ORDINANZA N. 449
ANNO 1995
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Prof. Vincenzo CAIANIELLO, Presidente
- Avv. Mauro FERRI
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 438, 439, 440 e 442 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 9 marzo 1995 dalla Corte d'assise di Genova nel procedimento penale a carico di Scarola Antonio, iscritta al n. 327 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell'anno 1995.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 28 settembre 1995 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello.
RITENUTO che la Corte d'assise di Genova, con ordinanza dibattimentale del 9 marzo 1995 emessa nel corso di un giudizio avente ad oggetto un'imputazione di omicidio pluriaggravato, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439, 440 e 442 del codice di procedura penale, in riferimento all'art. 76 della Costituzione; che la Corte remittente premette che nel giudizio a quo l'imputato ha formulato, in termini, richiesta non assentita dal pubblico ministero di giudizio abbreviato; che il rito speciale è risultato precluso, nel caso di specie, in base agli enunciati della sentenza n. 176 del 1991 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 442, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui detta norma stabiliva la sostituzione della pena dell'ergastolo con quella della reclusione di anni trenta; che questa statuizione, anche alla luce della giurisprudenza di legittimità successivamente consolidatasi, non consente al giudice del dibattimento, all'esito di un processo per un reato astrattamente punibile con l'ergastolo, di applicare la riduzione di pena stabilita dall'art. 442, comma 2, del codice di procedura penale, neanche quando il medesimo giudice ritenga, in concreto, di applicare una pena temporanea per il riconoscimento di circostanze attenuanti ritenute prevalenti o equivalenti alla o alle circostanze aggravanti che comportavano la punibilità in astratto con la pena perpetua; che il giudice a quo richiama i numerosi interventi della Corte costituzionale con i quali è stato affidato al giudice del dibattimento il potere di accordare la riduzione di pena in tutti i casi in cui il dissenso del pubblico ministero risulti ingiustificato ovvero il diniego del giudice per le indagini preliminari alla celebrazione del rito speciale risulti, sul punto della non definibilità allo stato degli atti, erroneo; che ad avviso del remittente si pone il problema di verificare se analogo potere non debba essere riconosciuto anche nell'ipotesi, accennata, di valutazione delle circostanze del reato tale da orientare per l'applicazione, in concreto, di una pena temporanea a seguito del giudizio di comparazione; che, sempre secondo il giudice a quo, questa possibilità allo stato preclusa, come si è detto dovrebbe invece essere riconosciuta, alla luce del criterio dell'art. 2, direttiva n. 53), della legge-delega per il nuovo codice di procedura penale n. 81 del 1987, secondo cui la riduzione di un terzo della pena va riferita al reato (ritenuto in sentenza) e dunque, come recita l'art. 442, comma 2, del codice di procedura penale, (tenendo conto di tutte le circostanze); che da questo rilievo il giudice a quo fa discendere il sospetto di incostituzionalità delle norme impugnate, per violazione della delega legislativa, nella parte in cui precludono l'ammissibilità del rito speciale in base al criterio della punibilità edittale con la pena perpetua anzichè riferirsi alla concreta determinazione sanzionatoria; che inoltre il giudice del rinvio demanda a questa Corte, per l'ipotesi di accoglimento della questione sopra detta, di valutare l'eventuale declaratoria di illegittimità della diversa ma connessa norma, ricavabile dalle stesse disposizioni denunciate in combinato disposto, che preclude al giudice per le indagini preliminari la trattazione con il rito del giudizio abbreviato dei procedimenti per reati punibili in astratto con la pena dell'ergastolo, ma in concreto puniti con pena temporanea; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per una declaratoria di non fondatezza della questione.
CONSIDERATO che con la sentenza n. 176 del 1991 questa Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, dell'art. 442, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui esso stabiliva la sostituzione della pena dell'ergastolo con quella della reclusione per anni trenta, proprio in relazione al criterio di cui all'art. 2, punto 53) della legge delega n. 81 del 1987 oggi invocato dal remittente e, segnatamente, sul rilievo della delimitazione, da parte del legislatore delegante, del beneficio sostanziale conseguente al rito, ad una sola riduzione proporzionale (la diminuzione di un terzo della pena) e non anche ad un vantaggio di tipo qualitativo (la sostituzione della pena perpetua con quella temporanea); un rilievo, questo, che, ricollegato al nesso inscindibile tra giudizio abbreviato e riduzione di pena istituito appunto dal legislatore delegante, escludeva in radice il ricorso al primo una volta che non fosse possibile operare la seconda; che l'accennata indefettibile correlazione tra possibilità di accesso al giudizio abbreviato e possibilità di riduzione proporzionale della pena è stata ulteriormente più volte ribadita da questa Corte (ordd. n. 12 del 1993, n. 163 del 1992), configurandosi pertanto coerentemente la non punibilità in astratto con la pena dell'ergastolo come un presupposto di ammissibilità del rito speciale; che, rispetto a questa configurazione, non rivestono incidenza in senso contrario le pronunce di questa Corte, evocate dal remittente, con le quali si è affidato al giudice dibattimentale il potere di accordare la riduzione di pena ogni qualvolta l'accesso al giudizio abbreviato sia risultato, a posteriori, ingiustamente o comunque erroneamente negato: per il dissenso ingiustificato del pubblico ministero (sentt. n. 81 del 1991, n. 183 del 1990, n. 66 del 1990); o per errata valutazione circa la non definibilità del procedimento allo stato degli atti da parte del giudice per le indagini preliminari (sent. n. 23 del 1992); o, specificamente sul profilo che rileva, per inesatta contestazione di un titolo di reato ovvero di circostanze aggravanti tali da determinare una punibilità astratta con la pena perpetua che poi si sia rivelata inesatta (sent. n. 305 del 1993; ordd. n. 204 del 1994 e n. 163 del 1992); che, viceversa, nella prospettazione oggi all'esame della Corte non è dedotto alcun profilo di diniego arbitrario del rito, ma, al contrario, si presuppone l'esattezza di esso; che, in questa stessa prospettazione, l'esito cui si perverrebbe, a seguire il petitum del rimettente, sarebbe dunque quello di mantenere fermo il presupposto negativo di ammissibilità del giudizio (la non punibilità del reato con l'ergastolo) e al contempo di fare applicazione di una norma che disciplina l'effetto sostanziale di quello stesso giudizio, pur legittimamente non passibile di svolgimento: un esito evidentemente paradossale, che condurrebbe alla frattura di quel nesso inscindibile tra celebrazione del rito e vantaggio sostanzia le che è a fondamento dell'istituto e che è stato, come si è detto, più volte sottolineato da questa Corte; che non può condurre a diversa soluzione la dedotta formulazione della direttiva n. 53) assunta a sostegno della censura, giacchè, a parte l'improprietà della commistione letterale tra criterio di delega e norma delegata operata dall'ordinanza di rinvio, il riferimento al reato "ritenuto in sentenza" attiene sempre al modo e al momento di operatività del beneficio sostanziale di riduzione della sanzione penale, ma non anche ai presupposti del rito: è l'inoperatività in toto del meccanismo sulla pena ad escludere che da esso possa estrarsi un criterio attinente alla premessa di svolgimento del giudizio; che, inoltre, la contraddizione insita nello scenario di un giudizio non consentito ma di cui si dovrebbe fare applicazione nella sola parte degli effetti sul piano sostanziale è rivelata dalla stessa ordinanza di rinvio, nella parte in cui con essa si propone, sia pure in forma ipotetica ed eventuale, la connessa censura sul punto della preclusione, per il giudice per le indagini preliminari, alla celebrazione del rito, in presenza di una imputazione di reato comportante in astratto l'ergastolo ma "da punirsi in concreto con pena temporanea"; che quest'ultima censura ripropone dunque la tematica della attribuzione al giudice per le indagini preliminari del potere di mutare il nomen iuris del reato o di riconoscere ed applicare circostanze attenuanti e dunque "neutralizzare" le aggravanti, così da escludere in concreto l'editto di pena perpetua; che, al riguardo, questa Corte ha più volte sottolineato l'eccezionalità dell'attribuzione di un tale potere al di fuori del giudizio sul merito della regiudicanda, ed ha anzi posto in evidenza la coerenza della preclusione, sia rispetto alla configurazione dell'udienza preliminare nel nuovo processo penale sia per evitare l'opposto inconveniente di determinazioni arbitrarie e incontrollabili da parte di quel giudice, allo stato della normativa (ordd. n. 263 del 1995, n. 204 del 1994; sent. n. 305 del 1993); che, pertanto, la questione sollevata deve essere dichiarata manifestamente infondata, rappresentando la riproposizione, sia pure in relazione a diverso parametro, di quesiti già ripetutamente affrontati e risolti da questa Corte; una ripetizione, questa, indicativa peraltro del disagio degli organi giurisdizionali nella applicazione del giudizio alternativo in discorso, cui il legislatore soltanto può porre rimedio, ridisegnando l'istituto, su questo come su altri profili (cfr. sentt. nn. 318, 187 e 92 del 1992), in termini di maggiore razionalità della disciplina e così di più adeguato utilizzo di questo strumento alternativo al giudizio ordinario. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 438, 439, 440 e 442 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, dalla Corte di assise di Genova, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18/10/95.
Vincenzo CAIANIELLO, Presidente
Vincenzo CAIANIELLO, Redattore
Depositata in cancelleria il 24/10/95.