Sentenza n. 183 del 1990

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SENTENZA N.183

 

ANNO 1990

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 composta dai signori Giudici:

 

Dott. Francesco SAJA, Presidente

 

Prof. Giovanni CONSO

 

Prof. Ettore GALLO

 

Dott. Aldo CORASANITI

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Renato DELL'ANDRO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

ha pronunciato la seguente 

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 452, 438, primo comma, e 440, primo comma, del codice di procedura penale del 1988, in relazione all'art. 442, secondo comma, dello stesso codice, promossi con le seguenti ordinanze:

 

1) ordinanza emessa il 20 novembre 1989 dal Tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di De Angelis Viviardo, iscritta al n. 18 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell'anno 1990;

 

2) ordinanza emessa il 23 novembre 1989 dal Tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di Montaruli Davide, iscritta al n. 19 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell'anno 1990.

 

Udito nella camera di consiglio del 7 marzo 1990 il Giudice relatore Giovanni Conso.

 

Ritenuto in fatto

 

l. - Il Tribunale di Roma, ottava sezione penale, con ordinanza del 20 novembre 1989 -premesso che l'imputato citato a giudizio direttissimo aveva richiesto l'abbreviazione del rito e che il pubblico ministero aveva negato il consenso - ha sollevato, in riferimento all'art. 24, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità dell'art. 452 del codice di procedura penale del 1988, "in quanto non prevede la possibilità che l'organo giudicante possa valutare la trasformazione in rito abbreviato proposta dalla difesa nel caso di mancato consenso dei pubblico ministero", con violazione "del diritto della difesa a veder comunque valutata e decisa dal giudice la sua istanza dalla quale possono discendere conseguenze non solo processuali ma anche sostanziali di notevole rilievo", rimesse, invece, all'"insindacabile valutazione del pubblico ministero.

 

2.- Prima dell'apertura di altro dibattimento con rito direttissimo, un diverso collegio dell'ottava sezione del Tribunale di Roma, rilevato che l'imputato aveva richiesto l'abbreviazione del rito senza ottenere il consenso del pubblico ministero, ha, con ordinanza del 23 novembre 1989, sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità degli artt. 452, secondo comma, 438, primo comma, e 440, primo comma, del codice di procedura penale del 1988, "nella parte in cui i menzionati articoli del c.p.p. non prevedono che il P.M., nel negare il proprio consenso alla definizione del processo con rito abbreviato allo stato degli atti, sia tenuto a motivarlo, e nella parte in cui non é consentito al giudice di valutare le motivazioni addotte a giustificazione del dissenso stesso al fine di applicare la riduzione di pena prevista dall'art. 442, 2° co. c.p.p.".

 

Il principio di eguaglianza risulterebbe vulnerato sia per la disparità di trattamento rispetto all'istituto dell'applicazione della pena su richiesta, nel quale il dissenso é sindacabile dal giudice, sia perchè verrebbe riconosciuta al pubblico ministero una,"posizione di supremazia sull'imputato, tale da condizionare irrimediabilmente l'esercizio della funzione giurisdizionale prevista e configurata (artt. 3, 25, 101, 2° co. Cost.)".

 

Sussisterebbe, inoltre, violazione dei diritto di difesa dell'imputato "a vedere in ogni caso valutata e decisa dal giudice" un'"istanza" dalla quale possono discendere anche conseguenze di carattere sostanziale (riduzione della pena di un terzo).

 

Infine, l'insindacabilità del dissenso attribuirebbe al pubblico ministero "quel diritto potestativo alla scelta dei rito che ire quanto tale é stato già dichiarato contrario alla Costituzione dalla Corte costituzionale con sentenza 28 novembre 1969, n. 117".

 

3.- Le due ordinanze, ritualmente notificate e comunicate, sono state entrambe pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 4, prima serie speciale, del 1990.

 

In nessuno dei due giudizi si sono costituite le parti private, nè ha spiegato intervento il presidente del Consiglio dei ministri.

 

Considerato in diritto

 

1. - Con 1a prima delle due ordinanze in epigrafe il Tribunale di Roma, ottava sezione penale, sottopone al vaglio di questa Corte l'< art. 452 CPP., in relazione all'art. 24 2° comma della Costituzione, in quanto non prevede la possibilità che l'organo giudicante possa valutare la trasformazione in rito abbreviato proposta dalla difesa nel caso di mancato consenso del P.M.>.

 

La seconda ordinanza, emessa tre giorni dopo da altro collegio della stessa sezione del Tribunale di Roma, denuncia gli < artt. 452, 2° co., 438, 1° co. e 440, 1° co. C.P.P., per violazione degli artt. 3, 24, 2° co. della Costituzione, nelle parti in cui i menzionati articoli del c.p.p. non prevedono che il P.M., nel negare il proprio consenso alla definizione del processo con il rito abbreviato allo stato degli atti, sia tenuto a motivarlo, e nelle parti in cui non è consentito al giudice di valutare le motivazioni addotte a giustificazione del dissenso stesso al fine di applicare la riduzione di pena prevista dall'art. 442, 2° c. c.p.p.>.

 

Poichè da entrambe le ordinanze viene denunciato l'art. 452, secondo comma, del codice di procedura penale del 1988, i relativi giudizi possono essere riuniti e decisi con un'unica sentenza.

 

2.-Le due ordinanze di rimessione risultano emanate anteriormente all'apertura di dibattimenti promossi dal pubblico ministero con rito direttissimo ai sensi dell'art. 449, terzo comma, del nuovo codice di procedura penale: a seguito, cioé, di arresti in flagranza convalidati.

 

Nell'uno e nell'altro caso, pur essendosi l'imputato avvalso della facoltà di chiedere la trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato, espressamente conferitagli dall'art. 452, secondo comma, primo inciso, il Tribunale, di fronte al mancato consenso del pubblico ministero, avrebbe dovuto dichiarare aperto il dibattimento così da far luogo al giudizio direttissimo. Ma proprio l'essere precluso al giudice di < valutare e decidere l'istanza dell'imputato>, rendendo il pubblico ministero arbitro delle conseguenze anche di carattere sostanziale (riduzione della pena di un terzo) collegate al giudizio abbreviato, ha indotto in entrambi i casi a dubitare della legittimità costituzionale della norma che rende comunque insuperabile il dissenso immotivato del pubblico ministero alla trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato: norma ravvisata dall'una ordinanza nell'art. 452 e dall'altra nel combinato disposto degli artt. 452, secondo comma, 438, primo comma, e 440, primo comma, del nuovo codice.

 

La parziale differenza-che viene così ad emergere tra le due ordinanze quanto all'oggetto, prima ancora che quanto al petitum rispettivamente perseguito ed ai parametri rispettivamente invocati-trova il suo fondamento nel diverso modo di intendere i rapporti tra la disciplina < tipica> del giudizio abbreviato, quale dettata dagli artt. 438-442, e la disciplina < atipica> prevista per l'ipotesi di cui all'art. 452, secondo comma. La prima ordinanza, considerando tale ipotesi alla stregua di una forma pro cessuale a sè stante, prescinde da qualsiasi richiamo alla disciplina-base, mentre la seconda, incline a ravvisare in quella una specificazione di questa, coinvolge nel giudizio di legittimità anche gli artt. 438, primo comma, e 440, primo comma.

 

3. - Pur non potendosi negare che la disciplina prevista dall'art. 452, secondo comma, sia sotto più aspetti una specificazione della disciplina delineata dagli artt. 438-442, tanto da renderla oggetto di molteplici rinvii (< Si applicano le disposizioni previste dagli articoli 441 comma 2, 442 e 443>, conclude il dettato dell'art. 452, secondo comma), è altrettanto innegabile che, contrariamente a quanto parrebbe sottintendere la seconda ordinanza, i rinvii non si estendono nè all'art. 438, primo comma, nè all'art. 440, primo comma.

 

Il silenzio serbato a tale duplice proposito dall'art. 452, secondo comma, non è che il risultato dell'apposita regolamentazione cui quest'ultimo assoggetta la richiesta di giudizio abbreviato da parte dell'imputato nei confronti del quale si procede a giudizio direttissimo, il necessario consenso del pubblico ministero ed il conseguente provvedimento del giudice.

 

Vi trovano, infatti, posto non la richiesta, accompagnata dal consenso del pubblico ministero, < che il processo sia definito nell'udienza preliminare> (art. 438, primo comma), nè l'alternativa per il giudice dell'udienza preliminare di disporre < il giudizio abbreviato se ritiene che il processo possa essere definito allo stato degli atti> (art. 440, primo comma) o, altrimenti, di rigettarla, salva la possibilità di una riproposizione successiva (art. 440, terzo comma), bensì la semplice richiesta di < giudizio abbreviato>, in seguito alla quale, se < il pubblico ministero vi consente>, sempre < il giudice, prima che sia dichiarato aperto il dibattimento, dispone con ordinanza la prosecuzione del giudizio osservando le disposizioni previste per l'udienza preliminare, in quanto applicabili> (art. 452, secondo comma, primo periodo), con gli ulteriori, eventuali, poteri specificati dall'art. 452, secondo comma, secondo periodo.

 

Sotto questi profili-i soli qui ad interessare, mettendosi in discussione da parte di entrambe le ordinanze i rapporti tra pubblico ministero e giudice preposto al dibattimento nell'eventualità di un mancato consenso del primo alla richiesta dell'imputato-l'atipicità della forma di giudizio abbreviato prevista dall'art. 452, secondo comma, rispetto alla sua forma ordinaria appare incontestabile. In particolare, ai fini del requisito della rilevanza, da commisurare sempre alla concreta applicabilità nel procedimento a quo delle norme denunciate, assume un peso decisivo il fatto che il ruolo esplicato dal consenso del pubblico ministero risulta oggetto di autonoma previsione nell'art. 452, secondo comma. Anche se ciò avviene sul modello di quanto contemplato dall'art. 438, primo comma, questa disposizione non è necessariamente coinvolta nella decisione dei giudizi a quibus, e lo stesso si deve, a maggior ragione, dire per la disposizione di cui all'art. 440, primo comma: le questioni relative ad esse vanno, pertanto, dichiarate inammissibili.

 

4. -Così circoscritta-e proprio in coincidenza con il solo testo denunciato da entrambe le ordinanze, appunto l'art. 452, secondo comma, del nuovo codice di procedura penale - l'individuazione delle norme oggetto delle questioni da affrontare nel merito, con riferimento ai vari parametri costituzionali invocati, non si può non ripetere l'osservazione da cui questa Corte ha preso le mosse nella sentenza n. 66 del 1990 (n. 4 del Considerato in diritto), relativa ad altre norme incentrate sul mancato consenso del pubblico ministero al giudizio abbreviato: e cioè che i dubbi sollevati vengono a collocarsi idealmente lungo tre linee.

 

Stando all'ordinanza dalla motivazione più articolata, la prima di tali linee ha per oggetto l'art. 452, secondo comma, nella parte in cui non prevede che < il P.M., nel negare il proprio consenso alla definizione del processo con il rito abbreviato allo stato degli atti, sia tenuto a motivarlo>; la seconda ha per oggetto lo stesso comma nella parte in cui < non è consentito al giudice di valutare le motivazioni addotte a giustificazione del dissenso stesso>; la terza ha per oggetto ancora quel comma nella parte in cui, < quando all'esito dell'esame degli atti la richiesta (dell'imputato) risulti fondata>, non è consentito al giudice < di applicare la riduzione di pena prevista dall'art. 442, 2° co. c.p.p.>.

 

La progressione logica che caratterizza il passaggio dall'una all'altra delle tre linee così individuate, la prima finalizzata al raggiungimento della seconda e, di qui, al raggiungimento della terza, emerge con particolare chiarezza dall'ordinanza or ora richiamata, con la quale si richiede alla Corte di dichiarare illegittimo l'art. 438, secondo comma-oltrechè < nella parte in cui non prevede che il P.M., nel negare il proprio consenso alla definizione del processo con il rito abbreviato allo stato degli atti, sia tenuto a motivarlo>-< nella parte in cui non è consentito al giudice di valutare le motivazioni addotte a giustificazione del dissenso stesso>, e ciò < al fine di applicare la riduzione di pena prevista dall'art. 442, 2 co. c.p.p.>.

 

Altrettanto coerentemente, i parametri invocati riguardano allo stesso modo tutte le norme denunciate. Come sottolinea la stessa ordinanza, < la insindacabilità del dissenso del P.M. da parte del giudice non consente a quest'ultimo di applicare la riduzione di pena di cui all'art. 442, 2° co. c.p.p. anche quando, all'esito dell'esame degli atti, la richiesta> dell'imputato < risulti fondata>. Pretendere che il dissenso venga motivato e non renderlo suscettibile di alcuna forma di controllo ad opera del giudice significherebbe negare alla prescrizione avuta di mira ogni reale portata giuridica. Le questioni vanno, perciò, esaminate congiuntamente.

 

5. - Parametro di riferimento comune alle due ordinanze è l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, perchè, come osserva la prima ordinanza, sembra violato < il diritto della difesa a veder comunque valutata e decisa dal giudice la sua istanza dalla quale possono discendere conseguenze non solo processuali ma anche sostanziali di notevole rilievo> o, per usare le parole dell'altra ordinanza, < in quanto viola il diritto della difesa a vedere in ogni caso valutata e decisa dal giudice la istanza del richiedente: istanza dalla quale possono discendere anche le conseguenze di carattere sostanziale sopra indicate (riduzione della pena di un terzo)>.

 

In questa seconda circostanza, però, la violazione dell'art. 24 viene addotta in aggiunta (< inoltre>) alla violazione dell'art. 3 della Costituzione, a sua volta ravvisata sotto due ordini di profili. Anzitutto, per l'< ingiustificata disparità di trattamento> rispetto a < quanto accade nel caso di applicazione della pena a norma dell'art. 448 c.p.p.>; e, poi, per il < contrasto col principio costituzionale di parità di tutti i cittadini di fronte alla legge, non potendosi più riconoscere al P.M., in nessun stato e grado del procedimento, alcuna posizione di supremazia sull'imputato, tale da condizionare irrimediabilmente l'esercizio della funzione giurisdizionale come costituzionalmente prevista e configurata> dagli < artt. 3, 25, 102, 2° co. Cost.>, gli ultimi due dei quali, peraltro, non più indicati nel dispositivo, a differenza degli artt. 3 e 24, secondo comma.

 

Già sotto il primo dei due profili invocati con riferimento all'art. 3 della Costituzione, cioè quello che chiama in causa i rapporti tra giudizio abbreviato ed applicazione della pena su richiesta delle parti, i dubbi di legittimità risultano fondati.

 

6. - II giudice a quo sembra dare per scontata l'esistenza di una forte analogia tra i due procedimenti posti a raffronto. Ed infatti, solo adottando una prospettiva del genere, la disparità di trattamento che viene lamentata potrebbe dirsi priva di giustificazione e, quindi, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, cosi da comportare la necessità di estendere le soluzioni, più favorevoli all'imputato, proprie dell'applicazione della pena su richiesta (motivazione e, quindi, sindacabilità del dissenso del pubblico ministero; riconoscimento di quanto richiesto dall'imputato quando il giudice ritenga ingiustificato tale dissenso) all'altro rito.

 

Ma un discorso basato sulle analogie tra i due istituti e, quindi, volto a sottolinearne gli aspetti comuni non sarebbe sufficiente allo scopo, a causa delle innegabili differenze che, accanto alle innegabili somiglianze, emergono mettendo a confronto questi due procedimenti speciali.

 

D'altra parte, un raffronto completo non varrebbe neppure a far considerare senz'altro non irragionevoli tutte le differenze contestate dal giudice a quo: coinvolgendo, per i già evidenziati motivi di rilevanza, non tanto gli artt. 438-442, da un lato, e gli artt. 444-448, dall'altro, quanto gli artt. 451, quinto comma, e 452, secondo comma, tale raffronto viene ad intercorrere tra un giudizio abbreviato atipico, come quello conseguente alla trasformazione del giudizio direttissimo, e l'applicazione della pena su richiesta presentata dall'imputato in sede di instaurazione del giudizio direttissimo: due discipline, cioé, meno distanti fra loro delle rispettive discipline tipiche.

 

Ne discende che soltanto una valutazione estesa pure alle altre differenze e, insieme, alle analogie ravvisabili tra la fattispecie prevista dall'art. 452, secondo comma, e l'applicazione della pena su richiesta dell'imputato citato per il giudizio direttissimo può consentire di verificare se, visto l'intero quadro, l'aspetto concernente il dissenso del pubblico ministero giustifichi l'adozione, quanto a sindacabilità o no, di soluzioni differenziate tra le due discipline.

 

In termini più specificamente normativi, la differenza lamentata si sostanzia nel fatto che la prescrizione di cui all'art. 446, sesto comma (Il pubblico ministero, in caso di dissenso, deve enunciarne le ragioni), ed il conseguente dettato dell'art. 448, primo comma, seconda parte (< ... il giudice provvede dopo la chiusura del dibattimento di primo grado o nel giudizio di impugnazione, quando ritiene ingiustificato il dissenso del pubblico ministero ...>-ai quali l'art. 451, quinto comma, fa globale rinvio per il caso di applicazione della pena richiesta dall'imputato citato a giudizio direttissimo-non trovano riscontro nella disciplina relativa alla richiesta di trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato.

 

Nell'ottica del profilo costituzionale in esame, il dubbio di legittimità si traduce nel domandarsi, anzitutto, se sia razionale o no che l'enunciazione delle ragioni del dissenso opposto dal pubblico ministero alla richiesta dell'imputato, enunciazione ritenuta necessaria nell'ambito della disciplina prevista per l'applicazione della pena su richiesta avanzata in sede di giudizio direttissimo, venga ritenuta non necessaria nell'ambito della disciplina prevista per la trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato.

 

7. -Questa Corte ha già richiamato (sentenza n. 66 del 1990) quel brano della Relazione al progetto preliminare, dove - con riguardo al giudizio abbreviato ed all'applicazione della pena su richiesta delle parti, entrambi considerati nella loro fisionomia ordinaria - si precisa come venga ad essi < affidata la funzione di evitare il passaggio alla fase dibattimentale di un gran numero di procedimenti, secondo uno schema di deflazione comune a tutti i sistemi processuali che si ispirano al modello accusatorio> e come sia l'uno sia l'altro si fondino < sull'accordo tra accusa e difesa>, quest'ultima variamente < incentivata> ad avvalersene.

 

Le differenziazioni tra i due riti muovono proprio di qui. Al di là degli impliciti vantaggi comuni (costi ridotti e pubblicità del dibattimento evitata), diverse sono le soluzioni premiali e diversi gli strumenti di approdo: un approdo cui si giunge < sulla base degli atti acquisiti al momento della formulazione della richiesta, ma con una notevole differenza di ordine temporale: nel giudizio abbreviato ordinario la richiesta può aver luogo fino a cinque giorni prima dell'udienza preliminare o nel corso di questa (sentenza n. 66 del 1990), mentre la richiesta di applicazione della pena può essere formulata fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado.

 

Anche per il giudizio abbreviato cui l'imputato chiede che si addivenga attraverso la trasformazione del giudizio direttissimo promosso dal pubblico ministero in uno dei casi previsti dall'art. 449, la richiesta è proponibile fino a che non siano state compiute le formalità di apertura del dibattimento-e, quindi, sempre durante la sola brevissima fase predibattimentale propria del giudizio direttissimo-allo stesso modo di quanto avviene per l'applicazione della pena su richiesta, allorchè quest-ultima venga formulata dall'imputato alla stregua dell'art. 451, quinto comma, e, perciò, allo stato degli atti nella fase predibattimentale.

 

Tale ulteriore accostamento del giudizio abbreviato ex art. 452, secondo comma, all'applicazione della pena su richiesta dell'imputato è sottolineato con particolare incisività dallo stesso art. 451, quinto comma, che impone al presidente del tribunale o della corte di assise di avvisare < l'imputato della facoltà di chiedere il giudizio abbreviato ovvero l'applicazione della pena a norma dell'art. 444> e, quindi, anche a norma dell'art. 446, primo comma (fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado).

 

Il fatto che dalla Relazione al progetto preliminare il giudizio abbreviato venga contrapposto, in via generale, al < patteggiamento sulla pena o sul merito del processo> come < patteggiamento sul rito> non equivale a disconoscerne la realtà, invero più complessa, che è quella di un accordo delle parti sul rito avente pure un effetto, certo non lieve, sul merito.

 

L'essere la diminuzione di un terzo della pena (o, se del caso, la sostituzione della reclusione di anni trenta all'ergastolo: art. 442, secondo comma) un effetto soltanto < indiretto> ed < eventuale> non toglie che pure essa, come l'adozione del rito semplificato, sia condizionata al consenso del pubblico ministero, proprio come al consenso di quest'ultimo risulta condizionata, nel caso di applicazione della pena su richiesta dell'imputato, non solamente l'intesa sulla pena, ma anche l'adozione del rito semplificato.

 

Allorchè-ed è quanto accade nelle ipotesi disciplinate rispettivamente dall'art. 452, secondo comma, e dal combinato disposto degli artt. 444 e 451, quinto comma-i riti che possono rispettivamente subentrare al giudizio direttissimo si trovano a corrispondere tra loro per ciò che concerne il giudice (sempre quello competente per il dibattimento), il momento ultimo per la richiesta (prima dell'apertura del dibattimento) e la sede (fase predibattimentale), non si giustifica, come già osservato in altra occasione (sentenza n. 66 del 1990), che < il pubblico ministero, di fronte ad una richiesta di giudizio abbreviato, possa sacrificare, oltre al rito, anche l'effetto sulla pena, senza neppure dover enunciare le ragioni del proprio dissenso, a differenza di quanto avviene di fronte ad una richiesta di applicazione della pena> da parte dell'imputato: una richiesta che il pubblico ministero può < sacrificare>, in ordine al rito, < solo enunciando le ragioni> del suo dissenso e, in ordine alla pena richiesta, solo se il suo dissenso non verrà ritenuto ingiustificato dal giudice dopo la chiusura del dibattimento di primo grado.

 

Diverso problema è quello dei criteri cui il pubblico ministero dovrebbe rapportare la motivazione del dissenso. Pure a questo proposito si è già rilevato (sentenza n. 66 del 1990) che l'argomento addotto dalla Relazione al progetto preliminare circa l'impossibilità che < i parametri> del dissenso vengano < tipizzati> sarebbe in grado di valere al massimo per la disciplina del rito abbreviato tipico, anche perchè la sua collocazione nell'udienza preliminare renderebbe difficilmente ipotizzabile l'esternazione delle ragioni del mancato consenso del pubblico ministero alla richiesta di giudizio abbreviato proveniente dall'imputato, peraltro reiterabile fino a quando non siano formulate le conclusioni ex art. 439, secondo comma. Ma, pure a prescindere da ciò, le argomentazioni della Relazione < in tanto sono condivisibili in quanto il pubblico ministero, non tenuto a motivare, possa liberamente determinarsi a dissentire>, situazione che, ovviamente, viene meno allorchè l'art. 452, secondo comma, sia dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevede che il pubblico ministero debba enunciare le ragioni del suo dissenso, così da renderlo sindacabile dal giudice.

 

Una volta mutati i termini della situazione, la circostanza che la disciplina del giudizio abbreviato faccia costante richiamo, sia pur con formule e moduli non sempre coincidenti, al < poter decidere allo stato degli atti>, non autorizza-almeno per il momento, tanto più nel silenzio dell'< analogo> art. 446, sesto comma, implicitamente richiamato dall'art. 451, primo comma, terzo periodo-un'interpretazione diversa da quella (v. già la sentenza n. 66 del 1990) di raccordare la scelta del pubblico ministero alla definibilità del processo allo stato degli atti.

 

8.-L'accertata illegittimità costituzionale dell'art. 452, secondo comma, nella parte in cui non prevede che il pubblico ministero, in caso di dissenso, debba enunciarne le ragioni-con conseguente assorbimento delle altre censure avanzate allo stesso fine dalle ordinanze di rimessione -viene a rendere rilevanti anche le questioni aventi per oggetto il medesimo art. 452, secondo comma, nelle parti in cui < non è consentito al giudice di valutare le motivazioni addotte a giustificazione del dissenso stesso> e, conseguentemente, < di applicare la riduzione di pena prevista dall'art. 442, 2° comma, c.p.p.>.Dato lo stretto collegamento, già rimarcato nella sentenza n. 66 del 1990, tra questi due aspetti (in tanto il giudice ha motivo di sindacare le ragioni addotte dal pubblico ministero in quanto, a sua volta dissentendone, possa far luogo alla diminuzione di pena; e, viceversa, in tanto il giudice può far luogo alla diminuzione di pena in quanto sia legittimato a sindacare le ragioni enunciate dal pubblico ministero), le relative questioni, sollevate con riferimento agli stessi parametri precedentemente richiamati, danno luogo ad una sola censura, anch'essa fondata.La forte analogia fra la disciplina del giudizio abbreviato e la disciplina dell'applicazione della pena su richiesta quando la richiesta dell'imputato abbia come obiettivo il superamento del giudizio direttissimo, è tale da rendere inaccettabile, nell'ottica del primo dei due profili invocati in riferimento all'art. 3 della Costituzione, anche l'omessa previsione da parte dell'art. 452, secondo comma, di un potere corrispondente a quello che l'art. 451, primo comma, attraverso il rinvio all'art. 444 e, pertanto, all'art. 448, primo comma, conferisce al giudice, allorchè, dopo la chiusura del dibattimento, ritenga ingiustificato il dissenso del pubblico ministero nei confronti dell'applicazione della pena richiesta dall'imputato.Ciò conduce all'accoglimento della doglianza attraverso cui viene lamentato che al giudice non sia consentito di < applicare la riduzione di pena ex 442, 2° comma, c.p.p. anche quando, all'esito dell'esame degli atti, la richiesta risulti fondata>. Ne consegue la declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 452, secondo comma, nella parte in cui non prevede che, svoltosi il giudizio con il rito direttissimo, il giudice possa applicare, in caso di condanna, la riduzione di pena contemplata dall'art. 442, secondo comma, se ritenga ingiustificato il dissenso del pubblico ministero.

 

Pure qui sono da intendersi assorbite le altre censure formulate dalle ordinanze di rimessione.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 452, secondo comma, del codice di procedura penale del 1988, nella parte in cui non prevede che il pubblico ministero, quando non consente alla richiesta di trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato, debba enunciare le ragioni del suo dissenso e nella parte in cui non prevede che il giudice, quando, a giudizio direttissimo concluso, ritiene ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, possa applicare all'imputato la riduzione di pena contemplata dall'art. 442, secondo comma, dello stesso codice;

 

b) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 438, primo comma, e 440, secondo comma, del codice di procedura penale del 1988, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Roma con ordinanza 23 novembre 1989.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 04/04/90.

 

Francesco SAJA, PRESIDENTE

 

Giovanni CONSO, REDATTORE

 

Depositata in cancelleria il 12/04/90.