Sentenza n. 195 del 2021

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SENTENZA N. 195

ANNO 2021

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 11 e 13, 9 e 10, comma 1, della legge della Regione Puglia 7 luglio 2020, n. 18 (Misure di semplificazione amministrativa in materia sanitaria), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 4-11 settembre 2020, depositato in cancelleria il 14 settembre 2020, iscritto al n. 81 del registro ricorsi 2020 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visto l’atto di costituzione della Regione Puglia;

udito nell’udienza pubblica del 21 settembre 2021 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi l’avvocato dello Stato Andrea Rippa per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Isabella Fornelli per la Regione Puglia, entrambi in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 18 maggio 2021;

deliberato nella camera di consiglio del 22 settembre 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 4-11 settembre 2020, depositato il 14 settembre 2020 e iscritto al n. 81 del registro ricorsi del 2020, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, commi secondo, lettera l), e terzo, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 11 e 13, 9 e 10, comma 1, della legge della Regione Puglia 7 luglio 2020, n. 18 (Misure di semplificazione amministrativa in materia sanitaria).

2.– Con il primo motivo di ricorso il Presidente del Consiglio dei ministri impugna, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost. e al principio di parità di trattamento e di proporzionalità, l’art. 1, comma 11, della legge reg. Puglia n. 18 del 2020.

2.1.– La disposizione, che sostituisce l’art. 12, comma 8, della legge della Regione Puglia 2 maggio 2017, n. 9 (Nuova disciplina in materia di autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio, all’accreditamento istituzionale e accordi contrattuali delle strutture sanitarie e socio-sanitarie pubbliche e private), prevede che «[i]l limite di età massimo previsto per lo svolgimento della funzione di responsabile sanitario è quello previsto dalla normativa nazionale in materia di permanenza in servizio dei dirigenti medici e del ruolo sanitario del servizio sanitario nazionale, fatta eccezione per gli ambulatori specialistici non accreditati».

2.2.– Il ricorrente ravvisa la violazione del principio di parità di trattamento e di proporzionalità nella differenziazione non giustificata tra gli ambulatori specialistici non accreditati e tutti gli altri tipi di strutture sanitarie. Non sarebbe chiara la ratio di tale disposizione, né sarebbe illustrato il regime applicabile alle strutture esonerate dal rispetto del limite di età.

Il trattamento differenziato così disposto non troverebbe fondamento nella disciplina statale di riferimento, individuata nell’art. 4, comma 2, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica), il quale si limita a prevedere l’obbligatorietà della nomina di un «direttore sanitario o tecnico, che risponde personalmente dell’organizzazione tecnica e funzionale dei servizi» in tutte le strutture sanitarie sottoposte al regime di autorizzazione e vigilanza sanitaria di cui all’art. 43 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale).

La norma censurata si discosterebbe dalla disciplina statale concernente l’età dei dirigenti sanitari di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), così ponendosi in contrasto con i principi fondamentali in materia di «tutela della salute», in violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. (sulla riconducibilità a tale materia della disciplina in tema di rapporto di lavoro e attività professionale del dirigente sanitario, è richiamata la sentenza di questa Corte n. 181 del 2006).

2.3.– La Regione Puglia si è costituita in giudizio per chiedere di dichiarare inammissibili o comunque non fondate le questioni in esame, alla luce di argomenti ribaditi anche nella memoria illustrativa depositata in prossimità dell’udienza.

2.3.1.– In via preliminare, la parte resistente eccepisce l’inammissibilità delle questioni per difetto di interesse, non essendo chiaro quale sarebbe il vulnus arrecato alle competenze statali in materia di tutela della salute, e, comunque, per difetto di motivazione, posto che il ricorrente non avrebbe individuato il principio fondamentale che imporrebbe il limite di età massimo del responsabile sanitario delle strutture ambulatoriali non accreditate.

Peraltro, la censura riferita alla asserita disparità di trattamento tra le tipologie di strutture sanitarie sarebbe inammissibile in quanto né il ricorso né la delibera di impugnazione contengono l’indicazione dell’art. 3 Cost. quale parametro di riferimento (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 128 del 2018 e n. 239 del 2016).

2.3.2.– Nel merito, le questioni sarebbero non fondate.

Premessa la ricostruzione del sistema sanitario come configurato dal d.lgs. n. 502 del 1992, che distingue tra strutture sanitarie autorizzate e strutture accreditate che operano in regime di convenzione, e richiamata la giurisprudenza amministrativa sul tema (ex multis, Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 18 gennaio 2018, n. 321), la parte resistente osserva che il principio di libertà di iniziativa economica sancito dall’art. 41 Cost. non consentirebbe di imporre alle strutture che operano in regime privatistico i vincoli previsti a carico degli enti che fanno parte del servizio sanitario regionale, e che il requisito dell’età del responsabile sanitario «non [sarebbe] ravvisabile nelle norme fondamentali dettate dal d.lgs. n. 502 del 1992».

È poi richiamata la segnalazione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato del 24 giugno 2020, avente a oggetto la disposizione regionale previgente (art. 12, comma 8, della legge reg. Puglia n. 9 del 2017), che fissava il limite massimo di età per lo svolgimento della funzione di responsabile sanitario di struttura sanitaria e socio-sanitaria privata, anche di carattere ambulatoriale, attraverso il richiamo all’art. 15-nonies, comma 1, del d.lgs. n. 502 del 1992. Secondo l’Autorità, l’applicazione del limite di età indicato nella citata norma statale ai responsabili sanitari delle strutture sanitarie e socio-sanitarie private determinerebbe una ingiustificata limitazione alla prestazione dei servizi professionali da parte dei medici, restringendone l’offerta, oltre che una compressione ingiustificata della libertà di iniziativa economica e dell’autonomia gestionale delle strutture sanitarie e socio-sanitarie private, precludendo di avvalersi di un medico che ha superato il limite di età previsto per rivestire il ruolo di direttore sanitario.

3.– Con il secondo motivo di ricorso il Presidente del Consiglio dei ministri impugna, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost. l’art. 1, comma 13, della legge reg. Puglia n. 18 del 2020.

3.1.– La disposizione regionale, che ha sostituito l’art. 24, comma 2, della legge reg. Puglia n. 9 del 2017, prevedendo che «[l]e strutture pubbliche e private, gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) privati, e gli enti ecclesiastici possono richiedere con unica istanza il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio e dell’accreditamento istituzionale», avrebbe realizzato un accorpamento, a fini di semplificazione, che non rispetta la diversità di struttura e funzione degli istituti dell’autorizzazione all’esercizio di attività sanitaria e dell’accreditamento istituzionale. Quest’ultimo provvedimento, con il quale si riconosce alla struttura pubblica o privata già autorizzata lo status di soggetto erogatore di prestazioni sanitarie nell’ambito e per conto del servizio sanitario nazionale, è concesso, ai sensi dell’art. 8-quater del d.lgs. n. 502 del 1992, subordinatamente alla sussistenza di requisiti ulteriori rispetto a quelli richiesti ai fini dell’autorizzazione e di coerenza delle funzioni svolte con gli indirizzi della programmazione regionale.

Sarebbe violato, pertanto, l’art. 117, terzo comma, Cost. per il tramite del principio fondamentale richiamato, e non si sarebbe tenuto conto di quanto previsto dalle intese raggiunte in sede di Conferenza Stato-Regioni il 20 dicembre 2012 e il 19 febbraio 2015 con riferimento alle attività di verifica spettanti all’organismo tecnicamente accreditante.

3.2.– La Regione Puglia ha chiesto, in entrambe le memorie di costituzione e illustrativa, che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, non fondata.

3.2.1.– In via preliminare, la parte resistente osserva, per un verso, che la disposizione impugnata sarebbe identica a quella contenuta nella versione originale dell’art. 24, comma 2, della legge reg. n. 9 del 2017, non impugnata dallo Stato, e, per altro verso, che il ricorrente non avrebbe chiarito il vulnus asseritamente arrecato alle competenze statali, né i termini della prospettata violazione delle intese raggiunte in sede di Conferenza Stato-Regioni in data 20 dicembre 2012 e 19 febbraio 2015, sicché la questione sarebbe inammissibile per tardività del ricorso ovvero per genericità della motivazione.

3.2.2.– Nel merito, la questione non sarebbe fondata.

3.2.3.– La disposizione regionale si limiterebbe a consentire ai soggetti interessati di richiedere, con un’unica istanza, l’autorizzazione all’esercizio dell’attività e l’accreditamento istituzionale, ferma restando la necessità della verifica del possesso dei requisiti come prescritti dalla normativa vigente. Sarebbe perciò preservata l’autonomia dei due procedimenti, nel rispetto dei principi fondamentali dettati dagli artt. 8-ter e 8-quater del d.lgs. n. 502 del 1992.

3.2.4.– Allo stesso modo, la disciplina regionale sarebbe in linea con quanto sancito dalle richiamate intese, avendo demandato la verifica dei requisiti ulteriori per l’accreditamento istituzionale all’organismo tecnicamente accreditante.

4.– Con il terzo motivo di ricorso il Presidente del Consiglio dei ministri impugna, ancora in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., l’art. 9 della legge reg. Puglia n. 18 del 2020.

4.1.– La disposizione censurata, che sostituisce l’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 19 della legge reg. Puglia n. 9 del 2017, prevede che, «[f]erma restando la necessità di verificare la sussistenza dei requisiti di accreditamento, nelle soprariportate ipotesi l’autorizzazione all’esercizio produce effetti vincolanti ai fini della procedura di accreditamento istituzionale».

4.2.– Il ricorrente riferisce che l’art. 19, comma 3, della legge reg. Puglia n. 9 del 2017 è già stato modificato dall’art. 49, comma 1, della legge della Regione Puglia 30 novembre 2019, n. 52 (Assestamento e variazione al bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2019 e pluriennale 2019-2021), a sua volta oggetto di impugnativa statale nella parte in cui ha previsto che l’autorizzazione all’esercizio dell’attività produce effetti vincolanti ai fini della procedura di accreditamento con riferimento a tre fattispecie concernenti l’attività di diagnostica per immagini.

4.2.1.– L’ulteriore intervento del legislatore regionale, oggetto dell’odierna questione, pur facendo salva la verifica dei requisiti dell’accreditamento istituzionale, prevede effetti vincolanti che scaturirebbero dall’autorizzazione, e pertanto si porrebbe in contrasto con il principio fondamentale espresso dall’art. 8-quater del d.lgs. n. 502 del 1992, secondo cui l’accreditamento istituzionale può essere concesso solo previa verifica del possesso effettivo dei requisiti prescritti in capo alla struttura già autorizzata all’esercizio dell’attività.

4.3.– La Regione Puglia ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile, o che venga accertata la cessazione della materia del contendere.

4.3.1.– In particolare, con la memoria illustrativa la parte resistente ha preso atto della sopravvenuta sentenza di questa Corte n. 36 del 2021, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, della legge reg. Puglia n. 52 del 2019, con l’effetto di espungere dal testo dell’art. 19, comma 3, della legge reg. Puglia n. 9 del 2017 le fattispecie per le quali era previsto che l’autorizzazione all’esercizio dell’attività producesse effetti vincolanti ai fini della procedura di accreditamento istituzionale.

Tale sopravvenienza avrebbe reso priva di significato, e quindi di lesività, la disposizione oggetto della questione in esame, con conseguente relativa inammissibilità, o, in alternativa, cessazione della materia del contendere.

4.3.2.– La difesa regionale segnala, infine, che l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione impugnata farebbe rivivere la versione originaria dell’art. 19 della legge reg. Puglia n. 9 del 2017, che prevedeva una fattispecie generica di estensione dell’accreditamento, in contrasto con il principio fondamentale espresso dall’art. 8-quater del d.lgs. n. 502 del 1992.

5.– Con il quarto motivo di ricorso il Presidente del Consiglio dei ministri impugna, in riferimento agli artt. 97 e 117, secondo comma, lettera l), Cost., l’art. 10, comma 1, della legge reg. Puglia n. 18 del 2020.

5.1.– La disposizione oggetto di censura prevede che «[n]el limite dei posti vacanti nella dotazione organica e nel rispetto della spesa sanitaria derivante dalle norme vigenti, il personale già titolare di contratto, ovvero di incarico a tempo indeterminato, presso aziende o enti del servizio sanitario nazionale e in servizio a tempo determinato alla data del 31 dicembre 2019, presso una azienda o ente del servizio sanitario della Regione Puglia è confermato nei ruoli di quest’ultima a tempo indeterminato, previa presentazione, entro sessanta giorni dalla data in vigore della presente legge, di apposita domanda di mobilità».

5.2.– Ad avviso del ricorrente, la disposizione regionale – che porrebbe dubbi già sul piano interpretativo, con ricadute sulla individuazione del personale che dovrebbe essere confermato nei ruoli dell’amministrazione sanitaria regionale – avrebbe introdotto un meccanismo di «stabilizzazione» del personale precario in violazione del principio costituzionale del pubblico concorso, che costituisce la regola generale di accesso al pubblico impiego ai sensi dell’art. 97, terzo comma, Cost., non sussistendo nella specie le condizioni che, secondo la giurisprudenza costituzionale, legittimano eccezionalmente la deroga a tale regola.

5.2.1.– In tema di superamento del precariato, il ricorrente richiama la normativa statale contenuta nei commi 1, 2, 11 e 11-bis dell’art. 20 del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, recante «Modifiche e integrazioni al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche».

In particolare, i citati commi 11 e 11-bis dell’art. 20 prevedono, con riferimento al personale del servizio sanitario nazionale, l’applicazione del disposto dei commi 1 e 2 del medesimo art. 20, i quali, oltre a fissare i requisiti che il lavoratore deve possedere cumulativamente ai fini della stabilizzazione, impongono alle amministrazioni l’espletamento di procedure concorsuali.

In termini non dissimili, il decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 2020, n. 27, ha riconosciuto alle aziende ed agli enti del Servizio sanitario nazionale la possibilità di attivare procedure di reclutamento del personale previo avviso pubblico e selezione per titoli, colloquio e procedura comparativa.

5.3.– La disposizione regionale, in quanto non coerente con la normativa statale richiamata, violerebbe non solo l’art. 97 Cost., che impone la regola del pubblico concorso, ma anche il riparto di competenze, intervenendo nella materia «ordinamento civile», riservata alla competenza esclusiva dello Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

5.4.– La Regione, con le memorie di costituzione ed illustrativa, ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, prive di fondamento.

5.4.1.– La parte resistente osserva che con la disposizione impugnata il legislatore regionale avrebbe inteso disciplinare e organizzare la struttura degli uffici sanitari regionali, in particolare limitando l’attribuzione di incarichi a tempo determinato, e che, pertanto, l’ambito materiale di riferimento sarebbe quello dell’organizzazione degli uffici regionali, attribuito alla competenza residuale delle Regioni, con conseguente inammissibilità della questione promossa per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., per erroneità del parametro evocato (sono citate le sentenze n. 75 del 2011 e n. 235 del 2010).

La difesa regionale richiama diffusamente l’orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo cui sono ascrivibili alla competenza esclusiva statale gli interventi legislativi che dettano misure relative a rapporti lavorativi già in essere, mentre rientrano nella competenza residuale delle Regioni i profili pubblicistico-organizzativi dell’impiego pubblico regionale, compresa la regolamentazione delle modalità di accesso al lavoro (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 194 del 2020 e n. 141 del 2012).

La disciplina dettata dal legislatore regionale, collocata in un momento antecedente a quello del sorgere del rapporto di lavoro, riguarderebbe i profili pubblicistico-organizzativi dell’impiego pubblico regionale e non quelli privatizzati del relativo rapporto di lavoro (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 25 del 2021).

5.4.2.– La censura sarebbe comunque inconferente.

La disposizione impugnata avrebbe previsto, infatti, una procedura semplificata di mobilità del personale dipendente verso le aziende del Servizio sanitario regionale, alle quali sarebbe consentito di confermare nei ruoli dell’amministrazione, su domanda, il personale già operativo e in servizio alla data del 31 dicembre 2019.

5.4.3.– Secondo la difesa regionale risulterebbe priva di fondamento anche la questione promossa per violazione del principio del pubblico concorso.

L’accesso alla procedura semplificata di mobilità riguarderebbe personale che ha già superato un concorso pubblico per accedere al Servizio sanitario nazionale, e che, alla data del 31 dicembre 2019, risulti incaricato, con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, presso un’azienda o ente del Servizio sanitario regionale.

Si tratterebbe, in definitiva, di una procedura di mobilità volontaria di personale dipendente già inserito nei ruoli del Servizio sanitario nazionale e non, come sostenuto dalla difesa statale, della stabilizzazione di personale precario.

6.– All’udienza del 21 settembre 2021, le parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate nei rispettivi scritti difensivi.

Considerato in diritto

1.– Con il ricorso iscritto al n. 81 del registro ricorsi del 2020, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, commi secondo, lettera l), e terzo, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 11 e 13, 9 e 10, comma 1, della legge della Regione Puglia 7 luglio 2020, n. 18 (Misure di semplificazione amministrativa in materia sanitaria).

2.– Con il primo motivo di ricorso è impugnato, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost. e al principio di parità di trattamento e di proporzionalità, l’art. 1, comma 11, della legge reg. Puglia n. 18 del 2020.

2.1.– Con riferimento alla figura del responsabile sanitario, la disposizione regionale impugnata ha previsto che «[i]l limite di età massimo previsto per lo svolgimento della funzione […] è quello previsto dalla normativa nazionale vigente in materia di permanenza in servizio dei dirigenti medici e del ruolo sanitario del servizio sanitario nazionale, fatta eccezione per gli ambulatori specialistici non accreditati».

2.2.– Il ricorrente prospetta il contrasto con il principio di parità di trattamento e di proporzionalità, perché la disposizione regionale non chiarirebbe le ragioni della differenziazione in parte qua tra ambulatori specialistici non accreditati e tutte le altre strutture sanitarie, né indicherebbe il regime applicabile alle strutture esonerate dal rispetto del limite di età massimo di permanenza in servizio dei dirigenti medici del ruolo del Servizio sanitario nazionale.

L’eccezione così disposta, del resto, non troverebbe fondamento nella disciplina statale di riferimento, individuata nell’art. 4, comma 2, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica), che si limita a prevedere l’obbligatorietà della figura del responsabile sanitario in qualsiasi struttura – pubblica o privata – autorizzata a erogare prestazioni sanitarie.

Il ricorrente lamenta, quindi, la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., perché la previsione regionale contrasterebbe con i principi fondamentali in materia di «tutela della salute» contenuti nel decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421).

2.3.– La Regione Puglia ha eccepito, preliminarmente, l’inammissibilità delle questioni sotto un duplice profilo.

2.3.1.– Per un verso, sarebbe inammissibile la censura riferita alla disparità di trattamento in quanto non corredata dall’indicazione dell’art. 3 Cost., quale parametro asseritamente violato, che risulta assente sia nel ricorso sia nella delibera di impugnazione; per altro verso, il ricorrente non avrebbe indicato il vulnus arrecato alle competenze statali in materia di tutela della salute e, comunque, non avrebbe individuato il principio fondamentale che imporrebbe il limite di età massimo del responsabile di struttura ambulatoriale non accreditata.

2.3.2.– Le eccezioni non sono fondate.

Pur nella maggiore pregnanza che l’onere di motivazione assume nei giudizi in via principale (tra le molte, sentenza n. 170 del 2021), l’indicazione del parametro costituzionale violato può essere ricavata dalla motivazione se, come nel ricorso in esame, le espressioni utilizzate dal ricorrente sono univoche. La mancata indicazione dell’art. 3 Cost. è dunque superata dal contenuto della censura, che, in aderenza alla delibera di impugnazione, fa riferimento esplicito al principio di eguaglianza e di proporzionalità.

La motivazione addotta a supporto della violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., per quanto sintetica, raggiunge quella «soglia minima di chiarezza e completezza» che rende ammissibile l’impugnativa proposta (tra le molte, sentenze n. 25 del 2020 e n. 32 del 2017), giacché individua il principio fondamentale in assunto violato nella disciplina del limite di età massimo di permanenza in servizio dei dirigenti medici del Servizio sanitario nazionale, contenuta nel d.lgs. n. 502 del 1992.

Le questioni, pertanto, sono ammissibili.

2.4.– Nel merito, la questione prospettata con riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., non è fondata.

2.4.1.– Occorre preliminarmente ricostruire il contesto normativo in cui la disposizione regionale si colloca, partendo dall’esame della disciplina statale che fissa il limite massimo di età per la dirigenza medica, per poi valutare l’articolazione dell’offerta di prestazioni sanitarie, secondo il sistema configurato dal legislatore con il d.lgs. n. 502 del 1992, e l’inquadramento della figura del responsabile sanitario.

2.4.2.– L’art. 15-nonies del d.lgs. n. 502 del 1992 (inserito dall’art. 13, comma 1, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, recante «Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419») fissa il limite massimo di età per il personale della dirigenza medica e per la cessazione dei rapporti convenzionali.

La legge statale prevede, per quanto qui rileva, il limite massimo di età per il collocamento a riposo dei dirigenti medici e del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale, ivi compresi i responsabili di struttura complessa, al compimento del sessantacinquesimo anno di età, ovvero, su istanza dell’interessato, al maturare del quarantesimo anno di servizio effettivo. In ogni caso il limite massimo di permanenza non può superare il settantesimo anno di età e la permanenza in servizio non può dar luogo a un aumento del numero dei dirigenti.

Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, con l’art. 15-nonies, comma 1, del d.lgs. n. 502 del 1992, il legislatore ha ribadito che il personale medico dirigenziale cessa dal servizio al compimento del sessantacinquesimo anno di età; regola, quest’ultima, già prevista dall’art. 53 del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali), in linea con la previsione generale che riguarda il pubblico impiego contenuta nell’art. 4 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato). Si tratta di disposizioni ispirate a esigenze occupazionali, cui fanno eccezione le sole categorie dei magistrati e dei docenti universitari (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 9 giugno 2020, n. 11008).

2.4.3.– Il sistema sanitario, come riformato dal d.lgs. n. 502 del 1992 e poi significativamente rimodulato con il d.lgs. n. 229 del 1999, configura il rapporto pubblico-privato dell’offerta sanitaria secondo un sistema progressivo, in base al quale i soggetti che intendono erogare prestazioni sanitarie devono essere autorizzati e solo se autorizzati possono chiedere l’accreditamento istituzionale, che li rende potenziali erogatori di prestazioni sanitarie per conto del Servizio sanitario nazionale. Ciò si realizza solo a seguito della conclusione di contratti con l’amministrazione, e nei limiti di spesa ivi previsti.

L’autorizzazione, disciplinata dall’art. 8-ter del d.lgs. n. 502 del 1992, si articola sul duplice versante della realizzazione della struttura e dell’esercizio dell’attività sanitaria. Essa è subordinata alla verifica, da parte della Regione interessata, della realizzabilità della struttura in relazione alla localizzazione territoriale, tenuto conto del fabbisogno complessivo di assistenza che considera anche le prestazioni extra livelli essenziali di assistenza (sentenza n. 7 del 2021), e al possesso dei requisiti minimi di tipo strutturale, tecnologico e organizzativo.

All’obbligo di autorizzazione sono sottoposti anche gli studi odontoiatrici, medici e di altre professioni sanitarie, ove attrezzati per erogare prestazioni di chirurgia ambulatoriale ovvero procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità o che comportino un rischio per la sicurezza del paziente, nonché le strutture dedicate esclusivamente ad attività diagnostiche.

2.4.4.– Per ottenere l’autorizzazione all’esercizio dell’attività, la struttura deve possedere requisiti minimi, anche organizzativi, ed è questo il profilo che rileva ai fini dell’odierno scrutinio.

L’art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 502 del 1992 stabilisce che, «[f]erma restando la competenza delle regioni in materia di autorizzazione e vigilanza sulle istituzioni sanitarie private a norma dell’art. 43 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, con atto di indirizzo e coordinamento, emanato d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, sentito il Consiglio superiore di sanità, sono definiti i requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi minimi richiesti per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private e la periodicità dei controlli sulla permanenza dei requisiti stessi».

L’attuazione dell’art. 8, comma 4, è avvenuta con il d.P.R. 14 gennaio 1997 (Approvazione dell’atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano, in materia di requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private), che ha previsto i requisiti minimi generali e specifici, riservando alle Regioni la fissazione degli standard di qualità che costituiscono requisiti ulteriori per l’accreditamento.

Con riferimento alle strutture che erogano prestazioni di assistenza specialistica in regime ambulatoriale (definite come luoghi intra o extraospedalieri preposti ad erogare prestazioni sanitarie di prevenzione, diagnosi, terapia e riabilitazione, nelle situazioni che non richiedono ricovero neanche a ciclo diurno), è richiesta la presenza, durante lo svolgimento dell’attività, di almeno un medico, indicato quale responsabile delle attività cliniche svolte nell’ambulatorio.

2.5.– Questa Corte è costante nel ricondurre la competenza regionale in materia di autorizzazione e vigilanza sulle istituzioni sanitarie nella più generale potestà legislativa concorrente in materia di tutela della salute. Le Regioni sono vincolate al rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi statali, dovendosi peraltro distinguere, «dopo il riordino del sistema sanitario, gli aspetti che attengono all’“autorizzazione” prevista per l’esercizio di tutte le attività sanitarie, da quelli che riguardano l’“accreditamento” delle strutture autorizzate» (sentenza n. 292 del 2012, punto 4 del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenze n. 106 del 2020 e n. 7 del 2021).

In particolare, con riferimento all’autorizzazione, le disposizioni contenute negli artt. 8, comma 4, e 8-ter, comma 4, del d.lgs. n. 502 del 1992, che prevedono i requisiti minimi di sicurezza e qualità per poter effettuare prestazioni sanitarie, rappresentano principi fondamentali della materia che le Regioni sono tenute ad osservare «indipendentemente dal fatto che la struttura intenda o meno chiedere l’accreditamento» (sentenza n. 292 del 2012, che richiama le sentenze n. 245 e n. 150 del 2010).

2.6.– Quanto alla figura del responsabile sanitario, presente già nella legislazione più risalente (l’art. 83 del Regolamento generale sanitario del 1901 richiedeva, per l’apertura e il mantenimento in esercizio di ambulatori o case o istituti di cura medico-chirurgica o di assistenza ostetrica, la presenza di un dottore in medicina e chirurgia che assumesse la direzione tecnica dell’istituto), essa è prevista dall’art. 4 della legge n. 412 del 1991.

Tale norma, dettata prima della riforma del sistema sanitario, stabilisce che le Regioni possono stipulare convenzioni anche con istituzioni sanitarie private, sottoposte al regime di autorizzazione e vigilanza sanitaria di cui all’art. 43 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale) «e devono avere un direttore sanitario o tecnico, che risponde personalmente dell’organizzazione tecnica e funzionale dei servizi e del possesso dei prescritti titoli professionali da parte del personale che ivi opera».

Ulteriori riferimenti al responsabile sanitario si rinvengono nella legislazione più recente.

La legge 4 agosto 2017, n. 124 (Legge annuale per il mercato e per la concorrenza), all’art. 1, commi da 153 a 155, prevede la presenza obbligatoria di un direttore sanitario iscritto all’albo degli odontoiatri per le società operanti nel settore, e per le strutture sanitarie polispecialistiche in cui sia presente un ambulatorio odontoiatrico.

Il Codice di deontologia medica del 2018, all’art. 69 impone al responsabile sanitario di struttura privata la comunicazione tempestiva dell’assunzione dell’incarico (nonché della rinuncia) all’ordine di appartenenza, e pone il divieto di incarichi plurimi, incompatibili con le funzioni di vigilanza attiva e continuativa.

La legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), all’art. 1, comma 536, prevede che «[t]utte le strutture sanitarie private di cura sono tenute a dotarsi di un direttore sanitario iscritto all’albo dell’ordine territoriale competente per il luogo nel quale hanno la loro sede operativa entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge».

2.7.– La ricognizione normativa fin qui svolta conferma l’assenza di un principio fondamentale espressamente ricavabile da una norma statale, o che si possa evincere in via sistematica, in forza del quale il responsabile sanitario di struttura privata oltre a possedere i requisiti di professionalità, debba avere età inferiore ai settanta anni.

Inoltre, la differenziazione, sempre più nettamente definita dalla giurisprudenza amministrativa (per tutte, Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 10 febbraio 2021, n. 1249), tra strutture autorizzate, che operano in regime privatistico, e strutture che, invece, attraverso l’accreditamento istituzionale, entrano a far parte del sistema sanitario pubblico, erogando prestazioni per conto del servizio sanitario, converge nella direzione della legittimità di una disciplina regionale che riconosca alle prime la possibilità di avvalersi, per lo svolgimento delle funzioni di responsabile sanitario, di un professionista che abbia superato il limite massimo di età previsto per la permanenza in servizio nelle strutture pubbliche ed equiparate.

Diverse, in quest’ambito, sono le esigenze che si apprezzano nei due settori – privato e pubblico – dell’offerta sanitaria. Se, come si è visto, il limite di età fissato dall’art. 15-nonies del d.lgs. n. 502 del 1992 si inserisce nel quadro normativo della disciplina del lavoro pubblico, rispondendo a esigenze di carattere organizzativo/occupazionale, quel limite non può essere esteso alle strutture che operano nel settore privato, cui deve essere riconosciuta una spiccata autonomia gestionale.

In questo senso si è espressa anche l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, nella segnalazione del 24 giugno 2020, avente a oggetto la disposizione contenuta nel previgente testo dell’art. 12, comma 8, della legge reg. Puglia n. 9 del 2017.

Essa ha ritenuto, infatti, che l’applicazione del limite previsto dall’art. 15-nonies, comma 1, del d.lgs. n. 502 del 1992 alle strutture sanitarie e socio-sanitarie private, «precludendo loro di avvalersi di un medico che ha superato il limite di età previsto per rivestire il ruolo di direttore sanitario», determini «un’ingiustificata limitazione alla prestazione dei servizi professionali da parte dei medici, restringendo così l’offerta di tali servizi», oltre alla compressione ingiustificata della libertà di iniziativa economica e dell’autonomia gestionale delle strutture anzidette.

2.7.1.– Per altro verso, si deve evidenziare che, quando questa Corte ha ritenuto sussistente un collegamento tra efficienza dell’organizzazione e gestione dei servizi sanitari, da un lato, e limite di età dei soggetti che ricoprono incarichi in posizione apicale, dall’altro (sentenze n. 295 del 2009 e n. 422 del 2006), lo ha affermato a fronte di norme statali che specificamente prevedevano (e prevedono) il limite del sessantacinquesimo anno di età per lo svolgimento di incarichi di vertice nelle strutture ospedaliere ed equiparate.

Nelle decisioni prima citate si è ritenuto, infatti, che l’art. 11 del decreto legislativo 16 ottobre 2003, n. 288 (Riordino della disciplina degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, a norma dell’articolo 42, comma 1, della legge 16 gennaio 2003, n. 3), e l’art. 3, comma 7, del d.lgs. n. 502 del 1992 esprimano un principio fondamentale in materia di tutela della salute. Proprio il carattere apicale della posizione ricoperta (nell’un caso – sentenza n. 422 del 2006 – di direttore amministrativo e direttore sanitario di IRCCS; nell’altro caso – sentenza n. 295 del 2009 – di direttore amministrativo e sanitario delle aziende sanitarie locali e delle aziende ospedaliere e di IRCCS) rivela «l’incidenza che la disciplina relativa alle modalità di cessazione di tali incarichi, per sopraggiunti limiti di età, esercita sull’organizzazione e la gestione dei servizi sanitari e, di riflesso, anche sull’efficienza degli stessi» (così la sentenza n. 422 del 2006, al punto 5.1. del Considerato in diritto).

Dalle citate pronunce non si traggono elementi per affermare l’esistenza di un principio fondamentale che impone, in modo generalizzato, il limite massimo di età per lo svolgimento delle funzioni di responsabile sanitario.

Non è, dunque, fondata la questione di costituzionalità dell’art. 1, comma 11, della legge reg. Puglia n. 18 del 2020, sollevata in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost.

2.8.– Ugualmente non fondata, con riferimento all’art. 3 Cost., è la censura che riguarda la deroga, introdotta dal legislatore pugliese, all’età massima per il conferimento dell’incarico di responsabile sanitario degli ambulatori specialistici non accreditati.

La censura, per come prospettata, si risolve nell’addebitare alla disposizione regionale una mancata giustificazione del differente trattamento previsto per i dirigenti medici degli ambulatori specialistici non accreditati rispetto a quelli delle altre strutture sanitarie, in assenza di una norma statale che possa dare fondamento a tale differenziazione.

Il ricorrente richiama l’art. 4, comma 2, della legge n. 412 del 1991, evidenziando che tale norma si limita a prevedere l’obbligatorietà della nomina del responsabile sanitario nelle strutture private e non contiene alcun riferimento alla «diversa regola» introdotta dal legislatore regionale.

Questa prospettazione non può essere condivisa. Essa si sostanzia nel ritenere che il sistema imponga un trattamento identico della figura del responsabile sanitario con riferimento al limite massimo di età. Un tale argomento, come già evidenziato, non appare esaustivo.

Il legislatore regionale, nei limiti della propria competenza e ispirandosi al canone della ragionevolezza, può differenziare il trattamento delle strutture private da quelle pubbliche ed equiparate senza incorrere nella violazione dell’art. 3 Cost.

Non sono, infatti, comparabili i criteri organizzativi cui si ispirano le strutture pubbliche e private.

La disciplina regionale della figura del responsabile sanitario (art. 12 della legge reg. Puglia n. 9 del 2017), che indica il contenuto effettivo dell’attività da svolgere nella cura dell’organizzazione tecnico-sanitaria sotto il profilo igienico e organizzativo e nella garanzia delle funzioni previste dalle norme vigenti, prevedendo l’obbligo di presenza, e il correlato divieto, salvo eccezioni, di svolgere le funzioni indicate in più di una struttura, vale a definire il regime applicabile anche al responsabile sanitario degli ambulatori non accreditati.

Le strutture sanitarie private sono, tuttavia, caratterizzate da una maggiore apertura al mercato e alle regole della concorrenza e possono, nella scelta del direttore sanitario, adottare criteri riferiti alla professionalità e alle competenze acquisite, senza necessariamente attenersi ai limiti di età previsti per le strutture pubbliche. Per le finalità indicate, l’età non costituisce un requisito essenziale nell’esercizio della funzione disciplinata dal legislatore regionale e non appare, pertanto, irragionevole che al vertice di tali strutture si collochi un direttore sanitario che abbia superato il settantesimo anno di età.

3.– Con il secondo motivo di ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., l’art. 1, comma 13, della legge reg. Puglia n. 18 del 2020.

3.1.– La disposizione in esame consente alle strutture pubbliche e private, agli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) privati e agli enti ecclesiastici di richiedere con unica istanza il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio di attività e dell’accreditamento istituzionale.

3.2.– Il ricorrente argomenta che tale disposizione contrasta con l’art. 117, terzo comma, Cost. e con i principi fondamentali in materia di tutela della salute espressi dagli artt. 8-ter e 8-quater del d.lgs. n. 502 del 1992, che differenziano, rendendoli autonomi, i procedimenti di autorizzazione e di accreditamento, e subordinano l’accreditamento al possesso di requisiti ulteriori da parte della struttura già autorizzata, oltre che alla coerenza dell’attività della struttura con la programmazione regionale.

Inoltre, la disposizione impugnata non sarebbe in linea con quanto previsto dalle intese raggiunte in sede di Conferenza unificata in data 20 dicembre 2012 e 19 febbraio 2015, «in merito alle attività di verifica spettanti all’organismo tecnicamente accreditante».

3.3.– La Regione ha eccepito preliminarmente l’inammissibilità della questione per tardività e per genericità della motivazione. Nel merito ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.

3.3.1.– Entrambe le eccezioni preliminari non sono fondate.

3.3.2.– La asserita tardività della questione si basa sul rilievo che la disposizione impugnata sarebbe stata preceduta da altra identica, che non è stata a suo tempo fatta oggetto di gravame.

È evidente che la circostanza non vale a far venire meno l’interesse attuale del ricorrente a sottoporre a scrutinio la disposizione in esame.

Come costantemente affermato da questa Corte, infatti, l’istituto dell’acquiescenza non opera nei giudizi in via principale, atteso che la norma censurata, anche se preceduta da altra di identico contenuto e non impugnata, reitera comunque la lesione alla ripartizione delle competenze, da cui deriva l’interesse a ricorrere (ex multis, sentenze n. 124 e n. 107 del 2021).

3.3.3.– Neppure si riscontra la eccepita genericità della censura, che risulta, invece, sufficientemente articolata con la chiara indicazione dei principi fondamentali che differenziano i procedimenti di autorizzazione e di accreditamento, imponendo verifiche e valutazioni autonome. Se sussista effettiva lesione è profilo che attiene al merito della questione.

3.4.– Nel merito, la questione non è fondata.

3.4.1.– La disciplina dettata dalla Regione Puglia in materia di autorizzazione e accreditamento istituzionale non contrasta con il principio di differenziazione dei due procedimenti. La legge regionale n. 9 del 2017, che regola entrambi i procedimenti, all’art. 19, comma 3, ribadisce il principio secondo cui l’autorizzazione non produce effetti vincolanti ai fini della procedura di accreditamento istituzionale, e, all’art. 23, comma 1, affida all’organismo tecnicamente accreditante la verifica e l’effettuazione della valutazione tecnica necessaria ai fini del rilascio del provvedimento di accreditamento, in linea con quanto previsto nelle intese del 20 dicembre 2012 e 19 febbraio 2015.

In questo contesto normativo, la prevista facoltà di presentare con un’unica istanza la richiesta di rilascio, sia dell’autorizzazione, sia dell’accreditamento istituzionale, rappresenta una mera semplificazione, senza incidere sulla progressione delle verifiche e degli accertamenti che connotano i due procedimenti.

Occorre considerare, infatti, che l’art. 8-quater, comma 1, del d.lgs. 502 del 1992 esige, ai fini dell’accreditamento, la «verifica positiva dell’attività svolta e dei risultati raggiunti» dalle strutture autorizzate che intendano accreditarsi.

La norma statale, espressione di principio fondamentale in materia di tutela della salute (per tutte, sentenze n. 106 del 2020 e n. 132 del 2013), chiaramente delinea uno iato temporale tra la fase dell’attività svolta in regime di autorizzazione – oggetto di valutazione da parte dell’amministrazione ai fini dell’accreditamento – e l’inizio del procedimento di accreditamento.

L’unicità dell’istanza non comporta alcuna sovrapposizione dei due procedimenti, né contestualità delle valutazioni e verifiche proprie di ciascuno di essi. Pertanto, la disposizione regionale impugnata risulta priva di lesività del parametro evocato.

4.– Con il terzo motivo è impugnato l’art. 9 della legge reg. Puglia n. 18 del 2020 per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.

4.1.– La disposizione censurata, che sostituisce l’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 19 della legge reg. Puglia n. 9 del 2017, prevede che, «[f]erma restando la necessità di verificare la sussistenza dei requisiti di accreditamento, nelle soprariportate ipotesi l’autorizzazione all’esercizio produce effetti vincolanti ai fini della procedura di accreditamento istituzionale».

4.2.– Il ricorrente argomenta il prospettato contrasto sull’assunto che la disposizione regionale, pur facendo salva la verifica dei requisiti ulteriori per l’accreditamento istituzionale, prevede «effetti vincolanti» scaturenti dall’autorizzazione, in contrasto con l’art. 8-quater del d.lgs. n. 502 del 1992, che, in quanto espressione di un principio fondamentale in materia di tutela della salute, esige il possesso di «requisiti ulteriori» in capo alla struttura che intenda ottenere l’accreditamento.

4.3.– La resistente ha chiesto che la questione venga dichiarata inammissibile, per carenza di lesività o, comunque, che sia dichiarata la cessazione della materia del contendere, in conseguenza della sopravvenuta sentenza n. 36 del 2021 di questa Corte.

4.4.– Prima di esaminare le eccezioni preliminari occorre illustrare la successione temporale degli interventi del legislatore regionale.

4.4.1.– Con il ricorso iscritto al n. 13 del registro ricorsi dell’anno 2020, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., l’art. 49, comma 1, della legge reg. Puglia n. 52 del 2019, che ha sostituito l’art. 19, comma 3, della legge reg. Puglia n. 9 del 2017 prevedendo tre fattispecie, concernenti l’attività di diagnostica per immagini, in riferimento alle quali si stabiliva che l’autorizzazione all’esercizio producesse effetti vincolanti ai fini della procedura di accreditamento istituzionale.

Nella pendenza del giudizio di legittimità costituzionale, il legislatore regionale è intervenuto nuovamente con l’art. 9 della legge reg. Puglia n. 18 del 2020 per sostituire l’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 19 della legge reg. Puglia n. 9 del 2017.

Il Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso oggi in esame, ha impugnato anche tale ultima disposizione.

Successivamente al promovimento del ricorso odierno, è stata pubblicata la sentenza di questa Corte n. 36 del 2021, che ha deciso il ricorso n. 13 del 2020 con declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, della legge reg. Puglia n. 52 del 2019, nella parte in cui sostituiva il comma 3 dell’art. 19 della legge reg. Puglia n. 9 del 2017, nel testo vigente prima della modifica introdotta dall’art. 9 della legge reg. Puglia n. 18 del 2020.

La sentenza n. 36 del 2021 è intervenuta sul testo dell’art. 19, comma 3, della legge reg. Puglia n. 9 del 2017, espungendo le fattispecie in riferimento alle quali era previsto che l’autorizzazione all’esercizio dell’attività sanitaria producesse effetti vincolanti ai fini dell’accreditamento.

Questa Corte ha ritenuto integrata la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. e, specificamente, del principio di autonomia dei procedimenti di autorizzazione e di accreditamento.

La disposizione oggi impugnata non è stata oggetto di scrutinio in quella sede, in quanto successiva e fatta oggetto di autonomo ricorso statale.

4.5.– A seguito della sentenza n. 36 del 2021, non è venuta meno la lesività della disposizione oggetto dell’odierno scrutinio, che prevede effetti vincolanti dell’autorizzazione. Permane dunque l’interesse del ricorrente all’impugnazione.

Non si può dichiarare cessata la materia del contendere perché non ricorrono i presupposti cui questa Corte costantemente subordina tale accertamento (ex multis, sentenze n. 36 del 2021, punto 6.1. del Considerato in diritto, e n. 16 del 2020).

4.6.– Nel merito, la questione è fondata.

4.6.1.– Come affermato nella sentenza n. 36 del 2021 (punto 6.3. del Considerato in diritto), secondo la giurisprudenza costituzionale, «il regime delle autorizzazioni e degli accreditamenti costituisce principio fondamentale in materia di tutela della salute. Il legislatore statale (artt. 8-ter, 8-quater e 8-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992) ha inteso vincolare le strutture socio-sanitarie private all’osservanza di requisiti essenziali da cui far dipendere l’erogazione di prestazioni riferite alla garanzia di un diritto fondamentale (sentenza n. 106 del 2020, punto 5.1. del Considerato in diritto; in precedenza, nello stesso senso, sentenze n. 238 del 2018, n. 161 del 2016 e n. 132 del 2013)».

In tale cornice si è evidenziato che occorre «distinguere […] gli aspetti che attengono all’“autorizzazione”, prevista per l’esercizio di tutte le attività sanitarie, da quelli che riguardano l’“accreditamento” delle strutture autorizzate», precisando che, quanto all’autorizzazione, «gli artt. 8, comma 4, e 8-ter, comma 4, del d.lgs. n. 502 del 1992 stabiliscono “requisiti minimi” di sicurezza e qualità per poter effettuare prestazioni sanitarie», e che, quanto all’accreditamento, «occorrono, invece, “requisiti ulteriori” (rispetto a quelli necessari all’autorizzazione) e l’accettazione del sistema di pagamento a prestazione, ai sensi dell’art. 8-quater del d.lgs. n. 502 del 1992» (sentenza n. 292 del 2012, punto 4 del Considerato in diritto). Nell’impianto fondamentale dei già ricordati articoli del d.lgs. n. 502 del 1992, che anche in questa sede il ricorrente invoca come norme interposte, «le vicende del processo di accreditamento restano tendenzialmente estranee alla determinazione del fabbisogno che rileva per la verifica di compatibilità delineata dall’indicato art. 8-ter, comma 3» (sentenza n. 7 del 2021, punto 4.4.1. del Considerato in diritto). I due procedimenti – di autorizzazione e di accreditamento – sono, in base ai richiamati principi fondamentali della legge statale, tra di loro autonomi, essendo, fra l’altro, ciascuno finalizzato alla valutazione di indici di fabbisogno diversi e non sovrapponibili.

4.6.2.– Deve ritenersi preclusa, pertanto, al legislatore regionale la previsione di effetti vincolanti da attribuire all’autorizzazione, ai fini dell’accreditamento istituzionale. Ne deriva l’illegittimità costituzionale dell’art. 9 della legge reg. Puglia n. 18 del 2020, perché in contrasto con il principio fondamentale di autonomia dei due procedimenti, che integra la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.

5.– Con il quarto motivo di ricorso il Presidente del Consiglio dei ministri impugna l’art. 10, comma 1, della legge reg. Puglia n. 18 del 2020, per violazione degli artt. 97 e 117, secondo comma, lettera l), Cost.

5.1.– La disposizione regionale impugnata prevede: «1.Nel limite dei posti vacanti nella dotazione organica e nel rispetto della spesa sanitaria derivante dalle norme vigenti, il personale già titolare di contratto, ovvero di incarico a tempo indeterminato, presso aziende o enti del servizio sanitario nazionale e in servizio a tempo determinato alla data del 31 dicembre 2019, presso una azienda o ente del servizio sanitario della Regione Puglia è confermato nei ruoli di quest’ultima a tempo indeterminato, previa presentazione, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, di apposita domanda di mobilità».

5.1.1.– Il ricorrente assume che con la disposizione impugnata il legislatore regionale avrebbe stabilizzato personale precario in violazione del principio sancito dall’art. 97 Cost., e specificamente della regola che impone il concorso pubblico per l’assunzione di personale a tempo indeterminato nei ruoli dell’amministrazione. Tale regola, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, è derogabile solo in casi eccezionali (sentenza n. 363 del 2006), che rispondano a «peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico» (sentenza n. 81 del 2006), al fine di evitare privilegi a favore di categorie più o meno ampie di soggetti (sentenza n. 205 del 2006).

Nella specie, sarebbero assenti le condizioni che legittimano la deroga alla regola del pubblico concorso. Infatti, la normativa statale in tema di superamento del precariato dettata dall’art. 20, commi 1, 2, 11 e 11-bis del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, recante «Modifiche e integrazioni al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche», oltre a fissare i requisiti che il lavoratore deve possedere cumulativamente ai fini della stabilizzazione, impone alle amministrazioni l’espletamento di procedure concorsuali.

5.1.2.– La disposizione regionale violerebbe anche il riparto delle competenze, intervenendo nella materia «ordinamento civile», riservata alla competenza esclusiva statale.

5.2.– La resistente eccepisce preliminarmente l’inammissibilità della questione riferita alla violazione del riparto di competenza, per erroneità del parametro evocato.

Con la disposizione impugnata la Regione avrebbe inteso disciplinare e organizzare la struttura degli uffici sanitari regionali, in particolare limitando l’attribuzione di incarichi a tempo determinato, e dunque l’ambito materiale di riferimento sarebbe riconducibile alla competenza residuale attribuita dall’art. 117, quarto comma, Cost. alle Regioni (sono richiamate le sentenze n. 165 del 2007 e n. 368 del 2008).

5.3.– L’eccezione è priva di fondamento.

Il ricorrente ha prospettato la censura sulla base del rilievo che la previsione regionale introduce un meccanismo di stabilizzazione del personale precario, e in coerenza con tale prospettazione ha evocato il parametro di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che attribuisce alla competenza esclusiva statale la materia «ordinamento civile».

La verifica della correttezza di tale impostazione attiene al merito della questione, non alla sua ammissibilità.

5.4.– Nel merito entrambe le questioni sono fondate.

5.4.1.– Occorre muovere dallo scrutinio di legittimità riferito al riparto di competenza, per la priorità logica che lo stesso riveste nei giudizi in via principale, e quindi stabilire l’ambito materiale cui deve essere ricondotta la disposizione impugnata.

La giurisprudenza costante di questa Corte individua il confine fra ciò che è ascrivibile alla materia dell’ordinamento civile e ciò che, invece, è riferibile alla competenza legislativa residuale regionale, affermando che sono da ricondurre alla prima gli interventi legislativi che dettano misure relative a rapporti lavorativi già in essere, e rientrano nella seconda i profili pubblicistico-organizzativi dell’impiego pubblico regionale (ex multis, sentenze n. 194 e n. 126 del 2020, n. 191 del 2017).

La disposizione regionale interviene su rapporti di lavoro a tempo determinato già in essere e incide sul profilo della durata, trasformandoli in nuovi rapporti a tempo indeterminato, che sorgono proprio per effetto della norma censurata. Essa deve, pertanto, essere ricondotta nell’ambito materiale dell’ordinamento civile, con conseguente violazione del riparto di competenza.

5.4.2.– È fondata anche la censura formulata con riferimento all’art. 97 Cost.

L’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione sono assicurate dal principio del pubblico concorso, che costituisce la modalità generale e ordinaria di reclutamento del personale delle amministrazioni pubbliche (ex multis, sentenze n. 36 del 2020 e n. 40 del 2018).

Questa Corte si è già espressa su questioni analoghe a quelle ora in esame nella sentenza n. 68 del 2011, che ha scrutinato l’art. 13 della legge della Regione Puglia 25 febbraio 2010, n. 4 (Norme urgenti in materia di sanità e servizi sociali), di contenuto sovrapponibile alla disposizione regionale impugnata.

In quel caso, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione regionale.

Nella pronuncia citata si legge che «[l]a disposizione impugnata, facendo ricorso all’istituto della mobilità, prevede la “ruolizzazione” – ossia l’inquadramento a tempo indeterminato nei ruoli del servizio sanitario regionale – di personale “già titolare di contratto ovvero di incarico a tempo indeterminato” presso enti del servizio sanitario nazionale. La norma consente l’inquadramento di personale e trasforma rapporti di lavoro a tempo determinato oppure rapporti di lavoro non di ruolo a tempo indeterminato in rapporti di lavoro di ruolo a tempo indeterminato. Ne discende la violazione dell’art. 97 Cost., perché la disposizione censurata non prevede il pubblico concorso per l’inquadramento».

Non si può che ribadire questo percorso argomentativo e dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 10, comma 1, della legge reg. Puglia n. 18 del 2020, perché in contrasto con entrambi i parametri evocati.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9 della legge della Regione Puglia 7 luglio 2020, n. 18 (Misure di semplificazione amministrativa in materia sanitaria);

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 1, della legge reg. Puglia n. 18 del 2020;

3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 11, della legge reg. Puglia n. 18 del 2020, promosse, in riferimento agli artt. 3 e 117, terzo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe;

4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 13, della legge reg. Puglia n. 18 del 2020, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 settembre 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Silvana SCIARRA, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 ottobre 2021.