SENTENZA N. 208
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Sabino CASSESE Presidente
- Giuseppe TESAURO Giudice
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 204 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), promosso dalla Corte dei conti, terza sezione centrale d’appello, nel procedimento vertente tra Pisani Giovanni, l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), quale successore ex lege dell’Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP), ed altri, con ordinanza del 13 febbraio 2012, iscritta al n. 156 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti l’atto di costituzione dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 10 giugno 2014 il Giudice relatore Aldo Carosi;
uditi l’avvocato Filippo Mangiapane per l’INPS e l’avvocato dello Stato Luca Ventrella per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 13 febbraio 2012 depositata il 20 aprile 2012, la Corte dei conti, terza sezione centrale d’appello, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 204 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 97 della Costituzione, nella parte in cui non consente la revoca o la modifica del provvedimento definitivo di liquidazione del trattamento pensionistico anche nel caso di errore di diritto.
1.1.– Il rimettente riferisce che l’appellante nel giudizio principale, dirigente superiore della Polizia di Stato collocato a riposo a far data dal 1° luglio 1995, aveva impugnato il decreto del Ministero dell’interno - Prefettura di Gorizia del 27 maggio 1999, n. 1274, registrato dalla Corte dei conti in data 22 febbraio 2001, con il quale era stato rideterminato, in senso peggiorativo, il trattamento pensionistico già attribuitogli in via definitiva con precedente decreto del 4 febbraio 1998, n. 1266, registrato dalla Corte dei conti il 3 agosto 1998. Sostenendo che il secondo decreto si fondava su una diversa interpretazione dell’art. 4, comma 1, del decreto-legge 29 giugno 1996, n. 341 (Disposizioni urgenti in materia di trattamento economico di ufficiali delle Forze armate e di polizia) – convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 8 agosto 1996, n. 427 – di cui non contestava la correttezza, aveva chiesto che fosse dichiarata l’irripetibilità delle somme percepite in eccesso rispetto alla liquidazione operata dal secondo decreto e l’annullamento dello stesso, atteso che l’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 ammetterebbe la revoca o la modifica del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza solo nei casi ivi previsti, tra cui non è annoverato l’errore di diritto. La sentenza impugnata aveva riconosciuto l’irripetibilità di quanto indebitamente percepito, ritenendo, tuttavia, legittimo il secondo decreto in virtù del generale potere della pubblica amministrazione di annullare d’ufficio i propri atti. In sede di impugnazione, nel ribadire la richiesta di annullamento l’appellante aveva lamentato l’erronea interpretazione dell’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973, in quanto inapplicabile al caso di errore di diritto, ed escluso che il decreto pensionistico n. 1274 del 1999 potesse essere qualificato come atto di annullamento d’ufficio. Si era costituito in giudizio l’Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP), non contestando che nella fattispecie si trattasse di errore di diritto, ma sostenendo il legittimo esercizio del generale potere di annullamento d’ufficio spettante all’amministrazione.
1.2.– Il rimettente sostiene che, come peraltro non contestato dalle parti, la rideterminazione del trattamento pensionistico sia dipesa da un precedente errore interpretativo dell’art. 4, comma 1, del d.l. n. 341 del 1996.
A suo avviso la disciplina dettata dagli artt. 203 e seguenti del d.P.R. n. 1092 del 1973 risponderebbe all’esigenza di trovare un punto di equilibrio tra la necessità, riconducibile ai principi espressi dall’art. 97 Cost., di porre rimedio all’attribuzione di un trattamento di quiescenza superiore a quello dovuto e quella di tutelare il pensionato, che destina le prestazioni pensionistiche, anche se parzialmente indebite, al soddisfacimento dei bisogni propri e della propria famiglia.
Tale disciplina, tuttavia, sarebbe il frutto di un’evoluzione normativa che originariamente attribuiva alla Corte dei conti la funzione «paragiurisdizionale» di liquidare il trattamento pensionistico – sulla base delle conclusioni del Procuratore generale e ad opera di una pronuncia collegiale in camera di consiglio – e, quindi, giustificava una disciplina della revocazione che escludesse l’errore di diritto. Tale esclusione, viceversa, rappresenterebbe una grave lacuna dal momento in cui la liquidazione del trattamento pensionistico è stata sottratta all’organo giurisdizionale ed attribuita all’amministrazione, il cui provvedimento ha continuato ad essere modificabile o revocabile solo in casi tassativamente indicati, tra cui non rientrerebbe l’errore di diritto.
Peraltro, il rimettente evidenzia che – al di fuori del caso in cui il provvedimento di liquidazione sia modificato in ragione dell’illegittimità rilevata dalla Corte dei conti nell’esercizio del controllo successivo – la giurisprudenza delle sezioni d’appello della Corte dei conti sarebbe univoca nell’escludere che il generale regime di annullamento d’ufficio degli atti amministrativi illegittimi sia applicabile a quello definitivo di liquidazione del trattamento di quiescenza – in ciò corroborata da una pronuncia della medesima Corte a sezioni riunite in funzione nomofilattica – in ragione del principio di prevalenza dell’interesse alla stabilità e certezza del rapporto pensionistico.
In simile contesto – nonostante sia consapevole del precedente rappresentato dalla sentenza di questa Corte n. 91 del 1984, che ha dichiarato non fondata una questione di legittimità costituzionale di analogo tenore – il giudice a quo ritiene di sollevarla nuovamente.
Preliminarmente, il rimettente sostiene di non poter dar luogo ad un’interpretazione dell’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 che elida i profili di illegittimità di cui lo stesso sarebbe affetto. Ciò, in particolare, potrebbe avvenire escludendo la tassatività dell’elencazione contenuta nella disposizione censurata. Essa, tuttavia, risulterebbe alla stregua del diritto vivente e del tenore letterale della disposizione censurata, che impedirebbero un’interpretazione adeguatrice, come indirettamente confermato dal precedente rappresentato dalla sentenza n. 91 del 1984.
Dunque, ad avviso del giudice a quo, il provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza potrebbe essere modificato o revocato solo per i motivi indicati dall’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973, che, in ragione della sua specialità, impedirebbe l’annullamento d’ufficio secondo il regime generale degli atti amministrativi.
Sulla base di tale premessa, il rimettente ritiene che la disposizione censurata differenzi ingiustificatamente – in violazione dell’art. 3 Cost. – la situazione in cui il provvedimento sia affetto da un errore di percezione di un dato di fatto della realtà o di calcolo da quella in cui esso sia caduto sulla norma da applicare o sulla sua interpretazione, posto che costituirebbe valore dell’ordinamento giuridico un’azione amministrativa non solo corretta e conforme al canone del buon andamento, ma anche e soprattutto conforme a legge. L’esigenza di una disciplina uniforme delle due situazioni deriverebbe anche dal fatto che l’art. 166 della legge 11 luglio 1980, n. 312 (Nuovo assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare dello Stato), ha assoggettato i provvedimenti definitivi sul trattamento di quiescenza non più al controllo preventivo della Corte dei conti, ma a quello successivo, facendo venir meno ogni ragione di assimilazione della modifica o revoca previste dall’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 alla revocazione delle pronunce giurisdizionali, per la quale l’errore di diritto non assumerebbe rilievo perché destinato ad essere dedotto nei vari gradi di giudizio, senza che si possano reintrodurre tematiche proprie del giudizio già svolto. D’altra parte, la tutela del pensionato sarebbe già sufficientemente assicurata dall’irripetibilità delle somme indebitamente percepite, sancita dall’art. 206 del d.P.R. n. 1092 del 1973, ormai presumibilmente impiegate per il soddisfacimento dei suoi bisogni e di quelli della sua famiglia, argomento che non potrebbe valere in proiezione futura per gli importi illegittimamente attribuiti ma non ancora percepiti.
Ad avviso del rimettente, inoltre, la norma censurata violerebbe anche l’art. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. in quanto il trattamento pensionistico del lavoratore, quale retribuzione differita, dovrebbe essere proporzionato alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato mentre l’esclusione dell’errore di diritto dai motivi che consentono la modifica del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza, sancendone la sostanziale intangibilità anche nel caso in cui sia illegittimo, altererebbe detto rapporto di adeguatezza e proporzionalità. Ciò, peraltro, non sarebbe coerente con i principi fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica espressi dalla legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), che ridefinirebbe il sistema previdenziale, commisurando il trattamento di quiescenza alla contribuzione e stabilizzando la spesa pensionistica in rapporto al prodotto interno lordo ed allo sviluppo del sistema previdenziale medesimo.
Infine, secondo il giudice a quo, l’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 contrasterebbe con l’art. 97 Cost. Infatti, non consentendo di intervenire sul provvedimento definitivo di pensione illegittimo al fine di emendarlo dell’errore di diritto che lo affligge, ne impedirebbe la reductio ad legitimitatem con l’effetto di consolidare per il futuro ed in perpetuo l’indebito arricchimento del percipiente. Ciò in contrasto con il principio di buon andamento e legalità dell’azione amministrativa, cui dovrebbe adeguarsi anche la disciplina del trattamento pensionistico.
1.3.– Quanto alla rilevanza, il rimettente evidenzia che la mancata previsione dell’errore di diritto nel novero dei motivi di revoca o di modifica del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza determinerebbe l’illegittimità del decreto del Ministero dell’interno – Prefettura di Gorizia del 27 maggio 1999, n. 1274, di rideterminazione della pensione, con conseguente accoglimento dell’appello e ripristino di quella originariamente liquidata.
2.– Con atto depositato il 18 settembre 2012 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
Richiamando un orientamento giurisprudenziale della Corte dei conti, l’intervenuto sostiene che l’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 contribuirebbe a definire un sistema di garanzie a favore del pensionato, la cui ratio andrebbe individuata nell’intenzione del legislatore di attuare il principio della tendenziale immodificabilità della pensione al fine di favorire la stabilità e la certezza del rapporto pensionistico e di evitare i riflessi negativi che l’attribuzione di una potestà di annullamento dell’amministrazione senza limiti oggettivi e temporali avrebbe sulla vita sociale e di relazione del dipendente collocato a riposo, che, magari in ragione dell’importo non elevato, destina le somme percepite alla soddisfazione dei bisogni alimentari propri e della propria famiglia. In sostanza, l’esigenza perseguita corrisponderebbe a quella riconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale, che, in ragione della natura di retribuzione differita del trattamento di quiescenza, avrebbe affermato l’intangibilità relativa del diritto alla pensione che si sia acquisito ed il diritto del pensionato a vedersi assicurata un’esistenza libera e dignitosa ed alla sicurezza giuridica, pur nella discrezionalità del legislatore di stabilire modalità e criteri, anche quantitativi, della disciplina in materia.
Sulla base di tali considerazioni il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che la disciplina dettata dalla norma, di stretta interpretazione in quanto deroga alla tendenziale immodificabilità della pensione, corrisponderebbe ai principi costituzionali richiamati, con conseguente manifesta infondatezza – o, addirittura, inammissibilità – della questione sollevata, così come già ritenuto da questa Corte con riferimento a quella, analoga, decisa con la sentenza n. 91 del 1984.
3.– Con atto depositato il 23 luglio 2012 si è costituito in giudizio l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) – successore ex lege dell’INPDAP nel giudizio a quo – aderendo ai motivi di illegittimità costituzionale prospettati dal giudice rimettente.
Con memoria depositata il 19 maggio 2014, l’INPS ha evidenziato la possibilità di interpretare l’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 nel senso che esso non impedisca all’amministrazione l’esercizio del potere di annullamento in autotutela del provvedimento pensionistico definitivo affetto da errore di diritto, così come riconosciuto da un orientamento giurisprudenziale espresso dalla Corte dei conti, oltre che in alcune pronunce di primo grado, anche, a suo dire, in sede d’appello. Ad avviso dell’intervenuto, tale conclusione priverebbe di rilevanza la questione di legittimità costituzionale prospettata dal rimettente.
In punto di non manifesta infondatezza, l’INPS riproduce sostanzialmente le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione, sottolineando la differenza tra la disposizione censurata e l’art. 162 del medesimo d.P.R. n. 1092 del 1973 – che disciplina la liquidazione provvisoria del trattamento di quiescenza, suscettibile di modifica o revoca da parte del provvedimento definitivo, con conseguente conguaglio a beneficio o a danno del pensionato – ed il rischio che l’amministrazione, per non commettere errori inemendabili, dilati i tempi di adozione dei provvedimenti interinali, con conseguente riverbero negativo su efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa.
Considerato in diritto
1.– La Corte dei conti, terza sezione centrale d’appello, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 204 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 97 della Costituzione, nella parte in cui non consente la revoca o la modifica del provvedimento definitivo di liquidazione del trattamento pensionistico anche nel caso di errore di diritto.
Secondo il giudice a quo, l’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 – frutto di un’evoluzione normativa che originariamente attribuiva alla Corte dei conti la funzione «paragiurisdizionale» di liquidare la pensione e, quindi, giustificava una disciplina analoga a quella della revocazione – impedirebbe di modificare o revocare il provvedimento pensionistico definitivo in presenza di errore di diritto.
Sulla base di tale premessa, il rimettente ritiene che la disposizione censurata differenzi ingiustificatamente – in violazione dell’art. 3 Cost. – la situazione in cui il provvedimento sia affetto da un errore di percezione di un dato di fatto della realtà o di calcolo da quella in cui l’errore riguardi la norma da applicare o la sua interpretazione.
Ad avviso del giudice a quo, inoltre, la norma censurata violerebbe anche gli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., in quanto il trattamento di quiescenza del lavoratore, quale retribuzione differita, dovrebbe essere proporzionato alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato, mentre l’esclusione dell’errore di diritto dai motivi che consentono la revoca o la modifica del provvedimento pensionistico definitivo, sancendone la sostanziale intangibilità anche nel caso in cui sia illegittimo, altererebbe il rapporto di adeguatezza e proporzionalità al lavoro prestato.
Infine, secondo il rimettente, l’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 contrasterebbe con l’art. 97 Cost., in quanto, non consentendo di intervenire sul provvedimento definitivo di pensione illegittimo al fine di emendarlo dell’errore di diritto che lo affligge, ne impedirebbe la reductio ad legitimitatem, con l’effetto di consolidare per il futuro l’indebito arricchimento del percipiente, in contrasto con il principio di buon andamento e legalità dell’azione amministrativa, cui dovrebbe adeguarsi anche la disciplina del trattamento pensionistico.
2.– L’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 dispone che la revoca o la modifica del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza da parte dell’ufficio che l’ha emesso «può aver luogo quando: a) vi sia stato errore di fatto o sia stato omesso di tener conto di elementi risultanti dagli atti; b) vi sia stato errore nel computo dei servizi o nel calcolo del contributo del riscatto, nel calcolo della pensione, assegno o indennità o nell’applicazione delle tabelle che stabiliscono le aliquote o l’ammontare della pensione, assegno o indennità; c) siano stati rinvenuti documenti nuovi dopo l’emissione del provvedimento; d) il provvedimento sia stato emesso in base a documenti riconosciuti o dichiarati falsi».
Il rimettente interpreta la disposizione nel senso che il provvedimento definitivo di pensione non possa essere modificato o revocato per errore di diritto, non ricompreso nell’elencazione tassativa contenuta nell’art. 204 né altrimenti rilevante in ragione del potere di annullamento d’ufficio dell’atto illegittimo spettante all’amministrazione in autotutela, in applicazione dell’art. 1, comma 136, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005)», nonché, più in generale, dell’art. 21-nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi).
Il presupposto ermeneutico da cui muove il giudice a quo è conforme all’interpretazione delle sezioni riunite della Corte dei conti (sentenza n. 15/2011/QM), a cui si sono uniformate in modo costante le sezioni d’appello della medesima Corte. Tale interpretazione «costituisce, pertanto, “diritto vivente”, del quale si deve accertare la compatibilità con i parametri costituzionali evocati» (sentenza n. 338 del 2011).
3.– Ai fini della decisione è opportuno ricordare per sommi capi le modalità di determinazione del trattamento di quiescenza e la giurisprudenza della Corte dei conti in materia.
La liquidazione della pensione avviene attraverso due stadi, il primo provvisorio, secondo quanto disposto dall’art. 162 del d.P.R. n. 1092 del 1973, il secondo definitivo.
La liquidazione provvisoria consiste nella corresponsione al pensionato di un trattamento determinato in relazione ai servizi risultanti dalla documentazione prodotta ovvero in possesso dell’amministrazione, con riserva di conguaglio in caso di divergenza rispetto alla liquidazione definitiva. Quest’ultima, invece, conclude la fase interinale intercorrente tra il provvedimento provvisorio e quello definitivo finalizzata a conferire alla pensione speciali garanzie di certezza a tutela sia dell’Erario sia del dipendente cessato dal servizio. A seguito delle opportune verifiche degli elementi di fatto e di diritto viene consolidata, se del caso attraverso una rideterminazione, la spettanza e la misura della pensione in modo da assicurare una certezza rafforzata al rapporto vitalizio che ne deriva.
La duplice fase liquidatoria risponde all’esigenza di assicurare al pubblico dipendente collocato a riposo un reddito nel periodo immediatamente successivo alla cessazione della corresponsione dello stipendio ed, al contempo, di consentire una valutazione ponderata degli elementi di fatto e della portata della normativa da applicare per la liquidazione pensionistica. Necessitando quest’ultima valutazione di un congruo lasso temporale, la liquidazione provvisoria assicura la continuità nella percezione del reddito che, nel caso del pubblico dipendente, costituisce generalmente il solo o principale mezzo di sostentamento.
Chiamate a pronunciarsi su una questione di massima circa la possibilità di modificare in sede di liquidazione pensionistica definitiva l’interpretazione di diritto già data in occasione di quella provvisoria, le sezioni riunite della Corte dei conti (sentenza n. 7/2011/QM) hanno escluso che le garanzie del provvedimento definitivo predisposte dagli artt. 203 e seguenti del d.P.R. n. 1092 del 1973 – inclusa l’inibizione alla revoca per errore di diritto – operino fino all’adozione di quest’ultimo. In quella sede le sezioni riunite hanno affermato che la dialettica tra interessi contrapposti – quello alla certezza del diritto, su cui si fonda l’affidamento del pensionato, e quello alla correttezza e legittimità dell’azione amministrativa – deve essere risolta a favore del secondo, anche in considerazione del fatto che l’attribuzione pensionistica viene espressamente definita provvisoria dall’art. 162 del d.P.R. n. 1092 del 1973 e che l’amministrazione deve avere un congruo lasso temporale per individuare correttamente la normativa da applicare. Poiché la determinazione del trattamento pensionistico finale avviene attraverso il fisiologico passaggio per una fase interinale, «l’adozione del provvedimento definitivo di pensione, con connessa possibilità di variazioni e conguagli, segna il momento più significativo e valorizzabile dell’affidamento riposto dal dipendente collocato a riposo nella correttezza della procedura di determinazione della giusta pensione, essendo non solo ragionevole, ma anche del tutto attendibile ritenere che l’Amministrazione disponga, in tale occasione, di tutti gli elementi necessari per superare la fase di provvisorietà e per fissare […] le coordinate che identificano il trattamento di quiescenza» (Corte dei conti - sezioni riunite, sentenza n. 7/2007/QM).
Ai fini dello scrutinio delle questioni proposte è bene sottolineare come è solo nella fase di liquidazione definitiva che – secondo il diritto vivente precedentemente richiamato, formatosi anche sulla base della sentenza di questa Corte n. 91 del 1984 – opera il principio, espresso dalla norma della cui legittimità costituzionale dubita il rimettente, dell’intangibilità del trattamento pensionistico frutto di errore di diritto.
4.– È alla luce delle esposte premesse che si deve esaminare il merito della questione proposta dal giudice a quo.
4.1.– Anzitutto, essa non è fondata con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., profili di censura scrutinabili congiuntamente.
Nel sollevare la descritta questione di legittimità costituzionale, il rimettente richiama quale tertium comparationis la disciplina dell’errore di fatto e dell’errore di calcolo, per i quali lo stesso art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 prevede la possibilità di revoca o modifica del provvedimento pensionistico definitivo.
Le situazioni, tuttavia, non sono comparabili: mentre l’errore di fatto consiste nella falsa percezione, per equivoco o svista, di quanto emerge incontrovertibilmente dagli atti e quello di calcolo deriva dall’erronea applicazione delle regole matematiche sulla base di dati numerici certi, l’errore di diritto è concetto in ordine alla cui individuazione assumono un peso rilevante argomentazioni induttive ed indagini ermeneutiche. L’oggettività e l’immediatezza che caratterizzano la rilevazione degli errori di fatto e di calcolo differiscono in modo sostanziale dai connotati del giudizio che accompagna la valutazione della violazione, falsa applicazione o erronea interpretazione di una norma.
Secondo il costante orientamento di questa Corte «si ha violazione dell’art. 3 della Costituzione quando situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso, mentre non si manifesta tale contrasto quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non sostanzialmente identiche, essendo insindacabile in tali casi la discrezionalità del legislatore» (sentenze n. 340 del 2004 e, nello stesso senso, n. 108 del 2006).
A ben vedere, mentre i tertia comparationis richiamati dal rimettente non sono equiparabili alla fattispecie in esame, sussiste al contrario una sostanziale omogeneità tra l’ipotesi dell’errore di fatto e quella dell’errore di calcolo. Si tratta di situazioni che hanno in comune un tratto di semplice e concreta rilevabilità, tale da escludere o da rendere particolarmente difficile l’insorgere di affidamenti da parte dei destinatari del provvedimento che ne sia affetto.
Al contrario, la percezione dell’errore di diritto non gode della medesima immediatezza. In tal modo la revoca o la rettifica eventualmente adottate entrano più facilmente in contrasto con il convincimento indotto nel pensionato dalla già intervenuta applicazione, in senso diverso e per lui più favorevole, della norma oggetto di reinterpretazione. Peraltro, l’autorità preposta alla liquidazione provvisoria e definitiva dispone fin dall’origine degli elementi necessari a svolgere le operazioni attinenti all’applicazione della legge. Così, se la fase interinale – suscettibile di prolungarsi anche oltre i termini previsti dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990 o dai regolamenti attuativi di settore per l’adozione del decreto pensionistico definitivo – serve ad assicurare la continuità della prestazione retributiva, rimanendo impregiudicata la possibilità per l’amministrazione di correggere eventuali errori di qualsiasi genere in sede definitiva, quest’ultima possibilità, quanto all’errore di diritto, non trova giustificazione dopo la fine del periodo interinale che caratterizza funzionalmente l’articolazione del procedimento in un sistema binario.
Viene dunque in rilievo il principio dell’affidamento: non solo l’esclusione dell’errore di diritto dalle ipotesi di revoca non trasmoda in un regolamento irrazionale ed arbitrario delle correlate situazioni sostanziali dello Stato e del pensionato, ma essa è funzionale all’esigenza di garantire la sicurezza giuridica, con particolare riguardo alle aspettative del dipendente collocato a riposo.
Nella particolare ipotesi in esame, il fluire del tempo e la disponibilità di mezzi e spazi temporali adeguati ad assicurare la legittimità della prestazione pensionistica costituiscono idonei elementi diversificatori della fattispecie stessa, atteso che la demarcazione temporale consegue come effetto naturale alla struttura e all’articolazione complessiva del procedimento di liquidazione.
Dunque, la determinazione definitiva del trattamento di quiescenza costituisce il momento dal quale la tutela dell’affidamento del pensionato nella stabilità del vitalizio percepito assume prevalente rilevanza nell’ambito dei valori tutelati dall’ordinamento in subiecta materia.
D’altra parte, già in precedenza questa Corte, su analoga questione, aveva osservato che il «principio di eguaglianza, in questo come in ogni altro incontro, è colorito dalle disposizioni costituzionali operanti nel settore in cui quel principio è invocato e la violazione del medesimo è lamentata» (sentenza n. 91 del 1984).
Le considerazioni svolte servono altresì a scrutinare le censure formulate in riferimento all’art. 97 Cost.
Il mero ripristino della legalità dell’azione amministrativa – ancorché finalizzato a conseguire minori oneri finanziari per l’Erario – non può prevalere sulla tutela della situazione del pensionato con modalità temporali illimitate.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, infatti, «la violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione non può essere invocata se non per l’arbitrarietà e la manifesta irragionevolezza della disciplina denunciata, combinandosi, sotto questo profilo, con il riferimento all’art. 3 Cost. ed implicando lo svolgimento di un giudizio di ragionevolezza sulla legge censurata (sentenze n. 243 del 2005, n. 63 e n. 306 del 1995; n. 250 del 1993)» (ordinanze n. 100 e n. 47 del 2013).
L’esclusione della rilevanza dell’errore di diritto dai casi consentiti di modifica o revoca del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza non è irragionevole o arbitraria, essendo volta – come detto – a soddisfare esigenze di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento le quali, già cedevoli nella fase interinale precedente alla liquidazione definitiva, prevalgono successivamente, per effetto di un diverso bilanciamento con l’interesse antagonista del ripristino della legittimità dell’azione amministrativa. Ciò nell’esercizio del potere di scelta del legislatore nel regolare la dialettica di interessi parimenti meritevoli di protezione (sentenze n. 257 del 2010 e n. 34 del 1999; ordinanza n. 105 del 2010).
A tali considerazioni – ed al di là del fatto che l’esigenza di correggere l’errore di diritto viene già adeguatamente garantita nella precedente e non breve fase liquidatoria interinale – si deve aggiungere che il diritto alla pensione costituisce una situazione soggettiva di natura patrimoniale, imprescrittibile, assistita da speciali garanzie di certezza e stabilità e da una particolare tutela da parte dell’ordinamento (sentenza n. 116 del 2013), anche in ragione della condizione di oggettiva debolezza in cui il titolare viene a trovarsi, sia nell’ambito del rapporto obbligatorio che si instaura con l’amministrazione sia nella particolare fase della vita in cui l’uscita dall’attività lavorativa e l’età comportano un difficile adattamento al nuovo stato.
4.2.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 non è fondata neppure in riferimento agli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «il trattamento pensionistico ordinario ha natura di retribuzione differita» (sentenza n. 116 del 2013). Di conseguenza «dagli articoli 36 e 38 discende il principio che, al pari della retribuzione percepita in costanza del rapporto di lavoro, il trattamento di quiescenza, che della retribuzione costituisce il prolungamento a fini previdenziali, deve essere proporzionato alla qualità e alla quantità del lavoro prestato e deve, in ogni caso, assicurare al lavoratore e alla sua famiglia i mezzi adeguati alle loro esigenze di vita. Tuttavia, i ricordati principi di proporzionalità e di adeguatezza […] lasciano alla discrezionalità del legislatore la possibilità di apportare correttivi di dettaglio che – senza intaccare i suddetti criteri con riferimento alla disciplina complessiva del trattamento pensionistico – siano giustificati da esigenze meritevoli di considerazione» (sentenza n. 441 del 1993), operando un «bilanciamento del complesso dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti, anche in relazione alle risorse finanziarie disponibili e ai mezzi necessari per far fronte agli impegni di spesa» (ordinanze n. 202 del 2006 e n. 531 del 2002).
La regola contenuta nell’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 è espressione del potere di scelta esercitato dal legislatore in modo conforme ai principi testé ricordati.
Essa, infatti, non sottrae il calcolo pensionistico al criterio normativamente previsto, sia esso contributivo o retributivo, ma prevede – entro il perimetro delle soluzioni costituzionalmente consentite – un correttivo in nome dell’esigenza di salvaguardare maggiormente, una volta conclusa la fase di liquidazione interinale, la certezza del diritto e il legittimo affidamento che su di essa si fonda.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 204 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 97 della Costituzione, dalla Corte dei conti, terza sezione centrale d’appello, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2014.
F.to:
Sabino CASSESE, Presidente
Aldo CAROSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 16 luglio 2014.