Sentenza n. 39 del 2006

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SENTENZA N. 39

ANNO 2006

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Annibale                   MARINI                    Presidente

- Giovanni Maria        FLICK                          Giudice     

- Ugo                           DE SIERVO                     “

- Romano                    VACCARELLA               “

- Paolo                        MADDALENA                “

- Alfio                         FINOCCHIARO              “

- Alfonso                    QUARANTA                   “

- Franco                      GALLO                            “

- Luigi                         MAZZELLA                    “

- Gaetano                    SILVESTRI                      “

- Sabino                      CASSESE                         “

- Maria Rita                SAULLE                           “

- Giuseppe                  TESAURO                        “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 17, comma 11, della legge della Regione Siciliana 16 aprile 2003, n. 4 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2003), promossi con ordinanze del 14 maggio e del 21 luglio 2004 dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, sede di Palermo, sez. II, sui ricorsi proposti da Martino Angela e da Ciolino Giuseppe contro la Soprintendenza ai beni culturali e ambientali di Palermo ed altro iscritte ai nn. 768 e 827 del registro ordinanze 2004 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 41 e 43, prima serie speciale, dell’anno 2004.

            Visto l’atto di intervento della Regione Siciliana;

            udito nella camera di consiglio del 14 dicembre 2005 il Giudice relatore Ugo De Siervo.

Ritenuto in fatto

 

1. – Con ordinanza in data 14 maggio 2004, il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, sede di Palermo, sez. II, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 11, della legge della Regione Siciliana 16 aprile 2003, n. 4 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2003), per contrasto con gli artt. 3, 117, 126 e 127 Cost.

 

2. – Il giudizio a quo concerne il provvedimento prot. 775, pos. BB.NN. 26455, del 1° febbraio 1988, con il quale la Soprintendenza ai beni culturali e ambientali di Palermo si è espressa negativamente sul progetto di sanatoria edilizia presentato dalla ricorrente in relazione ad un fabbricato di sua proprietà.

Il rimettente evidenzia che con sentenza parziale, adottata in pari data rispetto all’ordinanza di rimessione, due dei quattro motivi di ricorso sono stati ritenuti inammissibili mentre un terzo motivo è stato dichiarato infondato. Quanto, invece, al rimanente motivo di ricorso, il giudice a quo riferisce come, secondo la ricorrente, l’Amministrazione convenuta «non sarebbe stata titolata ad esprimere un proprio parere sul progetto di sanatoria, poiché quest’ultimo riguardava opere realizzate prima della imposizione del vincolo». Rilevato che la fattispecie oggetto del giudizio è attualmente regolata dalla disposizione censurata – sopravvenuta rispetto all’instaurazione del giudizio – la quale, interpretando autenticamente l’art. 23, comma 10, della legge della Regione Siciliana 10 agosto 1985, n. 37 (Nuove norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, riordino urbanistico e sanatoria delle opere abusive), prevede la non necessarietà del parere nel caso in cui il vincolo sia posteriore rispetto alla ultimazione del fabbricato, il collegio rimettente osserva che la decisione del ricorso presuppone la soluzione dei dubbi di costituzionalità concernenti il menzionato art. 17, comma 11, della legge regionale n. 4 del 2003.

3. – Il Tribunale amministrativo espone brevemente l’evoluzione della normativa regionale che regola la fattispecie oggetto del giudizio a quo.

L’atto impugnato è stato adottato durante la vigenza dell’art. 23, comma 10, della legge della Regione Siciliana n. 37 del 1985, secondo il quale «per le costruzioni che ricadono in zone vincolate da leggi statali o regionali per la tutela di interessi storici, artistici, architettonici, archeologici, paesistici, ambientali, igienici, idrogeologici, delle coste marine, lacuali o fluviali, le concessioni in                    sanatoria sono subordinate al nulla-osta rilasciato dagli enti di tutela sempre che il vincolo, posto antecedentemente all’esecuzione delle opere, non comporti inedificabilità e le costruzioni non costituiscano grave pregiudizio per la tutela medesima;».

Successivamente è intervenuta la legge della Regione Siciliana 31 maggio 1994, n. 17 (Provvedimenti per la prevenzione dell’abusivismo edilizio e per la destinazione delle costruzioni edilizie abusive esistenti), il cui art. 5, comma 3, ha interpretato autenticamente il menzionato art. 23, comma 10, disponendo che «il nulla osta dell’autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all’ultimazione dell’opera abusiva», prevedendo altresì che «nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso».

Secondo il giudice rimettente quest’ultima norma «interveniva a risolvere il dubbio interpretativo, sollevato dalla formulazione dell’art. 23 della legge regionale 10 agosto 1985, n. 37, dettante le condizioni di applicabilità della sanatoria edilizia, in ordine alla rilevanza o meno, ai fini dell’acquisizione del prescritto nulla osta, dei vincoli storici, artistici, architettonici, etc., apposti in epoca successiva all’ultimazione dell’opera, ma in vigore al momento dell’esame della istanza di sanatoria». Nell’ordinanza di rimessione si evidenzia, inoltre, come questa scelta interpretativa compiuta dal legislatore regionale sia stata successivamente condivisa anche dalla giurisprudenza amministrativa, «in relazione all’analogo problema postosi per la corrispondente normativa nazionale, la quale è stata interpretata nel senso che, in presenza quanto meno di vincoli che non comportano inedificabilità assoluta, l’obbligo di pronuncia da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione       alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a  prescindere dall’epoca della sua introduzione, per l’esigenza di vagliare l’attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente».

Nelle more del giudizio a quo, tuttavia, è sopravvenuto l’art. 17, comma 11, della legge della Regione Siciliana n. 4 del 2003, che, con decorrenza dal 1° gennaio 2003, ha modificato la disposizione interpretativa contenuta nell’art. 5, comma 3, della legge regionale n. 17 del 1994, sostituendone il primo e secondo capoverso e disponendo in senso esattamente inverso alla stessa. Infatti, l’art. 23, comma 10, della legge della Regione Siciliana n. 37 del 1985 deve ora essere interpretato nel senso che «il parere dell’autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione o autorizzazione edilizia in sanatoria, solo nel caso in cui il vincolo sia stato posto antecedentemente alla realizzazione dell’opera abusiva».

4. – Nell’ordinanza si afferma che l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 11, della legge della Regione Siciliana n. 4 del 2003 sarebbe, innanzi tutto, determinata dalla «efficacia retroattiva ad esso surrettiziamente attribuita attraverso il carattere interpretativo che allo stesso deriva dalla tecnica di novellazione dell’art. 5, comma 2, l.r. 19/94 cit., adottata dal legislatore». Tale operazione sarebbe stata compiuta «non solo in assenza di qualsivoglia pur residuo dubbio interpretativo sul significato della norma interpretata (l’art. 23 della l.r. 37/85), ma in presenza di una precedente interpretazione autentica di detta norma, che viene soppressa e diametralmente rovesciata». Del resto, che non si tratti di «mera operazione ermeneutica, dettata da esigenze di chiarezza legislativa, bensì di un mutamento di disciplina indirizzato a facilitare il ricorso alla sanatoria edilizia, con efficacia estesa anche al passato, così da ampliare la sfera dei possibili beneficiari», sarebbe dimostrato dalla circostanza secondo la quale la stessa rubrica dell’art. 17 in questione è intitolata “Recupero di risorse derivanti dalla definizione delle pratiche di sanatoria edilizia”.

Secondo il Tribunale rimettente, la disposizione censurata, in realtà, introdurrebbe «una sostanziale modificazione della disciplina previgente», realizzando «un’ipotesi di eccesso di potere legislativo», in contrasto «con i parametri costituzionali che regolano la formazione delle leggi (artt. 117, 123 e 127 Cost., relativi all’attività legislativa regionale), nonché con l’art. 3 della Costituzione sotto il profilo della ragionevolezza».

Al riguardo, il rimettente evidenzia innanzi tutto come la giurisprudenza costituzionale abbia ritenuto estensibili alla legislazione regionale i principi ed i limiti elaborati in tema di interpretazione autentica della legge. In secondo luogo, nell’ordinanza si sottolinea che – anche se non costituzionalizzato al di fuori della previsione contenuta nell’art. 25 Cost. – il principio di irretroattività della legge, manterrebbe comunque «valore di principio generale ai sensi dell’art. 11, primo comma, delle disposizioni preliminari del codice civile, cui il legislatore deve in via preferenziale attenersi».

In quest’ambito, la giurisprudenza costituzionale avrebbe ritenuto costituzionalmente legittimo lo strumento delle leggi interpretative solo a patto che esso non venga utilizzato «per attribuire a norme innovative una surrettizia efficacia retroattiva, in quanto in tal modo la legge interpretativa verrebbe meno alla sua funzione peculiare, che è quella di chiarire il senso di norme preesistenti, ovvero di imporre una delle possibili varianti di senso compatibili col tenore letterale». Il carattere interpretativo di una norma non potrebbe quindi desumersi dalla sua autoqualificazione, bensì «dalla struttura della […] fattispecie normativa», di talché andrebbe «riconosciuto carattere interpretativo soltanto ad una legge che, fermo il tenore testuale della norma interpretata, ne chiarisce il significato normativo ovvero privilegia una tra le diverse interpretazioni possibili». Pertanto, precisa l’ordinanza, le leggi interpretative sarebbero soggette ad alcuni limiti, tra i quali, «oltre alla ragionevolezza della scelta operata, il divieto di ingiustificata disparità di trattamento, la coerenza e certezza del diritto, il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario», nonché la «tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto».

5. – Con ordinanza in data 21 luglio 2004, il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo, sez. II, ha sollevato, nell’ambito di un diverso giudizio, identiche questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 17, comma 11, della legge della Regione Siciliana n. 4 del 2003, per contrasto con gli artt. 3, 117, 126 e 127 Cost.

6. – Premette il rimettente che il giudizio a quo è stato instaurato a seguito del ricorso proposto, nei confronti del provvedimento prot. 6487, pos. BB.NN. 23396, del 15 settembre 1987 con cui la Soprintendenza ai beni culturali ed ambientali, in data 15 settembre 1987, ha espresso parere negativo sul progetto di sanatoria di un immobile, da parte del proprietario di quest’ultimo. I motivi di ricorso sui quali il Tribunale amministrativo siciliano è stato chiamato a pronunziarsi sono due. Secondo il primo, l’atto oggetto del giudizio sarebbe illegittimo a causa dell’invalidità dello stesso provvedimento di apposizione del vincolo paesaggistico, dal momento che tale provvedimento sarebbe stato adottato da un organo competente ma in composizione irregolare. Né, d’altra parte, varrebbe in senso inverso la considerazione del medesimo vincolo apposto con un successivo atto della Soprintendenza, in quanto quest’ultimo sarebbe posteriore alla ultimazione del fabbricato.

Con il secondo motivo di ricorso, invece, il ricorrente ha inteso far valere la pretesa «violazione di legge sotto i diversi profili del difetto di motivazione e del difetto dei presupposti» da parte del provvedimento impugnato.

Il collegio rimettente evidenzia innanzi tutto di aver rigettato, con sentenza parziale adottata nella medesima data dell’ordinanza di rimessione, tale ultimo motivo. Sottolinea, inoltre, di aver ritenuto fondato il motivo di ricorso secondo il quale il vincolo imposto dal decreto presidenziale n. 141/S.G. del 30 gennaio 1969 sarebbe nullo per irregolare composizione dell’organo; peraltro – in conseguenza di ciò – il rigetto o l’accoglimento del ricorso dipenderebbero integralmente dalla valutazione della doglianza concernente la asserita non necessarietà del parere della Soprintendenza nel caso in cui il vincolo sia stato imposto successivamente al momento in cui l’immobile è stato ultimato.

In tal senso dispone la norma impugnata, della cui compatibilità con la Costituzione, tuttavia, il ricorrente dubita in termini e con argomenti in tutto identici rispetto a quelli svolti nella precedente ordinanza di rimessione.

7. – Con atto depositato il 9 novembre 2004 è intervenuto nel giudizio davanti a questa Corte introdotto con la prima ordinanza il Presidente della Regione Siciliana, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, sostenendo l’inammissiblità sia delle questioni sollevate in riferimento ai parametri di cui agli artt. 117, 126 e 127 Cost., per assenza di adeguata motivazione, sia delle questioni sollevate in riferimento all’art. 3 Cost.

A tale ultimo riguardo, in particolare, l’Avvocatura rileva una «sostanziale perplessità di fondo» dell’ordinanza di rimessione circa la portata della norma censurata, perplessità dovuta alla contraddittorietà che assumerebbe l’asserita retroattività della norma rispetto all’esplicito riferimento che il giudice rimettente fa al 1° gennaio 2003 quale dies a quo «della efficacia vincolante della ribaltata interpretazione autentica dell’art. 23, l.r. 37/1985». Secondo l’Avvocatura, tale contrasto – al quale si aggiungerebbe il richiamo ad una «surrettizia efficacia retroattiva» argomentata con esclusivo riguardo alla “tecnica della novellazione parziale” – avrebbe dovuto suggerire al rimettente il ricorso al canone ermeneutico «della interpretazione costituzionalmente conservatrice», la quale risulterebbe né tentata, né tanto meno evocata per essere esclusa.

In effetti, a giudizio della difesa regionale, la norma sospettata d’irragionevolezza sembrerebbe, nel provvedimento di rinvio, «considerata a sé ed in maniera del tutto avulsa dal complessivo provvedimento col quale faceva corpo già quella (poi sostituita nel 2003) dell’art. 5, terzo comma, della l.r. 31 maggio 1994 n. 17; e segnatamente, avulsa dalle disposizioni di questa ordinate (come gli artt. 4 e 5) a disciplinare – con le relative eccezioni – la concessione del diritto di abitazione sulle opere edilizie abusive (acquisite al patrimonio comunale)». Infatti, un approccio esegetico non limitato al piano letterale, bensì esteso a quello logico-sistematico e dunque basato sulle finalità della normativa in tema di “destinazione delle costruzioni abusive” quale dettata dalla legge regionale n. 17 del 1994, avrebbe potuto indurre il remittente «a conciliare la (diversamente anomala) ‘interpretazione autentica’, come novellata nel 2003, con la data del 1° gennaio 2003» (stabilita per l’applicabilità delle disposizioni della legge regionale censurata); e così a superare il dubbio di un radicale “rovesciamento” «che la stessa avrebbe realizzato – peraltro con anomala efficacia vincolante solo dal 1° gennaio 2003 – della soluzione già (in precedenza) autoritativamente imposta per i problemi esegetici connessi alla (originaria) norma della legge regionale in tema di condono edilizio».

Risulterebbero, pertanto, del tutto inesplorati spunti e profili ermeneutici desumibili in parte qua dalle leggi del 1994 e del 2003 e suscettibili di deporre nel senso che la disposizione oggetto di censura si configuri come «innovazione legislativa di parziale (e limitatissima) efficacia retroattiva oltre che di ridotta portata quanto ad ambito d’applicazione». Di qui la evidente inammissibilità della questione prospettata in relazione all’art. 3 Cost.

8. – L’Avvocatura dello Stato ha depositato una seconda memoria nella quale, dopo aver ribadito le eccezioni di inammissibilità già formulate, si sofferma nella contestazione della fondatezza della questione sollevata dal rimettente in relazione all’art. 3 Cost., in particolare confutando l’assunto da cui prenderebbe le mosse l’ordinanza di rimessione circa la presunta sovrapposizione, ad opera del legislatore regionale, di due contrastanti o, meglio, diametralmente opposte “letture vincolanti” della stessa norma.

Al riguardo, l’Avvocatura generale espone due distinti rilievi.

In primo luogo, osserva che, “sul piano letterale”, la «prima norma di interpretazione autentica», ossia l’art. 5, comma 3, della legge regionale n. 17 del 1994, farebbe riferimento al “parere” dell’autorità preposta alla gestione del vincolo, richiedendolo “solo” nel caso in cui il vincolo sia antecedente alla realizzazione dell’opera abusiva; al contrario, l’art. 17, comma 11, della legge regionale n. 4 del 2003, farebbe riferimento al “nulla osta” della medesima autorità, richiedendolo “anche” nel caso di vincolo successivo. Ciò sarebbe rilevante, malgrado il riconoscimento «che tra nulla-osta e parere non sia infrequente uno scambio di termini», in quanto il “nulla osta” parteciperebbe «della natura degli atti autorizzatori», che siano al contempo «espressivi di volontà, là dove il parere – ancorché vincolante, epperò anch’esso condizionante dell’effetto dell’atto assistito – è essenzialmente espressione di un giudizio».

In secondo luogo, l’Avvocatura ribadisce che la “prima” norma interpretativa si iscriverebbe «in un provvedimento normativo di portata più circoscritta rispetto a quella della legge […] contenente la norma interpretata», mentre la “seconda” norma interpretativa avrebbe carattere più generale in ragione del contesto offerto dalla legge nella quale è inserita. Da ciò – a giudizio della difesa regionale – la conclusione secondo la quale la prima interpretazione autentica avrebbe come ambito di applicazione i soli casi considerati dalla legge n. 17 del 1994, mentre la seconda avrebbe “portata generale”. Pertanto le due disposizioni interpretative non sarebbero sovrapponibili né fra loro antinomiche, di talché sarebbe esclusa l’irragionevolezza della norma impugnata.

9. – In una terza memoria, l’Avvocatura generale dello Stato formula una ulteriore eccezione di inammissibilità della questione prospettata dal giudice rimettente e fondata sul presunto carattere antinomico delle due interpretazioni autentiche susseguitesi nel tempo in relazione all’art. 23, comma 10, della legge regionale n. 37 del 1985. La questione, infatti, sarebbe viziata da difetto di rilevanza nel giudizio a quo sulla base del seguente iter argomentativo.

La difesa regionale premette che la disposizione originaria (l’art. 23, comma 10, richiamato) richiedeva il nulla-osta dell’autorità competente alla tutela del vincolo solo se questo fosse anteriore all’ultimazione delle opere; che l’art. 5 della legge regionale n. 17 del 1994 richiedeva il predetto nulla-osta anche se il vincolo fosse stato apposto successivamente alla data di ultimazione della costruzione; che, infine, la disposizione di cui all’art. 17, comma 11, della legge regionale n. 4 del 2003 – destinata ad avere vigore dal 1° gennaio 2003 – stabilisce che il nulla-osta (letteralmente il “parere”) de quo è necessario solo nel caso di vincolo anteriore all’ultimazione dell’opera da sanare.

In questo quadro di evoluzione normativa, risultando il giudizio a quo instaurato nel 1988 in relazione alla domanda di sanatoria di un fabbricato realizzato anteriormente al dicembre 1983 e prima della apposizione del vincolo, l’Avvocatura sostiene che nulla avrebbe impedito al rimettente di definire il giudizio alla stregua della normativa regionale vigente alla data del provvedimento impugnato (o a quella di proposizione del ricorso), ovvero alla stregua della normativa regionale nell’interpretazione autentica vigente alla data dell’ordinanza di rimessione, in entrambi i casi traendone le identiche conseguenze, stante la coincidente portata precettiva delle due disposizioni da applicare. Pertanto l’“oscillante” interpretazione autentica cui avrebbe dato vita il legislatore regionale risulterebbe ininfluente per la formazione del giudizio del TAR, con conseguente irrilevanza della questione sottoposta al giudizio di questa Corte.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, sede di Palermo, sez. II, con due ordinanze iscritte rispettivamente al n. 768 e al n. 827 del registro ordinanze del 2004, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 11, della legge della Regione Siciliana 16 aprile 2003, n. 4 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2003), che ha sostituito l’art. 5, comma 3, della legge della Regione Siciliana 31 maggio 1994, n. 17 (Provvedimenti per la prevenzione dell’abusivismo edilizio e per la destinazione delle costruzioni edilizie abusive esistenti). Tale ultima disposizione, interpretando autenticamente l’art. 23, comma 10, della legge della Regione Siciliana 10 agosto 1985, n. 37 (Nuove norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, riordino urbanistico e sanatoria delle opere abusive), disponeva che «il nulla osta dell’autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all’ultimazione dell’opera abusiva». In base invece a quanto stabilito attualmente a seguito dell’intervento della disposizione oggetto di censura, l’art. 23, comma 10, della legge della Regione Siciliana n. 37 del 1985 deve essere interpretato nel senso che «il parere dell’autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione o autorizzazione edilizia in sanatoria, solo nel caso in cui il vincolo sia stato posto antecedentemente alla realizzazione dell’opera abusiva».

L’art. 17, comma 11, della legge n. 4 del 2003, secondo la prospettazione del rimettente, contrasterebbe con l’art. 3 della Costituzione, in quanto – essendo stato adottato in un contesto caratterizzato da certezza interpretativa, sia sul versante regionale per effetto di una precedente interpretazione autentica, sia sul versante nazionale per effetto di una giurisprudenza ormai consolidata concernente la analoga norma statale – contrasterebbe con i precetti che sono stati enucleati dalla giurisprudenza costituzionale in tema di presupposti giustificativi dell’interpretazione autentica, ed in particolare con il principio di ragionevolezza della scelta operata, con il “divieto di ingiustificata disparità di trattamento”, con la “coerenza e certezza del diritto”, con il “rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario”, nonché con la “tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto”.

Inoltre, la norma impugnata contrasterebbe con gli artt. 117, 126 e 127 Cost., in quanto confliggerebbe con le norme che presiedono all’esercizio della funzione legislativa delle Regioni.

2. – Le due ordinanze di rimessione pongono identiche questioni di legittimità costituzionale, di talché i giudizi debbono essere riuniti per essere decisi con unica sentenza.

3. – In via preliminare, va dichiarata l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata da entrambe le ordinanze in riferimento agli artt. 117, 126 e 127 della Costituzione, dal momento che, come questa Corte ha costantemente affermato (si vedano, da ultimo, sentenze n. 322 e n. 149 del 2005; ordinanze n. 414, n. 197, n. 126 e n. 23 del 2005, n. 318 e n. 156 del 2004), il giudice rimettente non può in alcun modo sottrarsi all’onere di motivare adeguatamente e specificamente in punto di non manifesta infondatezza il denunciato contrasto tra le norme legislative censurate e i parametri costituzionali esplicitamente invocati. Il giudice rimettente si limita invece ad enunciare i suddetti parametri, senza svolgere alcuna specifica considerazione al riguardo.

Questa determinazione preliminare evita che debba approfondirsi se fra i parametri costituzionali di cui il Tribunale rimettente afferma la violazione rientri l’art. 126 Cost., come asserito nella parte finale delle ordinanze, o l’art. 123 Cost., come asserito nelle sommarie considerazioni in diritto sul punto contenute nelle medesime ordinanze.

4. – Relativamente alla censura sollevata in relazione all’art. 3 Cost., deve essere rigettata, anzitutto, l’eccezione di inammissibilità prospettata dalla difesa regionale sul presupposto della diversa possibile interpretazione dell’art. 5, comma 3, della legge della Regione Siciliana n. 17 del 1994, come norma interpretativa esclusivamente riferita allo specifico oggetto di quella legge, e quindi disomogenea rispetto alla disposizione censurata; sia la lettera dell’art. 5, comma 3, della legge della Regione Siciliana n. 17 del 1994, sia la sua applicazione in via amministrativa e giurisdizionale (anche di questa Corte, come deducibile dall’ordinanza n. 44 del 2001), confermano pacificamente la sua natura di norma interpretativa dell’art. 23, comma 10, della legge regionale n. 37 del 1985, riferita alla sanatoria edilizia straordinaria ivi disciplinata (che sostanzialmente riproduceva gli artt. 32 e 33 della legge statale 28 febbraio 1985, n. 47, recante “Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie”).

In quest’ambito appare priva di pregio l’argomentazione, più volte ribadita dalla difesa regionale, secondo cui avrebbe una possibile rilevanza nel negare l’effetto retroattivo la previsione, contenuta nell’art. 141, comma 2, della legge regionale n. 4 del 2003, in base alla quale «le disposizioni della presente legge si applicano con decorrenza dal 1° gennaio 2003»; è, invece, evidente che quest’ultima disposizione non fa altro che determinare la data di entrata in vigore delle numerose disposizioni contenute  in questa legge, eliminando la ordinaria vacatio legis delle leggi regionali siciliane (di cui all’art. 13, terzo comma, della legge cost. 26 febbraio 1948, n. 2, recante “Conversione in legge costituzionale dello Statuto della regione Siciliana, approvato con decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455”) e producendo su di esse anche un limitato effetto retroattivo. Tutto ciò, peraltro, non incide sull’effetto pienamente retroattivo, seppure dal 1° gennaio 2003, delle disposizioni di interpretazione autentica dell’art. 23, comma 10, della legge regionale n. 37 del 1985, le quali sono appunto contenute nell’art. 17, comma 11, della legge regionale n. 4 del 2003 e che si sostituiscono a quanto era previsto nell’art. 5, comma 3, della legge regionale n. 17 del 1994.

Per le medesime ragioni è infondata l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa regionale sul presupposto della carenza di rilevanza della questione prospettata nell’ordinanza n. 768 del 2004, dal momento che il Tribunale amministrativo regionale avrebbe potuto giudicare la questione a lui sottoposta sulla base della legislazione regionale vigente «alla data del provvedimento impugnato o a quella della proposizione del ricorso giurisdizionale» ovvero «alla stregua della normativa regionale nell’interpretazione autentica vigente alla data dell’ordinanza di rimessione» e cioè ignorando la interpretazione data nella legge regionale n. 17 del 1994, successivamente abrogata dalla legge regionale n. 4 del 2003.

 

In realtà, stante il carattere retroattivo connaturato alle norme di interpretazione autentica, le quali – una volta entrate in vigore – incidono fin dall’inizio sul significato della disposizione interpretata, del tutto correttamente il giudice rimettente si è posto il problema della legittimità costituzionale della disposizione di interpretazione autentica così come novellata nel 2003, la quale riduce radicalmente la discrezionalità interpretativa dell’art. 23, comma 10, della legge regionale n. 37 del 1985 spettante all’organo giudicante, incidendo sulla disposizione che quest’ultimo è chiamato ad applicare alla fattispecie al suo esame.

5. – Nel merito la questione sollevata in riferimento alla lesione dell’art. 3 Cost. è fondata.

Se per ormai pacifica giurisprudenza di questa Corte le Regioni possono interpretare autenticamente proprie precedenti disposizioni legislative mediante apposite leggi, altrettanto pacifico è che sono estensibili a questo tipo di leggi regionali i limiti in tema di legittimità delle disposizioni di interpretazione autentica che sono stati individuati in riferimento alle leggi statali (si vedano, ex plurimis, le sentenze n. 376 del 1995, n. 397 del 1994, n. 389 del 1991), a cominciare dalla specifica ragionevolezza che è necessaria per testi normativi del genere.

L’interpretazione autentica dell’art. 23, comma 10, della legge regionale n. 37 del 1985, fornita dallo stesso legislatore regionale con l’art. 5, comma 3, della legge n. 17 del 1994, ha contribuito al consolidarsi a livello regionale di una interpretazione omogenea ed incontrastata di una disposizione che altrimenti avrebbe potuto produrre applicazioni difformi. D’altra parte, a livello nazionale, si è venuta affermando una soluzione analoga in sede di interpretazione giurisprudenziale dell’art. 32 della legge statale n. 47 del 1985, specie dopo l’intervento dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza del 22 luglio 1999, n. 20.

In ogni caso, è estraneo a qualunque possibilità di giustificazione sul piano della ragionevolezza un rinnovato esercizio del potere di interpretazione autentica di una medesima disposizione legislativa, per di più dando ad essa un significato addirittura opposto a quello che in precedenza si era già determinato come autentico. Nel caso di specie, in realtà, emerge più che la ricerca di una variante di senso compatibile con il tenore letterale del testo interpretato, la volontà di rendere retroattivamente più ampia l’area di applicazione del condono edilizio (in questo senso è rivelatrice la intitolazione dell’art. 17 della legge regionale n. 4 del 2003, che si riferisce al “recupero risorse derivanti dalla definizione delle pratiche di sanatoria edilizia”); oltretutto aggirando in tal modo il problema dei limiti alla derogabilità da parte del legislatore regionale – che pure operi in un sistema di autonomia speciale – del corrispondente principio contenuto nella disposizione statale, quale vivente nella interpretazione giurisprudenziale e quale anche successivamente ribadito, in relazione al più recente condono edilizio straordinario, dall’art. 32, comma 27, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito nella legge 24 novembre 2003, n. 326 (cfr. sentenza n. 196 del 2004).

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

 

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 11, della legge della Regione Siciliana 16 aprile 2003, n. 4 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2003).

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 gennaio 2006.

 

F.to:

 

Annibale MARINI, Presidente

 

Ugo DE SIERVO, Redattore

 

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria l'8 febbraio 2006.