SENTENZA N.
257
ANNO 2011
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Alfio FINOCCHIARO Giudice
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE
"
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo
Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’articolo 2, comma 5, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale
e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2010), promosso
dal Tribunale di Rossano nel procedimento vertente tra P. R. ed altra e l’INPS,
con ordinanza del 12 aprile 2010, iscritta al n. 379 del registro ordinanze
2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima
serie speciale, dell’anno 2010.
Visto l’atto di
costituzione dell’INPS;
udito nell’udienza
pubblica del 5 luglio 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;
udito l’avvocato Luigi
Caliulo per l’INPS.
Ritenuto in
fatto
1.
— Il Tribunale di Rossano in composizione monocratica, in funzione di giudice
del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’articolo
2, comma 5, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria
2010), in riferimento agli articoli 3, 38, secondo comma, 53, 111, primo e
secondo comma, 117, primo comma, della Costituzione.
2. — Il rimettente premette che, con
ricorsi di analogo contenuto, poi riuniti per ragioni di connessione, le
signore R. P. e A. Z. hanno convenuto in giudizio l’Istituto Nazionale della
Previdenza Sociale, in persona del presidente pro tempore, esponendo: 1) che erano titolari di pensioni,
categoria VO, dopo aver lavorato come operaie agricole a tempo determinato; 2)
che l’INPS, nel determinare le pensioni, aveva applicato erroneamente l’art. 28
decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1968, n. 488 (Aumento e nuovo
sistema di calcolo delle pensioni a carico dell’assicurazione generale
obbligatoria), perché, nel calcolare la pensione dovuta alle istanti, aveva
fatto riferimento al salario medio convenzionale, non già dell’anno in cui il
lavoro era stato prestato, ma dell’anno antecedente.
Ciò posto, le attrici hanno chiesto che
sia dichiarato il loro diritto ad ottenere la riliquidazione della pensione di
vecchiaia in godimento sulla base del salario medio convenzionale vigente per
l’anno in cui il lavoro era stato prestato, con condanna dell’INPS alla
ricostruzione della pensione ed al pagamento delle differenze mensili.
Instauratosi il contraddittorio, l’ente
previdenziale si è costituito nei giudizi principali, sostenendo la correttezza
del proprio operato, in applicazione dell’art. 4 del decreto legislativo 16
aprile 1997, n. 146 (Attuazione della delega conferita dall’art. 2, comma 24,
legge 8 agosto 1995, n. 335, in materia di previdenza agricola), e concludendo
per il rigetto delle domande.
Nelle more delle cause è stato
introdotto l’art. 2, comma 5, della legge n. 191 del 2009, avente il seguente
tenore: «Il terzo comma dell’articolo 3 della legge 8 agosto 1972, n. 457, si
interpreta nel senso che il termine ivi previsto del 30 ottobre per la
rilevazione della media tra le retribuzioni per le diverse qualifiche previste
dai contratti collettivi provinciali di lavoro ai fini della determinazione
della retribuzione media convenzionale da porre a base per le prestazioni
pensionistiche e per il calcolo della contribuzione degli operai agricoli a
tempo determinato è il medesimo di quello previsto al secondo comma dell’art. 3
della citata legge n. 457 del 1972 per gli operai a tempo indeterminato».
Quest’ultima norma, a sua volta, dispone che «Per i salariati fissi l’ammontare
della retribuzione comprensiva del salario base, della contingenza, delle
indennità in natura e fisse, è costituito dalla media della retribuzione
prevista per ciascuna qualifica dai contratti collettivi provinciali vigenti al
30 ottobre dell’anno precedente».
3. — Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 5,
della legge n. 191 del 2009, ora citato.
Il rimettente, in primo luogo, ritiene
la questione rilevante, perché la norma censurata disciplina, con chiara efficacia
sulle controversie al suo esame, il sistema di accredito contributivo e il
calcolo consequenziale della pensione.
Osserva, poi, che la Corte di
cassazione, con orientamento costante (e dal medesimo rimettente condiviso), ha
affermato il principio secondo cui «La pensione di vecchiaia degli operai
agricoli a tempo determinato deve essere determinata, ex art. 28 d.P.R. n. 488 del 1968
("Aumento e nuovo sistema di calcolo delle pensioni a carico dell’assicurazione
generale obbligatoria”), sulla base delle retribuzioni medie vigenti per
ciascun anno, ("in rapporto alle retribuzioni medie da determinarsi annualmente
per provincia”), come peraltro confermato dall’art. 3, terzo comma, della legge
n. 457 del 1972 che espressamente statuisce che "per i giornalieri di campagna
l’ammontare della retribuzione è costituito dalla media tra le retribuzioni
vigenti al 30 ottobre di ogni anno” e non dell’anno precedente».
Il Tribunale prosegue rilevando che i
decreti ministeriali di determinazione delle retribuzioni medie giornaliere,
emanati annualmente e vincolanti per gli istituti previdenziali, hanno sempre
fatto riferimento ai dati salariali relativi all’anno precedente alla loro
emanazione per entrambe le categorie (dipendenti a tempo indeterminato e
dipendenti a tempo determinato), adottando in sostanza come criterio unico di
rilevazione quello previsto per gli operai a tempo indeterminato,
verosimilmente allo scopo di assicurare un trattamento omogeneo a soggetti
operanti nell’ambito dello stesso settore lavorativo e di realizzare una più
semplice e rapida procedura di liquidazione, in via definitiva, dell’indennità
di malattia. Tuttavia, tale prassi è stata sempre giudicata illegittima dalla
Corte di cassazione, se non seguita da conguaglio per i salariati a tempo determinato.
Il giudicante ricorda che, di recente,
la Corte di cassazione si è di nuovo pronunciata in subiecta materia (l’ordinanza di
rimessione richiama la sentenza n. 2531 del 2009), ponendosi in consapevole
contrasto col precedente orientamento e pervenendo, quindi, alla conclusione
che, in tema di pensione di vecchiaia degli operai agricoli a tempo
determinato, la retribuzione pensionabile per gli ultimi anni di lavoro va
calcolata applicando l’art. 28 del d.P.R. n. 488 del
1968 e, dunque, in forza della determinazione operata anno per anno da decreti
ministeriali sulla media delle retribuzioni fissate dalla contrattazione
provinciale nell’anno precedente.
Il Tribunale di Rossano espone, quindi,
le ragioni che, a suo avviso, non consentono di condividere il più recente
orientamento della Corte di legittimità, ed osserva che la cosiddetta "legge
interpretativa”, in questa sede censurata, avrebbe modificato la norma di
riferimento con efficacia retroattiva, perciò applicabile alle controversie in
esame, imponendo di far capo non all’art. 28 del d.P.R.
n. 488 del 1968, bensì all’art. 3, terzo comma, della legge n. 457 del 1972,
come interpretato, il che comporterebbe il rigetto delle domande.
Secondo il rimettente, non vi sarebbe
stato contrasto ermeneutico sul fatto che la norma interpretata (art. 3, terzo
comma, della legge n. 457 del 1972) disciplinasse soltanto le prestazioni
temporanee in agricoltura e non l’accredito contributivo e, per conseguenza, la
misura della pensione. Tale lettura sarebbe stata comune ad entrambi gli
orientamenti sopra richiamati. Pertanto, il legislatore avrebbe interpretato
autenticamente una norma in relazione alla quale non sussisteva alcun contrasto
ermeneutico circa la sua inapplicabilità al regime pensionistico contributivo.
In questo quadro, ad avviso del
Tribunale, la disposizione censurata violerebbe, in primo luogo, l’art. 3
Cost., apparendo «irragionevole e in evidente contrasto con lo scopo
manifestato».
Invero, il legislatore, con disposizione
asseritamente interpretativa, avrebbe esteso la
portata di una norma inapplicabile alla fattispecie, «al fine di non adeguare
le pensioni degli operai agricoli a tempo determinato, così evitando la
condanna in un contenzioso seriale». Lo scopo dell’intervento legislativo sarebbe
ancora più evidente, qualora si consideri che esso avrebbe dovuto operare
sull’unica disposizione disciplinante la materia, cioè sull’art. 28 del d.P.R. n. 488 del 1968. In tal modo, però, il legislatore
si sarebbe esposto a censura per violazione dell’art. 76 Cost., visti i limiti
della delega sulla base della quale il citato d.P.R.
è stato adottato (art. 39 legge 21 luglio 1965, n. 903).
L’art. 2, comma 5, della legge n. 191
del 2009, quindi, secondo il rimettente doveva necessariamente operare sull’art.
3, terzo comma, della legge n. 457 del 1972, al fine di raggiungere lo scopo di
evitare possibili condanne. Risulterebbe evidente, dunque, il sospetto
d’irragionevolezza, ancor più grave ove si osservi che, in realtà, la
disposizione de qua determinerebbe
una discriminazione basata sulle condizioni sociali degli istanti. Sarebbe
notorio, infatti, che i braccianti agricoli di solito provengono dalle
categorie più deboli sotto il profilo sociale ed economico.
La norma censurata, inoltre, si porrebbe
in contrasto con l’art. 117 Cost. per violazione degli obblighi internazionali
dello Stato e, in particolare, dell’art. 6 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e
resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed
esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo
addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), come
interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha escluso la
possibilità d’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della
giustizia, allo scopo d’influire sulla conclusione giudiziaria della causa,
eccetto il caso di motivi imperativi d’interesse generale (nella specie
insussistenti).
Inoltre, la norma censurata sarebbe in
contrasto anche con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., interpretato alla
luce dell’art. 6 CEDU, perché la previsione della sua applicabilità ai giudizi
in corso violerebbe il principio del giusto processo, in particolare sotto il
profilo della posizione di parità delle parti, da ritenere leso da un
intervento del legislatore diretto ad imporre una determinata soluzione ad una
circoscritta e specifica categoria di controversie.
Il rimettente si dichiara consapevole
dell’orientamento di questa Corte in ordine ai limiti dell’ingerenza del potere
legislativo, con riguardo all’art. 24 Cost., «ma ritiene che non siano
conferenti alla ratio
della presente remissione», in quanto fondata anche sull’art. 117 Cost. in
relazione alla portata precettiva della CEDU, come
interpretata dalla Corte di Strasburgo.
Ancora, sussisterebbe contrasto con
l’art. 117, primo comma, Cost., per violazione dell’art. 14 CEDU, «che vieta
discriminazioni per l’origine sociale e per la ricchezza nell’ambito di
applicazione della Convenzione».
Nel caso di specie sarebbe ravvisabile
una doppia discriminazione: da un lato, i precari dell’agricoltura rispetto al
resto del precariato, il quale vedrebbe la propria contribuzione correlata alla
retribuzione reale, e, dall’altro, gli operai agricoli rispetto agli altri
lavoratori dipendenti, che vedono le proprie contribuzioni correlate alla
retribuzione reale e non a quella dell’anno antecedente.
Infine, sarebbero ravvisabili dubbi di
legittimità costituzionale della norma censurata in riferimento agli artt. 3,
38, secondo comma, e 53 Cost.
Invero, la sentenza conclusiva dei
procedimenti per cui è causa sarebbe di condanna in quanto diretta ad accertare
un credito già nel patrimonio giuridico degli istanti. La norma impugnata,
dunque, verrebbe ad incidere su un rapporto di credito/debito, con l’effetto di
determinare l’estinzione del credito del pensionato, relativo alle differenze
dei ratei di pensione nel frattempo maturati. La norma de qua, quindi, priverebbe il pensionato/assistito di parte della
pensione già maturata, con violazione degli artt. 3 e 38, secondo comma, Cost.,
poiché il legislatore avrebbe previsto l’elisione di un diritto già presente
nel patrimonio degli istanti, in assenza di ogni apprezzabile giustificazione.
La Costituzione avrebbe previsto «poche
e circoscritte ipotesi in cui una persona possa essere privata di diritti,
ovvero obbligata a prestazioni e ciò sempre in favore dello Stato (art. 53,
obbligo di concorrere alle spese pubbliche), ovvero anche di privati (artt. 42
e 43), ma sempre a fronte di specifici motivi d’interesse generale. Nel caso di
specie invece, la disposizione in esame, per determinati soggetti, in
condizioni deboli (pensionati con redditi minimi, trattandosi di pensioni
agricole) ha previsto che questi siano privati di diritti già entrati nel loro
patrimonio».
Si tratterebbe, dunque, di una norma
priva di adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e contrastante
con altri valori e interessi costituzionalmente protetti, volta ad incidere in
modo arbitrario su situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti.
4. — L’INPS si è costituito in giudizio
con memoria depositata il 26 dicembre 2010, chiedendo che la questione sia
dichiarata non fondata.
L’Istituto prende le mosse dal rilievo
che il legislatore, nel rispetto della riserva prevista per la materia penale
dall’art. 25 Cost., può emanare norme con efficacia retroattiva, purché la
retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e
non contrasti con altri diritti e interessi costituzionalmente protetti. Tale
assunto trova applicazione sia in presenza di una norma interpretativa, sia di
una norma innovativa.
Osserva, poi, che, in relazione alla
portata retroattiva della norma d’interpretazione autentica e ai suoi limiti,
questa Corte ha più volte affermato che il legislatore non soltanto avrebbe la
facoltà di adottare disposizioni dirette a chiarire il significato di altri
precetti legislativi, quando sussista una situazione di oggettiva incertezza
nell’applicazione del diritto o vi siano contrasti giurisprudenziali, ma che
tale possibilità sarebbe configurabile anche a fronte di un orientamento della
Corte di cassazione, quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le varie
opzioni ermeneutiche cui il testo originario si presta (sono richiamate le sentenze n. 274 del
2006, n. 374
e n. 29 del 2002,
n. 525 del 2000).
Nel caso in esame, la norma censurata
contemplerebbe uno specifico parametro per il calcolo della retribuzione
pensionabile, da sempre applicato dall’Istituto, «conferendo tale dinamica
concretezza al dubbio ermeneutico che la citata disposizione ha definitivamente
risolto».
Infatti, sul relativo contenzioso, si
sarebbe formato un primo indirizzo del giudice di legittimità, in senso
sfavorevole a quello seguito in sede amministrativa dall’INPS, all’atto della
liquidazione delle pensioni.
Più recentemente, ma prima dell’entrata
in vigore della disposizione denunciata, «la stessa Corte regolatrice aveva
mutato il proprio orientamento addivenendo alla declaratoria di correttezza
dell’operato dell’INPS».
Pertanto, si dovrebbe ritenere che la
norma de qua «abbia di fatto
avvalorato sul piano legislativo quanto già adottato in sede amministrativa ed
avallato, in epoca più recente, in sede giurisdizionale».
Del resto, non si potrebbe negare
l’oggettiva incertezza causata dal contrasto tra una prassi amministrativa
costante ed un primo orientamento della giurisprudenza in ordine alla corretta
individuazione dei criteri di calcolo per i trattamenti in questione. Tale
incertezza, al di là del mutamento in senso favorevole alla tesi dell’Istituto
operato dalla Corte di cassazione, avrebbe reso non soltanto ragionevole, ma
molto opportuno l’intervento del legislatore.
Andrebbe, poi, ricordato che il vigente
sistema previdenziale, fondato sul rapporto sinallagmatico tra il versamento
dei contributi e l’erogazione delle prestazioni, anche nell’ambito del
cosiddetto sistema retributivo, non terrebbe conto soltanto della retribuzione
effettivamente riscossa, ma anche della relativa contribuzione. Non sarebbe
configurabile, dunque, la discriminazione paventata dal rimettente, perché, da
un lato, la norma interpretativa risulterebbe ragionevole, e perciò corretta
sul piano costituzionale e, dall’altro, essa non comporterebbe una perdita
economica così rilevante da tradursi nella suddetta discriminazione.
Al contrario, la norma avrebbe il merito
di ricondurre ad uniformità il sistema previdenziale dei lavoratori agricoli a
tempo determinato, individuando un unico parametro di riferimento – il salario
medio convenzionale dell’anno precedente – da utilizzare per la liquidazione di
ogni prestazione previdenziale, pensionistica e non, oltre che per il calcolo
della contribuzione da versare, nel quadro di un percorso legislativo diretto a
disegnare un sistema previdenziale nel complesso più coerente e funzionale per
la detta categoria di lavoratori, sistema già anticipato dall’intervento
attuato con il decreto legislativo 16 aprile 1997, n. 146 (Attuazione della
delega conferita dall’art. 2, comma 24, della legge 8 agosto 1995, n. 335, in
materia di previdenza agricola).
Ad avviso del deducente,
la censura formulata con richiamo all’art. 38 Cost. sarebbe generica e,
comunque, non fondata, non risultando in alcun modo vulnerato il principio
dell’adeguatezza del trattamento pensionistico, comunque da bilanciare con
l’esigenza di rispettare il limite delle risorse disponibili, anche con
riferimento all’art. 81 Cost., fermo restando che «in sede di manovra
finanziaria di fine anno spetta al Governo e al Parlamento introdurre modifiche
alla legislazione di spesa, ove ciò sia necessario a salvaguardare l’equilibrio
del bilancio dello Stato e perseguire gli obiettivi della programmazione
finanziaria».
Sarebbe innegabile, del resto, che al
legislatore debba essere riconosciuto un margine di discrezionalità nella
concretizzazione del precetto costituzionale relativo all’adeguatezza della
prestazione previdenziale, tenendo conto della consistenza delle risorse
economiche disponibili e considerando che, nel caso di specie, non sarebbe
neppure in gioco la garanzia delle esigenze minime di protezione della persona
(è richiamata la sentenza
della Corte costituzionale n. 180 del 2001).
Quanto al dubbio sulla legittimità
costituzionale della norma censurata, sollevato con riferimento agli artt. 111,
primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e
14 CEDU, la detta norma interpretativa sarebbe del tutto legittima, essendosi
limitata a rendere esplicito un contenuto già insito nella disposizione di
riferimento.
Invero, non sussisterebbero profili di
contrasto con l’art. 111 Cost. sul giusto processo, perché scopo della norma in
questione non sarebbe quello d’imporre una determinata soluzione ai giudizi
pendenti, bensì quello di precisare l’opzione ermeneutica da adottare,
indicando in modo espresso la volontà del legislatore sul punto.
Né, in linea generale, si potrebbe
affermare che una norma d’interpretazione autentica sia di per sé contraria al
principio del giusto processo, in quanto un intervento legislativo di tal
genere dovrebbe ritenersi legittimo in presenza di obiettivi di pubblica
utilità, nel cui novero certamente rientrerebbe l’esigenza di salvaguardare i
principi informativi del sistema previdenziale pubblico e, in particolare,
l’esigenza di garantire l’integrità del rapporto tra retribuzione pensionabile
e provvista contributiva disponibile, calcolandole entrambe su un unico ed
omogeneo parametro.
Del pari infondata sarebbe la censura
mossa per pretesa violazione degli artt. 6 e 14 CEDU. Il rispetto dei principi
della Convenzione non comporterebbe affatto che debbano essere disattese
esigenze nazionali nascenti da inderogabili necessità pubbliche, quali
sarebbero le esigenze di salvaguardare i principi che governano il sistema
previdenziale pubblico.
Infine, non sarebbe ravvisabile
violazione del canone di parità delle parti nel processo, perché esso «non
consente di ingerirsi nell’esercizio del potere discrezionale e politico del
legislatore, tanto più che il suddetto esercizio non rientra certo nelle
prerogative di una delle due parti in causa – l’INPS – che non è depositario
del detto potere».
Considerato in diritto
1. — Il Tribunale di Rossano, in composizione
monocratica, in funzione di giudice del lavoro, dubita – in riferimento agli
articoli 3, 38, secondo comma, 53, 111, primo e secondo comma, e 117, primo
comma, della Costituzione – della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma
5, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2010).
Il rimettente premette di essere
chiamato a pronunziarsi su due ricorsi (poi riuniti per ragioni di connessione),
proposti da due operaie agricole a tempo determinato, titolari di pensioni
categoria VO, nei confronti dell’Istituto nazionale della previdenza sociale.
Le attrici hanno sostenuto che il detto
Istituto, nel determinare la pensione, avrebbe erroneamente applicato l’art. 28
del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1968, n. 488 (Aumento e
nuovo sistema di calcolo delle pensioni a carico dell’assicurazione generale
obbligatoria), in quanto, nel calcolare la pensione spettante alle lavoratrici,
avrebbe assunto come base non già il salario medio convenzionale dell’anno in
cui il lavoro è stato prestato, bensì quello dell’anno precedente. Pertanto,
hanno chiesto che sia dichiarato il loro diritto ad ottenere la riliquidazione
della pensione di vecchiaia in godimento sulla base del salario medio
convenzionale in vigore nell’anno in cui il lavoro era stato prestato, con
condanna dell’INPS alla ricostruzione della pensione e al pagamento delle
differenze mensili.
Il Tribunale giudica la questione
rilevante, perché la norma censurata «viene a disciplinare, con chiara
efficacia sulla controversia in esame, il sistema di accredito contributivo ed
il calcolo consequenziale della pensione». Osserva che la Corte di cassazione,
con orientamento costante, si era espressa in senso favorevole alla tesi
propugnata dalle attrici.
Rileva che, recentemente, la stessa
Corte, con sentenza n. 2531 del 2009, è pervenuta a risolvere la questione in
senso opposto, ma considera tale nuovo orientamento non condivisibile, alla
stregua delle precedenti conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza. E afferma
che la norma, della cui legittimità costituzionale dubita – stabilendo che il
terzo comma dell’art. 3 della legge 8 agosto 1972, n. 457 (Miglioramenti ai
trattamenti previdenziali ed assistenziali nonché disposizioni per la
integrazione del salario in favore dei lavoratori agricoli), si interpreta nel
senso che il termine per la rilevazione della media tra le retribuzioni per le
diverse qualifiche previste dai contratti collettivi provinciali di lavoro, ai
fini della determinazione della retribuzione media convenzionale da porre a
base per le prestazioni pensionistiche e per il calcolo della contribuzione
degli operai agricoli a tempo determinato, è quello previsto dal secondo comma
dell’art. 3 della medesima legge per gli operai a tempo indeterminato –
imporrebbe di ritenere applicabile non l’art. 28 del d.P.R.
n. 488 del 1968, ma il citato terzo comma dell’art. 3 della legge n. 457 del
1972, come interpretato, alla stregua del quale si dovrebbe pervenire al
rigetto delle domande.
In questo quadro, il rimettente ritiene
le questioni di legittimità costituzionale non manifestamente infondate, con
riferimento ai parametri invocati.
In particolare, la norma denunziata si porrebbe
in contrasto: a) con l’art. 3 Cost., «apparendo la disposizione sospettata
irragionevole ed in evidente contrasto con lo scopo manifestato», in quanto il
legislatore avrebbe esteso la portata di una disposizione normativa, in
precedenza inapplicabile alla fattispecie, mediante una norma autoqualificata come interpretativa, con lo scopo di non
adeguare le pensioni degli operai agricoli a tempo determinato, evitando in tal
modo la condanna in un contenzioso seriale. Inoltre, essa determinerebbe una discriminazione
basata sulle condizioni sociali delle istanti, essendo notorio che i braccianti
agricoli provengono da una categoria della società meno favorita sul piano
sociale ed economico e soltanto per tale categoria si valuterebbe, al fine
della determinazione della base pensionabile, il più basso salario dell’anno
precedente. Infine, sarebbe violato il principio generale che consente al
legislatore di emanare norme retroattive soltanto qualora esse trovino adeguata
giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si pongano in contrasto
con altri valori e interessi costituzionalmente protetti, finendo in tal modo
per incidere arbitrariamente su situazioni sostanziali disciplinate da leggi
precedenti; b) con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., interpretato alla
luce dell’art. 6 CEDU, perché la previsione della sua applicabilità ai giudizi
in corso violerebbe il principio del giusto processo, in particolare sotto il
profilo della parità delle parti, da ritenere leso a causa di un intervento del
legislatore diretto ad imporre una determinata soluzione ad una circoscritta e
specifica categoria di controversie; c) con l’art. 117, primo comma, Cost., in
riferimento agli obblighi internazionali dello Stato e, in particolare,
all’art. 6 CEDU, in relazione al quale la Corte di Strasburgo ha sempre
affermato che «se, in principio, al potere legislativo non è impedito
regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni a portata retroattiva,
i diritti derivanti da leggi in vigore, il principio della prevalenza del
diritto e la nozione del processo equo sanciti dall’articolo 6 si oppongono,
salvo che nel caso di motivi imperativi d’interesse generale, all’ingerenza del
potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influire
sulla conclusione giudiziaria della causa» (nel caso di specie non sarebbero
ravvisabili "motivi imperativi d’interesse generale”); d) ancora con l’art.
117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU, «che vieta
discriminazioni per l’origine sociale e per la ricchezza nell’ambito di
applicazione della Convenzione» (la norma censurata interverrebbe contro una
sola categoria di soggetti, appartenenti a settori deboli della società,
trattandosi di lavoratori precari con contratti stagionali); e) con gli artt. 38,
secondo comma, e 53 Cost., perché la norma censurata andrebbe ad incidere su un
rapporto di credito-debito in via di accertamento, provocando l’estinzione del
diritto di credito del pensionato per i ratei già maturati e, quindi, privando
quest’ultimo di parte della pensione già maturata, con violazione dei citati
parametri costituzionali, avendo il legislatore previsto l’elisione del
menzionato diritto, «già presente nel patrimonio delle posizioni giuridiche
degli istanti, in assenza di apprezzabile giustificazione, essendo quella
esplicitata dalla disposizione in esame, ovvero l’interpretazione di
disposizione normativa, inesistente». Si tratterebbe, quindi, di una
disposizione in senso lato ablatoria, impositiva di
un sacrificio ad una sola categoria di soggetti deboli in favore dell’INPS,
adottata al di fuori delle ipotesi, tassativamente previste in Costituzione,
nelle quali una persona può essere privata di diritti, ovvero obbligata a
prestazioni, sempre a fronte di specifici motivi d’interesse generale.
2. — La questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2, comma 5, della legge n. 191 del 2009, sollevata con
riferimento all’art. 38, secondo comma, Cost., è inammissibile per il suo
carattere generico.
Il parametro evocato stabilisce che «I
lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi, adeguati alle
loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia,
disoccupazione involontaria». Il rimettente si limita a richiamare questo
precetto, ma non chiarisce le ragioni per le quali esso sarebbe violato dalla
norma censurata. In particolare, sarebbe stato quanto meno necessario esporre
gli argomenti idonei a far ritenere che il sistema stabilito dalla norma de qua andrebbe ad incidere
sull’adeguatezza della prestazione pensionistica, in guisa tale da vulnerare il
dettato costituzionale.
In difetto di tale profilo, la questione
risulta prospettata in termini generici, il che non consente di darle ingresso.
3. — Del pari inammissibile è la
questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 53
Cost.
Infatti, detta norma riguarda
l’imposizione tributaria in senso proprio e non la materia previdenziale (sentenze n. 47 del
2008, n. 311
del 1995; ordinanze
n. 202 del 2006, n. 22 del 2003),
e il rimettente si limita ad una mera enunciazione del parametro senza spiegare
le ragioni della sua pertinenza alla fattispecie.
4. — La questione di legittimità
costituzionale, sollevata con riferimento all’art. 3 Cost., non è fondata.
L’art. 3, secondo comma, della legge n.
457 del 1972, in materia di lavoro agricolo, stabilisce che «Per i salariati
fissi l’ammontare della retribuzione comprensiva del salario base, della
contingenza, delle indennità in natura e fisse, è costituito dalla media della
retribuzione prevista per ciascuna qualifica dai contratti collettivi
provinciali vigenti al 30 ottobre dell’anno precedente».
L’art. 3, terzo comma, della legge
citata prevede che «Per i giornalieri di campagna l’ammontare della
retribuzione, comprensiva del salario base, contingenza, terzo elemento ed
altre indennità fisse, è costituito dalla media tra le retribuzioni per le
diverse qualifiche previste dai contratti collettivi provinciali di lavoro
vigenti al 30 ottobre di ogni anno. La media tra le retribuzioni delle diverse
qualifiche è determinata dividendo per sei il totale costituito dalla somma del
salario previsto per il lavoratore comune, del doppio del salario previsto per
il lavoratore qualificato, nonché del triplo del salario previsto per il
lavoratore specializzato».
Il detto comma formò già oggetto
d’interpretazione autentica da parte dell’art. 45, comma 21, della legge 17
maggio 1999, n. 144 (Misure in materia d’investimenti, delega al Governo per il
riordino degli incentivi all’occupazione e della normativa che disciplina
l’INAIL, nonché disposizioni per il riordino degli enti previdenziali), alla
stregua del quale «Il terzo comma dell’art. 3 della legge 8 agosto 1972, n.
457, si interpreta nel senso che il termine ivi previsto del 30 ottobre per la
rilevazione della media tra le retribuzioni per le diverse qualifiche previste
dai contratti collettivi provinciali di lavoro ai fini della determinazione
della retribuzione media da porre a base per la liquidazione delle prestazioni
temporanee per gli operai agricoli a tempo determinato è il medesimo di quello
previsto al secondo comma dell’articolo 3 della citata legge n. 457 del 1972
per gli operai a tempo indeterminato».
Sia pur limitatamente alla liquidazione
delle prestazioni temporanee per gli operai agricoli a tempo determinato,
dunque, il legislatore già si era espresso equiparando, ai fini di cui alla
norma medesima, la posizione degli operai agricoli a tempo determinato a quella
degli operai a tempo indeterminato.
La norma in questa sede censurata (art.
2, comma 5, della legge n. 191 del 2009), trascritta in narrativa, ha, in
sostanza, reiterato in via ermeneutica la norma già dettata per la liquidazione
delle prestazioni temporanee per gli operai agricoli a tempo determinato, estendendola
alla retribuzione delle prestazioni pensionistiche e al calcolo della
contribuzione relative alla medesima categoria di lavoratori.
In questo quadro (nel quale, per
completezza, va iscritto anche l’art. 28 del d.P.R.
n. 488 del 1968), la giurisprudenza della Corte di cassazione in un primo
momento aveva affermato che «In tema di pensione di vecchiaia degli operai
agricoli a tempo determinato, la retribuzione pensionabile per gli ultimi anni
di lavoro va calcolata, sia applicando l’art. 28 d.P.R.
n. 488 del 1968, sia applicando l’art. 3, terzo comma, della legge n. 457 del
1972, nel testo risultante dalla norma d’interpretazione autentica del 1999
(art. 45, comma 21, della legge n. 144 del 1999), sulla base delle retribuzioni
medie annualmente vigenti, mentre nessuna disposizione appare idonea a
giustificare il diverso sistema di calcolo improntato sulla media vigente
nell’anno precedente, atteso che l’art. 28 del d.P.R.
n. 488 citato rimette al d. m. la determinazione delle retribuzioni medie su
cui calcolare la pensione, prescrivendo, però, senza alcun margine di
discrezionalità, che la media sia quella vigente per ciascun anno e l’ente
previdenziale è già tempestivamente a conoscenza della media delle retribuzioni
su cui determinare la retribuzione pensionabile di ciascun anno. Detta
interpretazione è coerente con il principio, proprio del sistema retributivo
del calcolo pensionistico, secondo il quale la retribuzione pensionabile è
ancorata per quanto possibile all’ultimo trattamento retributivo percepito, al
fine di non alterare negativamente il regime di vita acquisito prestando
attività lavorativa» (ex plurimis: sentenza n. 3212 del 14 febbraio 2007).
Successivamente la Corte di cassazione,
avendo rimeditato il precedente orientamento, ha affermato che «In tema di
pensione di vecchiaia degli operai agricoli a tempo determinato, la
retribuzione pensionabile per gli ultimi anni di lavoro va calcolata applicando
l’art. 28 del d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488 e,
dunque, in forza della determinazione operata anno per anno da d. m. sulla
media delle retribuzioni fissate dalla contrattazione provinciale nell’anno
precedente, ciò trovando conferma – oltre che nella impossibilità di rinvenire
un diverso e più funzionale sistema di calcolo che non pregiudichi l’equilibrio
stesso della gestione previdenziale di settore – anche nella disposizione di
cui all’art. 45, comma 21, della legge 17 maggio 1999, n. 144 che,
nell’interpretare autenticamente l’art. 3 della legge 8 agosto 1972, n. 457,
concernente le prestazioni temporanee in favore dei lavoratori agricoli, ha
inteso estendere ai lavoratori agricoli a tempo determinato l’applicazione
della media della retribuzione prevista dai contratti collettivi provinciali
vigenti al 30 ottobre dell’anno precedente prevista per i salariati fissi, così
da ricondurre l’intero sistema ad uniformità, facendo operare, ai fini del
calcolo di tutte le prestazioni, le retribuzioni dell’anno precedente» (ex plurimis:
sentenza n. 2531 del 20 gennaio 2009).
Ciò posto, si deve premettere che, con
riferimento ad altre leggi d’interpretazione autentica, questa Corte ha già
affermato che non è decisivo verificare se la norma censurata abbia carattere
effettivamente interpretativo (e sia perciò retroattiva), ovvero sia innovativa
con efficacia retroattiva. Infatti, il divieto di retroattività della legge,
pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica, non è stato elevato a
dignità costituzionale, salva, per la materia penale, la previsione dell’art.
25 Cost. Pertanto, il legislatore, nel rispetto di tale previsione, può emanare
sia disposizioni di interpretazione autentica, che determinano la portata precettiva della norma interpretata, fissandola in un
contenuto plausibilmente già espresso dalla stessa, sia norme innovative con
efficacia retroattiva, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione
sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi
costituzionalmente protetti. Sotto l’aspetto del controllo di ragionevolezza,
dunque, rilevano la funzione di "interpretazione autentica”, che una
disposizione sia in ipotesi chiamata a svolgere, ovvero l’idoneità di una
disposizione innovativa a disciplinare con efficacia retroattiva anche
situazioni pregresse in deroga al principio per cui la legge dispone soltanto
per l’avvenire. In particolare, la norma che deriva dalla legge di
interpretazione autentica non può dirsi irragionevole qualora si limiti ad
assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto,
riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (ex plurimis: sentenze n. 162
e n. 74 del 2008).
Inoltre, questa Corte ha anche chiarito,
con riferimento ai rapporti di durata, che il legislatore, in materia di
successione di leggi, dispone di ampia discrezionalità e può anche modificare
in senso sfavorevole la disciplina di quei rapporti, ancorché l’oggetto sia
costituito da diritti soggettivi perfetti, salvo, come si è innanzi precisato,
in caso di norme retroattive, il limite imposto in materia penale dall’art. 25,
secondo comma, Cost., e comunque a condizione che la retroattività trovi
adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga in
contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente protetti (ex plurimis: sentenza n. 236 del
2009 e giurisprudenza in essa
richiamata).
Con riguardo ai principi qui richiamati,
si devono escludere le violazioni dell’art. 3 Cost., ipotizzate dal rimettente.
Infatti, la norma censurata non presenta
alcun carattere irragionevole, ma s’inserisce in un orientamento legislativo
già in precedenza espresso che, sia pure con riferimento alla liquidazione
delle prestazioni temporanee, aveva previsto per gli operai agricoli a tempo
determinato il medesimo criterio contemplato dall’art. 3, secondo comma, della
legge n. 457 del 1972 per gli operai a tempo indeterminato (art. 45, comma 21,
della legge n. 144 del 1999). È vero che le prestazioni temporanee sono diverse
da quelle pensionistico – contributive; non è esatto, però, che, come il
rimettente sembra postulare, queste ultime riguardino tutt’altra materia
rispetto alle prime, essendo palese che le une e le altre attengono al
complessivo trattamento previdenziale della categoria dei lavoratori agricoli,
sicché appare non irragionevole la finalità perseguita dal legislatore, diretta
a ricondurre il sistema ad una disciplina uniforme, utilizzando, ai fini del
calcolo di tutte le prestazioni, le retribuzioni dell’anno precedente.
Del resto, la presunta irragionevolezza
della norma censurata va esclusa anche sotto altro profilo. Invero, l’opzione
ermeneutica prescelta dal legislatore non ha affatto introdotto nella
disposizione interpretata un elemento ad essa del tutto estraneo, ma si è
limitata ad assegnarle un significato riconoscibile come una delle possibili
letture del testo originario. Il che è reso evidente dai contrastanti
orientamenti della giurisprudenza di legittimità, di cui la medesima ordinanza
di rimessione dà conto e che sono anteriori alla norma censurata. Tali
orientamenti rivelano una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo
e dunque rendono non irragionevole il ricorso del legislatore alla
interpretazione autentica (ordinanza n. 400
del 2007).
Pertanto l’assunto del rimettente,
secondo cui l’intervento legislativo sarebbe stato ispirato dal «fine di non
adeguare le pensioni degli operai agricoli a tempo determinato, così evitando
la condanna in un contenzioso seriale», non può essere condiviso, perché non è
sorretto da adeguata motivazione, idonea a superare gli argomenti ora esposti,
ed anzi è smentito dai dati dianzi richiamati.
Né è ravvisabile «una discriminazione in
sfavore di categorie deboli». A parte il carattere generico della censura, si
deve osservare che la norma si limita ad equiparare, ai fini della individuazione
del termine in essa contemplato, la categoria degli operai agricoli a tempo
determinato a quella degli operai agricoli a tempo indeterminato, così
uniformando il sistema ed adottando un criterio già presente nell’ordinamento.
Infine, l’argomento secondo cui la
disposizione de qua avrebbe carattere
in senso lato ablatorio, diretto ad imporre un
sacrificio ad una sola categoria di soggetti deboli in favore dell’INPS, non è
fondato. Esso muove dal presupposto che la norma censurata avrebbe l’effetto di
«determinare l’estinzione del diritto di credito del pensionato anche alle
differenze dei ratei di pensione infratemporalmente
maturati». Si tratterebbe, dunque, di una «estinzione del debito in forza di
disposizione legislativa», che andrebbe a colpire un diritto «già presente nel
patrimonio delle posizioni giuridiche degli istanti». Il presupposto, però, è
errato, perché la situazione giuridica vantata dalle parti private non poteva
considerarsi acquisita o consolidata, proprio avuto riguardo alle oggettive
incertezze del dato normativo, desumibili dai contrastanti orientamenti della
giurisprudenza e superati dalla norma interpretativa.
5. — La questione di legittimità
costituzionale, sollevata con riferimento agli artt. 111 e 117, primo comma,
Cost., non è fondata.
Il rimettente ravvisa anche un contrasto
con l’art. 117 (primo comma) Cost., per violazione degli obblighi
internazionali dello Stato e, in particolare, dell’art. 6 della Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata
e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Infatti, con riferimento al citato art.
6, la Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe sempre affermato che «se, in
principio, al potere legislativo non è impedito regolamentare in materia
civile, con nuove disposizioni a portata retroattiva, i diritti derivanti da
leggi in vigore, il principio della prevalenza del diritto e la nozione del
processo equo si oppongono, salvo che nel caso di motivi imperativi d’interesse
generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della
giustizia allo scopo d’influire sulla conclusione giudiziaria della causa» (è
richiamata, insieme con altre pronunzie, la sentenza
della citata Corte 18 dicembre 2008, relativa al ricorso n. 20153 del 2004, UNEDIC
c/ Francia).
Nel caso di specie, a giudizio del
rimettente, non sussisterebbero motivi imperativi d’interesse generale.
Inoltre, la disposizione censurata si
porrebbe in contrasto anche con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost.,
interpretato alla luce dell’art. 6 CEDU, in quanto la previsione della sua
applicabilità ai giudizi in corso violerebbe il principio del giusto processo,
in particolare sotto il profilo della parità delle parti, da ritenere leso a
causa di un intervento del legislatore diretto ad imporre una determinata
soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di controversie.
Ancora, sussisterebbe violazione
dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU, che vieta
discriminazioni per l’origine sociale e per la ricchezza nell’ambito di
applicazione della Convenzione. La norma censurata interverrebbe contro una
sola categoria di soggetti, appartenenti a settori della società socialmente ed
economicamente deboli. Nel caso di specie, la possibile discriminazione sarebbe
duplice: «da un lato i precari della agricoltura rispetto al resto del
precariato, che vede la propria contribuzione correlata alla retribuzione reale
e, dall’altro, gli operai agricoli rispetto agli altri lavoratori dipendenti,
che vedono le loro contribuzioni correlate alla retribuzione reale».
5.1. — In premessa, si deve ricordare
che questa Corte, con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007,
ha chiarito i rapporti tra il citato art. 117, primo comma, Cost. e le norme
della CEDU, come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. I
principi illustrati nelle menzionate sentenze devono ritenersi in questa sede
richiamati. Alla luce di essi si deve, dunque, verificare: a) se vi sia
contrasto, non suscettibile di essere risolto in via interpretativa, tra la
disciplina censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di
Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro
costituzionale; b) se le norme della CEDU, invocate come integrazione del
parametro (cosiddette norme interposte), nell’interpretazione ad esse data
dalla medesima Corte, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano
(sentenza n. 348
del 2007, citata).
Orbene, con riguardo all’art. 6 della
CEDU, si deve osservare che la Corte di Strasburgo, pur censurando in numerose
occasioni indebite ingerenze del potere legislativo degli Stati
sull’amministrazione della giustizia (per una ricognizione dei casi trattati, sentenza di questa
Corte n. 311 del 2009), non ha inteso enunciare un divieto assoluto
d’ingerenza del legislatore, dal momento che in varie occasioni ha ritenuto non
contrari al menzionato art. 6 particolari interventi retroattivi dei
legislatori nazionali (sentenza da ultimo citata, punto 8 del Considerato in diritto). La regola di
diritto, affermata anche di recente con sentenza
della seconda sezione in data 7 giugno 2011, in causa Agrati
ed altri c/ Italia, è che «Se, in linea di principio, il legislatore può
regolamentare in materia civile, mediante nuove disposizioni retroattive, i
diritti derivanti da leggi già vigenti, il principio della preminenza del
diritto e la nozione di equo processo sancito dall’articolo 6 ostano, salvo che
per ragioni imperative d’interesse generale, all’ingerenza del legislatore
nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare la risoluzione
di una controversia. L’esigenza della parità delle armi comporta l’obbligo di
offrire ad ogni parte una ragionevole possibilità di presentare il suo caso, in
condizioni che non comportino un sostanziale svantaggio rispetto alla
controparte».
Anche secondo la detta regola, dunque,
sussiste lo spazio per un intervento del legislatore con efficacia retroattiva
(fermi i limiti di cui all’art. 25 Cost.). Diversamente, se ogni intervento del
genere fosse considerato come indebita ingerenza allo scopo d’influenzare la
risoluzione di una controversia, la regola stessa sarebbe destinata a rimanere
una mera enunciazione, priva di significato concreto.
Nel caso in esame, la norma censurata
non è illegittima sulla base dei rilievi in precedenza svolti. In particolare,
si deve qui ribadire che essa: a) ha affermato un principio già presente
nell’ordinamento per gli operai agricoli a tempo determinato, sia pure
limitatamente alla liquidazione delle prestazioni temporanee (art. 45, comma
21, della legge n. 144 del 1999); b) ha enucleato una delle possibili opzioni
ermeneutiche dell’originario testo normativo; c) ha superato una situazione di
oggettiva incertezza di tale testo, evidenziata dai diversi indirizzi
interpretativi (di cui sopra si è dato conto); d) non ha inciso su situazioni
giuridiche definitivamente acquisite, non ravvisabili in mancanza di una
consolidata giurisprudenza dei giudici nazionali.
Non è sostenibile, dunque, che la
disposizione de qua abbia inteso
realizzare una illecita ingerenza del legislatore nell’amministrazione della
giustizia, allo scopo d’influenzare la risoluzione di controversie. Essa, in
realtà, ha fatto propria una soluzione già individuata dalla più recente
giurisprudenza di legittimità, nell’esercizio di un potere discrezionale in via
di principio spettante al legislatore e nel quale non è dato ravvisare profili
di irragionevolezza. La finalità di superare un conclamato contrasto di
giurisprudenza, essendo diretta a perseguire un obiettivo d’indubbio interesse
generale qual è la certezza del diritto, è configurabile come ragione idonea a
giustificare l’intervento interpretativo del legislatore.
Pertanto, il denunciato contrasto tra la
norma censurata e l’art. 6 CEDU, con violazione dell’art. 117, primo comma,
Cost., deve essere escluso.
Del pari, va esclusa l’asserita
violazione dell’art. 111, primo e secondo comma, Cost. In particolare, non è
violato il principio della parità delle parti nel processo. Infatti, come si è
osservato, il legislatore ha individuato una delle possibili opzioni
interpretative della norma, per garantire la certezza applicativa del sistema
evitando ulteriori contenziosi, e non con lo scopo d’interferire su quelli in
corso, peraltro già soggetti al nuovo orientamento della giurisprudenza di
legittimità conforme alla disposizione interpretativa.
Infine, il rimettente prospetta una
«possibile violazione» dell’art. 117, primo comma, Cost., «per violazione
dell’art. 14 della CEDU che vieta discriminazioni per l’origine sociale e per
la ricchezza nell’ambito di applicazione della convenzione». La norma censurata
sarebbe intervenuta contro una sola categoria di soggetti appartenenti a
settori deboli della società.
Tuttavia il Tribunale non chiarisce i
motivi di una simile valutazione, ravvisa una discriminazione tra i precari
dell’agricoltura e «il resto del precariato», senza farsi carico di individuare
posizioni comparabili e almeno tendenzialmente omogenee e non spiega le ragioni
sulla cui base ha ritenuto che la contribuzione degli operai agricoli non sia
correlata al salario reale per l’equiparazione, operata dalla norma censurata,
tra operai agricoli a tempo determinato e a tempo indeterminato. Questo
profilo, dunque, per il suo carattere generico non può trovare ingresso.
per
questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
a) dichiara
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma
5, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2010),
sollevate, in riferimento agli articoli 38, secondo comma, e 53 della
Costituzione, dal Tribunale di Rossano, in funzione di giudice del lavoro, con
l’ordinanza indicata in epigrafe;
b) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 5,
della detta legge 23 dicembre 2009, n. 191, sollevate, in riferimento agli
articoli 3, 111, primo e secondo comma, 117, primo comma, Cost., in relazione
agli artt. 6 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal
Tribunale di Rossano, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza
indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19
settembre 2011.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 settembre 2011.