SENTENZA N. 187
ANNO 1992
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Dott. Aldo CORASANITI, Presidente
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 449 e 452 del codice di procedura penale e dell'art. 247 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), promossi con n. 3 ordinanze di diverse autorità giudiziarie, iscritte ai nn. 133, 408 e 409 del registro ordinanze 1991 e pubblicate nelle Gazzette Ufficiali della Repubblica nn. 11 e 23, prima serie speciale, dell'anno 1991.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 20 novembre 1991 il Giudice relatore Ugo Spagnoli.
Ritenuto in fatto
1.- In un procedimento per detenzione di sostanze stupefacenti instaurato con rito direttissimo innanzi al Tribunale di Milano, la difesa dell'imputato chiedeva la trasformazione in giudizio abbreviato ed il pubblico ministero prestava il proprio consenso, ma a condizione che venisse disposta una perizia sulla predetta sostanza.
Sulla premessa che tale dichiarazione, risolvendosi in una richiesta di prova non ammissibile nella fase in questione, valesse come dissenso, ma che la perizia fosse, nella specie, necessaria, "con conseguente preclusione del rito abbreviato", il Tribunale, con ordinanza del 5 dicembre 1990 (r.o. n.133/91), ha sollevato d'ufficio, in riferimento agli artt. 3 e 101 Cost., una questione di legittimità costituzionale degli artt. 449 e 452 cod. proc. pen., in quanto non prevedono, alternativamente: il primo, un obbligo del pubblico ministero di espletare prima dell'instaurazione del giudizio direttissimo gli accertamenti tecnici indispensabili per consentire all'imputato di fruire del giudizio abbreviato; ovvero - il secondo - la facoltà del pubblico ministero di udienza di prestare un consenso a tale rito condizionato all'esperimento da parte del giudice dei predetti accertamenti.
Ove ricorrano le condizioni di ammissibilità del giudizio direttissimo - osserva il Tribunale rimettente - il pubblico ministero può o espletare i suddetti accertamenti, così consentendo una decisione nel merito, o presentare direttamente l'imputato al giudice. In quest'ultimo caso, però, ove l'accertamento sia necessario, da un lato è legittimo il dissenso del pubblico ministero d'udienza al rito abbreviato, dato che costui non può contare sull'utilizzo da parte del giudice dei poteri d'indagine di cui all'art. 452, secondo comma; dall'altro, è imposta a quest'ultimo la trattazione con le forme del giudizio direttissimo ordinario.
Conseguenza di ciò è che l'imputato non può fruire dei benefici del rito abbreviato, "con palese disparità di trattamento rispetto a soggetti in situazioni analoghe".
1.1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata. A suo avviso, l'imputato non ha un "diritto" al ricorso al rito abbreviato ed il suo interesse ad ottenere la prevista riduzione di pena non può implicare che al pubblico ministero sia imposto di svolgere nella fase anteriore al giudizio un'attività superflua ai fini dell'esercizio dell'azione penale, pur se essa sia imprescindibile se considerata come elemento di prova utilizzabile nel giudizio.
Più in generale, la prospettiva in cui la questione è posta contraddirebbe sia coll'ispirazione di fondo del nuovo processo, dato che imporrebbe la completezza "probatoria" delle indagini preliminari, sia con la base pattizia del giudizio abbreviato, in quanto se il pubblico ministero fosse tenuto a svolgere ogni attività d'indagine eventualmente utilizzabile dal giudice per la decisione di merito, non potrebbe mai giustificatamente negare il proprio consenso ad esso.
Se poi si accettasse la prospettiva di un consenso condizionato all'espletamento da parte del giudice del dibattimento di determinate attività istruttorie, si configurerebbe un rito non abbreviato ma "misto", accompagnato da ingiustificati aspetti premiali per l'imputato in caso di condanna, ed il consenso sul rito si trasformerebbe in consenso su una diminuente.
2.- In esito ad un giudizio per detenzione di sostanze stupefacenti promosso e svoltosi con rito direttissimo in quanto il pubblico ministero si era opposto alla sua trasformazione in giudizio abbreviato - chiesta dagli imputati - per la ritenuta necessità di assumere deposizioni testimoniali (poi effettivamente acquisite e risultate decisive), il Tribunale di Roma, con ordinanza dell'8 gennaio 1991 (r.o. n.408/91), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 25 Cost., una questione di legittimità costituzionale dell'art. 452, secondo comma, del codice di procedura penale, "in quanto subordina l'instaurazione del giudizio abbreviato al consenso del pubblico ministero ovvero in quanto non consente al giudice di ritenere ingiustificato il suo dissenso quando la indecidibilità allo stato degli atti possa essere colmata dal meccanismo di integrazione probatoria previsto dalla predetta norma".
Dopo aver osservato che la decidibilità allo stato degli atti, posta in via generale come requisito per la procedibilità nelle forme del giudizio abbreviato, può dipendere dalla strategia processuale prescelta dal pubblico ministero - ciò che la renderebbe criterio di per sè opinabile - il giudice rimettente rileva che, peraltro, essa non condiziona la trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato.
Questa, infatti, avviene automaticamente sol che l'imputato ne faccia richiesta e il pubblico ministero vi consenta; il giudice non può rigettare la richiesta, ma può soltanto, nel caso in cui ritenga che lo stato degli atti non consenta l'immediata definizione del procedimento, avviare il meccanismo di assunzione delle prove, anche su temi nuovi oltrechè incompleti, disciplinato nel citato art. 452.
Tuttavia, e contraddittoriamente, l'indecidibilità allo stato degli atti è - a seguito della sentenza di questa Corte n. 183 del 1990 - l'unico motivo per cui il pubblico ministero può legittimamente opporsi alla trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato; con la conseguenza che, in una situazione processuale che non consenta la decisione in base alle sole risultanze delle indagini preliminari, l'organo dell'accusa si trova di fronte all'insolubile dilemma di prestare il suo consenso alla instaurazione del giudizio abbreviato rischiando di sacrificare le ragioni probatorie dell'accusa (nel caso in cui il giudice non solleciti la necessaria integrazione probatoria) ovvero di negarlo, al fine di assicurarsi l'assunzione di quelle stesse prove che, mediante l'iniziativa del giudice, potrebbero essere assunte nel giudizio abbreviato.
L'integrazione probatoria avverrà, quindi, nell'un caso, nelle forme del giudizio abbreviato e, nell'altro, in quelle del giudizio direttissimo, senza che vi sia alcun criterio legale che vincoli o guidi le scelte del pubblico ministero: e questi resterebbe, di conseguenza, incensurabile arbitro della trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato e quindi della misura della pena nella rilevante misura di un terzo.
Di qui la lamentata violazione dei principi di legalità delle pene (art.25 Cost.) e di parità di trattamento sanzionatorio, dato che nella stessa situazione sostanziale e processuale l'entità della pena varia a seconda delle scelte discrezionali del pubblico ministero e del mero nome del procedimento nel quale avviene l'acquisizione delle prove.
L'assunzione dell'indecidibilità allo stato degli atti come (unico) parametro processuale che giustifica il dissenso del pubblico ministero, farebbe poi escludere, da un lato, che le suddette violazioni possano giustificarsi con la diversità delle forme di espletamento delle prove nei due giudizi o con ragioni di economia processuale; dall'altro, che la riduzione della pena di un terzo possa essere applicata dal giudice in esito al giudizio direttissimo, dato che alla stregua della citata sentenza ciò avviene solo se l'opposizione del pubblico ministero risulta ingiustificata, mentre nella situazione qui considerata l'indecidibilità allo stato degli atti si presuppone effettivamente sussistente. Nè potrebbe ritenersi, in via interpretativa, che l'opposizione sia ingiustificata tutte le volte che l'indecidibilità allo stato degli atti può essere colmata con il meccanismo integrativo previsto dall'art. 452, dato che questo <<consente di assumere tutti "gli elementi necessari ai fini della decisione, nelle forme" (e non anche nei limiti, già di per sè normalmente sufficienti a colmare le lacune probatorie) "previste dall'art.422">> e, perciò, di superare sempre l'indecidibilità.
La riconduzione nella legalità costituzionale dell'istituto della trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato potrebbe quindi avvenire, secondo il Tribunale rimettente, solo statuendo - con una pronuncia di illegittimità - che il dissenso del pubblico ministero è ingiustificato quando l'indecidibilità allo stato degli atti è superabile col predetto meccanismo d'integrazione probatoria, ovvero che il consenso non è necessario e che quindi il giudizio abbreviato può instaurarsi in base alla sola richiesta dell'imputato: soluzione, quest'ultima, che avrebbe il vantaggio di consentire l'utilizzazione degli elementi di prova acquisiti dal pubblico ministero, di limitare le impugnazioni (art.443 cod. proc. pen.) e di evitare che la riduzione di pena venga applicata dal giudice a conclusione del dibattimento e cioè dopo una assunzione probatoria rivelatasi inutile.
3.- Con ordinanza del 18 marzo 1991 (r.o. n. 409/91), emessa nel corso di un altro procedimento penale per detenzione di sostanze stupefacenti, instaurato nelle forme del rito direttissimo (artt. 502 e segg. del cod. proc. pen. del 1930) anteriormente all'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, lo stesso Tribunale di Roma ha riproposto, nei medesimi termini e con identica motivazione, la suesposta questione di legittimità costituzionale dell'art. 452, secondo comma, del predetto codice.
Inoltre, poichè nel procedimento il pubblico ministero si era opposto alla trasformazione in giudizio abbreviato per la ritenuta necessità che venisse svolta una specifica attività istruttoria (accertamenti peritali sulla sostanza stupefacente) il giudice rimettente, facendo proprie le argomentazioni dell'organo dell'accusa, ha sollevato anche una questione di legittimità costituzionale dell'art. 247 delle disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie del nuovo cod. proc. pen..
Sulla premessa che il richiamo fatto da tale disposizione alle forme del giudizio abbreviato va riferito all'intera disciplina di tale istituto (artt. 438 e segg.), ivi compresa l'espressa esclusione della possibilità di acquisire le "sommarie informazioni ai fini della decisione" di cui all'art. 422 (art. 441, primo comma), e che ciò vale anche in caso di trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato, il Tribunale osserva che, non essendo in tale ipotesi applicabile, neanche per analogia, la norma (art. 452, secondo comma) che consente l'acquisizione di elementi di giudizio ulteriori rispetto a quelli già esistenti in atti, ne risulta una "sensibile ed ingiustificata disparità di trattamento tra i procedimenti con rito direttissimo, disciplinati dal nuovo codice, e quelli instaurati in vigenza del vecchio codice e, dopo il 24 ottobre 1989, sottoposti al regime transitorio".
Tale disparità, peraltro, ad avviso del Tribunale rimettente persisterebbe anche se il citato art. 452, secondo comma, fosse ritenuto applicabile per analogia, dato che nella specie il dissenso del pubblico ministero all'instaurazione del giudizio abbreviato era da ritenere giustificato; e perciò sarebbe rilevante anche la questione dianzi illustrata (par. 2).
3.1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nei due predetti giudizi, tramite l'Avvocatura Generale dello Stato, con memorie di identico tenore, ha chiesto che la questione sub 2) sia dichiarata infondata.
Nella fattispecie considerata dall'art. 452 cod. proc. pen. - osserva l'Avvocatura - il consenso o dissenso del pubblico ministero alla trasformazione del rito dipende solo dalla sua valutazione circa la decidibilità allo stato degli atti, e la scelta del rito presuppone solo l'accordo delle parti. Ed è proprio perchè il giudice non può opporvisi che gli è conferito in via esclusiva il potere di integrazione probatoria.
Il proprium del rito sta, cioé, nella sua natura pattizia, sicchè il giudice deve disinteressarsi del perchè l'accordo non si sia perfezionato, salvo che nell'ipotesi in cui il dissenso del pubblico ministero sia ingiustificato.
D'altra parte, la soluzione della trasformazione del rito in base alla sola richiesta dell'imputato è, secondo l'Avvocatura, assurda e la prospettiva indicata dal giudice a quo si muove sul piano inclinato che conduce al sindacato sulla scelta del rito operata dal pubblico ministero: ed infatti, a seconda che egli eserciti l'azione penale con rito direttissimo ovvero in altro modo, l'imputato può o non può essere in grado di attivare il giudizio abbreviato prescindendo dal consenso del pubblico ministero. Ancor più, la stessa attività di indagine di quest'ultimo dovrebbe essere allora oggetto di valutazione giudiziale, allo scopo di verificare, nei casi in cui il pubblico ministero abbia esercitato l'azione penale nei modi ordinari, se l'incompletezza investigativa ai fini della decisione nel merito abbia ingiustificatamente sacrificato l'aspettativa dell'imputato di vedersi giudicato con il rito abbreviato.
L'ordinanza, infine, sarebbe viziata da un errore generale di prospettiva: quello di considerare il giudizio abbreviato (e lo sconto di pena che ne consegue in caso di condanna) come un "diritto" dell'imputato, del quale in qualche modo debba farsi carico il giudice, anzichè un peculiare sviluppo processuale di un accordo tra le parti, che presuppone, tra l'altro, la concorde valutazione circa la concludenza degli atti di indagine ai fini della decisione nel merito.
Considerato in diritto
1.- Le tre ordinanze investono la medesima disposizione di legge e prospettano questioni analoghe. É opportuno, di conseguenza, disporre la riunione dei relativi giudizi.
2.- Il Tribunale di Roma dubita, innanzitutto (r.o. n. 408/91), che l'art.452, secondo comma, cod. proc. pen. in quanto prevede, da un lato, la trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato in base al solo accordo delle parti e conferisce al giudice il potere di disporre le integrazioni probatorie necessarie e, dall'altro - in base alla sentenza n.183 del 1990 di questa Corte - legittima il dissenso del pubblico ministero solo con l'indecidibilità allo stato degli atti, contrasti con gli artt. 3 e 25 Cost.. Tale parametro, infatti, lascerebbe il pubblico ministero arbitro di consentire o dissentire a seconda che confidi o meno nell'integrazione probatoria ad opera del giudice, sicchè la fruizione della riduzione di un terzo della pena - prevista per il solo giudizio abbreviato - dipenderebbe da una scelta sfornita di criterio legale, con conseguente violazione dei principi di uguaglianza e di legalità delle pene. La norma sarebbe perciò illegittima in quanto subordina l'instaurazione del giudizio abbreviato al consenso del pubblico ministero ovvero in quanto non consente al giudice di ritenere ingiustificato il suo dissenso quando la indecibilità allo stato degli atti possa essere colmata dal meccanismo di integrazione probatoria previsto dalla predetta norma.
Con una seconda ordinanza (r.o. n. 409/91), lo stesso Tribunale di Roma dubita che l'art. 247 delle disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, in quanto non consente, nei procedimenti soggetti al regime transitorio, che in caso di trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato possa operare il predetto meccanismo di integrazione probatoria (per il mancato richiamo dell'art.452 cod. proc. pen.), contrasti con l'art. 3 Cost., per la disparità di trattamento che da ciò discende tra i procedimenti, a seconda che siano stati instaurati col vecchio ovvero col nuovo rito.
Per l'ipotesi, poi, in cui il predetto art. 452 venga ritenuto applicabile per analogia nel regime transitorio, il Tribunale solleva nuovamente la questione dianzi esposta, impugnando entrambe le suddette disposizioni (artt. 452 e 247). Il Tribunale di Milano, a sua volta, dubita (r.o. n.133/91) che contrastino con gli artt. 3 e 101 Cost., in quanto precludono la trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato e perciò la possibilità di fruire della riduzione di un terzo della pena - con conseguente disparità di trattamento rispetto ad imputati in situazioni analoghe -: a) l'art. 449 cod. proc. pen., perchè non impone al pubblico ministero l'espletamento, prima dell'instaurazione del giudizio direttissimo, degli accertamenti tecnici indispensabili per il giudizio di merito, con ciò legittimando il diniego da parte del pubblico ministero di udienza del consenso al mutamento del rito; ovvero, alternativamente,: b) l'art. 452 cod. proc. pen., in quanto non prevede che detto consenso possa essere condizionato all'espletamento da parte del giudice del dibattimento dei predetti accertamenti.
3.- Con la seconda delle predette ordinanze (r.o. n. 409/91), il Tribunale di Roma solleva due distinte questioni: l'una è basata su considerazioni del pubblico ministero "che il Tribunale fa proprie" svolte nel presupposto dell'inapplicabilità dell'art. 452, secondo comma, cod. proc. pen. al regime transitorio del rito direttissimo; l'altra sviluppa un "profilo prospettato dalla difesa e condiviso dal tribunale" che si fonda sull'opposto assunto della possibilità di "applicazione analogica" dello stesso art. 452, secondo comma.
Si tratta, perciò, di due questioni prospettate in via alternativa, la cui rilevanza è basata su un quesito interpretativo - applicabilità o meno, in via analogica, dell'art. 452 al regime transitorio - che spetta allo stesso giudice a quo risolvere. Di conseguenza, alla stregua della costante giurisprudenza di questa Corte, entrambe le questioni vanno dichiarate manifestamente inammissibili.
4.- Le questioni sollevate con le due restanti ordinanze possono essere esaminate congiuntamente, perchè, prendendo le mosse da situazioni processuali simili, pongono un quesito comune, pur se diversi sono i parametri invocati e le soluzioni prospettate.
Alla base delle censure sta la disciplina del giudizio abbreviato "atipico" derivante da trasformazione del giudizio direttissimo, che si differenzia dal giudizio abbreviato ordinario, da un lato perchè viene instaurato sulla base della sola richiesta dell'imputato e del consenso del pubblico ministero, senza che il giudice possa emanare un'ordinanza di rigetto della richiesta analoga a quella prevista dall'art. 440; dall'altro, perchè il giudizio così introdotto non si svolge "allo stato degli atti", ma consente l'acquisizione di nuovi elementi probatori. Se, cioé, nel corso del giudizio, il giudice "non ritiene di poter decidere allo stato degli atti, indica alle parti temi nuovi o incompleti e provvede ad assumere gli elementi necessari ai fini della decisione, nelle forme previste dall'art.422". É però discusso, in riferimento a quest'ultimo inciso, se esso valga a delimitare l'integrazione probatoria ai soli atti specificati nell'art.422, primo comma, ovvero se, essendo richiamate le sole "forme" descritte in detto articolo, vada inteso nel senso di consentire il compimento di qualsiasi atto probatorio.
Prendendo le mosse da quest'ultima tesi, il Tribunale di Roma rileva come sia contraddittorio che l'instaurazione di un giudizio che consente una piena integrazione probatoria possa essere preclusa da un dissenso del pubblico ministero che - a seguito della citata sentenza n. 183 del 1990 - può fondarsi esclusivamente sull'indecidibilità allo stato degli atti, e cioé su un'insufficienza del quadro probatorio che è in ogni caso colmabile attraverso il suddetto meccanismo di integrazione: con la conseguenza che, potendo il pubblico ministero determinarsi a consentire o dissentire a seconda che confidi o meno nella successiva integrazione ad opera del giudice, l'instaurazione del giudizio abbreviato e la fruizione della diminuzione di pena per esso prevista dipenderebbero da una scelta discrezionale dell'organo dell'accusa, come tale lesiva dei principi di parità di trattamento e di legalità della pena.
Sulla base di tali premesse, il Tribunale di Roma prospetta l'esigenza di una correzione della disciplina in esame, articolandola su una duplice ipotesi: che, cioé, l'instaurazione del giudizio abbreviato sia consentita in base alla sola richiesta dell'imputato, eliminando la necessità del consenso su di essa del pubblico ministero; ovvero, che il dissenso di costui possa essere ritenuto dal giudice ingiustificato quando la non decidibilità allo stato degli atti su cui esso è basato possa essere colmata attraverso il meccanismo di integrazione probatoria previsto dall'art. 452.
Il Tribunale di Milano, a sua volta, muovendo sostanzialmente dalle stesse premesse (pur se meno chiaramente esplicitate), prospetta due ulteriori soluzioni del medesimo problema: nel senso, cioè, che dovrebbe o imporsi al pubblico ministero (incidendo sull'art. 449) di compiere prima dell'instaurazione del giudizio direttissimo gli accertamenti necessari ad integrare il requisito della decidibilità allo stato degli atti; ovvero (incidendo sull'art. 452), prevedersi che il consenso dell'organo dell'accusa all'instaurazione del giudizio abbreviato possa essere condizionato all'espletamento da parte del giudice dei predetti accertamenti.
5.- Pur non negando rilievo, in linea di principio, al problema della possibile incidenza sull'esperibilità del giudizio abbreviato di scelte discrezionali del pubblico ministero - tema di recente esaminato, in riferimento al giudizio abbreviato ordinario, nella sentenza n. 92 del 1992 - la Corte deve subito rilevare che il quesito sottopostole non è suscettibile di soluzione univoca. Dalle stesse prospettazioni dei giudici a quibus, infatti, risulta che ad esso potrebbero darsi ben quattro soluzioni tra loro alternative e non è da escludere che possano ipotizzarsene delle altre; ciò, avuto riguardo anche alla complessiva riconsiderazione del giudizio abbreviato che dalla citata sentenza potrebbe scaturire.
É decisivo, comunque, il rilievo che nessuna delle predette soluzioni può considerarsi costituzionalmente obbligata, sicchè si verte in materia di scelte rientranti nella discrezionalità del legislatore. Le questioni, di conseguenza, vanno dichiarate inammissibili.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 452, secondo comma, del codice di procedura penale e 247 delle disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie del medesimo codice, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, sollevate in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione dal Tribunale di Roma con ordinanza del 18 marzo 1991;
2) dichiara l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 452, secondo comma, del codice di procedura penale, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione dal Tribunale di Roma con ordinanza dell'8 gennaio 1991;
3) dichiara l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 449 e 452, secondo comma, del codice di procedura penale, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 101 della Costituzione dal Tribunale di Milano con ordinanza del 5 dicembre 1990.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13/04/92.
Aldo CORASANITI, Presidente
Ugo SPAGNOLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 22 aprile del 1992.