia, 14 febbraio 2012, Arras e altri contro Italia, 7 giugno 2011, Agrati e altri contro Italia, 21 giugno 2007, SCM Scanner de L’Ouest Lyonnais e altri contro Francia).
Dai princípi della CEDU, nella prospettiva condivisa dalla giurisprudenza di questa Corte, non deriva alcun divieto assoluto di norme interpretative, suscettibili di ripercuotersi sui processi in corso (sentenze n. 257 del 2011 e n. 311 del 2009).
È la stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, con il riferimento ai motivi imperativi d’interesse generale, ad evocare l’idea di un bilanciamento, che possa giustificare, in un disegno coerente che rafforzi ed armonizzi le tutele, una legislazione interpretativa.
I princípi di rango costituzionale e i princípi affermati dalla CEDU sono chiamati, pertanto, ad interagire in un sistema di tutele che, attraverso la clausola riferita ai motivi imperativi d’interesse generale, consenta di individuare un punto di equilibrio nella dialettica tra i valori in gioco e di emanciparli da una considerazione atomistica ed irrelata.
Tale clausola concorre ad attuare un ragionevole bilanciamento tra i diritti dei singoli (diritto ad un processo equo, affidamento nella stabilità delle relazioni giuridiche), che rivestono anche una rilevanza superindividuale, e l’ispirazione solidaristica immanente alla Carta costituzionale, che individua le finalità perequative e di riequilibrio in un sistema più vasto di interessi costituzionalmente protetti.
7.– Nel caso di specie, la norma censurata, nel contemperare la tutela previdenziale con le inderogabili esigenze di contenimento della spesa pubblica e di salvaguardia della concreta ed attuale disponibilità delle risorse finanziarie (sentenze n. 361 del 1996, n. 240 del 1994, n. 119 del 1991, che valorizzano, per il sistema pensionistico, la necessità di tale bilanciamento), non determina alcuna compressione sproporzionata dei diritti dei singoli lavoratori, che hanno avuto accesso al pensionamento anticipato.
In un disegno che persegue finalità perequative e di complessivo riequilibrio delle risorse, idonee a giustificare anche modificazioni sfavorevoli di trattamenti economici con esiti privilegiati (sentenza n. 74 del 2008, punto 4.5. del Considerato in diritto), il legislatore ha attuato un intervento di razionalizzazione della spesa pensionistica, che, inserito in una serie di misure di stabilizzazione finanziaria, non pregiudica l’adeguatezza del trattamento previdenziale per quanti abbiano beneficiato di un pensionamento anticipato.
Il legislatore intervenuto nel 2011, nel disciplinare le variazioni dell’indennità integrativa speciale in modo coerente con l’evoluzione del sistema inteso nel suo complesso, annette il necessario e non irragionevole rilievo alla circostanza del pensionamento anticipato, e lo fa in maniera speculare a quel che accade per l’indennità integrativa speciale in senso stretto, senza creare alcuna arbitraria disparità di trattamento.
Peraltro, la disciplina sospettata d’illegittimità, incentrata su un aspetto circoscritto dell’istituto regolato, «ha perso di attualità per le variazioni aventi decorrenza successiva al 1° gennaio 1999, anche per i trattamenti in corso» (Corte dei conti, sezioni riunite, sentenza 1° giugno 2011, n. 10). L’art. 34 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo) ha introdotto, infatti, un nuovo sistema di perequazione automatica delle pensioni.
Anche il carattere anacronistico di tale meccanismo, che non si profila come una componente essenziale e indefettibile nell’assicurare la dinamica perequativa delle pensioni, ora regolata secondo criteri direttivi sensibilmente diversi, vale a delimitare la portata precettiva di un intervento normativo settoriale e ne ridimensiona quelle conseguenze pregiudizievoli sull’adeguatezza complessiva del trattamento previdenziale, che sono un elemento imprescindibile di valutazione nel sindacato di complessiva ragionevolezza della disciplina in esame.
8.– Dai princípi di rango costituzionale, arricchiti ed integrati dalla fonte convenzionale e ricondotti così ad una prospettiva di più ampio respiro sistematico, tale disciplina, pertanto, non si discosta.
8.1.– Quanto alla paventata lesione dell’affidamento dei consociati e della certezza dei rapporti giuridici, che è il referente oggettivo di tale affidamento, non si può ritenere che il legislatore, nel caso di specie, abbia vanificato un affidamento consolidato e meritevole di tutela.
Anzitutto, in materia di rapporti di durata, fra i quali si annovera il rapporto previdenziale, non si può discorrere di un affidamento legittimo nella loro immutabilità (sentenza n. 1 del 2011), né di un affidamento ragionevole, a fronte di un’interpretazione giurisprudenziale non del tutto convergente con quanto indicato dal giudice a quo, peraltro silente sui precedenti difformi e quasi coevi all’azione giudiziaria intrapresa dal ricorrente nel giudizio principale.
Questa Corte, infatti, esclude – con affermazione di principio costante – che un legittimo affidamento possa sorgere sulla base di un’interpretazione contrastata ed incerta (sentenza n. 156 del 2014).
Alla luce del già ricordato contrasto interpretativo, acuitosi in tempi più recenti, prossimi all’intervento del legislatore, e perdurante al momento dell’azione promossa dal ricorrente del giudizio a quo, svanisce la forza suggestiva dell’argomento della distanza temporale tra la norma interpretata ed il sopraggiungere della legge interpretativa.
8.2.– Quanto all’ingerenza nella funzione giurisdizionale, non si può dire che quest’ultima sia violata per il sol fatto che il legislatore intervenga con una disposizione destinata a muoversi sul piano generale ed astratto delle fonti e a costruire il modello normativo, cui la decisione del giudice si deve attenere (sentenza n. 432 del 1997).
La legge interpretativa, difatti, nel porre una disciplina generale ed astratta, opera su un piano diverso da quello dell’applicazione giudiziale della regola di diritto a singole fattispecie (sentenza n. 15 del 2012). Nel caso di specie, la legge vale a porre rimedio ad una situazione di oggettiva incertezza, propiziata dal susseguirsi nello stesso anno (1983) di modifiche normative non sempre facili da coordinare e dimostrata dai contrasti giurisprudenziali, che sono emersi proprio a ridosso dell’intervento della legge interpretativa.
La norma, inoltre, per espressa disposizione dell’art. 18, comma 9, del d.l. n. 98 del 2011, non sovverte il giudicato che, nei singoli contenziosi, abbia già definito i rapporti tra le parti.
Tali caratteristiche consentono di escludere un’interferenza indebita sull’esercizio della funzione giudiziaria, idonea a violare il principio di parità nello specifico processo e a scardinare la forza della cosa giudicata, limite invalicabile di ogni legge di interpretazione autentica e di ogni legge retroattiva (sentenza n. 118 del 1957, che inaugura un orientamento costante).
9.– Pertanto, la norma impugnata, inquadrata alla luce di un assetto giurisprudenziale, solcato da incertezze e contrasti e ispirata a un disegno ragionevole, diretto a garantire la sostenibilità del sistema previdenziale nel suo complesso, attraverso sacrifici proporzionati e legati alla peculiare situazione del pensionamento anticipato, non è lesiva delle norme costituzionali evocate (artt. 2, 3, primo comma, e 117, primo comma, Cost.), lette anche alla stregua dell’art. 6 della CEDU.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, commi 6, 7 e 8, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art.1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione siciliana, con l’ordinanza di rimessione riportata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 maggio 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'1 luglio 2015.