Sentenza n. 92 del 1992

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SENTENZA N. 92

 

ANNO 1992

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

 

Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

 

Prof. Giuseppe BORZELLINO

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439 e 440 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 15 aprile 1991 dal Giudice per le Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 22 gennaio 1992 il Giudice relatore Ugo Spagnoli.

 

Ritenuto in fatto

 

1.- Nel corso di un'udienza preliminare nella quale l'instaurazione del giudizio abbreviato chiesta dagli imputati era stata preclusa dal dissenso del pubblico ministero, motivato con l'indecidibilità allo stato degli atti (per l'esigenza di acquisire al dibattimento le deposizioni testimoniali del personale di polizia giudiziaria che aveva proceduto all'arresto ed al sequestro del corpo di reato), il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino, con ordinanza del 15 aprile 1991, ha sollevato, su eccezione della difesa, in riferimento agli artt. 3 e 25, secondo comma, Cost., una questione di legittimità costituzionale del "combinato disposto degli artt. 438, 439 e 440 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che, in caso di dissenso del pubblico ministero, motivato con l'impossibilità che il processo sia definito allo stato degli atti, il giudice dell'udienza preliminare che ritiene che l'impossibilità addotta dipende da fatto rimediabile dello stesso pubblico ministero, non possa indicare alle parti i temi incompleti sui quali si rende necessario acquisire ulteriori informazioni ai fini della decisione in ordine alla possibilità di definire il processo allo stato degli atti".

 

Il giudice rimettente osserva innanzitutto, in punto di rilevanza, che il dissenso del pubblico ministero motivato dall'insufficienza delle indagini preliminari non potrebbe, ove questa fosse reale, ritenersi ingiustificato, sicchè in tal caso non potrebbe farsi luogo all'applicazione, in esito al dibattimento, della riduzione di pena di cui all'art. 442, secondo comma, cod. proc. pen., prevista nella sentenza di questa Corte n. 81 del 1991.

 

Rileva, poi, che le indagini preliminari sono finalizzate solo ad una delibazione della notitia criminis onde configurarla entro una precisa imputazione a scegliere il tipo di domanda da proporre al giudice competente (art. 326 cod. proc. pen. e direttiva n. 37 della legge delega); con la conseguenza che dall'obbligo di imparziale applicazione della legge e dai principi di cui agli artt. 104 e 107 Cost. non può farsi discendere il potere-dovere del pubblico ministero di svolgere tutte le ulteriori indagini utili a consentire la definizione anticipata del processo mediante il rito abbreviato.

 

Tuttavia, poichè il compimento di indagini non sufficienti a tale fine può - come nella specie - dipendere da una scelta volontaria del pubblico ministero e ricollegarsi ad una strategia processuale non sindacabile dai giudici dell'udienza preliminare o del dibattimento, è in tal caso ravvisabile, secondo il giudice a quo, una violazione del principio di uguaglianza: sia per la disparità di trattamento che - in termini di privazione della riduzione di pena di cui all'art. 442 cod. proc.pen. - consegue alla scelta del pubblico ministero di svolgere o non svolgere, in casi sostanzialmente identici, indagini sufficienti al predetto fine; sia per la correlativa lesione del principio di parità tra accusa e difesa, non sanabile con le investigazioni difensive di cui all'art. 38 disp. att. cod. proc. pen., in quanto i poteri del difensore al riguardo sono più limitati di quelli del pubblico ministero.

 

Nella medesima ipotesi, sarebbe violato, inoltre, il principio di legalità della pena (art. 25, secondo comma, Cost.), in quanto la scelta del pubblico ministero di non svolgere indagini sufficienti alla definizione del processo allo stato degli atti vincola il giudice a non concedere, in caso di condanna, la predetta riduzione di pena. Nè tale soggezione alle scelte del pubblico ministero potrebbe dirsi esclusa dalla facoltà del giudice dell'udienza preliminare di dare ingresso all'integrazione probatoria prevista dall'art. 422 cod. proc. pen., dato che questa facoltà è rigorosamente limitata a quanto sia manifestamente decisivo ai fini del rinvio a giudizio o del non luogo a procedere e non può quindi estendersi alle attività di integrazione dello stato degli atti che appaiano necessarie per definire il processo. Donde l'esigenza di introdurre, sulla falsariga del citato art. 422 - in caso di insufficienza rimediabile delle indagini preliminari - un potere-dovere del giudice di indicare alle parti, ed in particolare al pubblico ministero, i temi da questi lasciati incompleti sui quali è necessario acquisire ulteriori informazioni al fine di poter definire il processo allo stato degli atti.

 

2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.

 

L'Avvocatura ricorda che, nella sentenza n. 81 del 1991, questa Corte ha espressamente affermato che il controllo sul dissenso del pubblico ministero al giudizio abbreviato "non può trovar posto all'interno dell'udienza preliminare e, quindi, non può venir affidato al giudice preposto ad essa, perchè ciò significherebbe adottare un rito speciale contro le determinazioni del pubblico ministero"; ed ha, inoltre, precisato i limiti entro i quali deve esercitarsi il controllo suddetto, individuandone la funzione "nel dare al giudice del dibattimento la possibilità di far luogo alla riduzione della pena allorquando il dissenso del pubblico ministero gli risulti ingiustificato" e indicando il parametro per il suo concreto esercizio nella valutazione della "effettiva utilità del passaggio al dibattimento" secondo il criterio della decidibilità allo stato degli atti.

 

La tesi del giudice rimettente è, secondo l'Avvocatura, in contrasto con tali enunciazioni, perchè comporterebbe l'attribuzione ad un giudice non investito di plena iurisdictio del sindacato sulle scelte investigative del pubblico ministero ai fini della decisione di merito anzichè del rinvio a giudizio e si risolverebbe perciò in un'ingiustificata ingerenza nella sfera di autonomia dell'organo dell'accusa inerente la scelta del rito e della strategia processuale.

 

Considerato in diritto

 

1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino dubita, in riferimento agli artt.3 e 25 Cost., della legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439 e 440 cod. proc. pen.. Tali disposizioni sono impugnate nella parte in cui non prevedono che - qualora il dissenso del pubblico ministero all'introduzione del giudizio abbreviato chiesto dall'imputato sia motivato con l'impossibilità che il processo sia definito allo stato degli atti - il giudice dell'udienza preliminare, che ritenga l'impossibilità addotta dipendente da fatto rimediabile dello stesso pubblico ministero, possa indicare alle parti i temi lasciati incompleti, sui quali si rende necessario acquisire ulteriori informazioni ai fini della decisione in ordine alla possibilità di definire il processo allo stato degli atti; e ciò, sulla falsariga del meccanismo di integrazione probatoria previsto dall'art. 422 cod. proc. pen..

 

Il pubblico ministero - osserva il giudice a quo - non è istituzionalmente tenuto a compiere indagini sufficienti al suddetto fine (cfr. art.326 cod.proc. pen.), ed il compierle o meno può dipendere da una sua scelta volontaria e ricollegarsi alla strategia processuale da lui perseguita.

 

Questa, d'altra parte, non è sindacabile dai giudici del dibattimento o dell'udienza preliminare; nè questi può porre rimedio all'insufficienza disponendo l'integrazione probatoria di cui all'art. 422 cod. proc.pen., dato che essa è rigorosamente limitata a quanto sia manifestamente decisivo ai fini del rinvio a giudizio o del proscioglimento.

 

Perciò, sotto il profilo della riduzione di pena che consegue all'esperimento del giudizio abbreviato (art. 442 cod. proc. pen.), ne deriverebbe una violazione, sia del principio d'uguaglianza, per la disparità di trattamento di situazioni identiche dipendente dalle scelte del pubblico ministero e per la correlativa lesione del principio di parità tra accusa e difesa; sia del principio di legalità della pena (art. 25 Cost.), perchè da tali scelte dipenderebbe la possibilità per il giudice di concedere la predetta riduzione di pena.

 

2.- L'Avvocatura dello Stato sostiene che la prospettiva indicata dal giudice a quo non dovrebbe trovare accoglimento perchè - comportando un'ingerenza del giudice dell'udienza preliminare nelle determinazioni del pubblico ministero concernenti la scelta del rito e la strategia processuale - si porrebbe in contrasto con le enunciazioni della sentenza di questa Corte n. 81 del 1991; in particolare, con quella secondo cui il controllo sul dissenso del pubblico ministero non può essere affidato a tale giudice "perchè ciò significherebbe adottare un rito speciale contro le determinazioni del pubblico ministero" e va, invece, effettuato dal giudice del dibattimento - secondo il criterio della decidibilità allo stato degli atti - in quanto è funzionale solo a consentire la riduzione di pena ove il dissenso risulti ingiustificato.

 

Tali rilievi non persuadono, perchè sono insufficienti a dare soluzione al quesito centrale posto dall'ordinanza di rimessione.

 

Nella citata sentenza n. 81 del 1991, così come nelle altre precedenti sentenze sull'argomento (nn. 66 e 183 del 1990), occorre, invero, distinguere la ragione fondante della dichiarata incostituzionalità delle norme sull'introduzione del giudizio abbreviato, da quelle statuizioni additive che - essendo fondate su valutazioni condotte alla stregua del principio di uguaglianza - non potevano che ispirarsi a criteri di armonizzazione con la disciplina assunta a parametro ed essere, quindi, inevitabilmente condizionate dai dati emergenti dal sistema positivo. Donde il valore relativo di tali statuizioni, che non possono definirsi vincolanti in un contesto normativo diverso nè, tanto meno, precludere il raffronto coi principi costituzionali di disposizioni cui esse risultino inapplicabili.

 

Il nucleo essenziale di tali decisioni sta nel riconoscimento dell'incompatibilità con un ordinamento costituzionale fondato sui principi di uguaglianza e di legalità della pena, di una disciplina che affida(va) a scelte discrezionali - immotivate e, quindi, insindacabili - del pubblico ministero l'accesso dell'imputato ad un rito dal quale scaturiscono automaticamente rilevanti effetti sulla determinazione della pena.

 

Più di recente, poi, l'interesse dell'imputato ed, insieme, dell'ordinamento a che le determinazioni incidenti sulla misura della pena siano soggette a controllo giurisdizionale è stato riconosciuto - a garanzia anche del diritto di difesa - pure rispetto a quelle adottate dallo stesso giudice dell'udienza preliminare in punto di decidibilità "allo stato degli atti" (sentenza n. 23 del 1992). Analogamente, la necessità che non sia rimessa a scelte delle parti, ma riservata al giudice la decisione sulla congruità della pena è stata sancita - ai fini del rispetto dell'art. 27, secondo comma, Cost. - anche nei confronti del consimile rito dell'applicazione di pena su richiesta (sentenza n.313 del 1990).

 

Dall'incostituzionalità di una disciplina fondata su determinazioni insindacabili del pubblico ministero è scaturita la necessità di introdurre su di esse un controllo giurisdizionale e, conseguentemente, di individuare i criteri oggettivi su cui esse potevano fondarsi e la sede del controllo: ciò che è avvenuto non in diretta applicazione degli specifici principi costituzionali attinenti alla materia considerata, ma secondo criteri di adeguamento desunti dall'interpretazione del sistema positivo.

 

Così è a dire, innanzitutto, per il criterio (decidibilità allo stato degli atti) cui si è ancorato il dissenso del pubblico ministero: che è stato individuato - "al momento", e senza escludere che da parte del legislatore "siano enucleabili criteri ulteriori" - attraverso il "confronto con i poteri conferiti al giudice dall'art. 440, primo comma" (sentenza n.81 del 1991, par. 6).

 

Altrettanto vale per l'individuazione nel giudice del dibattimento del soggetto abilitato a controllare il dissenso. Nella sentenza n. 66 del 1990 (par. 8), ciò è avvenuto per uniformare la disciplina transitoria del rito abbreviato a quella dell'analogo rito - dedotto a termine di raffronto - dell'applicazione di pena su richiesta, ove detto potere è appunto attribuito al giudice dibattimentale (art. 448, primo comma). Nella sentenza n. 81 del 1991, poi, l'identica soluzione è stata fondata sulla considerazione che, affidando tale potere al giudice dell'udienza preliminare, si sarebbe pervenuti ad "adottare un rito speciale contro le determinazioni del pubblico ministero", mentre è "in armonia con le normali prerogative del pubblico ministero" disegnate dal nuovo codice che la "scelta del rito processuale" sia a lui riservata (parr. 5 e 6).

 

Anche in tal caso, quindi, si è operata non una ricognizione astratta dei poteri costituzionalmente riservati al pubblico ministero, ma una doverosa armonizzazione ai principi del concreto sistema processuale vigente.

 

3.- Tanto premesso, si deve osservare che, rispetto ai quesiti risolti con le precedenti decisioni in materia, quello su cui va qui condotta l'indagine presenta un decisivo carattere differenziale: di non potere, cioé, trovare risposta attraverso le soluzioni adeguatrici in esse precisate.

 

Resta evidentemente fermo, e va anzi ribadito, che l'introduzione, o meno, di un rito avente automatici effetti sulla determinazione della pena non può farsi dipendere da scelte discrezionali del pubblico ministero. Tali sono, indubbiamente, quelle con le quali costui decide quali, e quante, indagini esperire per porle a base della richiesta di rinvio a giudizio e, più in generale, quelle connesse alla sua strategia processuale: la quale può fargli preferire - in quanto li ritenga non necessari a tal fine - di rinviare al dibattimento l'esperimento di certi mezzi o l'acquisizione di determinate prove.

 

Rispetto al giudizio abbreviato, ciò comporta l'inaccettabile paradosso per cui il pubblico ministero può legittimamente precluderne l'instaurazione allegando lacune probatorie da lui stesso discrezionalmente determinate.

 

Sicchè, una volta affermato che un mero atto di volontà del pubblico ministero non può condizionare l'interesse dell'ordinamento alla semplificazione del rito e quello dell'imputato alla riduzione della pena, deve trarsi il corollario che tale condizionamento non può farsi derivare neanche da un atto di volontà (implicita) concretatisi nello svolgimento di indagini insufficienti alla decidibilità con giudizio abbreviato.

 

Rispetto alle suddette scelte del pubblico ministero, d'altra parte, un sindacato giurisdizionale del tipo di quello introdotto con le precedenti decisioni non è concretamente possibile. Innanzitutto, la natura eminentemente soggettiva e discrezionale di tali scelte comporta che analoghe caratteristiche finirebbe fatalmente per avere il sindacato del giudice. Inoltre, questo sarebbe privo di fondamento normativo nel sistema vigente, dato che le indagini preliminari sono finalizzate, non ad un accertamento pieno, ma all'acquisizione di quanto è necessario all'esercizio dell'azione penale (art. 326) e che la loro (relativa) "completezza" (cfr. sentenza n. 88 del 1991) va misurata su quest'ultimo metro e non sul primo.

 

Per altro verso, l'insufficienza dell'investigazione del pubblico ministero rispetto al fine in discorso non è colmabile attraverso il potere di integrazione attribuito al giudice dell'udienza preliminare dall'art. 422 cod. proc. pen., dato che il suo esercizio - pur se può indirettamente contribuire all'acquisizione di un quadro probatorio sufficiente alla decisione "allo stato degli atti" - è rigorosamente delimitato dal ben diverso ed esclusivo scopo della raccolta, con un numero circoscritto di mezzi, di quelle sole prove che siano "manifestamente decisive" ai fini del rinvio a giudizio o del proscioglimento e che perciò possono non coincidere con quelle necessarie per una decisione allo stato degli atti.

 

4.- Escluso, quindi, che si possano ricavare dall'ordinamento vigente correttivi idonei a sanare la situazione qui evidenziata, è perciò necessario, al fine di ricondurre l'istituto a piena sintonia con i principi costituzionali, che il vincolo derivante dalle scelte del pubblico ministero sia reso superabile con l'introduzione di un meccanismo di integrazione probatoria.

 

Al riguardo, è innanzitutto da osservare che, nel quadro della generale finalità di semplificare il processo ed evitare dibattimenti non necessari, un'integrazione probatoria è già prevista, dall'art.

 

422, al più limitato fine di consentire la decisione circa il rinvio a giudizio o il proscioglimento; sicchè non appare coerente che essa sia esclusa quando le medesime finalità sono perseguite introducendo un procedimento che si conclude con una decisione di merito.

 

In secondo luogo, si deve rilevare che la configurazione del giudizio abbreviato come giudizio "a prova contratta", - basato, cioé, su uno scambio in cui la riduzione di pena non ha come contropartita il solo interesse dell'ordinamento alla semplificazione attraverso la rinuncia dell'imputato al dibattimento ed il riconoscimento del valore di prova agli elementi acquisiti dal pubblico ministero, ma richiede, in più, la rinuncia al diritto ad eventuali allegazioni difensive - non è affatto un connotato ineliminabile di tale giudizio.

 

Si deve, infatti, sottolineare che un modello di giudizio abbreviato che consente un'integrazione probatoria è positivamente previsto, nello stesso codice, per il caso di trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato (art. 452, secondo comma): integrazione che per di più, in tale ipotesi non soggiace - almeno secondo l'interpretazione prevalente - a particolari limitazioni, dato che tale disposizione richiama l'art.422 solo quanto alle forme, e non anche ai limiti concernenti la tipologia degli atti esperibili.

 

Può aggiungersi che, secondo autorevole dottrina, la prospettiva dell'integrazione probatoria consentirebbe, sia di salvaguardare quel nesso di inscindibilità tra riduzione della pena ed effettiva celebrazione del giudizio abbreviato, che questa Corte ha riconosciuto essere nota caratterizzante il nuovo istituto (sentenze nn. 277 del 1990 e 176 del 1991); sia di superare le problematiche che la configurazione data dal legislatore al consenso del pubblico ministero ha evidenziato sul piano costituzionale.

 

5.- Dalle considerazioni sinora svolte emerge chiaramente, però, che la problematica sottesa alla questione in esame non può risolversi con una pronunzia additiva di questa Corte, ma richiede un intervento legislativo.

 

Innanzi tutto la soluzione indicata dal giudice a quo, di consentire cioé - in caso di insufficienza dovuta a fatto rimediabile del pubblico ministero - un'integrazione probatoria nell'ambito dell'udienza preliminare, richiede l'effettuazione di una pluralità di scelte sulle modalità di prospettazione delle prove, sui poteri da conferire al giudice, sull'eventuale delimitazione dei mezzi di prova esperibili; e per di più, se contenuta - come il medesimo giudice prospetta - nei limiti fissati dall'art. 422, richiederebbe una regolamentazione del regime di utilizzazione degli atti compiuti in caso di mancato esperimento del giudizio abbreviato.

 

Si tratta, quindi, anche indipendentemente da una più ampia revisione dell'istituto, che collochi tale integrazione all'interno del giudizio abbreviato, di scelte che rientrano nella discrezionalità del legislatore, la cui urgenza è resa evidente dall'esigenza di ricondurre la normativa impugnata a piena coerenza con i principi costituzionali.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439 e 440 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino con ordinanza del 15 aprile 1991.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21/02/92.

 

Aldo CORASANITI, Presidente

 

Ugo SPAGNOLI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 9 marzo del 1992.