Sentenza n. 70 del 2022

SENTENZA N. 70

ANNO 2022

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, della legge della Regione Siciliana 17 febbraio 2021, n. 5 (Norme in materia di enti locali), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 20-23 aprile 2021, depositato in cancelleria il 27 aprile 2021, iscritto al n. 26 del registro ricorsi 2021 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di costituzione della Regione Siciliana;

udito nell’udienza pubblica del 25 gennaio 2022 il Giudice relatore Angelo Buscema;

uditi l’avvocato dello Stato Maria Elena Scaramucci per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Maria Carmela Mineo per la Regione Siciliana, quest’ultima, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 18 maggio 2021;

deliberato nella camera di consiglio del 25 gennaio 2022.

 

Ritenuto in fatto

1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato l’art. 9 (recte: art. 9, comma 1) della legge della Regione Siciliana 17 febbraio 2021, n. 5 (Norme in materia di enti locali), in riferimento agli artt. 14, comma unico, lettere o) e p), e 15 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), e agli artt. 97 e 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, in relazione agli artt. 7, commi 6, 6-bis, 6-ter e 6-quater, e 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nonché all’art. 5, comma 9, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 135.

L’art. 9, comma 1, della legge reg. Sicilia n. 5 del 2021 sostituisce l’art. 14 della legge della Regione Siciliana 26 agosto 1992, n. 7 (Norme per l’elezione con suffragio popolare del Sindaco. Nuove norme per l’elezione dei consigli comunali, per la composizione degli organi collegiali dei comuni, per il funzionamento degli organi provinciali e comunali e per l’introduzione della preferenza unica), prevedendo che: «1. [i]l sindaco può conferire incarichi a tempo determinato, rinnovabili, che non costituiscono rapporto di pubblico impiego, ad esperti estranei all’amministrazione. L’oggetto e la finalità dell’incarico devono essere definiti all’atto del conferimento e possono anche riferirsi ad attività di supporto agli uffici in materie di particolare complessità, per le quali l’ente abbia documentabili carenze delle specifiche professionalità. Il sindaco può altresì conferire, in aggiunta agli incarichi ad esperti di cui al presente comma, l’incarico di portavoce previsto dall’articolo 7 della legge 7 giugno 2000, n. 150. Gli incarichi di cui al presente comma non possono essere conferiti dal sindaco negli ultimi sei mesi del mandato. 2. Il numero degli incarichi ad esperti di cui al comma 1 non può essere superiore a: a) due nei comuni con popolazione fino a 30.000 abitanti; b) tre nei comuni con popolazione superiore a 30.000 e fino a 250.000 abitanti; c) quattro nei comuni con popolazione superiore a 250.000 abitanti. 3. Gli esperti nominati ai sensi del presente articolo devono essere dotati di documentata professionalità. In caso di nomina di soggetto non provvisto di laurea, l’atto di conferimento dell’incarico deve essere ampiamente motivato. 4. Il sindaco annualmente trasmette al consiglio comunale una dettagliata relazione sull’attività svolta dagli esperti da lui nominati. 5. Agli esperti è corrisposto un compenso mensile non superiore allo stipendio tabellare previsto per la qualifica unica dirigenziale dal CCNL del comparto Regioni ed autonomie locali. Sono, altresì, consentiti conferimenti di incarichi a titolo gratuito, nei limiti di cui al comma 2, ove il soggetto individuato accetti espressamente, all’atto del conferimento, la gratuità della prestazione. 6. Ad un medesimo soggetto non possono essere conferiti contemporaneamente più di due incarichi ai sensi del presente articolo. L’incarico di esperto è compatibile con altri incarichi di collaborazione esterna e/o di consulenza, purché gli incarichi non comportino conflitti di interesse».

1.1.– Anzitutto, la disposizione regionale prevede che gli incarichi conferibili a soggetti estranei all’amministrazione siano «rinnovabili», mentre ciò sarebbe impedito dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001 (t.u. pubblico impiego), secondo cui, peraltro, l’oggetto della prestazione deve corrispondere a obiettivi e progetti specifici e determinati, laddove il soddisfacimento di esigenze più durature, cui il rinnovo sarebbe funzionale, andrebbe assicurato attraverso gli ordinari strumenti di reclutamento.

Analogamente, la previsione regionale secondo cui «[l]’oggetto e la finalità dell’incarico devono essere definiti all’atto del conferimento e possono anche riferirsi ad attività di supporto agli uffici in materie di particolare complessità» contrasterebbe con la medesima disposizione statale, consentendo all’incarico di correlarsi all’espletamento delle funzioni ordinarie piuttosto che a progetti specifici e determinati e di essere predefinito solo per oggetto e finalità e non anche per durata e compenso della collaborazione.

Inoltre, la norma regionale ammetterebbe il conferimento dell’incarico anche a soggetto sprovvisto di laurea, mentre l’art. 7, comma 6, t.u. pubblico impiego consentirebbe una deroga a tale requisito solo nei casi espressamente indicati, che costituirebbero un numerus clausus.

Ancora, la disposizione regionale non prevederebbe l’espletamento di procedure selettive volte ad appurare la competenza dei soggetti da incaricare, in contrasto con quanto disposto dall’art. 7, comma 6-bis, t.u. pubblico impiego, secondo cui «[l]e amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione». Le ipotesi di affidamento diretto sarebbero del tutto eccezionali e non suscettibili di interpretazione estensiva, come evincibile dal successivo comma 6-quater, che indicherebbe i casi di deroga.

Infine, il legislatore regionale avrebbe omesso di rinviare alle disposizioni normative statali che disciplinano i limiti e i divieti di conferimento degli incarichi ai dipendenti pubblici (art. 53 t.u. pubblico impiego) o ai lavoratori collocati in quiescenza (art. 5, comma 9, del d.l. n. 95 del 2012, come convertito).

Ad avviso del ricorrente, tutte le disposizioni legislative evocate costituirebbero esercizio della competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., regolando tali contratti di collaborazione temporanea. Ciò a dimostrazione della violazione del citato parametro.

Inoltre, esse costituirebbero norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica (si cita la sentenza di questa Corte n. 172 del 2018), quindi un limite alla competenza regionale di cui all’art. 14 dello statuto reg. Sicilia; attuerebbero, inoltre, i principi di efficienza, trasparenza, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, di cui all’art. 97 Cost. Di conseguenza, disponendo in difformità con quanto da esse previsto, la normativa impugnata contrasterebbe anche con tali parametri.

In ultimo, l’art. 9, comma 1, della legge reg. Sicilia n. 5 del 2021, ammettendo che l’incarico possa riguardare financo l’espletamento di compiti gestionali, sottratti alla competenza funzionale degli organi politici dell’ente, violerebbe l’art. 97 Cost., che imporrebbe la separazione tra funzioni di indirizzo politico e funzioni amministrative (si cita la sentenza di questa Corte n. 81 del 2013).

2.– Si è costituita in giudizio la Regione Siciliana, deducendo l’inammissibilità o, comunque, la non fondatezza delle questioni proposte.

Ad avviso della resistente, il Presidente del Consiglio dei ministri non avrebbe adeguatamente indicato i motivi per cui alle fattispecie disciplinate dalla normativa regionale impugnata, che escludono la costituzione di un rapporto di pubblico impiego, debba essere applicato l’art. 7 t.u. pubblico impiego. Viceversa, si tratterebbe di incarichi diversi da quelli conferibili in generale dall’amministrazione comunale, contemplati dall’art. 13 della legge reg. Sicilia n. 7 del 1992, a cui si riferirebbe la disposizione statale. Quella regionale attribuirebbe al Sindaco una prerogativa del tutto particolare, coerente con il ruolo assegnatogli dall’ordinamento siciliano e frutto di una precisa volontà del legislatore nell’esercizio della propria competenza esclusiva in materia di «regime degli enti locali e delle circoscrizioni relative» e di «ordinamento […] degli enti locali», di cui, rispettivamente, agli artt. 14, comma unico, lettera o), e 15 dello statuto.

Nel merito, peraltro, le censure non sarebbero fondate, considerati gli stringenti limiti apposti al potere di conferimento dell’incarico.

Più in particolare – e con riguardo ai dedotti profili di difformità – la sua rinnovabilità non colliderebbe con la temporaneità, espressamente prevista, e sarebbe funzionale a garantire la continuità dell’apporto del collaboratore, ove necessaria per periodi ulteriori rispetto a quello iniziale.

Comunque, l’incaricato dovrebbe essere in possesso di documentata professionalità in rapporto ai compiti assegnatigli, essendo imposto un particolare onere motivazionale nel caso in cui difettasse il requisito culturale della laurea, così come, peraltro, previsto dal precedente testo normativo, senza che ciò abbia dato luogo a impugnative.

L’esplicita previsione di un limite massimo per il compenso andrebbe inevitabilmente correlata con l’obbligo di preventiva determinazione dello stesso, peraltro solo ove l’incarico non fosse a titolo gratuito, come pure ammesso, con conseguenti economie di spesa.

La natura fiduciaria dell’incarico, comunque astretto dai vincoli normativamente previsti e dalla necessità di compiuta motivazione dell’atto di conferimento quanto a contenuto e idoneità del destinatario, giustificherebbe l’inosservanza di una procedura selettiva.

Il mancato rinvio ai limiti soggettivi dettati dalla legislazione statale (artt. 53 t.u. pubblico impiego e 5, comma 9, del d.l. n. 95 del 2012, come convertito) non impedirebbe di ritenerli comunque applicabili, in difetto di esplicita esclusione.

Infine, quanto alla censura di possibile sconfinamento dell’incarico nell’ambito dei compiti gestionali, tale rischio sarebbe escluso dalla natura di supporto tecnico-scientifico agli uffici in materie di particolare complessità, ove manchino in organico specifiche professionalità.

3.– Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito gli argomenti addotti a sostegno delle censure formulate in ricorso, evidenziando come, sebbene «la legislazione regionale incid[a] in modo diretto sul comportamento delle amministrazioni nell’organizzazione delle proprie risorse umane e solo in via riflessa ed eventualmente sulle posizioni soggettive discendenti da tale tipologia flessibile di contratto di lavoro», l’art. 97 Cost. imporrebbe comunque la necessità di garantire la parità di accesso e un adeguato livello di competenza, con esclusione, al contempo, della possibilità di stabilizzazione, conseguente a una pluralità di rinnovi.

Considerato in diritto

1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato l’art. 9 (recte: art. 9, comma 1) della legge della Regione Siciliana 17 febbraio 2021, n. 5 (Norme in materia di enti locali), in riferimento agli artt. 14, comma unico, lettere o) e p), e 15 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), e agli artt. 97 e 117, secondo comma, lettera l), Cost., in relazione agli artt. 7, commi 6, 6-bis, 6-ter e 6-quater, e 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nonché all’art. 5, comma 9, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 135.

1.1.– Come evidenziato dalla Regione Siciliana, costituita in giudizio, alla stregua dei motivi che sorreggono l’impugnativa, il thema decidendum va limitato al comma 1 dell’art. 9 della legge reg. Sicilia n. 5 del 2021, ossia alla disposizione che ha sostituito l’art. 14 della legge della Regione Siciliana 26 agosto 1992, n. 7 (Norme per l’elezione con suffragio popolare del Sindaco. Nuove norme per l’elezione dei consigli comunali, per la composizione degli organi collegiali dei comuni, per il funzionamento degli organi provinciali e comunali e per l’introduzione della preferenza unica) e regola il potere del Sindaco di conferire incarichi di collaborazione a soggetti estranei all’amministrazione in maniera parzialmente difforme da quanto prescritto dal legislatore statale.

In particolare, secondo il ricorrente, diversamente da quanto disposto dall’art. 7 del d.lgs. n. 165 del 2001 (t.u. pubblico impiego), gli incarichi sono previsti come rinnovabili, non sarebbero predefiniti quanto a durata e compenso, si correlerebbero all’espletamento delle funzioni ordinarie dell’ente piuttosto che alla realizzazione di progetti specifici e determinati e potrebbero essere conferiti anche a soggetti sprovvisti di laurea, non selezionati a seguito dello svolgimento di procedure comparative; inoltre, la normativa regionale ometterebbe di richiamare gli artt. 53 t.u. pubblico impiego e 5, comma 9, del d.l. n. 95 del 2012, come convertito, che disciplinano i limiti e i divieti di conferimento degli incarichi, rispettivamente, ai dipendenti pubblici e ai lavoratori collocati in quiescenza.

In tal modo il legislatore regionale avrebbe invaso la competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile e violato i limiti di quella della Regione in materia di regime degli enti locali, poiché le disposizioni statali evocate esprimerebbero norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica, oltre che rispondere ai canoni di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione. Di qui la violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera l), e 97 Cost. e degli artt. 14, comma unico, lettere o) e p), e 15 dello statuto.

Infine, contrasterebbe con l’art. 97 Cost. la previsione che gli incarichi possano essere conferiti anche a supporto degli uffici amministrativi dell’ente locale, in violazione del principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestionali.

2.– La Regione eccepisce che il Presidente del Consiglio dei ministri non avrebbe adeguatamente indicato i motivi per cui alle fattispecie disciplinate dalla normativa regionale impugnata, che esclude la costituzione di un rapporto di pubblico impiego, debba essere applicato l’art. 7 del d.lgs. n. 165 del 2001, trattandosi, viceversa, di incarichi espressione di una prerogativa particolare del Sindaco, coerente con il ruolo assegnatogli dall’ordinamento regionale, attribuita dal legislatore regionale nell’esercizio della propria competenza esclusiva in materia di «regime degli enti locali e delle circoscrizioni relative» e di «ordinamento […] degli enti locali», di cui, rispettivamente, agli artt. 14, comma unico, lettera o), e 15 dello statuto.

L’eccezione non è fondata.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, una volta indicata la norma impugnata, identificati i parametri asseritamente violati e illustrate le ragioni del vulnus a essi recato, ai fini dell’ammissibilità delle questioni il ricorrente «non è tenuto a fornire ulteriore motivazione circa l’omessa indicazione di parametri a cui sarebbe riconducibile il titolo di competenza in virtù del quale è stata posta in essere la disposizione censurata» (sentenza n. 199 del 2014) – ciò in cui, in definitiva, consiste l’eccezione sollevata dalla Regione – risolvendosi essa in un profilo che attiene non già all’aspetto preliminare della questione, bensì a quello successivo del merito (sentenze n. 252 del 2016, n. 199 del 2014 e n. 36 del 2013).

È tuttavia inammissibile la questione proposta in riferimento all’art. 14, comma unico, lettera p), dello statuto, relativo alla materia «ordinamento degli uffici e degli enti regionali».

Si tratta di parametro meramente menzionato nel ricorso, senza che alla sua evocazione si accompagni lo sviluppo di qualsivoglia motivazione a sostegno della dedotta violazione (ex multis, sentenza n. 213 del 2021).

3.– Prima di esaminare il merito delle questioni è utile evidenziare come, alla stregua della giurisprudenza contabile formatasi con riferimento alla precedente versione dell’art. 14 della legge reg. Sicilia n. 7 del 1992 (ex aliis, Corte dei conti, sezione giurisdizionale d’appello per la Regione Siciliana, sentenza 13 febbraio 2018, n. 38/A/2018), il potere di nomina dei cosiddetti “esperti del Sindaco” sia stato attribuito in correlazione all’incremento delle attribuzioni sindacali nell’ambito dell’ordinamento siciliano – in particolare, al potere residuale di compiere tutti gli atti di amministrazione che dalla legge o dallo statuto non siano specificamente attribuiti alla competenza «di altri organi del comune, degli organi di decentramento, del segretario e dei dirigenti» (art. 13 della legge reg. Sicilia n. 7 del 1992), viceversa spettante alla Giunta comunale secondo la previsione generale di cui all’art. 48, comma 2, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, recante «Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali» (Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, sentenza 11 marzo 2013, n. 325) – nonché, soprattutto, in coerenza con la ratio di fondo che sorregge la legge regionale n. 7 del 1992. Quest’ultima, anticipando la disciplina nazionale, ha ridisegnato il ruolo del Sindaco, configurandolo come organo eletto direttamente dai cittadini, sulla base del programma politico-amministrativo che si è impegnato a realizzare, senza che sussista più necessariamente un rapporto fiduciario con il Consiglio comunale. In tale posizione di diretta responsabilità politica verso i cittadini, il Sindaco assume un ruolo attivo e funzionalmente autonomo nell’ambito dell’ente locale, che si esplica anche mediante l’esercizio di funzioni generali d’indirizzo, d’impulso, di proposta, di direzione, di coordinamento e di controllo, al fine del miglior perseguimento delle finalità indicate nel programma elettorale e, più in generale, della tutela degli interessi pubblici dell’ente. Di qui l’attribuzione del potere di conferire gli incarichi a esperti estranei all’amministrazione, scelti in virtù di un rapporto fiduciario e non a seguito di selezione comparativa (ex multis, Corte dei conti, sezione giurisdizionale d’appello per la Regione Siciliana, sentenza 11 febbraio 2021, n. 23/A/2021), onde consentirgli di svolgere al meglio il suo ruolo.

La disposizione impugnata sostituisce la precedente, ampliando il potere di conferimento dell’incarico di esperto, non solo consentendone espressamente il rinnovo, ma prevedendo, in particolare, che «[l]’oggetto e la finalità dell’incarico […] possono anche riferirsi ad attività di supporto agli uffici in materie di particolare complessità, per le quali l’ente abbia documentabili carenze delle specifiche professionalità», in tal modo discostandosi dal modello configurato dalla disposizione originaria, che consentiva al Sindaco la nomina di esperti solo «per l’espletamento di attività connesse con le materie di sua competenza».

4.– Tanto premesso, occorre identificare l’ambito materiale a cui ricondurre la disposizione impugnata, considerata la priorità logica che, nei giudizi in via principale, riveste lo scrutinio di legittimità riferito al riparto competenziale (sentenza n. 195 del 2021).

A tal fine, in applicazione dei consueti criteri d’individuazione della materia in cui una certa disposizione ricade, si deve necessariamente tener conto «“della sua ratio, della finalità che persegue, del contenuto e dell’oggetto [...] tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi in modo da identificare così correttamente e compiutamente l’interesse tutelato (ex plurimis, sentenze n. 245 del 2015, n. 167 e 121 del 2014)” (sentenza n. 287 del 2016)» (sentenza n. 56 del 2020).

Si è detto in precedenza come gli incarichi in considerazione si giustifichino, da un lato, alla stregua dell’incremento di competenze del Sindaco nell’ambito dell’ordinamento siciliano e, dall’altro, con l’esigenza di garantire allo stesso la possibilità di espletare al meglio tutti i molteplici e complessi compiti derivanti dalla posizione di diretta responsabilità politica verso i cittadini che, conseguentemente, lo impegna ad assumere un ruolo maggiormente attivo nell’ambito dell’amministrazione comunale.

Dal punto di vista contenutistico, la disposizione regola presupposti e modalità di conferimento degli incarichi, incide in modo diretto sul comportamento dell’amministrazione nell’organizzazione delle risorse umane e riguarda la fase anteriore all’instaurazione del rapporto.

Alla luce di tali considerazioni, la normativa in esame non va ricondotta alla materia dell’ordinamento civile bensì alla competenza esclusiva regionale, segnatamente a quella in materia di «regime degli enti locali» di cui all’art. 14, comma unico, lettera o), dello statuto.

Tale conclusione trova anche conforto nella giurisprudenza contabile (ex aliis, Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione Siciliana, deliberazione 5 marzo 2019, n. 55/2019/PAR) e amministrativa (Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, sentenza 11 marzo 2013, n. 325) in ordine al titolo di competenza cui ricondurre la legge reg. Sicilia n. 7 del 1992, della quale la disposizione impugnata sostituisce l’art. 14.

Soprattutto essa risulta coerente con quanto costantemente affermato da questa Corte, che «individua il confine fra ciò che è ascrivibile alla materia dell’ordinamento civile e ciò che, invece, è riferibile alla competenza legislativa […] regionale, affermando che sono da ricondurre alla prima gli interventi legislativi che dettano misure relative a rapporti lavorativi già in essere, e rientrano nella seconda i profili pubblicistico-organizzativi» (sentenza n. 195 del 2021), quali quelli in considerazione. In particolare, si deve dare rilievo al fatto che la norma scrutinata è destinata a spiegare la propria efficacia in ordine alle modalità di accesso al rapporto, nella fase anteriore alla sua istaurazione, incidendo direttamente sul comportamento dell’amministrazione nell’organizzazione delle risorse umane (sentenze n. 194 del 2020, n. 241 del 2018 e n. 235 del 2010).

È ben vero che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, anche riferita all’ordinamento siciliano, «[l]a materia dell’ordinamento civile, riservata in via esclusiva al legislatore statale, investe la disciplina del trattamento economico e giuridico dei dipendenti pubblici» (ex plurimis, sentenza n. 25 del 2021) ed è altresì vero che una porzione della disposizione impugnata afferisce al trattamento economico degli incaricati, che non può eccedere il limite dello «stipendio tabellare previsto per la qualifica unica dirigenziale dal CCNL del comparto Regioni ed autonomie locali», essendo, «altresì, consentiti conferimenti di incarichi a titolo gratuito». Tuttavia, si deve ritenere che si tratti di un “aspetto marginale” della disciplina, dunque non determinante ai fini dell’identificazione del titolo di competenza.

D’altra parte, esso costituisce un profilo ancillare – destinato a essere inevitabilmente considerato dal legislatore che regoli il conferimento degli incarichi – rispetto all’oggetto principale della previsione, contempla un limite e la possibile gratuità e non è, comunque, oggetto di specifica doglianza da parte del ricorrente.

Tale aspetto, che peraltro incide solo in via “riflessa” sulle posizioni soggettive discendenti da tale tipologia di incarichi (sentenze n. 194 del 2020, n. 241 del 2018 e n. 235 del 2010), non è dunque determinante ai fini dell’attrazione della disposizione nell’alveo dell’ordinamento civile.

Non sussiste, pertanto, il dedotto vulnus all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in quanto, alla stregua delle considerazioni che precedono, la normativa impugnata deve ricondursi alla competenza esclusiva del legislatore regionale – analogamente a quanto affermato in passato da questa Corte con riferimento a disposizioni dal tenore simile (sentenze n. 250 del 2020 e n. 277 del 2013) – e segnatamente, come detto, a quella in materia di «regime degli enti locali» di cui all’art. 14, comma unico, lettera o), dello statuto.

Occorre tuttavia rammentare che, per costante giurisprudenza costituzionale, le disposizioni qualificabili come norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica «“in base all’art. 14 dello statuto speciale per la regione siciliana, costituiscono un limite anche all’esercizio delle competenze legislative di tipo esclusivo” (sentenza n. 153 del 1995; nello stesso senso sentenza n. 265 del 2013)» (sentenza n. 168 del 2018). Ciò in quanto, «[l]o stesso art. 14 dello statuto precisa che l’Assemblea siciliana deve esercitare la potestà legislativa esclusiva “nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato, senza pregiudizio delle riforme agrarie e industriali deliberate dalla Costituente del popolo italiano” e la formula è stata costantemente intesa da questa Corte come richiamo al rispetto dei “limiti derivanti [… tra l’altro] dalle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica […]” (sentenza 265 del 2013; nello stesso senso anche le sentenze n. 263 del 2016, n. 11 del 2012, n. 189 del 2007, n. 314 del 2003, n. 4 del 2000, n. 153 del 1995)» (sentenza n. 229 del 2017).

Al riguardo, è stato in più occasioni riconosciuto che, come confermato nell’autoqualificazione di cui all’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, «i principi desumibili dal t.u. pubblico impiego costituiscono norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica» (ex multis, sentenza n. 16 del 2020) e tale connotato si rinviene anche nell’art. 7 t.u. pubblico impiego (sentenza n. 250 del 2020), evocato dal ricorrente quale disciplina nazionale di riferimento.

Alla luce di tali premesse, è possibile procedere allo scrutinio nel merito delle singole questioni proposte.

5.– È anzitutto fondata la questione di legittimità costituzionale promossa dal ricorrente, nella parte in cui censura la rinnovabilità degli incarichi.

Tale possibilità è espressamente preclusa dall’art. 7, comma 6, lettera c), t.u. pubblico impiego, laddove esplicitamente prescrive l’inammissibilità del rinnovo.

Sul punto è pertanto evidente il contrasto della normativa regionale con quella statale.

Tuttavia, la doverosa considerazione della peculiarietà dell’incarico, in conseguenza del necessario rapporto fiduciario con l’organo politico – considerazione che ha già altrimenti condotto questa Corte a giustificare deroghe da parte del legislatore regionale alla disciplina dettata dall’art. 7, comma 6, t.u. pubblico impiego (sentenze n. 43 del 2019, n. 53 del 2012, n. 7 del 2011 e n. 252 del 2009) – consente di ammettere il rinnovo a opera del Sindaco nel corso del cui mandato l’incarico è stato originariamente conferito, per una durata che comunque non lo ecceda.

La norma va dunque dichiarata costituzionalmente illegittima, per violazione dei limiti statutari previsti dall’art. 14, limitatamente alla parte in cui consente il rinnovo dell’incarico oltre il periodo del mandato del Sindaco che l’ha originariamente conferito.

Le restanti censure formulate in riferimento agli ulteriori parametri sono assorbite.

6.– Il ricorrente deduce che la disposizione regionale, ammettendo che «[l]’oggetto e la finalità dell’incarico […] possono anche riferirsi ad attività di supporto agli uffici in materie di particolare complessità, per le quali l’ente abbia documentabili carenze delle specifiche professionalità», violi sia l’art. 7 t.u. pubblico impiego, secondo cui «l’oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall’ordinamento all’amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati» sia l’art. 97 Cost.

Anzitutto, la disposizione regionale, per come formulata, consente il conferimento dell’incarico anche per concorrere allo svolgimento delle funzioni ordinarie dell’ente. Ciò in contrasto con quanto dispone la norma evocata a parametro interposto, che, viceversa, permette solo in ipotesi molto limitate di derogare al principio generale per cui gli organi della pubblica amministrazione devono provvedere direttamente con il proprio personale all’espletamento dei compiti loro demandati.

Per quanto qui rileva, tale deroga è ammessa non per lo svolgimento generalizzato delle funzioni degli uffici a supporto dei quali l’incarico esterno viene conferito, ma soltanto se la prestazione che ne costituisce l’oggetto sia strettamente ancorata a obiettivi e progetti specifici e determinati, come previsto dall’art. 7, comma 6, lettera a, t.u. pubblico impiego, disposizione che costituisce espressione dei principi di cui all’art. 97 Cost.

Inoltre, la disposizione regionale che consente l’attribuzione di compiti di supporto all’attività degli uffici agli esperti del Sindaco, evidentemente legati da un rapporto fiduciario con quest’ultimo, viola l’art. 97 Cost. sotto un ulteriore profilo.

Come questa Corte ha avuto modo di affermare, «[l]a separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa costituisce […] un principio di carattere generale, che trova il suo fondamento nell’art. 97 Cost.» (sentenza n. 108 del 2015). Infatti, «[a]l principio di imparzialità sancito dall’art. 97 Cost. si accompagna, come “natural[e] corollari[o]”, la separazione “tra politica e amministrazione, tra l’azione del ‘governo’ – che, nelle democrazie parlamentari, è normalmente legata agli interessi di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza – e l’azione dell’’amministrazione’ – che, nell’attuazione dell’indirizzo politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obbiettivate dall’ordinamento” (sentenza n. 453 del 1990)» (sentenza n. 81 del 2013).

In particolare è stato precisato che «[l]’individuazione dell’esatta linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell’organo politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa […] spetta al legislatore. A sua volta, tale potere incontra un limite nello stesso art. 97 Cost.: nell’identificare gli atti di indirizzo politico amministrativo e quelli a carattere gestionale, il legislatore non può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio di separazione tra politica e amministrazione, ledano l’imparzialità della pubblica amministrazione» (sentenza n. 108 del 2015).

Secondo l’art. 14 della legge reg. Sicilia n. 7 del 1992 – nella versione precedente alla sostituzione – gli “esperti del Sindaco” potevano svolgere esclusivamente un’attività strettamente correlata all’esercizio delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo spettanti all’organo apicale dell’ente (ex aliis, Corte dei conti, sezione giurisdizionale d’appello per la Regione Siciliana, sentenza 31 agosto 2021, n. 147/A/2021), collocandosi in un ambito organizzativo riservato all’attività politica con compiti di supporto, con una compenetrazione e coesione che si spiegava alla stregua del ruolo attribuito al Sindaco nell’ordinamento siciliano e che giustificava appieno il rapporto fiduciario a fondamento dell’incarico. Tale intrinseca coerenza viene invece meno nel momento in cui l’incarico fiduciario può riguardare il sostegno agli uffici amministrativi.

La prevista possibilità di conferimento dell’incarico di esperto del Sindaco, in virtù di un legame fiduciario con quest’ultimo, a supporto della (e, inevitabilmente, con influenza sulla) attività gestionale non rispetta il principio di separazione tra politica e amministrazione e non appare ragionevole con specifico riferimento al difetto di selezione comparativa nell’identificazione dell’incaricato. Ciò considerato che, in generale, quest’ultima non ammette ingerenze di carattere politico, unica eccezione essendo dettata, appunto, dall’esigenza che alcuni incarichi siano attribuiti a soggetti individuati intuitu personae, ossia con una modalità che mira a rafforzare la sintonia con l’organo politico (sentenza n. 104 del 2007).

Ne consegue che la scelta normativa regionale si colloca oltre la linea di demarcazione a salvaguardia del principio d’imparzialità, la quale, secondo i dettami della giurisprudenza di questa Corte, va dunque tracciata tra l’attività svolta dal Sindaco con il supporto degli esperti, da un lato, e quella esercitata dagli organi burocratici, cui spetta la funzione di amministrazione attiva, dall’altro (analogamente a quanto ritenuto con riguardo al personale di diretta collaborazione del Ministro: sentenza n. 304 del 2010).

Pertanto, l’art. 9, comma 1, della legge reg. Sicilia n. 5 del 2021 è costituzionalmente illegittimo limitatamente alla locuzione secondo cui, con riferimento agli incarichi di “esperto del Sindaco”, prevede: «e possono anche riferirsi ad attività di supporto agli uffici in materie di particolare complessità, per le quali l’ente abbia documentabili carenze delle specifiche professionalità».

L’accoglimento della questione con riguardo alla possibilità di conferire l’incarico di esperto del Sindaco a supporto degli uffici amministrativi assorbe l’impugnativa volta a far valere la mancata previsione che esso si correli necessariamente a un progetto specifico e determinato, così come disposto dall’art. 7, comma 6, lettera a), t.u. pubblico impiego.

7.– Il ricorrente lamenta altresì che la disposizione regionale impugnata consenta all’incarico di essere definito solo per oggetto e finalità e non anche per durata e compenso della collaborazione, così come stabilito dall’art. 7, comma 6, t.u. pubblico impiego.

La questione non è fondata, nei termini che seguono.

L’art. 14 della legge reg. Sicilia n. 7 del 1992 – nel testo frutto della sostituzione – si limita a prevedere che il conferimento sia «a tempo determinato» e che all’incaricato non possa essere corrisposto un compenso mensile superiore al limite indicato, salva l’accettazione della gratuità.

Viceversa, l’art. 7, comma 6, lettera d), t.u. pubblico impiego dispone espressamente che «devono essere preventivamente determinati durata […] e compenso della collaborazione».

L’evidenziata difformità, tuttavia, non conduce a una declaratoria di illegittimità costituzionale della disciplina regionale in parte qua, ben potendosi interpretare il suo portato nell’implicito e doveroso rispetto della norma fondamentale dettata dal legislatore statale.

In effetti, la necessità della previsione di un termine («a tempo determinato») e il fatto che sia dettata una disciplina del compenso (quanto a limite ed eventuale gratuità, che deve essere espressamente accettata «all’atto del conferimento») ben possono essere intesi nel senso che le relative determinazioni avvengano al momento dell’incarico, in modo da delineare ex ante il perimetro dei principali diritti e obblighi dei contraenti.

8.– Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna la disposizione regionale anche perché consentirebbe il conferimento dell’incarico a soggetto sprovvisto di laurea – mentre l’art. 7, comma 6, t.u. pubblico impiego ammetterebbe una deroga a tale requisito solo nei casi espressamente indicati, che costituirebbero un numerus clausus – e non prevederebbe l’espletamento di procedure selettive volte ad appurare la competenza dei soggetti da incaricare. Ciò in contrasto con quanto disposto dall’art. 7, comma 6-bis, t.u. pubblico impiego, secondo cui «[l]e amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione». Le ipotesi di affidamento diretto sarebbero del tutto eccezionali e non suscettibili di interpretazione estensiva, come evincibile dal successivo comma 6-quater.

Al riguardo, occorre rammentare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, «le Regioni possono dettare, in deroga ai criteri di selezione dettati dall’art. 7, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), dei propri, autonomi, criteri selettivi, che tengano conto della peculiarietà dell’incarico in conseguenza del necessario rapporto fiduciario con l’organo politico» (sentenza n. 43 del 2019), a condizione che prevedano, in alternativa a quelli più rigorosi, di matrice statale, «altri criteri di valutazione, ugualmente idonei a garantire la competenza e la professionalità dei soggetti […] e ad assicurare che la scelta dei collaboratori esterni avvenga secondo i canoni della buona amministrazione, onde evitare che sia consentito l’accesso a tali uffici di personale esterno del tutto privo di qualificazione» (sentenza n. 53 del 2012; analogamente, sentenza n. 7 del 2011), scongiurando «il pericolo di un uso strumentale e clientelare delle cosiddette esternalizzazioni» (sentenza n. 252 del 2009).

Tanto considerato, la disposizione impugnata risponde ai citati principi, onde la non fondatezza delle questioni.

In particolare, da un lato, la mancata applicazione della procedura di comparazione selettiva si giustifica «nella prospettiva di garantire il necessario grado di fiduciarietà del personale di diretta collaborazione» (sentenza n. 7 del 2011), confinata al solo supporto del Sindaco, a seguito dell’accoglimento della questione di legittimità costituzionale relativa alla possibilità di incarico anche a beneficio degli uffici amministrativi; dall’altro, la qualificazione del personale è adeguatamente assicurata dal requisito della laurea, ordinariamente prevista, e dalla documentata professionalità richiesta perché possa essere «ampiamente motivato» il conferimento dell’incarico al soggetto che ne sia eventualmente privo, secondo l’interpretazione dell’art. 14 della legge reg. Sicilia n. 7 del 1992 – sul punto rimasto invariato a seguito della sostituzione operata dalla disposizione censurata – seguita peraltro dalla giurisprudenza contabile (ex plurimis, Corte dei conti, sezione giurisdizionale d’appello per la Regione Siciliana, sentenza 2 luglio 2019, n. 65/A/2019).

9.– Infine, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 53 t.u. pubblico impiego e dell’art. 5, comma 9, del d.l. n. 95 del 2012, come convertito, norme fondamentali di riforma economico-sociale al contempo espressive dei canoni di cui all’art. 97 Cost., alle quali la disposizione regionale non rinvierebbe espressamente.

L’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 regola in generale il cumulo di impieghi e incarichi pubblici e costituisce norma fondamentale di riforma economico-sociale della Repubblica ai sensi della stessa autoqualificazione operata dall’art. 1, comma 3, t.u. pubblico impiego, corrispondendo al principio di cui all’art. 2, comma 1, lettera p), della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale).

L’art. 5, comma 9, del d.l. n. 95 del 2012, come convertito, prevede che «[è] fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 […] di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza. Alle suddette amministrazioni è, altresì, fatto divieto di conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni di cui al primo periodo e degli enti e società da esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi degli enti di cui all’articolo 2, comma 2-bis, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125. Gli incarichi, le cariche e le collaborazioni di cui ai periodi precedenti sono comunque consentiti a titolo gratuito. Per i soli incarichi dirigenziali e direttivi, ferma restando la gratuità, la durata non può essere superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile, presso ciascuna amministrazione. […]».

In tal modo il legislatore ha voluto evitare che il conferimento di alcuni tipi di incarico – nel cui novero potrebbero rientrare anche quelli di “esperto del Sindaco” che ne rivestano i requisiti oggettivi – sia utilizzato dalle amministrazioni pubbliche per continuare ad avvalersi di dipendenti collocati in quiescenza, attribuendo loro rilevanti responsabilità nelle amministrazioni stesse, così aggirando di fatto lo stesso collocamento a riposo; al contempo, ha inteso agevolare il ricambio e il ringiovanimento del personale nelle pubbliche amministrazioni, pur ammettendo l’incarico in via temporanea o, comunque, gratuito, onde assicurare il trasferimento delle competenze e delle esperienze; infine, la ratio della disposizione si collega anche al «carattere limitato delle risorse pubbliche», che «giustifica la necessità di una predeterminazione complessiva – e modellata su un parametro prevedibile e certo – delle risorse che l’amministrazione può corrispondere a titolo di retribuzioni e pensioni» (sentenza n. 124 del 2017).

Alla luce di quanto precede, con riguardo al mancato rinvio alle citate disposizioni statali, nel silenzio serbato dalla normativa regionale impugnata, essa deve essere interpretata in senso rispettoso delle stesse, ciò che consente di superare le censure illegittimità costituzionale formulate (sentenza n. 215 del 2018).

Pertanto, nei sensi di cui sopra, le predette ultime questioni non sono fondate.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, della legge della Regione Siciliana 17 febbraio 2021, n. 5 (Norme in materia di enti locali), limitatamente alla parte in cui consente il rinnovo dell’incarico oltre il periodo del mandato del Sindaco che l’ha originariamente conferito;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, della legge reg. Siciliana n. 5 del 2021, limitatamente alle parole: «e possono anche riferirsi ad attività di supporto agli uffici in materie di particolare complessità, per le quali l’ente abbia documentabili carenze delle specifiche professionalità»;

3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzione dell’art. 9, comma 1, della legge reg. Sicilia n. 5 del 2021 promossa, in riferimento all’art. 14, comma unico, lettera p), del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), con il ricorso indicato in epigrafe;

4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, della legge reg. Sicilia n. 5 del 2021, nella parte in cui consente il conferimento dell’incarico a soggetto sprovvisto di laurea e non prevede l’espletamento di procedure selettive, promosse, in riferimento agli artt. 14, comma unico, lettera o), e 15 dello statuto reg. Sicilia, agli artt. 97 e 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, nonché in relazione all’art. 7, commi 6, 6-bis, 6-ter e 6-quater, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), con il ricorso indicato in epigrafe;

5) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le residue questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, della legge reg. Sicilia n. 5 del 2021, promosse, in riferimento all’art. 14, comma unico, lettera o), e 15 dello statuto reg. Sicilia, agli artt. 97 e 117, secondo comma, lettera l), Cost., nonché in relazione agli artt. 7, comma 6, e 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 e all’art. 5, comma 9, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 135, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 gennaio 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Angelo BUSCEMA, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 15 marzo 2022.

Il Direttore della Cancelleria