SENTENZA N. 227
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Sabino CASSESE
Presidente
- Giuseppe TESAURO Giudice
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 1, commi 774 e 776, della legge
27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), promosso dalla Corte dei
conti, sezione giurisdizionale d’appello per la Regione siciliana, nel
procedimento vertente tra C.C.I. e l’INPS con ordinanza
del 29 ottobre 2013, iscritta al n. 272 del registro ordinanze 2013, pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale,
dell’anno 2013.
Visti gli atti di costituzione di C.C.I. e dell’INPS,
nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica dell’8 luglio 2014 il Giudice
relatore Alessandro Criscuolo;
uditi gli avvocati Lelio Placidi per C.C.I., Filippo
Mangiapane per l’INPS e l’avvocato dello Stato Vincenzo Rago
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 29 ottobre 2013 (r.o. 272 del 2013), la Corte dei conti, sezione
giurisdizionale d’appello per la Regione siciliana, ha sollevato – in
riferimento all’art.
117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti «CEDU») e all’art. 1 del Protocollo
addizionale, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in
particolare con la sentenza 7 giugno
2011, emessa in causa Agrati ed altri contro Italia
– questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 774 e 776, della
legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007).
Il Collegio rimettente riferisce che,
con sentenza n. 2605 del 2012, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per
la Regione siciliana, giudice unico delle pensioni, ha respinto due ricorsi
riuniti, proposti da Z.G. e finalizzati, l’uno, ad ottenere la riliquidazione
della pensione di reversibilità del defunto coniuge C.C.A., deceduto il 9 novembre
2002, in pensione dall’11 novembre 1975, secondo il meccanismo di cui all’art.
15, comma 5, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione
della finanza pubblica), e non – come invece accaduto – secondo quello
dell’art. 1, comma 41, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema
pensionistico obbligatorio e complementare); e l’altro, ad impugnare una nota
del dicembre 2006, con la quale la predetta pensione era stata rideterminata in
conformità a quanto previsto dalla tabella "F” allegata alla legge n. 335 del
1995.
La rimettente prosegue osservando che la
predetta sentenza è stata impugnata dalla signora C.C.I., nella qualità di
procuratrice genitoriale della madre Z.E., la quale ha addotto le seguenti
censure: 1) con riferimento al ricorso relativo alla riliquidazione secondo il
meccanismo di cui all’art. 15, comma 5, della legge n. 724 del 1994, la
violazione dell’art. 6 della CEDU e dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla
Convenzione; 2) in relazione al ricorso concernente la tabella "F”, l’omessa
pronuncia sulla domanda di irripetibilità delle somme percepite in buona fede.
La parte privata ha, dunque, chiesto
l’accoglimento dei ricorsi, con riconoscimento del suo diritto alla
riliquidazione del trattamento pensionistico di reversibilità secondo il
meccanismo di cui all’art. 15, comma 5, della legge n. 724 del 1994 a decorrere
dalla data di decesso del coniuge, a vita, e, in via subordinata, fino al
dicembre 2006, oltre accessori di legge; per quanto riguarda il secondo ricorso,
ha chiesto la declaratoria di irripetibilità delle somme riscosse in buona
fede.
Con memoria del 31 dicembre 2013 si è
costituito in giudizio l’Istituto nazionale della previdenza sociale (d’ora in
avanti «INPS»), chiedendo il rigetto dei gravami.
Ciò premesso in fatto, la Corte
rimettente precisa che la questione sottoposta al suo giudizio riguarda la
richiesta della vedova di un ex dipendente pubblico, in quiescenza da data
anteriore al 1° gennaio 1995 e deceduto in data successiva, di ottenere la
riliquidazione della pensione di reversibilità ai sensi dell’art. 15, comma 5,
della legge n. 724 del 1994, nella misura piena, in applicazione dell’art. 2
della legge 27 maggio 1959, n. 324 (Miglioramenti economici al personale
statale in attività ed in quiescenza), giacché avente causa da un trattamento
diretto liquidato in data anteriore al 1° gennaio 1995, e non, invece, nella
misura del sessanta per cento del trattamento goduto dal dante causa, come
invece ha provveduto a liquidare l’INPS.
Al riguardo, la rimettente riferisce
come sia noto che, a far data dalla sentenza n. 8/2002/QM delle sezioni riunite
della Corte dei conti, si sia formata una giurisprudenza «pressoché
monolitica», nel senso di ritenere che, in ipotesi di decesso del pensionato, titolare
di trattamento di quiescenza liquidato prima del 1° gennaio 1995, il
conseguente trattamento di reversibilità dovesse essere, in ogni caso,
liquidato secondo le norme dettate dal predetto art. 15, comma 5, della legge
n. 724 del 1994, indipendentemente dalla data del decesso medesimo.
Sennonché, successivamente, con i commi
774 e 776 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, il legislatore ha disposto
che «L’estensione della disciplina del trattamento pensionistico a favore dei
superstiti di assicurato e pensionato vigente nell’ambito del regime
dell’assicurazione generale obbligatoria a tutte le forme esclusive e
sostitutive di detto regime prevista dall’art. 1, comma 42 [recte:
41], della legge 8 agosto 1995, n. 335, si interpreta nel senso che per le
pensioni di reversibilità sorte a decorrere dall’entrata in vigore della legge
8 agosto 1995, n. 335 indipendentemente dalla data di decorrenza della pensione
diretta, l’indennità integrativa speciale già in godimento da parte del dante
causa, parte integrante del complessivo trattamento pensionistico percepito,
sia attribuita nella misura percentuale prevista per il trattamento di
reversibilità, stabilendo nel contempo che sia abrogato l’art. 15, comma 5,
della legge 23 dicembre 1994, n. 724».
La rimettente aggiunge che i giudici di
merito non hanno ritenuto di recepire il nuovo orientamento del legislatore,
sollevando al riguardo questioni di legittimità costituzionale della nuova
disciplina. La Corte costituzionale, però, con sentenza n. 74 del
2008 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 774, della legge n. 296 del 2006, in riferimento all’art. 3
Cost.
Nell’attuale atto di appello la parte
privata torna ad invocare la violazione dell’art. 6 della CEDU e dell’art. 1
del Protocollo addizionale – già prospettata in primo grado e risolta
negativamente dal giudice – e chiede che il ricorso sia deciso in conformità ai
principi enunciati nella sentenza emessa
dalla Corte EDU, nel ricorso sul caso Agrati ed altri
contro Italia, il 7 giugno 2011.
Il Collegio osserva come unico strumento
per poter valorizzare la CEDU sia quello di sollevare la questione di
legittimità costituzionale della norma nazionale che si assume essere in
contrasto con la Convenzione, per violazione dell’art. 117 Cost., come
affermato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007.
Ciò premesso, la rimettente riferisce
che nel ricorso Agrati ed altri contro l’Italia, la
Corte EDU ha constatato una duplice violazione. In primo luogo, l’intervento
legislativo, che decideva in via definitiva e in modo retroattivo sul merito
della controversia pendente davanti ai giudici interni tra i ricorrenti e lo
Stato, non era giustificato da ragioni imperative di interesse generale e vi
era, quindi, violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione.
In secondo luogo, i ricorrenti
beneficiavano, prima dell’intervento della legge finanziaria 2007, di un
interesse patrimoniale che costituiva, se non un credito nei confronti della
parte avversa, per lo meno una «legittima aspettativa» di potere ottenere il
pagamento delle somme controverse.
Ai sensi dell’art. 1 del Protocollo
addizionale, tale aspettativa costituiva un «bene».
La Corte EDU ha, poi, affermato che l’adozione
dell’art. 1 della legge finanziaria 2007 ha imposto ai ricorrenti un «onere
anomalo ed esorbitante» e che il pregiudizio arrecato ai loro beni è stato
talmente sproporzionato da alterare il giusto equilibrio tra le esigenze
dell’interesse generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali degli
individui.
La Corte ha, inoltre, osservato che il
principio sotteso all’attribuzione dell’equa riparazione è ben consolidato: per
quanto possibile, è necessario porre l’interessato in una situazione corrispondente
a quella in cui si troverebbe se la violazione della Convenzione non fosse
avvenuta. Sono richiamate alcune sentenze della Corte europea.
Ancora, la stessa Corte europea ha
sottolineato come, nel caso in esame, la giurisprudenza della Corte di cassazione
fosse, prima dell’adozione della legge controversa, favorevole alla posizione
dei ricorrenti. Se non si fosse verificata nessuna violazione della
Convenzione, la situazione di costoro sarebbe stata verosimilmente diversa.
La Corte europea, quindi, deduce che la
violazione della Convenzione è suscettibile di avere causato un danno materiale
ai ricorrenti.
In sintesi, con la sentenza in esame è
stato affermato che, benché non sia precluso al legislatore di disciplinare,
mediante nuove disposizioni retroattive, diritti derivanti da leggi in vigore,
il principio di certezza del diritto e la nozione di processo equo contenuti
nell’art. 6 della Convenzione impediscono, tranne che per impellenti motivi di
interesse generale, ogni ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione
della giustizia, al fine di influire sulla conclusione giudiziaria di una lite.
Nel caso di specie, lo Stato italiano
avrebbe violato l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, essendo intervenuto
con una norma ad hoc al fine di assicurarsi un esito favorevole nei giudizi di
cui era parte.
Ad avviso della Corte EDU, l’ingerenza
nel diritto al rispetto dei beni deve garantire un giusto equilibrio tra le
esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia
dei diritti fondamentali dell’individuo; deve, altresì, esistere un ragionevole
rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito da
qualsiasi misura privativa della proprietà.
Nel caso di specie, l’adozione della
legge di interpretazione autentica, avendo privato in via definitiva i
ricorrenti della possibilità di ottenere il riconoscimento dell’anzianità di
servizio pregressa, costituirebbe un attentato sproporzionato ai loro beni,
spezzando il giusto equilibrio tra le esigenze di interesse generale e la
salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo.
Il Collegio rimettente dà, poi, atto che
alla predetta pronuncia la Corte europea è pervenuta benché, in quella fattispecie,
la Corte costituzionale avesse già esaminato la vicenda ritenendo la norma
sopravvenuta conforme sia alla Costituzione, sia alla CEDU.
Tutto ciò premesso, il Collegio
rimettente ritiene che la questione sottoposta al suo esame ripercorra puntualmente
la fattispecie già esaminata dalla Corte europea con riferimento ad altra
normativa.
Nella specie, si tratterebbe del diritto
alla riliquidazione della pensione di reversibilità che, a far data dalla
sentenza n. 8/2002/QM delle sezioni riunite della Corte dei conti, avveniva,
per le pensioni dirette con decorrenza anteriore al 1° gennaio 1995, con le
modalità di cui all’art. 15, comma 5, della legge n. 724 del 1994,
indipendentemente dalla data del decesso del dante causa.
Una giurisprudenza già ampiamente
maggioritaria che, a seguito della citata pronuncia delle sezioni riunite,
sarebbe divenuta «praticamente monolitica».
Sennonché, successivamente, «a ben
quattro anni di distanza, con i commi 774 e 776 dell’art. 1 della legge n. 296
del 2006, il legislatore ha disposto che l’estensione della disciplina del
trattamento pensionistico a favore dei superstiti di assicurato e pensionato
vigente nell’ambito del regime dell’assicurazione generale obbligatoria a tutte
le forme esclusive e sostitutive di detto regime, prevista dall’art. 1, comma
42 [recte: 41], della legge 8 agosto 1995, n. 335, si
interpretasse nel senso che per le pensioni di reversibilità sorte a decorrere
dall’entrata in vigore della legge n. 335 del 1995, indipendentemente dalla
data di decorrenza della pensione diretta, l’indennità integrativa speciale già
in godimento da parte del dante causa, parte integrante del complessivo
trattamento pensionistico percepito, fosse attribuita nella misura percentuale
prevista per il trattamento di reversibilità, stabilendo nel contempo
l’abrogazione dell’art. 15, comma 5, della legge 23 dicembre 1994 n. 724».
Qualora non ci fosse stato tale
intervento legislativo, quindi, tutti coloro che a quella data – come l’odierna
appellante – avevano in corso un contenzioso sul punto, sicuramente avrebbero
visto accolto il loro ricorso.
La normativa sopravvenuta, invece,
avrebbe determinato il rigetto della domanda, con un danno non trascurabile in
relazione alla condizione di pensionato di tutti gli interessati.
L’intervento del legislatore, peraltro,
sarebbe non idoneo, nel caso di specie, a garantire un giusto equilibrio tra le
esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della
salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo, limitandosi a falcidiare
una posizione giuridica economica che, alla luce del diritto vivente scaturente
dall’interpretazione giurisprudenziale, apparteneva al patrimonio degli
interessati, senza che fossero evidenziati gli ingenti e preminenti interessi
generali da salvaguardare, anche alla luce del fatto che, in ogni caso, la
fattispecie era, fino a quel momento, assai limitata dal punto di vista
quantitativo e, comunque, tale da non potere certamente attentare agli
equilibri finanziari di bilancio nazionali, tant’è che il legislatore,
nonostante fosse consapevole del pacifico orientamento giurisprudenziale in
essere dal 2002, ha atteso fino al 2006 per introdurre l’intervento correttivo.
Ad avviso della rimettente, tale
intervento non sarebbe neppure assistito da un ragionevole rapporto di
proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito, restando
indimostrati gli apprezzabili effetti contenitivi della spesa pubblica nel
settore previdenziale che, per altro verso, si sarebbero potuti conseguire solo
intervenendo innovativamente sulle future pensioni di reversibilità, senza
intaccare le limitate prestazioni già maturate a quella data e, quindi, senza
ricorrere ad una interpretazione autentica e ad un correlato effetto
retroattivo.
La Corte dei conti prosegue osservando
come, nel caso di specie, e in quello già oggetto di esame da parte della Corte
europea, sopra richiamato, l’adozione della legge di interpretazione autentica,
avendo privato in via definitiva i ricorrenti della possibilità di ottenere il
riconoscimento del diritto alla più favorevole liquidazione della pensione di
reversibilità, costituisca uno sproporzionato attentato ai loro beni, spezzando
il giusto equilibrio tra le esigenze di interesse generale e la salvaguardia
dei diritti fondamentali dell’individuo.
Ad avviso della Corte rimettente,
dunque, i commi 774 e 776 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, nella parte
in cui incidono sui giudizi pendenti alla data della loro entrata in vigore, si
porrebbero in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione
all’art. 6 della CEDU e all’art. 1 del Protocollo addizionale.
Il Collegio rimettente non ignora che i
detti commi sono già stati scrutinati da questa Corte che, con sentenza n. 74 del
2008, ha dichiarato l’insussistenza del contrasto con i principi di
ragionevolezza, di tutela del legittimo affidamento e di certezza delle
situazioni giuridiche.
Del pari il rimettente dà atto che questa
stessa Corte, con sentenza
n. 1 del 2011, proprio in riferimento alla normativa qui in discussione, ha
evidenziato, relativamente all’applicazione, da parte della Corte di Strasburgo,
dell’art. 6 della CEDU, in relazione alle norme nazionali interpretative
concernenti disposizioni oggetto di procedimenti nei quali è parte lo Stato,
che la legittimità di tali interventi è stata riconosciuta: 1) in presenza di
"ragioni storiche epocali”, come nel caso della riunificazione tedesca,
unitamente alla considerazione «della sussistenza effettiva di un sistema che
aveva garantito alle parti, che contestavano le modalità del riassetto,
l’accesso a, e lo svolgimento di, un processo equo e garantito» (caso Forrer-Niederthal contro Germania, sentenza del 20 febbraio
2003); 2) per «ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria
volontà del legislatore», al fine di «porre rimedio ad una imperfezione tecnica
della legge interpretata»; (sono richiamate altre sentenze della Corte
europea).
Alla stregua di quanto evidenziato nella
sentenza n. 311
del 2009, i principi in materia richiamati dalla giurisprudenza della Corte
europea, ricorda il rimettente, «costituiscono espressione di quegli stessi
principi di uguaglianza, in particolare sotto il profilo della parità delle
armi nel processo, ragionevolezza, tutela del legittimo affidamento e della
certezza delle situazioni giuridiche», che questa Corte ha escluso siano stati
vulnerati dalla norma censurata.
In quell’occasione fu anche aggiunto che
l’identificazione dei «motivi imperativi d’interesse generale», che
suggeriscono al legislatore nazionale interventi interpretativi, è opportuno
che sia in parte lasciata agli stessi Stati contraenti, «trattandosi, tra
l’altro, degli interessi che sono alla base dell’esercizio del potere
legislativo», considerato che «le decisioni in questo campo implicano, infatti,
una valutazione sistematica di profili costituzionali, politici, economici,
amministrativi e sociali».
In tale complessiva cornice – prosegue
il giudice rimettente – questa Corte ritenne che le norme di cui ai commi 774,
775 e 776 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006 fossero effettivamente
interpretative e assumessero come referente un orientamento giurisprudenziale
presente, seppur minoritario, così da scegliere, «in definitiva, uno dei possibili
significati della norma interpretata». Inoltre, venendo in rilievo rapporti di
durata, venne esclusa la formazione di un legittimo affidamento nella loro
immutabilità, mentre d’altro canto le innovazioni apportate, che non avevano
trascurato del tutto i diritti acquisiti, avrebbero non irragionevolmente
mirato alla armonizzazione e perequazione di tutti i trattamenti pensionistici,
pubblici e privati.
La legge n. 335 del 1995, infatti,
avrebbe costituito «il primo approdo di un progressivo riavvicinamento della
pluralità dei sistemi pensionistici, con effetti strutturali sulla spesa
pubblica e sugli equilibri di bilancio, anche ai fini del rispetto degli
obblighi comunitari in tema di patto di stabilità economica finanziaria nelle
more del passaggio alla moneta unica europea».
Da qui la non fondatezza della
questione, sotto i profili di censura che evocano la lesione degli artt.117,
primo comma, Cost. e 6 della CEDU.
Le argomentazioni seguite da questa
Corte, ad avviso della rimettente, per un verso sembrerebbero postulare che la
riforma operata con la legge n. 335 del 1995 possa qualificarsi come dettata da
"ragioni storiche epocali” e, per altro, che il legislatore abbia inteso «porre
rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata».
Né l’una, né l’altra asserzione, secondo
il Collegio rimettente, darebbero effettiva contezza della realtà storica e
giuridica nella quale la norma di interpretazione autentica è andata ad
incidere.
La legge in esame sarebbe, più
modestamente, una legge di armonizzazione del sistema pensionistico che, pur
nella innegabile rilevanza sotto il profilo degli equilibri finanziari del
sistema medesimo, non potrebbe assurgere a ragione storica epocale.
Inoltre, come peraltro già chiarito,
dopo la sentenza n. 8/2002/QM delle sezioni riunite della Corte dei conti, la
giurisprudenza non avrebbe avuto più alcun dubbio sulla corretta
interpretazione delle norme che, quindi, sono state letteralmente sovvertite (a
distanza di ben quattro anni dal 2002) dall’intervento del legislatore.
Infine, osserva il giudice a quo, la
Corte costituzionale, nella sentenza sopra richiamata, non avrebbe potuto
tenere conto dell’ulteriore sviluppo, in tema di art. 6 CEDU, della
giurisprudenza della Corte EDU, nei termini sopra richiamati e contenuti nella
citata sentenza
emessa nella causa Agrati e altri contro Italia del 7
giugno 2011, specialmente con riferimento alla qualificazione
dell’aspettativa, in rapporti di durata, come "bene”, dalla cui lesione deriva
la violazione dell’art. 6 della CEDU e dell’art. 1 del Protocollo addizionale
della Convenzione medesima.
Alla luce di tali argomentazioni la
questione sarebbe, quindi, non manifestamente infondata.
La questione sarebbe, poi, rilevante
perché dalla dichiarazione di incostituzionalità della norma potrebbe derivare
un accoglimento del gravame, in linea con la giurisprudenza favorevole
all’appellante formatasi prima della norma di interpretazione autentica.
2.– Il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con atto
depositato in data 7 gennaio 2014 è intervenuto nel giudizio di legittimità
costituzionale, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non
fondata.
La difesa statale afferma che la
fattispecie in esame «concerne l’individuazione, tramite la disposizione
censurata, della data di decorrenza dell’estensione della disciplina prevista
dall’assicurazione generale obbligatoria in materia di trattamento
pensionistico di reversibilità alle altre discipline».
Il differente sistema di calcolo delle
pensioni per il settore privato e per quello pubblico si sarebbe ripercosso sul
calcolo della pensione di reversibilità, spettante al coniuge superstite in
misura percentuale rispetto alla pensione diretta del dante causa.
Nel settore privato il sessanta per
cento in favore del coniuge era calcolato sulla pensione determinata in base al
principio di onnicomprensività; nel settore pubblico, una volta determinata la
pensione diretta e calcolata su questa la misura di reversibilità spettante al
pensionato, si aggiungeva, in misura piena, l’indennità integrativa speciale.
Su tale assetto, con decorrenza dal 1°
gennaio 1995, per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, l’art. 15 della
legge n. 724 del 1994, ha previsto, al comma 3, la determinazione della
pensione spettante sulla base degli elementi retributivi assoggettati a
contribuzione, compresa l’indennità integrativa speciale; al comma 4, ha
previsto la reversibilità della pensione in base all’aliquota in vigore nel
regime generale; al comma 5, a tutela delle situazioni pregresse, ha previsto
l’applicazione del precedente regime (indennità integrativa speciale in misura
piena per le pensioni di reversibilità) alle pensioni dirette liquidate fino al
31 dicembre 1994 ed alle pensioni di reversibilità ad esse riferite.
Successivamente, il legislatore, con
l’art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995, ha esteso la disciplina del
trattamento di reversibilità del settore privato al settore pubblico, a
decorrere dal 17 agosto 1995.
Secondo la giurisprudenza della Corte
dei conti tale nuovo sistema non si applicherebbe alle pensioni di reversibilità
riferite a pensioni dirette liquidate entro il 31 dicembre 1994, per le quali
troverebbe applicazione l’art. 15, comma 5, della legge n. 724 del 1994 che
prevede la corresponsione dell’indennità integrativa speciale in misura intera,
indipendentemente dalla data della morte del dante causa.
Tutto ciò premesso, l’Avvocatura
generale dello Stato osserva come, alla luce della giurisprudenza di questa
Corte, l’intervento normativo in esame, con funzione interpretativa, e, quindi,
con efficacia retroattiva, sarebbe pienamente legittimo, perché il legislatore
avrebbe operato nei limiti fissati con le sentenze n. 170 del 2013
e n. 264 del
2012.
Con le citate decisioni e con le altre
sul medesimo argomento, questa Corte, ad avviso dell’esponente, avrebbe dato
contenuto concreto, rispetto alla normativa di volta in volta sottoposta al
vaglio di legittimità, al principio sancito dalla Corte EDU nella sentenza
del 31 maggio 2011, emessa nella causa Maggio ed altri contro Italia, in
ordine all’invocato art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, secondo cui «benché
non sia precluso al corpo legislativo di disciplinare, mediante nuove
disposizioni retroattive, diritti derivanti da leggi in vigore, il principio
della preminenza del diritto e la nozione di equo processo contenuti nel
richiamato art. 6 precludono, tranne che per impellenti motivi di interesse
generale, l’interferenza del corpo legislativo nell’amministrazione della
giustizia con il proposito di influenzare la determinazione giudiziaria di una
controversia».
Ad avviso dell’esponente, secondo quanto
affermato da questa Corte nella sentenza n. 264 del
2012 (ma in termini sarebbero anche, ex
plurimis, le sentenze n. 78 e n. 15 del 2012,
n. 236 del 2011),
il principio sancito dalla Corte EDU nella citata sentenza «risulta
sostanzialmente coincidente con i principi enunciati da questa Corte con
riguardo al divieto di retroattività della legge, che, pur costituendo valore
fondamentale di civiltà giuridica, non riceve dall’ordinamento la tutela
privilegiata di cui all’art. 25 Cost. (sentenze n. 15 del 2012,
n. 236 del 2011
e n. 393 del
2006). Il legislatore, nel rispetto di tale previsione, può emanare – come
rilevato nelle citate sentenze – disposizioni retroattive, anche di
interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata
giustificazione nella esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo
costituzionale, che costituiscono altrettanti "motivi imperativi di interesse
generale” ai sensi della giurisprudenza della Corte EDU».
Al riguardo, la difesa dello Stato
riporta ampi brani della sentenza citata, emessa in materia del tutto
assimilabile a quella oggetto del giudizio a quo, ritenendo che le
argomentazioni in essa espresse valgano anche per la decisione della presente
questione.
Parimenti, dette argomentazioni si
rinvengono, ad avviso dell’esponente, anche nella recente sentenza n. 170 del
2013, ove la pronunzia di illegittimità costituzionale si è fondata proprio
sulla carenza di interessi costituzionalmente protetti da salvaguardare con
preminenza rispetto a quello evidenziato dalla CEDU. Anche di tale decisione
sono riportate ampie parti.
Alla luce dei detti principi,
l’esponente osserva come la normativa censurata non modifichi irrazionalmente
la disciplina preesistente, utilizzando l’interpretazione autentica al di là
della funzione che le è propria, poiché è diretta a ribadire l’omogeneizzazione
dei sistemi di calcolo dei trattamenti pensionistici ai superstiti tra
dipendenti pubblici e dipendenti privati di cui alla legge n. 335 del 1995, con
effetti sul riequilibrio delle risorse di bilancio.
L’Avvocatura, ancora, ricorda che la
questione è già stata dichiarata non fondata con le sentenze n. 74 del 2008
e n. 1 del 2011;
in particolare di quest’ultima è riportato un ampio stralcio.
Con le disposizioni censurate e già
scrutinate da questa Corte il legislatore avrebbe inteso realizzare la
necessaria "integrazione delle tutele” tramite una valutazione "sistemica e non
frazionata” dei diritti coinvolti dalla norma, effettuando il necessario
bilanciamento in modo da assicurare la "massima espansione delle garanzie” di
tutti i diritti e i principi rilevanti, costituzionali e sovranazionali,
complessivamente considerati, che sempre si trovano in rapporto di integrazione
reciproca.
Alle luce delle esposte argomentazioni,
l’Avvocatura afferma, peraltro, che la questione oltre ad essere non fondata
sarebbe, comunque, inammissibile in quanto non adduce nuovi argomenti che
possano giustificare, per la terza volta, la rimessione della questione innanzi
alla Corte costituzionale.
Né elementi di novità possono essere
tratti dalla sentenza
della Corte EDU sul caso Agrati, richiamata
nell’ordinanza di rimessione, atteso che in questa pronunzia la Corte non fa
altro che confermare il suo orientamento già considerato nella giurisprudenza costituzionale
sopra menzionata.
Infine, a completamento delle
osservazioni esposte, l’Avvocatura riporta alcuni brani di sentenze della Corte
costituzionale in relazione alle norme contenute in leggi di interpretazione
autentica (in particolare, sono evocate le sentenze n. 234 del 2007;
n. 274, n. 135 e n. 39 del 2006
e n. 525 del
2000).
Al riguardo, la difesa dello Stato
osserva come il testo originario della normativa interpretata dalla
disposizione censurata appaia congruo rispetto a detta interpretazione e,
comunque, la disciplina che ne deriva si presti a conciliare adeguatamente i
contrapposti interessi rappresentati – da un lato – dall’esigenza di certezza del
diritto del privato e dal legittimo affidamento riposto dal medesimo in un
determinato assetto legislativo e – dall’altro – dall’interesse dello Stato
alla definitività ed alla certezza delle erogazioni di spesa pubblica da
sostenere.
A tale ultimo riguardo, l’Avvocatura
pone in rilievo gli oneri finanziari, al momento non quantificabili, ma
sicuramente di ingente portata, che deriverebbero da una eventuale pronunzia di
illegittimità della disposizione censurata e dal conseguente ampliamento della
sfera dei soggetti aventi diritto alla corresponsione del trattamento
pensionistico maggiorato, in seguito all’applicazione della disciplina invocata
dalla parte privata nel giudizio a quo, ovvero l’art. 15, comma 5, della legge
n. 724 del 1994, espressamente abrogato dalla disposizione oggetto di censura.
Peraltro, la questione di legittimità
sarebbe inammissibile, anche perché comporterebbe l’applicazione di una norma
abrogata e non più applicabile, quanto meno dal momento dell’entrata in vigore
della legge n. 296 del 2006, con un intervento di portata additiva e
generalizzata di questa Corte per il quale non è neppure quantificabile
un’adeguata copertura finanziaria; (in tal senso sono evocate le sentenze n. 5 del 2000 e
n. 244 del 1995).
3.– Con atto depositato in data 20
dicembre 2013, si è costituita in giudizio la parte privata C.C.I., quale
procuratrice della madre Z.G., al fine di sostenere le argomentazioni del
giudice rimettente in ordine alla fondatezza della questione di legittimità
costituzionale.
La parte privata pone in rilievo che in
primo ed in secondo grado era stato rilevato il contrasto delle disposizioni
censurate con il consolidato orientamento della Corte dei conti, in quanto
avevano previsto, a distanza di ben dodici anni dall’entrata in vigore della
legge n. 335 del 1995, che «per le pensioni di reversibilità sorte a decorrere
dall’entrata in vigore della legge 8 agosto 1995, n. 335, indipendentemente
dalla data di decorrenza della pensione diretta, l’indennità integrativa
speciale già in godimento da parte del dante causa, parte integrante del
complessivo trattamento pensionistico, è attribuita nella misura percentuale
prevista per il trattamento di reversibilità».
Inoltre, la difesa segnala che, nel
giudizio di primo grado, con memoria del 13 gennaio 2012, aveva rilevato che
sulla questione della portata retroattiva delle norme interpretative,
peggiorativa rispetto alla situazione preesistente, era intervenuta questa
Corte con le sentenze n. 228 del 2010
e n. 74 del 2008,
che hanno dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 774, delle legge finanziaria del 2007.
Ancora, la difesa della parte privata
rileva che nella predetta memoria era già stato evidenziato come, alla luce
della sentenza
emessa dalla Corte EDU, nella causa Agrati e altri
contro Italia, concernente l’art. 1 della legge 23 dicembre 2005, n. 266
(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
– legge finanziaria 2006), il quadro debba ritenersi mutato.
Ciò premesso, l’esponente osserva come,
benché sia intervenuta la sentenza n. 74 del
2008, la questione di legittimità costituzionale dei commi 774 e 776
dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, possa essere nuovamente riproposta in
riferimento alla violazione dell’art. 117 Cost., in relazione all’art. 6 della
CEDU, dal momento che lo Stato contraente, che sia parte in giudizio, non può
legiferare nella materia oggetto del processo in corso, ingerendosi così
nell’amministrazione della giustizia.
Pertanto, sarebbe violato il principio
del "giusto processo”, dal momento che non può ammettersi che una parte possa
"cambiare le carte in tavola” ed i parametri normativi del giudizio,
travolgendo le aspettative di controparte che tale giudizio ha promosso sulla
base di norme e di orientamenti giurisprudenziali diversi. Ad avviso
dell’esponente, così operando, lo Stato cessa di essere giudice terzo ed
imparziale.
Nel caso di specie, si osserva, la
giurisprudenza della Corte dei conti, formatasi anteriormente all’emanazione
della legge finanziaria 2007, aveva costantemente ritenuto non applicabile alle
pensioni dirette decorrenti prima della legge n. 335 del 1995, l’art. 1, comma
41, della legge citata. A seguito dell’intervento legislativo il diritto della
ricorrente sarebbe stato totalmente compromesso nonostante che, alla data
dell’entrata in vigore della legge n. 296 del 2006, la questione fosse ancora
sub iudice.
Alla luce di dette argomentazioni, e
riportandosi a quanto affermato dal giudice rimettente, la difesa privata
chiede a questa Corte di dichiarare la illegittimità costituzionale delle
disposizioni censurate, nella parte in cui incidono sui giudizi pendenti alla
data della loro entrata in vigore, con riferimento all’art. 117 Cost. e in
relazione all’art. 6 della CEDU e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla
Convenzione.
4.– Con atto del 31 dicembre 2013, si è
costituito in giudizio l’INPS il quale ha chiesto a questa Corte di dichiarare
l’inammissibilità della questione o l’infondatezza della stessa, riservandosi
di articolare in prosieguo le proprie deduzioni difensive.
In data 17 giugno 2014 l’Istituto ha
depositato una memoria con la quale ha chiesto alla Corte di dichiarare
inammissibile e, in subordine, non fondata la questione di legittimità
costituzionale sollevata dalla Corte dei conti.
La difesa dell’INPS, dopo aver riepilogato
le vicende del giudizio a quo e le argomentazioni del Collegio rimettente,
premette che, con le norme denunziate, il legislatore ha regolato una materia
che aveva provocato notevoli perplessità circa l’ambito applicativo, con
riferimento alla disciplina della successione delle leggi nel tempo, e che ha
alimentato un notevole contenzioso con grande varietà di soluzioni offerte
dalla giurisprudenza.
Dopo aver passato in rassegna i commi 3
e 5 dell’art. 15 della legge n. 724 del 1994 ed il comma 41 dell’art. 1 della
legge n. 335 del 1995, l’esponente si sofferma sugli orientamenti
interpretativi circa la citata normativa.
In particolare – riferisce la difesa
dell’ente – l’Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti
dell’amministrazione pubblica (INPDAP), poi l’INPS, ha sempre sostenuto che il
contenuto precettivo del citato comma 41 fosse del tutto incompatibile con la
norma transitoria di cui al comma 5 dell’art. 15 della legge n. 724 del 1994 e,
pertanto, provvedeva alla liquidazione delle pensioni di reversibilità, pur
riferite a trattamenti diretti liquidati fino al 31 dicembre 1994, ma il cui
diritto era sorto successivamente all’entrata in vigore della legge n. 335 del
1995 (17 agosto 1995), secondo le norme della riforma. Il rilevante contenzioso
radicatosi innanzi al giudice contabile ha visto contrapposte due tesi: una,
minoritaria, che riconosceva l’implicita abrogazione del comma 5 dell’art. 15
della legge n. 724 del 1994, con conseguente applicazione immediata della
innovazione introdotta dall’art. 1, comma 41, della legge di riforma; l’altra
tesi, maggioritaria, propugnava, invece, la piena compatibilità della norma
dettata dal comma 5 dell’art.15 della legge n. 724 del 1994 con i principi di
riforma.
La questione, approdata alle sezioni
riunite della Corte dei conti, è stata risolta con la sentenza n. 8/2002/QM
che, pur in contrasto con l’organo requirente che aveva espresso diverso
avviso, stabiliva che l’art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995 non aveva
alcun effetto abrogativo dell’art. 15, comma 5, della citata legge n. 724 del
1994, sicché il trattamento spettante al superstite di titolare di pensione
liquidata prima del 31 dicembre 1994 doveva essere liquidato computando
l’indennità integrativa speciale nella misura piena.
Inoltre, dalla citata sentenza delle
sezioni riunite si evincerebbe che il giudice contabile aveva affermato
l’esistenza del generale principio di affidamento circa l’aspettativa del
superstite a non vedere pregiudicato, in peggio, il trattamento già percepito
dal dante causa – l’esponente riporta, altresì, alcuni passi della sentenza di questa
Corte n. 446 del 2002, avente ad oggetto proprio l’art. 1, comma 41, della
legge 335 del 1995, ponendo in rilievo come, invece, quest’ultima abbia
affermato principi opposti; in tal senso si è espressa anche la Corte di
cassazione secondo la quale, con riferimento all’applicazione delle novità
introdotte dalla riforma di cui alla legge n. 335 del 1995 alle pensioni di
reversibilità, si è ritenuto non sussistente alcun diritto quesito e/o alcuna
tutelabile legittima aspettativa ad un trattamento previdenziale non ancora
sorto in capo al superstite (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 agosto
2008, n. 21545).
In questo quadro, l’esponente afferma
che le argomentazioni delle sezioni riunite non potevano considerarsi
risolutive.
Pertanto, è intervenuto il legislatore
con la norma interpretativa di cui al comma 774 dell’art. 1 della legge n. 296
del 2006 e con il successivo comma 776, che ha abrogato il comma 5 dell’art. 15
della legge n. 724 del 1994, determinando la piena assoggettabilità anche delle
pensioni di reversibilità riferite a pensioni dirette liquidate fino al 31
dicembre 1994 alla legge di riforma.
Ad avviso dell’esponente, dunque, le
norme rappresentano una sistemazione organica della materia e costituiscono
espressione della tendenziale reductio ad unum perseguita dal legislatore,
iniziata sin dal 1994, per uniformare la disciplina dei sistemi previdenziali
presenti nel nostro ordinamento.
Le norme all’esame, quindi, dovrebbero
essere considerate alla stregua di quelle autenticamente interpretative, ovvero
principi fondamentali di riforma dell’ordinamento economico-sociale della
Repubblica.
La difesa prosegue dando atto delle
sentenze n. 1
del 2011 e n.
74 del 2008 e pronunciatesi proprio sui commi in questione, alla luce delle
quali la questione dovrebbe essere dichiarata inammissibile, in quanto
ripropone quesiti già affrontati da questa Corte (al riguardo, sono richiamate
le ordinanze n.
449 del 1995, n.
300 del 1989 e n. 198 del 1981).
Inoltre, l’inammissibilità della
questione dovrebbe fondarsi anche sulle argomentazioni svolte nella sentenza n. 311 del
2009.
Ad avviso dell’esponente, la questione
prospettata dalla Corte dei conti sarebbe inammissibile perché prospetterebbe
meri dubbi interpretativi, derivanti dal contrasto tra le argomentazioni della
Corte di Strasburgo e quelle svolte da questa Corte; quindi, sussisterebbe il
difetto di rilevanza (sono, al riguardo, evocate le ordinanze n. 268 del 2008,
n. 118 del 2003,
n. 89 e n. 1 del 2002, n. 442 del 2001,
n. 174 del 1999
e n. 7 del 1998).
Nel merito la difesa dell’INPS chiede a
questa Corte di dichiarare non fondata la questione di legittimità
costituzionale, alla luce degli enunciati delle sentenze n. 1 del
2011 e n.
311 del 2009.
Con le disposizioni censurate il
legislatore si sarebbe, dunque, proposto di definire ed armonizzare il quadro
normativo in tema di trattamento di quiescenza spettante ai superstiti,
eliminando le precedenti differenze esistenti tra il comparto pubblico e quello
privato; avrebbe inteso garantire una generale perequazione dell’importo
spettante a titolo di indennità integrativa speciale, ricomprendendola
all’interno del complessivo trattamento di quiescenza.
Inoltre, il legislatore non avrebbe
pregiudicato i diritti acquisiti in modo definitivo, proprio perché avrebbe
inciso soltanto sulle questioni ancora pendenti, accogliendo un indirizzo
giurisprudenziale in precedenza elaborato ed avrebbe risolto una imperfezione
tecnica, raccordando la normativa transitoria, recata dall’art. 15, comma 5,
della legge n. 724 del 1994, con la sopravvenuta disciplina di ampia riforma
pensionistica, e segnatamente con quanto da essa disposto all’art. l, comma 41.
La difesa dell’INPS, poi, osserva come
la censura rivolta verso il comma 776 non sia sorretta da alcuna valida
argomentazione e che in ogni caso, come già osservato nella sentenza n. 74 del
2008, detta disposizione risponderebbe ad «una esigenza di ordine
sistematico».
Per quanto concerne le altre
argomentazioni formulate dal rimettente, l’esponente osserva come
nell’ordinanza di rimessione manchi ogni indicazione dei motivi in forza dei
quali non ricorrerebbero le pressanti questioni di ordine generale o la
necessità di riaffermare l’intento originario del legislatore, o ancora l’esigenza
di correggere la carente tecnica legislativa nel comporre la norma
interpretata, motivi che, soli, consentirebbero la violazione mediata dell’art.
117 Cost.
Con specifico riferimento alla
insussistenza della violazione del principio dell’equo processo, l’esponente,
oltre a richiamare la citata sentenza n. 311 del
2009, osserva come la norma censurata costituisca un tassello del più
generale disegno di riforma del sistema pensionistico dei dipendenti pubblici,
con previsione di progressiva equiparazione del trattamento di reversibilità
rispetto a quello previsto per i dipendenti del settore privato.
Risulterebbe, inoltre, smentito
l’assunto secondo cui l’intervento del legislatore avrebbe determinato una
modificazione peggiorativa della situazione patrimoniale dei pensionati
interessati, come dimostra la situazione venutasi a creare dopo l’intervento
delle sezioni riunite della Corte dei conti con la più volte citata sentenza n.
8/2002/QM.
Infatti, sostiene la difesa dell’INPS,
non infrequenti sarebbero stati i casi nei quali, applicando la normativa
secondo l’interpretazione fornita dalla sentenza ora citata, il pensionato, pur
vittorioso all’esito del giudizio intrapreso, si sarebbe visto paradossalmente
ridurre il trattamento di quiescenza.
L’esponente riferisce, inoltre, che
alcune sezioni territoriali della Corte dei conti – al fine di non vanificare
il riconoscimento della pretesa, con la stessa sentenza che riconosceva il
diritto alla liquidazione della indennità integrativa speciale con le norme
previgenti rispetto alla legge n. 724 del 1994, come interpretata dalla
sentenza n. 8/2002/QM, affermavano il diritto del ricorrente alla stessa in
forma separata ed in misura intera, oltre al diritto alla liquidazione, ma
della sola voce pensione, secondo l’aliquota del sessanta per cento, introdotta
dal comma 4 della legge n. 724 del 1994, e non secondo l’aliquota
effettivamente spettante secondo le norme applicate, ovvero il cinquanta per
cento, con ciò inaugurando una via interpretativa palesemente contra legem.
Altre sezioni territoriali, poi,
avrebbero riconosciuto il conglobamento della indennità integrativa speciale,
secondo la legge n. 724 del 1994, ma applicandola nella misura intera, con ciò,
di fatto, eludendo il disposto del comma 41 dell’art. l della legge n. 335 del
1995 (è richiamata la sentenza Corte della dei conti – sezione Lazio – n. 2574
del 2005).
L’intervento del legislatore sarebbe
stato, dunque, non solo opportuno, ma anche necessario, sia per consentire la
compiuta applicazione dei principi di riforma economico-sociale dettati già nel
1995, sia per ristabilire certezza del diritto in una materia che, per i
delicati rilievi sociali che involge e per gli importanti riflessi sugli
equilibri di bilancio, mal tollera soluzioni disorganiche, tendenzialmente
destinate ad aggravarsi e in potenza atte a ripercuotersi anche su altri
istituti dell’ordinamento previdenziale di pertinenza, aggravando il rischio di
lesione del principio di parità di trattamento che la pubblica amministrazione
deve invece garantire (il riferimento è all’ampia casistica relativa al
conferimento di più indennità integrative speciali su plurimi trattamenti
pensionistici).
Pertanto, ad avviso della difesa
dell’INPS, non vi sarebbe alcun elemento che induca a ritenere la disposizione
nazionale esclusivamente diretta ad influire sulla soluzione delle controversie
in corso; essa, inoltre, non realizzerebbe una modifica in pejus
di una situazione patrimoniale già acquisita in precedenza, visto che la legge
interpretativa garantirebbe, in ogni caso, il trattamento economico già goduto.
Attraverso le norme censurate, il
legislatore non avrebbe travalicato i limiti previsti dalla Convenzione
europea.
Considerato in diritto
1.– La Corte dei conti, sezione
giurisdizionale d’appello per la Regione siciliana, con ordinanza del 29
ottobre 2013 (r.o. n. 272 del 2013), ha sollevato
questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 774 e 776, della
legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), «nella parte in
cui incidono sui giudizi pendenti alla data della loro entrata in vigore, con riferimento
all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali (CEDU), e all’art. 1, del protocollo 1, della
Convenzione medesima, per violazione dell’art. 117 Cost., nei sensi di cui in
motivazione».
La Corte rimettente ritiene che le norme
censurate, nella parte in cui dispongono che «L’estensione della disciplina del
trattamento pensionistico a favore dei superstiti di assicurato e pensionato
vigente nell’ambito del regime dell’assicurazione generale obbligatoria a tutte
le forme esclusive e sostitutive di detto regime prevista dall’articolo 1,
comma 41, della legge 8 agosto 1995, n. 335, si interpreta nel senso che per le
pensioni di reversibilità sorte a decorrere dall’entrata in vigore della legge
8 agosto 1995, n. 335, indipendentemente dalla data di decorrenza della
pensione diretta, l’indennità integrativa speciale già in godimento da parte
del dante causa, parte integrante del complessivo trattamento pensionistico
percepito, è attribuita nella misura percentuale prevista per il trattamento di
reversibilità» (art. 1, comma 774); e che «È abrogato l’art. 15, comma 5, della
legge 23 dicembre 1994, n. 724» (art. 1, comma 776), violerebbero l’art. 117,
primo comma, della Costituzione, perché dette disposizioni, in assenza di
«motivi imperativi d’interesse generale» e di «un ragionevole rapporto di
proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito, restando
indimostrati gli apprezzabili effetti contenitivi della spesa pubblica nel
settore previdenziale», intervengono sui giudizi in corso di cui è parte lo
Stato ed assicurano a quest’ultimo l’esito favorevole delle controversie, in
quanto privano i ricorrenti della possibilità di ottenere il riconoscimento –
come finora accaduto secondo il consolidato diritto vivente – della più
favorevole liquidazione della pensione di reversibilità, così ponendosi in
contrasto con il principio di certezza del diritto e dell’equo processo, di cui
all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti «CEDU») e
all’art. 1 del Protocollo addizionale, come interpretati dalla Corte europea
dei diritti dell’uomo, in particolare con la sentenza del 7
giugno 2011, emessa in causa Agrati ed altri contro
Italia.
2.– La questione è manifestamente
infondata.
3.– Essa, come risulta dal petitum formulato dal giudice a quo, concerne «la
legittimità costituzionale dei commi 774 e 776 dell’art. 1 della legge n. 296
del 2006, nella parte in cui incidono sui giudizi pendenti alla data della loro
entrata in vigore, con riferimento all’art. 6 della CEDU e all’art. 1 del
protocollo 1 della Convenzione medesima, per violazione dell’art. 117 Cost.,
nei sensi di cui in motivazione».
Pertanto, la norma impugnata è l’art. 1,
commi 774 e 776, della citata legge n. 296 del 2006; il parametro
costituzionale è l’art. 117, primo comma, Cost.; la normativa interposta (ex multis,
sentenze n. 78
del 2012; n.
349 e n. 348
del 2007) è costituita dall’art. 6 della CEDU e dall’art. 1 del Protocollo
addizionale alla detta Convenzione, come interpretati dalla Corte di
Strasburgo.
Così individuato il thema decidendi, si deve osservare che, come
del resto si evince dalla stessa ordinanza di rimessione, questa Corte è stata
chiamata più volte a scrutinare la legittimità costituzionale della citata
normativa, pervenendo sempre a pronunzie di non fondatezza delle questioni (ex multis, n. 1 del 2011; n. 228 del 2010
e n. 74 del 2008).
In particolare, con la sentenza n. 1 del
2011, questa Corte, dopo aver ricostruito il quadro normativo di riferimento
anche sulla scorta del percorso argomentativo seguito dalla sentenza n. 74 del
2008, ha ribadito, tra l’altro, i principi da tale pronuncia affermati e
cioè che: a) l’abrogazione – ad opera del comma 776 dell’art. 1 della legge n.
296 del 2006 – dell’art. 15, comma 5, della legge n. 724 del 1994, non poteva
considerarsi irragionevole per contraddittorietà, «giacché essa risulta
rispondente ad una esigenza di ordine sistematico imposta proprio dalle vicende
che hanno segnato la sua applicazione»; b) inoltre, «potendo il legislatore, in
sede di interpretazione autentica, modificare in modo sfavorevole, in vista del
raggiungimento di finalità perequative, la disciplina di determinati
trattamenti economici con esiti privilegiati senza per questo violare
l’affidamento nella sicurezza giuridica (sent. n. 6 del 1994
e sent. n. 282
del 2005), là dove, ovviamente l’intervento possa dirsi non irragionevole,
nella specie è da escludersi una siffatta irragionevolezza anche perché
l’assetto recato dalla norma denunciata riguarda anche il complessivo riequilibrio
delle risorse e non può, pertanto, non essere attenta alle esigenze di
bilancio».
Ciò premesso, la sentenza n. 1 del
2011 così prosegue: «venendo all’applicazione, da parte della Corte di
Strasburgo, dell’art. 6 della CEDU, in relazione alle norme nazionali
interpretative concernenti disposizioni oggetto di procedimenti nei quali è
parte lo Stato, giova rammentare – come messo già in luce dalla sentenza n. 311 del
2009 di questa Corte […] – che la legittimità di tali interventi è stata
riconosciuta: 1) in presenza di "ragioni storiche epocali”, come nel caso della
riunificazione tedesca, unitamente alla considerazione della sussistenza
effettiva di un sistema che aveva garantito alle parti, che contestavano le
modalità del riassetto, l’accesso a, e lo svolgimento di, un processo equo e
garantito» […]; 2) «per ristabilire un’interpretazione più aderente
all’originaria volontà del legislatore, al fine di porre rimedio ad una
imperfezione tecnica della legge interpretata» […]. «Alla stregua di quanto
evidenziato dalla citata sentenza n. 311 del
2009, nella vicenda da essa scrutinata, i principi in materia richiamati
dalla giurisprudenza della Corte europea costituiscono espressione di quegli
stessi principi di uguaglianza, in particolare sotto il profilo della parità
delle armi nel processo, ragionevolezza, tutela del legittimo affidamento e
della certezza delle situazioni giuridiche, che questa Corte ha escluso siano
stati vulnerati dalla norma qui censurata. Peraltro, in quell’occasione si è
anche soggiunto che l’identificazione dei "motivi imperativi d’interesse
generale”, che suggeriscono al legislatore nazionale interventi interpretativi,
è opportuno che sia in parte lasciata agli stessi Stati contraenti,
trattandosi, tra l’altro, degli interessi che sono alla base dell’esercizio del
potere legislativo, considerato che le decisioni in questo ambito implicano,
infatti, una valutazione sistematica di profili costituzionali, politici,
economici, amministrativi e sociali».
La sentenza n. 1 del
2011 aggiunge che «Nella complessiva cornice dianzi tratteggiata, deve
ritenersi che le denunciate norme di cui ai commi 774, 775 e 776 dell’art. 1
della legge 29 dicembre 2006, n. 296, sono effettivamente interpretative e
assumono come referente un orientamento giurisprudenziale presente, seppur
minoritario, così da scegliere, "in definitiva, uno dei possibili significati
della norma interpretata”. Inoltre, se si tiene presente che nella fattispecie
vengono in evidenza rapporti di durata, non può parlarsi di un legittimo
affidamento nella loro immutabilità, mentre d’altro canto si deve tenere conto
del fatto che le innovazioni che sono state apportate, e che non hanno
trascurato del tutto i diritti acquisiti, hanno non irragionevolmente mirato
alla armonizzazione e perequazione di tutti i trattamenti pensionistici,
pubblici e privati. La legge n. 335 del 1995, infatti, ha costituito il primo
approdo di un progressivo riavvicinamento della pluralità dei sistemi
pensionistici, con effetti strutturali sulla spesa pubblica e sugli equilibri
di bilancio, anche ai fini del rispetto degli obblighi comunitari in tema di
patto di stabilità economica finanziaria nelle more del passaggio alla moneta
unica europea. L’intervento legislativo ha, poi, salvaguardato i trattamenti di
miglior favore già definiti in sede di contenzioso, "con ciò garantendo non
solo la sfera del giudicato, ma anche il legittimo affidamento che su tali
trattamenti poteva dirsi ingenerato” (sentenza n. 74 del
2008)».
Infine, la sentenza n. 1 del
2011 conclude – «in modo particolare e "determinante” – come posto in
risalto anche nella sent. n. 311 del
2009 – il "processo equo” e con esso il "giusto processo” ha trovato
concretezza ed effettività anche tramite l’incidente di costituzionalità in una
duplice occasione "conclusasi con una dichiarazione di infondatezza della
questione, rispetto a parametri costituzionali coerenti con la norma
convenzionale, pienamente compatibile, così interpretata, con il quadro
costituzionale italiano”».
Come si vede, la sentenza da ultimo
citata ha scrutinato la legittimità costituzionale della stessa normativa
oggetto dell’ordinanza di rimessione, riscontrandone la compatibilità in
riferimento al parametro costituzionale evocato.
Il Collegio rimettente non ignora la sentenza n. 1 del
2011, della quale riassume le argomentazioni. Sostiene, però, che esse, per
un verso, «sembrerebbero postulare che la riforma operata con la legge n.
335/95 possa qualificarsi come dettata da "ragioni storiche epocali” e, per
altro verso, che il legislatore abbia inteso "porre rimedio ad una imperfezione
tecnica della legge interpretata”».
Ad avviso del Collegio, né l’una né
l’altra proposizione darebbero «effettiva contezza della realtà storica e
giuridica nella quale la norma di interpretazione autentica è andata ad
incidere».
La legge n. 335 del 1995 sarebbe, molto
più modestamente, una norma di armonizzazione del sistema pensionistico che,
pur nella sua innegabile rilevanza sotto il profilo degli equilibri finanziari
del sistema medesimo, non potrebbe certo assurgere a ragione storica epocale.
In secondo luogo, dopo la sentenza n.
8/2002/QM delle sezioni riunite della Corte dei conti, la giurisprudenza non
avrebbe più avuto alcun dubbio sulla corretta interpretazione delle norme che,
pertanto, sarebbero state letteralmente sovvertite (a distanza di ben quattro
anni dal 2002) dall’intervento del legislatore.
Da ultimo, questa Corte, nella sentenza
sopra richiamata, non avrebbe potuto tenere conto dell’ulteriore sviluppo, in
tema di art. 6 della CEDU, della giurisprudenza della Corte EDU, nei termini
richiamati e contenuti nella sentenza emessa
dalla stessa Corte il 7 giugno 2011 nella causa Agrati
ed altri contro l’Italia, specialmente con riferimento alla qualificazione
dell’aspettativa – in rapporti di durata – come "bene”, dalla cui lesione
quindi deriva la violazione dell’art. 6 della CEDU e dell’art. 1 del Protocollo
addizionale alla Convenzione medesima.
Queste argomentazioni non possono essere
condivise.
Invero, non è esatto affermare che la sentenza di questa
Corte n. 1 del 2011 abbia postulato che la riforma realizzata con la legge
n. 335 del 1995 sia da qualificare come dettata da «ragioni storiche epocali» o
che il legislatore abbia inteso «porre rimedio ad una imperfezione tecnica
della legge interpretata».
Senza entrare in valutazioni concernenti
la natura della suddetta riforma – che, peraltro, non sembra collocabile
nell’ottica riduttiva adottata dall’ordinanza di rimessione – si deve osservare
che la sentenza
di questa Corte da ultimo citata, dopo avere affermato che le norme
denunciate sono effettivamente interpretative, ha aggiunto che esse «assumono
come referente un orientamento giurisprudenziale presente, seppur minoritario,
così da scegliere, "in definitiva, uno dei possibili significati della norma
interpretata”» (sentenza
n. 1 del 2011, punto 7. del Considerato in diritto). Così decidendo, essa
si è ricollegata al costante orientamento giurisprudenziale, in forza del quale
il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica, non soltanto in
presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti
giurisprudenziali, ma anche «quando la scelta imposta dalla legge rientri tra
le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un
significato ascrivibile alla norma anteriore» (ex plurimis, sentenze n. 209 del 2010,
n. 24 del 2009,
n. 170 del 2008
e n. 234 del
2007).
Infine, il Collegio rimettente sostiene
che questa Corte, con la sentenza n. 1 del
2011, non avrebbe potuto tenere conto, ratione temporis, dell’ulteriore sviluppo, in
tema di art. 6 della CEDU, della giurisprudenza della Corte EDU, nei termini
contenuti nella sentenza emessa da tale organo in causa Agrati ed altri contro Italia del 7 giugno 2011,
specialmente con riferimento alla qualificazione dell’aspettativa, nei rapporti
di durata, come "bene”, dalla cui lesione deriverebbe la violazione dell’art. 6
della CEDU e dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione medesima.
Tuttavia, il giudice a quo non
chiarisce, se non con un assunto meramente assertivo, quale incidenza avrebbe
il nuovo sviluppo giurisprudenziale rispetto all’assetto normativo precedente,
e la motivazione sul punto è essenziale, specialmente ove si consideri che le
normative oggetto della sentenza di questa
Corte n. 1 del 2011 e della citata pronunzia
della Corte EDU sono differenti.
Peraltro, anche a prescindere da quanto
da ultimo affermato, si deve osservare che la Corte EDU, con la sentenza emessa
nella causa Agrati ed altri contro Italia, ha
stabilito la seguente regola di diritto: «Se in linea di principio, il
legislatore può regolamentare in materia civile, mediante nuove disposizioni
retroattive, i diritti derivanti da leggi già vigenti, il principio della
preminenza del diritto e la nozione di equo processo sancito dall’art. 6
ostano, salvo che per ragioni imperative di interesse generale, all’ingerenza
del legislatore nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare
la risoluzione di una controversia. L’esigenza della parità delle armi comporta
l’obbligo di offrire ad ogni parte una ragionevole possibilità di presentare il
suo caso, in condizioni che non comportino un sostanziale svantaggio rispetto
alla controparte».
Detto principio è già stato esaminato da
questa Corte con riferimento a norme interpretative, quindi, con efficacia
retroattiva concernenti, come in questo caso, la materia previdenziale.
Nelle sentenze n. 15 del 2012
e n. 257 del
2011, infatti, questa Corte – con riferimento a questioni di legittimità
costituzionale per certi versi analoghe a quella qui in esame – ha affermato,
in relazione alla enunciata regola di diritto, che «Anche secondo la detta
regola, dunque, sussiste lo spazio per un intervento del legislatore con
efficacia retroattiva (fermi i divieti di cui all’art 25 Cost.). Diversamente
se ogni intervento del genere fosse considerato come indebita ingerenza allo
scopo di influenzare la risoluzione di una controversia, la regola stessa
sarebbe destinata a rimanere una mera enunciazione priva di significato
concreto».
Nel caso in esame, come prima osservato,
il legislatore con la norma censurata ha scelto uno dei possibili significati
della norma interpretata, seppure ascrivibile ad un orientamento
giurisprudenziale minoritario.
Alla stregua delle considerazioni che
precedono la questione, dunque, va dichiarata nel suo complesso manifestamente
infondata, in quanto il rimettente non ha addotto nuove argomentazioni a
sostegno delle censure già esaminate da questa Corte.
per
questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 774 e 776, della legge 27
dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale – legge finanziaria 2007), sollevata dalla Corte dei conti, sezione
giurisdizionale d’appello per la Regione siciliana, in riferimento all’art.
117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione medesima, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 settembre 2014.
F.to:
Sabino CASSESE, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26
settembre 2014.